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Autore: iloveromanzirosa    21/07/2013    4 recensioni
“Lasciami andare!” Esclamo io con un filo di coraggio in più.
Mi molla i capelli, ma continua a tenermi stretti i polsi, non ho la forza nemmeno di allentarla, quella stretta, figurarsi scioglierla.
Mi giro per guardare l’uomo in faccia, ed è un errore.
Avrà si e no due, forse tre anni in più di me. E’ altissimo, sul metro e novanta, pallido, meno di me, ha gli zigomi pronunciati e la mascella squadrata. Dei tratti affilati, e la sua espressione gelida non fa che peggiorare le cose.
Ma questo lo noto in seguito.
La prima cosa che vedo sono l’ebano e la giada.
Dei suoi capelli e dei suoi occhi.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
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Ho bisogno di aiuto con l’immagine di copertina, per chi voglia aiutarmi a realizzarne una non esiti a mandarmi un messaggio privato.
 

“Chi sei veramente?”
Chi sono? Non lo so. Non so più di che mondo faccio parte da tempo.
Sono una foglia avvizzita che resiste alle intemperie, ma che sa già di essere destinata a cadere. Sono un soffio freddo, l’alito di un vento sconosciuto, troppo debole per essere preso in considerazione. Sono un piccolo pesce rosso che si ostina a vivere nel mare tropicale, senza rendersi conto che quello non è il posto a lui adibito.
Sono tante cose. Sono tutto e sono niente.
Chi sono? Sono una piccola cerbiatta impaurita. 
Ciao, mondo.
Tu che mi guardi da ogni angolazione.
Ti ricorderai di me?
No, vero?
“Mi chiamo Siriana” gli dico semplicemente, dopo aver cercato e trovato mille parole. Parole che avrei voluto rivelargli senza alcun freno. Mi mordo la lingua per non aggiungere altro, in fondo con lui avrò scambiato più o meno due parole in croce.
Lui mi guarda impassibile, però poi le sue labbra si muovono nuovamente. Sono carnose, non troppo da farlo sembrare effeminato, ma non sono nemmeno invisibili. Hanno un colore un po’ sul rosso e un po’ sul viola, sembrano fatte apposta per essere baciate... mi distolgo immediatamente da questi pensieri totalmente nuovi, e focalizzo l’attenzione sulle parole che ha appena pronunciato.
“Come sei finita tra i Ribelli?” una fitta al mio cuore già infranto mi ricorda che quelli sono ricordi troppo dolorosi per essere riesumati un’altra volta, e così tengo la bocca chiusa, aspettando che sia lui il primo ad aprire la sua.
Ma non lo fa.
Resta a fissarmi con i suoi occhi di giada, mentre i miei seguono i ghirigori che compiono le mie dita sul pavimento.
“Capisco...” quando la sua voce spezza il silenzio creatosi io sussulto, aspettandomi una protesta, che però non arriva. “Me ne parlerai un’altra volta”.
Poi si alza, raccoglie con un gesto veloce i tovaglioli di carta con cui aveva avvolto i panini, ed esce dalla casetta. Correndo veloce sotto la pioggia che, scrosciante, non accenna a cessare il suo pianto.
Forse il cielo ha deciso di piangere con me, o meglio, di versare al posto mio le lacrime che ancora non si sono riversate fuori dai miei occhi.
Sospiro e ascolto il rumore di quelle gocce d’acqua che, imperterrite, si ostinano a buttarsi dalle nuvole come piccole paracadutiste.
E poi, tutto d’un tratto, il mondo tace.
Mi stendo sulla coperta, godendomi questo silenzio meritato. Sentendo però la mancanza delle gocce, che mi ricordavano di non essere la sola al mondo a cadere, mi addormento.
A volte vorrei essere qualcun altro, chi non sono, mai sono stata e mai sarò.
A volte vorrei essere passata dalla parte dell’ Organizzazione, solo per ventiquattrore, per vedere ciò che si prova ad avere cibo ogni giorno.
A volte vorrei non trovarmi qui, vorrei essere da mio fratello, con la mia famiglia.
Ci ho pensato qualche volta, al suicidio. Non ho mai avuto il coraggio di arrivare ai fatti, però. Sono troppo attaccata alla mia vita. Troppo debole per lasciare questo mondo che con me non ha più nulla da spartire.
 
Pov. Michele
“Chi sei veramente?” le chiedo con un groppo in gola.
La mia richiesta non è un semplice pretesto per passare del tempo, è una domanda di vita, di cielo, di sale e di mare.
È una domanda di sangue. Me ne accorgo perché le si velano improvvisamente gli occhi ed evita il mio sguardo.
Io attendo, attendo che sia lei a rispondermi per prima, attendo che lei incateni il suo sguardo profondo con il mio.
Attendo... attendo... attendo... E nulla.
Non mi parla, non mi guarda, non mi calcola.
Presta tutta la sua attenzione al pavimento, che accarezza con una mano, tracciando disegni invisibili.
“Capisco...” dico con un filo di voce.
Lei alza il suo sguardo di pece e mi fissa. I suoi occhi sono ancorati ai miei come per dire: “Non lasciarmi andare” ed io vorrei solo risponderle: “Non ti lascio”.
Le sue labbra si schiudono, ed io provo un forte dolore alla bocca dello stomaco.
Stiamo a guardarci per pochi secondi, ma a me sembra già di sapere a memoria la posizione di ogni sua lentiggine.
Mi alzo di scatto, e lei non si muove, mi avvicino alla porta e le lancio un’occhiata veloce: è tornata a guardare il pavimento, alcune ciocche di capelli aggrovigliati le ricadono davanti al viso, coprendolo parzialmente.
Mi lancio correndo sotto la pioggia, dirigendomi verso casa.
Le porterò una spazzola.
 
Pov. Sir
 
Tento di alzarmi in piedi, ma i dolori che serpeggiano pungenti lungo il mio corpo lo impediscono alla grande, tenendomi segregata qui dentro, a guardare da una piccola finestrella appannata il mondo che sta là fuori.
Le mie ginocchia tremano per lo sforzo, mentre tento di mantenere l’equilibrio quel tempo bastante a tenermi in piedi per vedere com’è la situazione all’esterno di questa casetta.
Cado pesantemente avendo osato troppo, e mi sporgo in avanti con le mani per attutire il colpo.
I palmi bruciano un pochino, ma è un dolore sopportabile rispetto a quello che sento allo sterno.
Mi alzo la maglietta ancora sporca di sangue e sudore e vedo le macchie violacee che mi fissano dalla loro postazione.
Sospiro. A volte il mondo è proprio crudele.
Chissà, poi, dov’erano finiti i compagni di quell’uomo che mi ha fatto ciò...
Se avessero saputo cosa stava facendo il loro compare sarebbero corsi a salvarmi?
Probabilmente no.
Striscio lentamente verso il mio giaciglio: sta cominciando a fare freddo, ed io sono ancora troppo debole per sopportarlo. In più ho anche fame.
Mi distendo piano, stando attenta a poggiarmi sulla schiena, il luogo che è stato meno soggetto alle percosse.
Guardo attentamente il soffitto, coprendomi per bene con le coperte, e mi immagino il cielo stellato. Adesso le stelle si vedono solo grazie ai telescopi e in luoghi senza troppe luci artificiali, ma quando ero bambina queste si potevano ancora vedere. Ferme. Presenti ogni notte.
Ora però non ci sono più, scoraggiate dall’avvento dei fatti che hanno contribuito alla loro scomparsa.
Chiudo gli occhi, cullata da quei piccoli sussurri invisibili e luminosi.
È un rumore a svegliarmi.
Apro gli occhi con uno scatto, e con la stessa velocità mi metto a sedere, lanciando poi un gemito di dolore.
“Tranquilla, sono solo io” Mi rassicura Michele.
Ricado pesantemente rilassandomi sulla coperta, con un respiro profondo fatto per attutire la fitta. Non cambia poi molto, ma almeno ora sono rilassata.
Lui chiude la porta, ecco cos’è stato a svegliarmi. Fa qualche passo in avanti e avverto un fruscio accanto alla testa. Spalanco gli occhi, chiedendomi quando mai li avessi chiusi, e mi volto lentamente, tentando di domare i dolori alle guance.
È lui che mi porge una maglietta grigia da uomo con la scritta “il fumo uccide” stampata sopra a caratteri neri e dei pantaloni blu da ginnastica.
“Ho pensato che ormai i tuoi vestiti non ti andassero più, logori come sono” mormora lui, guardandomi di sottecchi.
Guardo la mia T-shirt lilla, sporca di sangue e terra, e i pantaloni bucati sull’orlo e sulle ginocchia. Mi si riempiono gli occhi di lacrime, e le trattengo con fermezza, al ricordo di ciò che quell’essere mi ha fatto  Michele continua a guardarmi negli occhi, ma poi distoglie lo sguardo, forse convinto dalla loro eccessiva lucidità.
“Perché sei gentile con me?” gli chiedo in un sussurro.
Lui non risponde, e comincio a convincermi di non aver mai posto questa domanda. Si volta ed esce fuori dal capanno, là dove ormai ha smesso di piovere.
Prima di chiudersi la porta alle spalle mi lancia un’occhiata, e poi, dopo qualche istante mi dice:
“Ti lascio cinque minuti” .
Guardo l’apertura serrata per qualche istante, ma subito mi rialzo in piedi, a fatica.
Mi tolgo la maglietta sudicia, e subito dopo anche i pantaloni.
Resto, per un attimo, nuda. In piedi al centro del capanno, non osando guardare il mio corpo martoriato.
Osservo invece il terreno, soffermandomi prima sul mio giaciglio e poi sui vestiti a terra.
Afferro la maglietta grigia, coprendomi i seni velocemente. Avevo perso il mio ultimo reggiseno nel momento in cui, dopo aver perso entrambi i ferretti, si era rotto in due.
Me la infilo, combattendo contro le fitte prepotenti alla braccia, e lo stesso faccio con i pantaloni.
Sto più comoda adesso, e mi sento anche più pulita.
Mi siedo sopra le coperte, attendendo l’arrivo di Michele.
 
Pov. Michele
 
Mi chiudo la porta alle spalle.
Già. Perché l’ho aiutata?
Forse perché mi ricorda qualcuno,oppure perché non trovo giusto il fatto che lei venga così maltrattata quando non ha fatto nulla di male. Perché non ha fatto nulla, vero?
Sono confuso. Non solo da me stesso, ma anche da tutto ciò che sta accadendo al mondo.
L’Organizzazione, la Ribellione. Movimento di cui faccio parte da tre anni, ormai.
Quando avevo appena quindici anni ero rimasto solo, solo in balia degli uomini che tentavano in tutti i modi di annientare i sopravvissuti.
Ma poi, una sera, avevo incontrato Andrea. Allora appena venticinquenne non si era fatto scrupoli a tenermi con se e farmi conoscere a tutta la sua famiglia, il gruppo di superstiti già allora abbastanza diffidente verso gli ultimi arrivati.
Ero riuscito a farmi valere grazie alle mie azioni, alcune delle quali non erano proprio degne di un uomo.
Avevo cominciato a rubare piccole cose, come d'altronde facevano tutti. Era l’unico modo per garantirsi ancora un giorno di vita, e allora non mi facevo scrupoli a infrangere le leggi che fin da piccolo ero stato educato a rispettare.
Ma i tempi erano cambiati, e rubare non era diventato un crimine, bensì un’azione quotidiana.
Presto però il cibo aveva cominciato a diventare più unico che raro, e per fare scorta bisognava spingersi in azioni sempre più pericolose, finché un giorno non m’imbattei in un gruppo dell’Organizzazione.
Serro gli occhi.
Ricordo ancora la leggera pressione che feci al grilletto per spegnere in meno di un istante la vita di un soldato.
Lo beccai esattamente sulla fronte, e non fu come nei film.
L’uomo non cadde a terra con gli occhi vitrei.
Il sangue gli schizzò subito giù dalla fronte, attraversando in una scia scarlatta l’occhio ancora aperto, il naso e le labbra.
Dopo qualche secondo cadde in ginocchio, facendo un rumore che ricorderò per l’eternità.
Come di un sacco che cade su un pavimento di marmo.
Barcollo un po’, passando in rassegna gli altri ricordi confusi.
Andrea che ne uccideva un altro e Luca che veniva colpito mortalmente sul collo.
Mi appoggio alla casetta, ascoltando i rumori che provengono dall’interno di essa.
Non posso credere di averla portata così vicina alla base.
Andrea non vuole più nessuno nel Gruppo, potrebbero essere delle spie mandate dai Grifoni.
I Grifoni sono dei Ribelli, proprio come noi. Con la differenza che pur di sopravvivere accettano le taglie imposte dall’Organizzazione e catturano i gruppi ricercati in cambio di protezione.
Quindi, in pratica, sono dei traditori del Controversismo.
Non sono mai riuscito ad accettare il motivo che spinge certi uomini a diventare così meschini pur di continuare a vivere, ma in fondo io non sono tanto diverso da loro. Il desiderio di vita è così forte in qualsiasi essere umano, e può manifestarsi in diverse intensità: alcuni farebbero di tutto pur di non cedere, altri si lasciano andare.
Tendo l’orecchio per scorgere altri rumori, e ascolto il rassicurante rumore di vestiti che cadono a terra, e il fruscio di altri che vengono spiegati e indossati.
Per un qualche inspiegabile motivo provo un fortissimo desiderio di spiarla dalla finestra, e quasi lo faccio, trattenendomi all’ultimo secondo.
Se avessi anche solo dato un’occhiata non sarei stato certo stato diverso dall’uomo che l’ha aggredita.
Stacco l’orecchio dalla superficie rugosa del cemento, tentando di calmare il mio respiro affannato  e di rimettere a dormire il mio amico dei piani bassi, che si è risvegliato magicamente.
Caspita, quella ragazza mi fa uno strano effetto.
Non è mai successo che io mi ecciti solo nel sentire il rumore di vestiti spostati, insomma... alla fine non è nemmeno poi così tanto carina.
Vero? Falso.
La verità è che pur non conoscendola ho sviluppato una certa attrazione per lei.
È così... fragile.
Ma so che non è vero. Ne ho avuto prova solo qualche giorno fa, quando, con una sicurezza e determinazione mai vista in nessuna donna, mi aveva chiesto che io le restituissi il medaglione, anzi, lo aveva preteso.
Comincio a camminare, facendo respiri profondi.
Il medaglione adesso ce l’ho in tasca. Non posso di certo nasconderlo da qualche parte, il rischio che qualcuno lo trovi e lo venda è troppo grande, ed io non posso permettermelo.
Non so ancora se perché ho paura di rimanere senza di che vivere o se così non potrei più restituire il ciondolo alla rossa.
Quando i rumori all’interno della casetta cessano aspetto qualche minuto, e poi allungo la mano verso la maniglia della porta, spingendola cautamente.
Forse ho paura di trovarla nuda davanti a me, anche se non è proprio una brutta idea.
Scaccio il pensiero con una scrollata di spalle, convinto anche dal fatto che lì in basso si sta ancora un po’ stretti.
Le rivolgo un’occhiata sfuggevole. In fondo lei sta ancora aspettando una risposta alla sua domanda di prima.
Decido di non risponderle. Non adesso, almeno.
Piuttosto vado in un angolo polveroso e comincio a fissarla discretamente.
O almeno, provo a farlo.
È raggomitolata nella coperta, stretta stretta con le ginocchia al petto.
La mia maglia le sta larghissima, come pure i pantaloni. Infatti ha dovuto rigirarli di un bel po’ prima che si potessero scorgere i piedini nudi.
Per quelli non ho potuto fare nulla. Non ho scarpe della sua misura, essendo un ragazzo, ma se le avessi fregate a qualcuno di certo se ne sarebbe accorto, e l’avrebbero scoperta.
Non si è resa conto del fatto che la sto fissando, e ringrazio i cieli per questo.
Lei non si muove, ed io nemmeno.
Dopo un po’ si addormenta, e così decido di lasciarla in pace. Ci sarà tempo per spiegarle tutto, un domani.
Mi alzo lentamente, attento a non svegliarla.
Le passo accanto in punta di piedi, e quando sto per aprire la porta e sgattaiolare via mi assale un pensiero.
Una fitta allo stomaco mi suggerisce di voltarmi, e così faccio.
È girata su un fianco, e tutti i suoi capelli sono sparsi sulla coperta e sopra il suo braccio, piegato sotto la testa per fare da cuscino.
Come un automa, quasi incosciente di ciò che sto facendo, mi infilo una mano in tasca e ne estraggo la collanina.
Gliela appoggio accanto alla guancia, che, martoriata, mia guarda fiera.
In quel momento la ragazza sospira nel sonno, e mormora qualcosa di incomprensibile.
Mi alzo subito, conscio del rischio di svegliarla, ed esco dalla casetta.
Solo dopo essere arrivato alla porta della base realizzo il nome che ha sussurrato la Rossa.
Michele.
 
Pov. Sir
 
È da giorni che continuo a navigare nel dormiveglia costante. Non c’è un momento in cui io sia pienamente sveglia, né uno in cui io stia dormendo profondamente.
Per questo credo di sognare nel momento in cui il mio naso sfiora qualcosa di fresco e metallico.
Spalanco gli occhi e mi esce un grido strozzato.
Ma non è di paura, è di pura felicità.
Si tratta infatti del mio medaglione.
Sorrido come un’ebete, di sicuro è stato Michele, e chi altri sennò? Forse è una dimostrazione di scuse, forse di affetto.
Arrossisco.
Lui non sa che sogno ho fatto solo qualche ora fa.
Eravamo su un prato fiorito, lì l’Organizzazione non era riuscita ad arrivare.
Lui mi baciava ogni ferita sul viso e sul collo, sanandole istantaneamente.
Io ridevo, ma poi mi ero subito fatta seria: mi aveva appena baciato l’angolo della bocca, cancellandone la spaccatura dolorosa.
Ormai non provavo più niente, niente oltre la gratitudine e... l’affetto.
Lui mi aveva baciata sulle labbra, ed io avevo ricambiato ridendo e sussurrando il suo nome, accarezzandogli i capelli.
Nero e Verde si erano scontrati un’altra volta, ma solo per fondersi l’un l’altro.
Mi ero svegliata di soprassalto, realizzando che quello era il primo sogno che facevo da diversi mesi.
Torno al presente, sfregandomi gli occhi con una strana sensazione allo stomaco.
Euforia, direi.
Oppure le fantomatiche farfalle nello stomaco?
Preferisco non rispondermi, e invece slaccio il fermaglio e mi aggancio la collana al collo.
Quando la porto, sembra che, in qualche modo, i problemi della vita si attenuino, come nebbia che si tramuta in foschia.
Sorrido. Almeno una cosa positiva in questa vita c’è.
 
 
Ciao mie bellissime fan! *Si sfrega le mani, orgogliosa del suo lavoro* :D
Comincio col dire che questo capitolo mi ha fatta sudare un bel po’, e mi scuso dell’impossibile ritardo.
Detto questo ringrazio infinitamente le 28 persone che hanno inserito la mia storia tra le seguite (su su! Fatevi avanti! Non siate timidi e recensite!), le 5 tra le ricordate, le 11 tra le preferite e alle meravigliose 25 recensioni che mi avete lasciato.
Un saluto speciale ad Ashwini, grandissima persona che sa tirar su il morale anche a chi ce l’ha a terra XD
 
Spazio pubblicità:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1768868 storia fantastica, colma di romanticismo e un pizzico sovrannaturale.
http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=1966327 romantica e sentimentale fino all’osso.
E infine l’altra mia storia, ambientata nel Titanic:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1967905&i=1
 
Per chi volesse seguirmi anche su facebook ecco il link:
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Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, al prossimo!
P.S. cercherò di aggiornare più in fretta possibile ;)

  
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