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Autore: Aching heart    29/07/2013    3 recensioni
Vorresti parlare, ma come fare a spiegare a parole questo tormento? E allora decidi che non lo farai, che non strapperai l'ingenuo estraneo dalla sua superficialità. Il tuo abisso è solo per te, non vuoi che altri lo vedano, non lo permetterai. Da quell'abisso non c'è ritorno.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Thoughts of mine - Frammenti di una favola triste'
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- Io non avrò figli.
Una frase che ripeti spesso, quando con le tue amiche  – ma puoi davvero chiamarle amiche? – ti ritrovi, non sai come, a parlare di questo argomento. E’ un’idea che hai in testa fin da quando eri bambina, insieme al fatto che non ti saresti innamorata mai. Oh, eri un concentrato di femminismo esasperato e cinismo, Giulia, quando eri piccola, non è vero? Femminista e cinica lo sei ancora, ma con più moderazione. Quando si cresce le idee cambiano, la personalità cambia, i gusti cambiano... anche la tua idea sul fatto che non ti saresti mai innamorata è cambiata… Dio sa – il tuo povero cuore spezzato un’infinità di volte lo sa – quanto è cambiata, tuo malgrado, ma quella sul fatto che non diventerai madre, quella no. Dall'alto dei tuoi quindici anni sei tranquilla quando ne parli. Nella tua vita vedi tutto, tranne dei figli. È presto per pensarci, certo, ma tutte le tue amiche – amiche, che parola grossa. Conoscenti, semmai –  quando te lo sentono dire rimangono stupite. La loro idea di felicità comprende certamente un matrimonio sfarzoso, un marito perfetto e tanti bei pargoletti. No, decisamente non fa per te. Con le altre persone fai la cinica, dici che non vuoi rovinare il tuo corpo già di suo abbastanza disastrato con una gravidanza, che non vuoi pesi o zavorre, ma la verità è che non sei portata. Tu non sai prenderti cura delle persone, a malapena sai prenderti cura di te quando i tuoi genitori non ci sono. Non potresti mai essere responsabile di una vita, una piccola fragile vita che comporterebbe troppi sacrifici, impegni, responsabilità. E non è solo un discorso egoistico: tu non vuoi farti odiare dai tuoi figli. Lo sai che andrebbe a finire così, non saresti un buon genitore, lo hai imparato vivendo con i tuoi. A casa tua con loro è una guerra continua, per tutto: per tua sorella che loro preferiscono a te, per lo studio, per l'ordine, per la pulizia della casa, per tutto. Probabilmente la colpa è anche tua, ma il tuo è un carattere poco accomodante, lo sai, e non sono molti quelli in grado di volerti bene, meno ancora quelli in grado di capirti davvero. Forse molti pensano che tu sia pazza, forse lo pensano anche i tuoi. Spesso lo pensi anche tu.
Tu vuoi bene ai tuoi genitori, è ovvio. Li ami, come non potresti? Sono i tuoi genitori, e nonostante tutto loro ti hanno messa al mondo – che sia stato un bene non ne sei proprio sicura –, ti hanno allevata, educata e resa quella che sei, nel bene e nel male. Ti hanno cambiata, hanno distrutto la tua autostima e ti hanno resa vulnerabile, ma sono stati loro che ti hanno insegnato l'amore per i libri e per la musica, che ti hanno insegnato a usare bene il tuo cervello, che ti hanno trasmesso i tuoi più sacri valori. Li ami per tutto questo. Eppure a volte li odi cosi profondamente... a volte l'abisso che c'è in te ti spaventa, e hai deciso che nessuno dovrà mai vederlo. Per questo sai –  non lo hai deciso, lo sai –  che tu rimarrai sola, che al mondo non ci sarà mai nessuno in grado di amarti, e lo hai accettato. Ecco, tu non vuoi spingere nessuno a diventare così, non vuoi essere la causa dell'infelicità di nessuno. Sai di non essere capace di fare il genitore, punto. 
Non sai se i tuoi erano pronti, quando hanno avuto te, e non sai se sarebbe stato meglio non essere mai nata, ma sai che al mondo non ci sarà mai nessuno che piangerà per colpa tua: non lo permetterai. È questo che ti riprometti quando tua madre ti urla contro, per un qualsiasi motivo, e te lo ripeti fino alle lacrime. Non vuoi piangere, ma la rabbia deve pur trovare una valvola di sfogo, perché tu tieni sempre tutto dentro, anche se fa male, non parli mai. A volte vorresti urlare contro tua madre tutto ciò che pensi di lei nei momenti di rabbia, cose davvero molto poco carine, ma lasci perdere, reprimi tutto e ti chiudi nel bagno a piangere. Quando quei momenti passano, tua madre è calma e tranquilla come se non fosse successo niente, perché in fondo per lei non è successo niente, invece tu ne esci ogni volta più distrutta, come una vaso che viene gettato a terra e frantumato innumerevoli volte – ogni volta viene rimesso insieme, ma ogni volta perde qualche pezzo di sé, finché non potrà più essere aggiustato –  come se lei aprisse sempre una ferita che cerca di rimarginarsi. Quella ferita non guarirà mai. 
Tu non guarirai mai, e sai che diventerai come tua madre. Per questo vuoi evitare di avere figli, vuoi evitare di scaricare la tua rabbia su una vita innocente. Non vuoi essere tu quella che non fa rimarginare le ferite. 
- Perché non vuoi avere figli? – ti chiede il tuo interlocutore.
Tu esiti. Vorresti rispondere sinceramente, per una volta, gettare la maschera del cinismo e confidarti con qualcuno, anche se chi sta ponendo la domanda è praticamente un estraneo. Poi vedi il suo sguardo curioso e superficiale, e lo confronti con quello che sai essere il tuo. Buio. Profondo. Abissale. 
Vorresti parlare, ma come fare a spiegare a parole questo tormento? E allora decidi che non lo farai, che non strapperai l'ingenuo estraneo dalla sua superficialità. Il tuo abisso è solo per te, non vuoi che altri lo vedano, non lo permetterai. Da quell'abisso non c'è ritorno.

***

 Dublino è una città frenetica, caotica, che ha poco a che fare con la verde Irlanda delle poesie di Yeats, e Giulia odiava le grandi città. Ora non più. O forse le odia ancora, solo che il suo essere adulta l'ha fatta abituare anche a sopportare senza ribellioni ciò che odia. Lei ripensa a com’era essere adolescente mentre sale le scale, al termine della giornata, per tornare a casa. È sera inoltrata, ma fuori le luci sono così abbaglianti e numerose da far venire voglia di ricominciare daccapo la routine.
Estrae le chiavi dalla borsa, un po’ a fatica a causa delle braccia occupate, apre la porta dell'appartamento e la spalanca con un fianco, mentre in mano porta una busta della rosticceria. Entra nell'appartamento e si richiude la porta alle spalle con un calcio, senza accendere la luce. Quelle della città che entrano dall'enorme finestra grande quasi quanto tutta la parete sono più che sufficienti a permetterle di vedere, e lei preferisce la semioscurità alla luce. Poggia tutto sul bancone candido della cucina e scende da quelle maledette scarpe col tacco alto, scalciandole via. Da ragazza non avrebbe mai immaginato che un giorno le avrebbe indossare, essendo straordinariamente alta per la sua età, ma ora è un'adulta in carriera, una donna importante, e il minimo sindacale del tacco per le donne importanti è di almeno cinque centimetri.
Cammina scalza sul pavimento immacolato, pulito – non da lei, lei non è mai stata una donna di casa –  e prende un bicchiere, niente di più, dal mobile sopra il lavello. Avvicina uno sgabello al bancone e vi si siede, con qualche difficoltà a causa della gonna stretta, lunga fino alle ginocchia, che porta. Non ha mai amato le gonne, eppure ora le indossa.
Toglie la sua cena dalla busta –  lei non cucina mai, solo la domenica, quando ha voglia di riassaporare il gusto delle lasagne; allora le prepara seguendo la ricetta di sua nonna, anche se naturalmente non le vengono mai uguali – e la mangia così, direttamente dalla scatola di cartone foderata di tovaglioli di carta. Un qualcosa di enorme, tondo, fatto di pasta sfoglia surgelata e ripieno di prosciutto, mozzarella e pomodoro –  il che la fa pensare con desiderio ai panzerotti fritti, come li sanno fare solo in Italia – e una birra ghiacciata. Un'altra cosa che è cambiata di lei: prima detestava la birra, ma ora la beve.
 Maledicendosi si rende conto di non aver preso l’apribottiglie, così si alza di controvoglia per sopperire a quella mancanza. È sempre stata pigra. Questa è una cosa che non è cambiata.
Beve un gran sorso dal bicchiere – non beve dalla bottiglia, lei – e poi dà un morso al prodotto da rosticceria, e guarda fuori dalla finestra. Pensa a quella giornata, alla sua famiglia, alla sua vita. È una psichiatra affermata, ora. Molti penserebbero che quello non sia il lavoro dei sogni di una giovane donna, ma è quello che lei vuole fare, quello che le piace. No, lei non ha mai scelto la strada più facile, quella più comoda. Lei è fatta per le cose complicate. È molto brava nel suo lavoro, ed è spesso ospite di alcuni talk-show come esperta. Ha realizzato il suo sogno nel cassetto di scrivere un libro – anche più d'uno – solo che non parlano di magia, draghi, dee e isole mitologiche, come sognava lei. Parlano di psiche, delle malattie che possono affliggere l'anima, della pazzia, delle anomalie del cervello. Di abissi. E lei conosce bene gli abissi.
Tira fuori dalla busta un'altra scatola di cartone, questa volta contenente una cialda ricoperta di cioccolato fuso e granella di cocco. Non si concederebbe quella bomba calorica se il giorno dopo non fossero in programma due sfiancanti ore in palestra. Mentre assapora quella delizia ripensa ai ricordi che evoca, tutti dolcemente malinconici. Quando ha finito, osserva i resti della cena sul bancone e poi il resto dell'appartamento. È moderno, lussuoso, ma non sembra per niente casa sua. Sebbene ci viva da ormai dieci anni le è quasi del tutto estraneo. È vero che passa poco tempo in casa, fra il lavoro, la palestra e le occasioni mondane, ma la verità è che non l'ha mai davvero vissuta come casa sua. Per lei "casa" è quel posto che esprime calore, affetto... il suo appartamento comunica vuoto e freddezza. Come la sua vita. Vuota.
Non ha cambiato idea sui bambini, no, “Io non avrò figli” è una promessa che ha mantenuto, ma riconosce il vuoto e la solitudine che questo comporta. Si ritrova a pensare a come potrebbe essere suo figlio, un piccolo angelo dalle manine delicate, le guance paffute e rosee, il naso a patata come quello di suo padre e gli occhi verdi come quelli di sua madre, e i capelli ricci come i suoi –  o meglio, come erano i suoi, perché con il tempo è riuscita a domarli. Per un momento, un brevissimo istante, desidera che lui sia lì a riempire la sua vita, ma il momento passa subito. Quello è un desiderio egoista, e lei non lo è, ha lottato tutta una vita per dimostrarlo ai suoi genitori che l'accusavano di esserlo. Quale bambino vorrebbe mai una madre come lei? Aveva ragione quando, da ragazza, pensava che lei sarebbe diventata come sua madre: adesso è proprio come lei. Perde la pazienza con quelli che lavorano con lei, spesso è acida, cinica, scontrosa. Poche persone la stimano veramente, e ancora di meno sono quelle di cui può fidarsi. Alla fine, si è fatta comunque odiare da qualcuno: lo ha sempre detto, il suo carattere è poco accomodante.
Giulia si alza e raggiunge il mobiletto degli alcolici; prende un bicchierino, una bottiglia di Jack Daniel’s e torna al bancone, dove si versa un bicchiere e, senza pensare, lo butta giù d'un fiato. Strizza le palpebre, non si è mai davvero abituata al sapore dell'alcol anche se spesso ha bevuto, come si dice, per dimenticare. Ma il suo abisso non può essere annegato dall'alcol, no... è il suo abisso che annega tutto il resto, che inghiotte tutto come un enorme buco nero, espandendosi sempre di più, diventando più profondo e più scuro, e lei sa che prima o poi ci cadrà dentro, e allora non ne uscirà più. Ha già risucchiato la sua vita, che ora è deserta, arida e solitaria; i suoi sogni, sogni di una ragazzina di quindici anni, sono stati i primi ad essere distrutti; i suoi amici, i suoi familiari, i suoi affetti sono tremendamente lontani. Nessuno può salvarla dall'abisso, e in quella stanza semibuia le sembra quasi una presenza fisica, tangente, faccia a faccia con lei. Tutto ciò che le rimane sono ricordi felici di un momento della sua vita che ormai è tramontato. Presto non basteranno più nemmeno quelli a tenerla a galla, e sarà allora che per lei sarà la fine.
Si asciuga una lacrima con fare rude, riempie nuovamente il bicchiere, e prima di vuotarlo un'altra volta non riesce a trattenersi dal mugugnare:
- Ringraziami, piccolo angelo. Ti ho risparmiato un bell'inferno.
   
 
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