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Autore: monnezzakun    13/08/2013    5 recensioni
Roxas annega nel cielo sanguigno e monotono, Axel sguazza nelle fogne per nascondersi da qualcosa che non lascia vie di fuga, Naminé è già morta ma continua a sorridere. Ci sono l'Organizzazione, Sora, l'Usual Spot - e poi c'è lei. Twilight Town.
Quando vali meno dei topi sorridere è più semplice che piangere.
[(un)Happy AkuRoku Day!]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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All'AkuRoku ma anche ad Ella, senza la quale questa storia
non sarebbe qui.






Kimi ga Kimi ni Umareta Wake

 

 

 

C'erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro,
e tante strade strette ancora più uguali fra loro;
ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro,
che entravano e uscivano tutte alla stessa ora,
facendo lo stesso scalpiccio sul selciato,
per svolgere lo stesso lavoro;
persone per le quali l'oggi era uguale all'ieri e al domani,
e ogni anno la replica di quello passato e di quello a venire.

 

 

 

Veniva dalla campagna il profumo fresco e disilluso dell’erba umida, delle cortecce muschiose; la brezza morbida ne trasportava la fragranza: il sapore prettamente estivo del prato che s’inebria della rugiada mentre attende il giorno e la calura e la secca.
Si era infilato nella siepe e poi nel campo, fra i viticci e le erbacce alte fino al polpaccio, scivolando sulla terra inaridita dal sole – sentiva già nelle scarpe e nella trama dei calzini la polvere giallognola che s’insinua e s’appiccica sulla pelle dei piedi, senza lasciarla più fin quando torni a casa.
Aveva corso leggero e invisibile nella luce morente della sera che scivolava via, lontano dalle risate squillanti della sua famiglia e degli amici di vecchia data. Si era fermato in cima ad una breve salita, affrontabile con quattro falcate decise, sedendosi all’ombra dell’ulivo più ricurvo e contorto che gli fosse mai capitato di vedere.
Il cielo era follemente azzurro, follemente sgombro da nuvole, follemente limpido e fragile anche durante il tramonto – il sole morente di Twilight Town rimane impresso nella mente anche di chi non si è mai sforzato di osservarlo. Restò lì seduto per qualche tempo, il naso alzato al cielo, gli occhi più blu e vividi che mai lambiti dalla luce tenerissima e calda.
Roxas sorrise lievemente, respirando a pieni polmoni l'aria che fremeva di energia – c'era più vita in una briciola di quella serata di quanta ne passasse per il suo cuore ogni giorno.



«Che città del cazzo».
Sfregò la suola della scarpa sul muretto, sistemandosi la felpa perché il cappuccio fosse più calato sul viso, inarcando le spalle ossute, le clavicole sottili come sigarette che s’intravedevano dalla scollatura ampia della maglietta. La suola fece un suono appiccicoso e lui la spinse con più forza sui mattoni cotti dal sole, scrostando via a fatica lo strato di fango – forse altro – che aveva avuto il buon gusto di capitargli per strada.
Si era infilato in una stradina laterale, di quelle che se sai come prenderle possono portarti ovunque, di quelle che un turista eviterebbe come la morte perché un po’ buie, umidicce, strette come ponticelli sospesi nel vuoto. Dopotutto fare la strada fino a casa con Sora era molto peggio di percorrere una stradina di corsa con il cuore martellante in gola.
«Fottuta città di merda del cazzo» sputò, appoggiando finalmente il piede in terra.
Il cellulare iniziò a vibrare nella tasca. Lo schermo rovinato dagli anni di utilizzo lampeggiava, gravando improvvisamente contro la sua coscia. Lo prese nella mano, anche se non aveva la minima intenzione di rispondere.
Rimase per qualche secondo fermo, poggiato al muretto. Passò una macchina dal cui finestrino aperto provenivano le note di una canzone anni settanta e il puzzo fetido delle sigarette.
Riprese a camminare verso il centro della città.
Era stata una giornata tiepida, dimenticabile. Alle sette e un quarto aveva perso l'autobus per la scuola e aveva dovuto fare il tragitto a piedi, trascinandosi dietro un Sora piagnucolante che avrebbe preferito marinare e raccontare poi alla mamma una balla sua solita, di quelle colossali, poco più credibile di “mi hanno rapito gli alieni” ma tendente al trash, sullo stile di “mi ha adescato un ragazzo un po' strano, non mi ricordo cosa ho fatto ma adesso ho un po' male al culo”.
Alle sette e venti avevano incontrato Riku, anche lui ritardatario, lo zaino ormai sbrindellato che pendeva dalla spalla buona – camminava ancora un po' sbilenco anche se la clavicola si era ormai rimessa in sesto del tutto. Ricordava con precisione lo sguardo del gemello che scivolava inevitabilmente sul sedere del caro “amico d'infanzia”, scontata come ogni cosa che fosse legata ma non immediatamente riconducibile alla volontà di Sora.
Era una persona frizzante quando si trattava d'agire di conseguenza, di seguire l'increspatura nel lago creata dal passaggio di qualcun altro. Ma era piatto nell'agire di propria volontà.
Forse nemmeno l'aveva una concreta volontà.
E per questo non era per sua decisione che lo sguardo era caduto sul culo di Riku.
Che Sora si dichiarasse disperatamente eterosessuale era una cosa nota a tutti e da tutti derisa. E che poi fosse attratto da Riku era ancora di più un fatto di dominio pubblico.
Si sforzava anche di fissare le tettine di Kairi. Era uno sforzo già di per sé, visto che non c'era poi molto da fissare. Però lui si impegnava, questo era da riconoscere.
Non era colpa sua, più che altro era il culo di Riku ad essere troppo bello per lui.
Sora era un animaletto, dopotutto. Le spalle ossute, gli occhi grandi, il cervello sottosviluppato.
Roxas lo piazzava a metà fra un maschio di mantide religiosa e una focena.
Era abbastanza intelligente da saperti dire tutte le tabelline di volata – fatta eccezione per quella del cinque, che stranamente lo metteva molto sotto pressione -, riconoscere il bidone dell'indifferenziata da quello della plastica e mangiare con le bacchette stando contemporaneamente attento alla televisione. Al riso sparso per casa si poteva provvedere in seguito.
Aveva perso il filo dei pensieri. Si fermò un secondo a fissare l'insegna lampeggiante della sala giochi, battendo le palpebre. Ah, sì. Le non-tette di Kairi. Il culo di Riku. Sora.
Era arrivato a scuola alle sette e quarantasette, sano e salvo, addirittura quattro minuti prima che arrivasse l'autobus. E pensare che non era una città molto trafficata.
Sora aveva attivato le sinapsi e già saltellava attorno all'albino, totalmente dimentico delle sue discutibili fantasie su aitanti giovini che l'avrebbero rapito proprio in tempo per saltare la scuola – come se sbavare agli allenamenti di Riku non lo rendesse già abbastanza gay.
Aveva il naso piccolo, Sora. I piedi grandi, grandissimi, dalle dita lunghe e spesse. I capelli confusionari ed ispidi come il pelo di un animaletto, il viso più largo e simpatico del suo.
Parlava con il tono squillante di chi non ha mai avuto altro che gioie dalla vita, aveva il sorriso più brillante anche delle ciocche bianchissime di Riku sotto il sole.
Ma aveva un modo di fare che incantava o irritava, irrimediabilmente.
Meno del culo di Riku, però, o almeno così poteva presupporre.
Chissà se il mondo sarebbe stato un posto migliore se lo avessero fatto girare in mutande. Già immaginava lo sguardo adorante delle adolescenti; gli svenimenti collettivi; l'orda di ragazzi che si mordicchiano astiosamente il labbro, feriti nell'orgoglio dalle splendenti chiappe.
Era un'immagine strana, pensò prendendo l'ennesima viuzza laterale. Immaginò Riku alla cattedra, in mutande, le gambe dritte e snelle completamente nude, le fossette alla base della schiena che facevano capolino quando si alzava per raggiungere l'estremità superiore della lavagna, sollevando la t-shirt.
E poi il portone, il cigolio del cancelletto, l'odore accogliente dell'ingresso: casa.



Puzza di sigaretta.
Aria torbida. Aria scura. Grigio. Il cemento.
Le strade, sempre dritte, mai parallele. La scuola. L'edificio chiamato scuola.
I compagni. Sora. Riku. Kairi. Naminé.
Un'amica. Un'amica. Un nessuno.
Chi è Naminé? ...
Chi è un Naminé? Nessuno.
La stazione. Cose che vanno. Cose che vengono. Lontananza.
Estremità. Bene e male. Male. Il dolore.
Un risveglio.
Roxas boccheggiò nel letto, risvegliandosi con uno scatto improvviso, ritrovandosi a sedere sul materasso, le dita arcuate come un ponte e strette alle lenzuola. Per l'ennesima volta.
Sbuffò dalle labbra socchiuse un sospiro tremulo, infranto. Il ticchettio altalenante della sveglia lo tenne ancorato alla realtà; le terminazioni del suo corpo vibrarono come corde tese a tracciare confini sospesi nell'aria. Era sveglio, era vivo, era Roxas.
Tutto era al suo posto e tutto non lo era, nell'abituale equilibrio.
Prese un altro respiro. C'era odore di sonno, di coperte stropicciate e pulite, di calore umano. Il proprio.
Da quando Sora aveva ottenuto una sua stanza personale svegliarsi era diventato sempre più difficile. Il corpo era riposato, la mente stabile. La percezione della realtà risultava invariata.
La discrepanza era molto più complicata da individuare. Tanto che avvertirla era semplice, ma distinguerla quasi impossibile.
Erano le sette e zero tre minuti. Ventisette secondi.
Aprì la finestra con lentezza, facendo cigolare debolmente le imposte sui cardini, poggiando la tempia al davanzale posto poco più in alto della testata del letto. Era ancora troppo presto per una cittadina come quella per essere trafficata, dunque non arrivavano che rumori tenui addolciti ancor di più dalle tinte tenui dell'orizzonte.
L'odore neutro e fresco dell'aria gli sfiorò il viso, dissolvendo gli ultimi rimasugli di sonnolenza in un battito di palpebre. Incrociò le braccia sul davanzale, poggiando il mento sull'avambraccio destro. Riusciva a malapena a scorgere la villa di Naminé da quella distanza. Giusto uno sprazzo di bianco e l'angolo di una finestra. Uno scorcio vasto come quello che aveva della sua anima.
L'orizzonte, spezzato dai profili degli edifici, si tinse d'un rosso più giallognolo, d'una parvenza malsana; la luce perse il fascino avvenente che ha nel momento in cui ancora il sole nasce e divenne aspra ed acerba, come fosse ai principi dell'adolescenza. Entro una decina d'ore l'avrebbe vista morire, senza che mai avrebbe perso la sfumatura di sangue che ne preannunciava la fine.
Questa era l'anima di Twilight Town: eterno susseguirsi d'un ciclo, una città animata dal rumore d'ingranaggi. Pietre su pietre e polvere, polvere fine come la sabbia d'Agrabah.
Roxas sbadigliò aprendo la bocca come per prendere una cucchiaiata di miele, la lingua impastata e le palpebre pesanti nonostante l'assenza di sonno. Gli occhi azzurri, ricolmi di un languore indifferente, gravavano sul mondo con il peso di una sentenza.



Prese un boccone di riso malvolentieri, masticando svogliatamente i chicchi morbidi e saporiti. 
Naminé lo guardava silenziosamente, le ginocchia congiunte e il sedere poggiato sui talloni, composta e silenziosa come una gatta.
Il tè sapeva di buono, perlomeno. Uno di quelli da distributore, vagamente dolciastri e dal retrogusto artificiale. Ne prendeva sorsi piccolissimi dalla cannuccia minuscola, usandolo per sciacquarsi la bocca fra un boccone a l'altro.
Infilzò una polpettina con la forchetta di plastica, il naso vibrante per i pollini nell'aria.
A Twilight Town ogni stagione somigliava all'altra. Così ogni chicco di riso somigliava all'altro.
Roxas incrociò le gambe, sbadigliando sornione.
«Vuoi ancora riso?» sussurrò Naminé, un sorriso sbiadito, una criniera di capelli biondissimi ad incorniciarle il viso.
«No».
La Torre dell'Orologio, in lontananza, batté le due. Sette ore che era fuori casa. Un'ora dal termine della scuola. Mezz'ora ancora da trascorrere prima che arrivasse il momento di tornare indietro.
Da lì della villa di Naminé non si vedeva nulla. Poteva immaginare la sua collocazione in linea d'aria, il numero di passi che avrebbe impiegato per raggiungerla passando davanti alla torre.
Era difficile perdersi a Twilight Town. Tutte le strade portavano allo stesso punto.
«Sai, ieri sono passata in panetteria, hanno ricominciato a sfornare quelle focaccine con l'uvetta che ti piacciono, avevo pensato di prendertene alcune ma erano tutte finite».
Dispiacere. Dalla punta del nasino alle ciglia finissime, tese e trasparenti nel loro biondo chiarissimo, tutto il viso di Naminé esprimeva dispiacere.
Aveva quel modo d'arricciare le labbra fino a farle diventare sottilissime, d'un rosa ancora più pallido di quello sulle gote. Lei batté le palpebre, continuando a fissarlo.
Roxas ricambiò il suo sguardo distrattamente, punzecchiandosi il labbro con una delle punte della forchettina. Aveva una macedonia nella tasca davanti dello zaino che aveva spiluccato all'intervallo, eppure sembrava che insieme all'interesse per le chiacchiere disinteressate di Naminé se ne fosse andato anche l'appetito.
«Non ti senti bene, Roku-chan? Sei tanto pallido...».
Roxas. Sua mamma l'aveva chiamato Roxas. Anche suo padre aveva deciso il suo nome.
Cinque lettere per descrivere il suo essere. L'anagramma di Sora e poi una X.
Non c'era niente di lui in quella parola.
Eppure per gli altri il suo nome sembrava essere importante. La lingua che trema contro il palato, il fiato che sibila per due volte consecutive, le vocali brevissime che si spezzano all'impatto con le consonanti.
Era una parola vibrante. Dinamica. E lui era una persona statica.
C'era Roxas. E poi c'erano Roku, Rox, il Rossas di quand'era bambino.
Cosa sarebbe successo se lui si fosse chiamato Sora e il suo gemello fosse stato Roxas? Forse nulla.
Sarebbe stato comunque maggio, comunque caldo, comunque rosso.
Forse Twilight Town sarebbe stata meno monotona, se lui si fosse chiamato Sora.
«Naminé. Ti accompagno a casa.» borbottò, richiudendo le scatoline di plastica sparpagliate per il loro angolo di prato. Le due e ventisette.



Naminé era scivolata al di là del cancello con un sorriso, senza dire una parola.
Gli aveva lasciato un bacio morbido sulla guancia, leggerissimo – sentiva ancora la pelle pizzicare nel punto in cui l'aveva sfiorato, l'ombra della sensazione della punta del suo nasino all'insù che si premeva goffamente contro la carne. I baci di Naminé ti scavavano l'anima con la delicatezza d'una ballerina che salti e atteri sulle punte nel più completo silenzio.
C'erano momenti in cui avrebbe dato il cuore per saperli apprezzare. Avrebbe sacrificato sé stesso per poter arrossire come Sora alle carezze ruvide di Riku, per poter sorridere come Olette.
Eppure c'era l'apatia. E c'erano i mattoni di casa sua, anneriti dai fumi di una città che vuol fingere di non essere uno spettro. Una città piena di limiti, dove per ottenere devi soprattutto perdere.
Il boschetto che circondava il sentiero per la Old Mansion era freddo per le temperature che si registravano in città: Roxas si strinse nella giacchetta bianca e nera, lo sguardo chino sulla strada e una sola cuffietta infilata in un orecchio.
Arricciò il naso, fermando di colpo i passi. Era... puzza di bruciato? In una zona come quella?
Prese un respiro più profondo, inspirando l'odore acre come per essere sicuro che fosse davvero puzza di fumo.
Riprese a camminare, abbassando il volume della musica per poter sentire ogni suono, i nervi tesi e sensibili – aveva un fischio nelle orecchie, acuto e lamentoso, come di cavi dell'alta tensione scossi dal vento; il cuore in gola, le dita strette attorno al lettore musicale, le nocche bianchissime e il respiro tremante.
Non c'era assolutamente niente che si muovesse. L'aria era immobile, densa, riempita di quel fumo invisibile e leggerissimo all'olfatto, ancora fresca e primaverile come lo era quella davanti al cancello della Mansion. Roxas continuò a camminare, voltando ad una curva che nemmeno si ricordava ci fosse mai stata.
C'era una persona, poggiata ad un albero. Aveva un profilo nettissimo contro la vegetazione chiara, i pantaloni e la giacca d'un nero lucido – probabilmente era pelle, ma non avrebbe saputo dirlo. Aveva una sigaretta tra le labbra, spenta; stringeva nella mano guantata un accendino ed ai suoi piedi ardeva un mucchietto di foglie e carta, poggiato sulla ghiaia in modo che non causasse troppi danni.
Roxas si fermò di nuovo, più bruscamente di prima. Sentì i battiti del proprio cuore rallentare fino a diventare lentissimi, sordi e ritmici come il battere di un tamburo. Lo sconosciuto voltò di pochissimo il capo, venendo illuminato di sbieco da un raggio di sole filtrato dalla cupola di foglie.
Aveva un naso affilatissimo, lungo e sottile: sembrava potesse tagliare e spezzare anche l'espressione più mite, rendendola pungente, irritante. Gli occhi verdissimi, ridotti a due fessure sottili lo squadravano con l'intensità dello sguardo di un felino, senza mostrare la benché minima sorpresa o una qualsiasi espressione.
«In ritardo. Di nuovo.» e poi uno sputo, in terra, proprio al centro del cumulo di robaccia in fiamme. «Ventus! Lo sai che se tu non scopassi con Vanitas non ti cagherebbe pari nessuno, no? E allora almeno arriva in orario, porca puttana!»
Roxas lo guardò, sollevando un sopracciglio. Era una giornata un po' tutta sbagliata, quella.
Aveva preso con sé l'MP3 di Sora per sbaglio e adesso aveva nelle orecchie un costante “Cooooome what may, coooooome what maaaaay, I will love you, until my dyiiiing day” che a quanto pare suo fratello si riascoltava in loop. Considerato che un uomo incredibilmente alto, incredibilmente magro ed incredibilmente di malumore lo aveva appena scambiato per un certo “Ventus” ed ora lo stava fissando incarognito, ricurvo in avanti come uno sciacallo, la cosa era abbastanza inquietante.
«Stai... parlando con me?» disse, assottigliando lo sguardo, la canzone che si concludeva e ripartiva. L'uomo si staccò dall'albero, scavalcando con quelle sue gambe lunghissime le fiamme ormai sul procinto di spegnersi. Fece qualche passo avanti, senza perdere l'aria arcigna che gli disegnava delle rughe d'espressione fra le sopracciglia finissime, scolpendogli sul viso quelle emozioni ruvide che gli occhi non esprimevano.
«Mi prendi in giro, Ventus? Sono venti minuti che ti aspetto, evita almeno 'sta sceneggiata, per favore. Gli altri avranno già iniziato senza di noi».
Roxas strinse la presa sulla spallina dello zaino, inclinando il viso di lato, studiandolo attentamente. Era bello, di una bellezza un po' strana, sgraziata. La fronte alta, adombrata dal cappuccio; le labbra affilate, gli occhi imperscrutabili e al contempo scrutatori.
Immaginava che se lo avessero visto le sue compagne di classe sarebbero impazzite. Doveva essere uno di quei ragazzi da mostrare come trofei, da tener lucido e perfetto in una teca; un fidanzato da esposizione.
«Temo tu abbia sbagliato persona». Riprese a camminare, passandogli di fianco silenziosamente, le voci che strillavano nelle sue orecchie come se non ci fosse nulla di più importante, l'altra cuffietta che gli rimbalzava sulla pancia. Non erano nemmeno le tre del pomeriggio, c'era tutto il tempo di fermarsi in libreria e passare dal negozio di skate per vedere se avevano aggiustato il suo.
«Ventus!» urlò l'altro, strattonandolo per un braccio. Roxas puntò i piedi, divincolandosi, cercando di sfuggire alla sua presa. L'uomo lo sollevò di peso, caricandoselo su una spalla, e lui urlò con quanto fiato aveva in gola, ancorandosi con le unghie al lungo cappotto di pelle, calciando alla cieca con i piedi. «Zitto, cazzo, stai zitto!».
Il rapitore incappucciato s'infilò nella boscaglia, ringhiando ad ogni calcio e pugno, trasportandolo di peso senza curarsi troppo di non farlo sbattere contro i rami e gli arbusti – continuò a camminare per diversi minuti, sibilando qualche ingiuria quando s'impantanava con gli stivali nel fango. Era magrissimo ed anche piuttosto stretto di spalle e fianchi, eppure la carne che Roxas sentiva sotto la pelle lucidissima era dura, spigolosa. Anche volendo non sarebbe mai riuscito a liberarsi dalla sua presa con la sola forza, quindi finì per rimanere fermo, aspettando per poter spiegare che non si chiamava Ventus e che non aveva idea di chi fosse lui.
Il terreno iniziò a inclinarsi, scendendo fino a formare una parete ripida e scivolosa sotto i piedi, tanto che più d'una volta rischiarono di cadere entrambi. Roxas non si era mai allontanato così tanto dal sentiero della Mansion, visto che nei paraggi di Twilight Town non c'era niente di interessante. Sollevò il viso un po' a fatica – fin'ora si era limitato a fissare il terreno, tenendosi aggrappato con le dita a dei lembi dell'impermeabile -, guardandosi un po' attorno: la vegetazione era più scura e fitta, eppure sembrava ancora più eterea di quella morbida e delicata che ricopriva ogni centimetro di terra davanti alla villa di Naminé.
Sembrava che tutto fosse ammantato dalla nebbia lievissima che ricopriva tutto il territorio circostante all'ora del tramonto. Il cielo s'illuminava d'un rosso vivo, bruciante, che sfumava di colpo in un arancione splendente al limitare dell'orizzonte.
Il campo visivo s'alzava e s'abbassava al ritmo dei passi dell'altro, così come lui veniva continuamente scosso da lampi di paura, potenti e incontrollabili.
L'altro iniziò a rallentare, fermandosi del tutto quand'ebbe superato un arbusto, scavalcandolo facilmente. Il terreno tornò di colpo ad essere piano, e di colpo il silenzio era riempito di lievissimi rumori, sospiri e sussurri, il rumore di passi sull'erba umida.
«Ohi, Saïx, ho trovato lo stronzetto» urlò il tizio, poggiandolo non proprio delicatamente sul terreno, assicurandosi giusto che la parte che stava per impattare con il suolo fosse quella dei piedi e non il cranio. Roxas si mise in piedi, appena barcollante, guardandosi attorno.
Una banda di tossici. Prima impressione riuscitissima.
Tutti con lo stesso impermeabile, seduti in quello spiazzo d'erba dove capitava; tutti con lo sguardo puntato verso di lui.
«Muoviti, Ventus» lo spintonò il suo “accompagnatore”, facendolo avanzare. Roxas puntò nuovamente i piedi e rimase al suo posto, di nuovo all'erta.
«Io non mi chiamo Ventus. Sono Roxas e non ho idea di chi siate, tutti voi».
Il rapitore si poggiò le mani sui fianchi, abbassandosi poi il cappuccio – aveva i capelli rossissimi, tenuti su da quella che sembrava una discreta quantità di gel, talmente contrastanti con la pelle chiara da farlo sembrare irreale.
«Zexion, dov'è Saïx?» chiese, ravvivandosi la chioma con una mano.
Uno degli altri voltò leggermente il capo, facendo oscillare lievemente il ciuffo di capelli blu, l'unico occhio visibile lievemente socchiuso. Era seduto su un ceppo d'albero piuttosto alto, i gomiti sulle ginocchia. Fumava una sigaretta, tenendola fra l'indice ed il medio della mano destra, soffiando il fumo di tanto in tanto con movimenti calmi, studiati. Guardandolo da quella distanza doveva essere poco più alto di lui, ma Roxas riconobbe che aveva una corporatura profondamente diversa, più affusolata, allungata.
«Saïx non c'è, se ne sono andati quasi tutti. Sei in ritardo, Axel» inspirò l'ennesima boccata di fumo, lasciandola scivolare fuori dalle labbra schiuse.
Axel si grattò la nuca, sbuffando infastidito. Roxas pensò che se fosse stato molto silenzioso e rapido avrebbe anche potuto scappare di lì, ma proprio in quel momento Zexion si voltò a guardarlo, con una intensità tale da farlo tremare. Deglutì, distogliendo immediatamente lo sguardo. La morsa allo stomaco si fece più stretta, ed improvvisamente si pentì di non essere un buon corridore.
«Hai detto di chiamarti Roxas, giusto?». Annuì con uno scatto secco, le labbra premute come se avesse deciso di non parlare mai più. Zexion sospirò, porgendo la sigaretta lasciata a metà ad un biondino che se ne stava seduto sull'erba, poggiato con la schiena al ceppo su cui l'altro sedeva.
«Axel. Questo che hai raccattato dalla strada è Roxas Moore, frequenta il mio stesso liceo. Te l'avevo detto che c'era un tizio in 'sta città che era identico a Ventus, potevi almeno ascoltarmi».
Un liceale. Capelli blu. Impermeabile nero. Gli sembrava di ricordarlo, all'uscita di scuola, seduto sulla panchina vicina alla fermata del bus. Zexion Leroy.
Giravano strane voci su di lui. Se non facevi attenzione ti capitava di sentire solo che si tagliava, che era un raccomandato, che nessuno sapeva da dove fosse spuntato fuori, che andasse a letto con il biondino seduto lì per terra. Ma con un'amica come Kairi suo fratello non era tipo da fermarsi ai pettegolezzi superficiali, e a quanto pare su Leroy ce n'erano a dir poco una montagna, di cose da dire.
«Riaccompagnalo a casa, Numero VIII. La riunione è sospesa, evidentemente». Zexion scese dal ceppo, zoppicando vistosamente. Per come era seduto non si notava, ma non indossava uno stivale e aveva la caviglia fasciata. Il biondo si alzò subito per poterlo aiutare, ma l'altro rifiutò di usarlo come punto d'appoggio scacciandolo stizzito, sibilando fra i denti mentre incespicava verso lo stivale abbandonato. Se lo infilò faticosamente, rinunciando infine a farsi aiutare da Demyx – così l'aveva chiamato -, il capo reclinato all'indietro ed il corpo teso come una corda.
Axel gli poggiò una mano su una spalla, facendogli cenno di seguirlo, imboccando un sentierino che s'avventurava dopo pochi metri nel bosco.
Roxas lo seguì silenziosamente, sistemandosi meglio lo zainetto sulle spalle. Visto da così vicino Axel era ancora più alto e sottile. Lo scrutò attentamente, guardingo, sentendo alle proprie spalle i passi aritmici e pesanti di Zexion farsi sempre più lontani.
Fece scivolare il telefono fuori dalla tasca, controllando l'ora. Le tre e trentacinque.



La malattia di Naminé continuava a peggiorare.
Aveva mani sottili, d'un pallore fragilissimo, talmente delicate da arrossarsi al minimo sfregamento. Le dita erano sempre fredde, ma conservavano quel suo tepore caratteristico: carezzavano la pelle con leggerezza, senza mai essere veramente invadenti; erano belle da tenere fra i palmi, da mordere dopo un ghiacciolo mangiato insieme, da tenere strette quando era talmente debole da non reggersi in piedi. A Roxas sarebbe piaciuto stringerla, di tanto in tanto, perché era una ragazzina tremula, acerba: sarebbe scomparsa in uno sbuffo di petali, senza lasciare tracce dietro di sé.
Nessuno si sarebbe ricordato della bambina di quindici anni, sempre zitta e sorridente.
Nessuno si sarebbe ricordato nemmeno di lui. E tanto bastava come legame fra loro.
Le aveva parlato di ciò che era successo, vagamente. Avrebbe voluto raccontarle tutto, di Axel, di Zexion, del silenzio tanto pesante da poter essere respirato che si avvertiva in loro presenza; avrebbe voluto farlo ma non parlò, guardandola disegnare con quel suo stile infantile ed amaro come la sua malattia.
Axel lo aveva riaccompagnato in città in silenzio, scrutandolo di tanto in tanto con quegli occhi verdissimi, sempre lievemente corrucciati. Non aveva chiesto scusa né aperto bocca, limitandosi a fargli un cenno quando aveva detto di essere arrivato, voltandogli le spalle e tornandosene sulla sua strada. Roxas aveva aspettato che sparisse dietro l'angolo prima di precipitarsi veramente a casa, chiudendosi nella propria camera senza nemmeno salutare Sora.
Erano passati tre giorni, da allora. Era seduto in un caffè, intento a mescolare un cappuccino con una cannuccia di plastica mordicchiata, intento a far qualcosa che era a metà fra il fissare il cielo nuvoloso e contare le gocce di pioggia, senza focalizzare veramente l'attenzione su nessuna delle due attività.
Riku di tanto in tanto lasciava scivolare lo sguardo su di lui, con quel modo di fare inconsciamente sfacciato, invadente. Aveva ordinato un cornetto che piluccava con fare svogliato, partecipando però alle chiacchiere di Sora con la consueta ironia.
«Rooooooku, smetti di fare l'antipatico!» brontolò Sora, arricciando la bocca in un broncio. «Parla anche tu! Ecco, ecco, di' a Riku che non è vero che dormo con i peluches!» sbottò, agitando lo spicchio di mela infilzato con uno stuzzicadenti come fosse una spada. Kairi osservava entrambi ridendo, intrufolandosi di tanto in tanto nella discussione per dare dello stupido all'uno e all'altro, spalleggiando ora Riku ora Sora, suggerendo insulti più articolati e morendo dal ridere quando l'ultimo s'offendeva ancora di più perché non riusciva a capire quel che loro due dicevano.
Riku ghignò, piegando le labbra in un sorriso simile a quello che aveva immaginato sulla bocca di Axel, intingendo un dito nella crema al cioccolato, portandoselo lentamente alla bocca.
Sora seguì ogni suo movimento con le guance gonfie come quelle di un cricetino, il labbro superiore ancora sporco per quel sorso di cappuccino che gli aveva rubato. Roxas seguì ogni suo movimento con la coda dell'occhio, stringendosi poi nella giacca quando Sora arrossì. Si alzò di scatto per uscire dal locale e ignorò i richiami del fratello, lanciandosi sotto la pioggia scrosciante, correndo a perdifiato per le stradine umide e scivolose. Si ricordò di quando pochi giorni prima Axel aveva rischiato di cadere portandolo in spalla, sentì vivida sulla propria schiena la presa delle sue mani farsi più stretta, proprio come allora. Si fermò ansimante contro la facciata della Torre dell'Orologio, fradicio fino al midollo. Scivolò fino a sedersi in terra, nascondendo il viso fra le ginocchia.
«Guarda un po' chi c'è». Axel.
Alzò lo sguardo dopo qualche secondo, le ciocche bagnate appiccicate alla fronte, il corpo scosso dai tremiti. Axel diede un morso ad un ghiacciolo, scrutandolo con distacco. Indossava gli stessi vestiti dell'altro giorno e si teneva schiacciato contro la parete, cercando di bagnarsi il meno possibile.
Roxas continuò a guardarlo in silenzio, il naso premuto contro un ginocchio per stare raggomitolato e combattere come meglio poteva il freddo. L'altro scosse la testa, gettando il ghiacciolo appena iniziato in terra, facendogli cenno di alzarsi.
«Entra. Se mi muori di freddo sotto al naso come minimo Zexion mi schiera metà Organizzazione contro.» disse e si voltò, estraendo una chiave dalla tasca. La infilò nella toppa della porta di metallo, che s'aprì cigolando sui cardini anche più del solito.
Roxas si morse il labbro, indeciso. Axel lo aspettava sulla porta, il viso finalmente rilassato, la fronte distesa e gli occhi aperti. Aspettava lui.
Lo seguì velocemente, riuscendo a passare sotto al suo braccio teso senza nemmeno abbassarsi. Era entrato migliaia di volte da quella porticina, arrampicandosi su per le scale lunghissime che portavano in cima alla torre, un gelato al sale marino nella mano e la città intera che compieva il suo lento corso al di sotto dei suoi piedi. Era dalla Clock Tower che derivava ogni cosa di lui e un po' c'era d'aspettarselo: era quanto di più ridicolmente ridondante e vistoso si potesse costruire in una città fatta di niente, e che la persona più inutile fra tutte le persone invisibili vi fosse così legata era il semplice ricongiungimento di tutto, l'unico punto individuabile in quel ciclo di vita senza svolte. E come ogni cosa da cui derivino e non si origino le cose, non era nemmeno un punto veramente importante, solo uno dei tanti ancora da identificare, ugualmente insignificante ed insipido come qualsiasi altra briciola di Twilight Town.
C'erano stati momenti, quando era un bambino, in cui si sentiva come una formica che, raggiunta la vetta di uno stelo d'erba, si soffermi ad osservare i percorsi delle compagne. L'idea gli era venuta l'anno in cui per una settimana si erano trattenuti nelle campagne poco lontane, a casa di amici di famiglia che poi erano svaniti dalle loro esistenze diradandosi nella nebbia uggiosa delle colline, sparendo lentamente dai loro pensieri ed in gran parte anche dalle loro memorie.
Si era steso per terra, il viso schiacciato contro il terreno, i fili d'erba fastidiosamente premuti sulle guance. Era rimasto fermo per talmente tanto tempo che poi, quando si era alzato, aveva sulla pelle una filigrana sottilissima come quella che ti rimane impressa dopo una notte passata a dormire.
Sora era a pochi metri di distanza, intento a divertirsi da solo con una palla da calcio più di quanto lui si fosse mai sentito felice in un solo pomeriggio, sotto lo sguardo attentissimo dei loro genitori, talmente abituati alle catastrofi naturali e rapidissime in cui si andava a cacciare che avevano organizzato le ronde pur di tenerlo d'occhio, avendo attentamente calcolato quanto un nuovo ambiente totalmente inesplorato fosse pericoloso per lui e la sua inarrestabile passione per l'avventura.
E invece Roxas se ne stava per terra, intento a guardare le formiche passargli davanti agli occhi, l'una con un pezzo di pane, l'altra con un ossicino di ciliegia sporco di polpa rossissima.
Una lenta fiumana di esserini neri, talmente piccoli da poter essere facilmente schiacciati senza venir oppressi dal minimo senso di colpa. Ne aveva presa una nel palmo della mano, schiacciandola fra l'indice e il pollice. Una morte talmente impercettibile al mondo da esserlo anche al tatto.
Erano così anche tutte gli abitanti di Twilight Town. Piccoli. Sconosciuti. Impercettibili.
Una goccia di pioggia gli cadde sul naso, facendolo sobbalzare. Axel lo fissava in silenzio poggiato all'inferriata che contornava le scale, una sigaretta fra le labbra.
Aveva ancora le chiavi in mano. Roxas le fissò per qualche secondo, rabbrividendo per il freddo umido che trasudava da ogni parete. Era abituato a sentire i mattoni irradiare calore e scottare sotto i polpastrelli, invece così la torre sembrava un luogo molto più lugubre e tetro.
Axel si staccò dal corrimano, avviandosi lungo lo stretto corridoio che affiancava la scalinata. Aveva tirato fuori l'accendino per farsi luce, ma non sembrava averne davvero bisogno. Sbuffava il fumo dalle labbra socchiuse, creando lente spirali.
L'odore della pioggia era fortissimo. Roxas sentiva l'umidità scivolare sottopelle, impregnare la sua felpa di un gelo appiccicoso, stridente sulla pelle. S'infilò insieme ad Axel nel corridoio angustio, aspettando che lentamente cercasse la chiave giusta nel mazzo.
Entrarono insieme nella stanzetta attigua, cozzando inavvertitamente l'uno contro l'altro nel movimento. Il cambiamento di temperatura fu drastico: c'era una stufetta minuscola in un angolo, capace da sola di rendere la stanza piacevole e luminosa, accogliente nonostante le pareti spoglie.
«Siediti dove ti pare, anche sul letto» disse Axel, aprendo una finestra strettissima, facendola cigolare stridulamente per far affluire all'esterno il fumo della sigaretta e della stufa.
L'intera stanza odorava di pelle. Di calore umano.
Roxas si sedette sul materasso sentendolo sfrigolare contro il tessuto leggerissimo dei suoi pantaloni. Axel non sembrava passarci molto tempo, eppure ogni molecola di cui erano composti l'arredo, l'aria, la stessa luce della camera era frizzante d'energia.
Si sfilò le scarpe con la punta dei piedi, calciandole via sotto la scrivania di un ferro arrugginito come fosse devastato da una malattia, chiazzato di macchie sanguigne e all'apparenza putride quanto la poltiglia disgustosa che rimaneva appiccata alla suola dopo aver calpestato uno scarafaggio. Arricciò le dita dei piedi in un moto di stizza, sistemandosi i calzini a pallini azzurri che s'erano tutti appallottolati attorno alle dita piccolissime, da bambino.
Era alto come suo fratello, eppure Sora aveva piedi enormi, sproporzionatissimi, grandi quasi quanto quelli di Riku. A lui erano toccate la pianta piccina, la caviglia sottile, le unghie grandi come caramelline alla menta. Non sapeva se esserne compiaciuto o imbarazzato, perché Sora era davvero un animaletto, ma lo era in maniera adolescenziale, irrequieta: aveva peli radi e scuri sulle gambe, corti e sottili ma sparsi fin sopra la caviglia; lui non ne aveva che di biondissimi, morbidi come quelli di un pupazzo, disseminati qua e là sui polpacci magri, quasi assenti sulle cosce, appena accennati sul pube. Ogni tanto sua madre chiamava Sora la sua bella pesca matura per le guance piene, il colorito roseo e sano, quasi sempre abbronzato e suo fratello s'imbarazzava sempre, quasi offeso dal paragone.
Lui non poteva permettersi che d'essere un'albicocca acerba, dura e rigida come appena staccata dal ramo, acida e spiacevole al palato. Forse era nella sua stessa natura non maturare mai, rimanere solo l'abbozzo d'un frutto; forse era nella sua stessa natura essere statico ed immobile, impossibilitato a rotolare fuori dall'ombra della cassetta di pesche nella quale risiedeva Sora, più bello e più lucente e più succoso dell'albicocca ammaccata ed acerba ch'era lui.
Continuò a tremare, rannicchiandosi contro il muro, il naso premuto nell'incavo formato fra le due ginocchia unite. Udì un lieve sospiro ed il rumore della finestra che si chiudeva, seguito dall'improvviso affievolirsi del rumore della pioggia, che rimase in sottofondo come una vecchia radio mal sintonizzata, lievemente crepitante e in secondo piano, da base per i rumori più forti.
«Hai ancora freddo?» chiese Axel, avvicinandosi. Aveva le suole bagnate e quando camminava faceva un rumore a metà fra un risucchio ed un cigolio, e grazie a quello riusciva a sapere anche con gli occhi chiusi quanto vicino fosse. Annuì brevemente, le ciglia che vibravano come se fossero scosse da un sospiro. I passi di Axel scricchiolarono fino all'angolo opposto della stanza, poi il rumore di un cassetto che si apre ed il tonfo morbido di qualcosa vicino a lui.
Aprì gli occhi. Una coperta. Gli aveva lanciato una coperta.
Se la strinse addosso, velocemente. Odorava di muffa e pizzicava da morire, ma era la prima volta in anni di vita in cui qualcuno faceva qualcosa di simile per lui senza una motivazione vera e propria. Sora lo curava e notava solo in casi di estremo bisogno, ed era sempre perché mamma gli dava l'incarico o perché lui glielo chiedeva. Naminé non era in grado di notare nemmeno sé stessa.
Axel era piombato fuori dal nulla e gli aveva lanciato una coperta. Come se lui esistesse.
Inspirò più profondamente l'odore appiccicoso, stringendo i lembi nei palmi.
L'altro si avvicinò lentamente, sedendosi poco lontano da lui, poggiato alla testata metallica del letto. Era rugginosa e vecchia, come tutto in quella stanza, ma messa così come prolungamento del corpo di Axel era quasi bella, coerente: aveva poggiato la testa sul braccio, il viso piegato, i capelli che sfregavano ad ogni movimento con i mattoni ruvidi. Aveva lo stesso aspetto di un felino disteso su un ramo, uniforme e perfettamente posizionato nel suo spazio.
«Va meglio, così?».
Non si era nemmeno reso conto che Axel lo stesse fissando. Che si stessero fissando.
Annuì di nuovo, meccanicamente, guardando la sfumatura rilassata che avevano quegli occhi verdissimi. Erano occhi che annichilivano e che distruggevano con un battito di palpebre, gli occhi di chi può decidere della tua vita in ogni istante.
«Immagino tu non sia di molte parole» sbuffò, grattandosi distrattamente la nuca. Aveva finalmente distolto lo sguardo, e Roxas sentì i propri polmoni liberare automaticamente l'aria che avevano imprigionato e trattenuto senza che lui se ne rendesse conto. «Non è poi così strano. Anche tutti gli altri sono così, dev'essere una cosa comune.»
Non aveva idea di che cosa esattamente avesse voluto dire, ma gli sembro così convincente che si limitò ad assimilarlo in silenzio, lasciando che le parole gli fluissero nella mente.
«Mi capisci? Gli altri. Come Zexion o Lexaeus o Saïx.» mormorò, arricciando il naso. «Sono tutti sempre in silenzio, non dicono mai una parola.»
«Forse non hanno niente da dire» azzardò, spiando le sue reazioni di sottecchi. Aveva le dita dei piedi letteralmente gelate, ma stava troppo bene così rannicchiato per volersi infilare le scarpe.
«Stronzate». Roxas sobbalzò, voltandosi a guardarlo. Axel aveva assottigliato lo sguardo ed ora le sue sopracciglia erano arcuate in maniera decisamente minacciosa. «Fanno tutti finta di capirsi e supportarsi a vicenda, ma poi alle riunioni hanno sempre qualcosa da dire, te lo assicuro».
«Ma... non è così che si comportano tutte le persone?» domandò, passandosi una mano fra i capelli umidi di pioggia.
Axel prese un'altra sigaretta, incavando le guance nell'aspirare per la prima volta mentre l'accendeva. Aveva ancora le sopracciglia corrucciate e delle rughe sottili sulla fronte, ed esprimeva anche solo soffiando il fumo dalle labbra una tale energia da confonderlo e lasciarlo ammaliato. Roxas socchiuse gli occhi, distendendo le gambe e stringendo con le braccia la pancia dolorante per la corsa sotto la pioggia. Era una cosa evidente, dopotutto. Axel si sarebbe annoiato di lui, avrebbe aspettato che l'acquazzone finisse, l'avrebbe salutato come aveva fatto l'ultima volta e sarebbe scomparso di nuovo, questa volta per settimane, magari.
«Noi non siamo come le altre persone, Roxas. Ed è proprio per questo che non sopporto questo loro comportamento.» rispose Axel, continuando a fumare con calma.
«Come le altre persone? Che vuoi dire?» chiese, guardandolo confuso.
L'altro lo osservò attentamente, scandagliando con lo stesso sguardo che avrebbe riservato ad un documentario sui vulcani, a metà fra l'interesse e il distacco.
Mormorò un “forse avrei dovuto ascoltare Zexion” poco convinto, sospirando appena; fece uno scatto di reni, sollevandosi a sedere, la schiena arcuata per protendersi verso di lui, gli occhi ora vividi e complici.
«Non lo senti anche tu, Roxas? Gli altri dicono che forse anche tu sei come noi, sai?». Sorrise, avvicinandosi ancora. Roxas si rannicchiò istintivamente contro la parete, il naso premuto contro un lembo di coperta. «È da un po' che ti osservo, a dire il vero. Mi hanno chiesto di controllarti, Roxas. So a che ora ti svegli, a che ora entri ed esci da scuola, dove vai di solito e con chi, a che ora vai a dormire». Roxas trattenne il fiato, ritraendo le gambe al petto come per farsi più lontano, sgranando gli occhi. Axel aveva lo stesso sorriso di sempre, ma adesso tutto di lui sembrava più aguzzo, più dolorosamente spaventoso.
Roxas doveva scappare, ogni particella del suo corpo gli urlava solo di alzarsi e correre, correre sino a perdere il fiato, correre e nascondersi nel sorriso incredibilmente sincero di Sora; eppure c'era la calma assoluta nei suoi occhi quando alzò lo sguardo. Mantenne il contatto visivo, stringendo la mano sul lenzuolo per potersi dare una spinta per iniziare a correre.
«Sei spaventato, Roxas? No, vero?». Ancora più vicino. Era talmente alto che per guardarlo doveva stare piegato come per guardare il pavimento. «Io scommetto che non sei spaventato. Vorresti esserlo e vorresti scappare, ma non ci riesci. Non senti niente, non è vero?»
C'era il viso di Naminé. C'erano le sue manine freddissime e gli occhi e la bocca il naso, la macchiolina color caffellatte a destra del labbro superiore e le ciglia sottilissime, fragili come una montagnola di sabbia in un giorno di vento.
C'era il viso di Sora. C'era la pelle abbronzata, elastica e tesa, gli occhioni vividi, la bocca malleabile come argilla nelle espressioni più disparate. C'erano le sue ginocchia tonde come tazze da latte, la linea morbida del suo profilo.
E poi c'erano Riku, Sora, Selphie, Wakka, Rikku, Leon, Aerith, Seifer, Hayner, Pence, Olette, Vivi, Donald e anche Goofy. C'erano le braccia caldissime della mamma e quel calore che gli era drasticamente precluso.
E poi c'era Axel. Rannicchiato in una piega della pelle, in una delle rughette che compaiono sulle dita quando sono distese. No, era diverso: Axel era le nocche, i tendini; Axel era il rumore scrocchiante e meccanico che facevano le sue spalle nel muoversi dopo ore passate rannicchiato com'era ora. C'era qualcosa di lui in ogni cellula del suo corpo, lo sentiva sgusciare fra i muscoli e le ossa ed i nervi e penetrargli il cervello, fino a placcargli le sinapsi e farle muovere secondo il suo schema, la sua tattica.
Roxas annuì lentamente, sentendo le giunture delle sue ossa scricchiolare nel movimento.
Era la verità. Non era spaventato, eppure era in un qualche modo agitato, a metà fra il desiderio di scappare e la curiosità per quanto Axel aveva da dire.
«Vieni alla prossima riunione, Roxas. Martedì, alle tre del pomeriggio. Io ti aspetto dalle due e mezza nel posto in cui ci siamo incontrati la prima volta. Memorizzato?».
Quando Roxas annuì di nuovo, lo fece con la fortissima sensazione di stare per fare la cazzata più enorme del secolo. E se batteva quelle di Sora, allora era grande davvero.



«Ehi, Roxas!»
Alzò lo sguardo, continuando a mangiucchiare la penna con aria assente.
Hayner. Pence e Olette. La classe sullo sfondo.
Esistere in quel periodo era come indossare occhiali appannati. Il mondo è quello di sempre, ma l'umidità condensatasi sulle tue lenti ti impedisce di vedere come dovresti.
Allo stesso modo i contorni che racchiudevano le persone erano solidi e certi come quelli di qualsiasi altro essere umano, ma si sbriciolavano dopo pochi secondi in cui lui li osservava, divenendo parte dello sfondo ancora meno importante.
«Roxas, ci sei?» gli chiese Olette, lievemente preoccupata. Aveva sempre quello sguardo insopportabilmente ansioso quando lo guardava, come se lui le stesse davvero a cuore.
All'inizio la cosa lo aveva rincuorato, ma non era altro che l'attenzione che la ragazza riservava a tutti, e Roxas aveva finito per non darvi peso, tornando al consueto disinteresse.
Tornò a guardarli, lievemente incuriosito: era raro che qualcuno interagisse con lui durante l'orario scolastico.
«Sai, fra poche settimane inizia il torneo di Struggle!» esclamò Hayner, sorridendo con una mano fra i capelli. «Volevamo sapere se ti andava di allenarti con noi!».
Lo Struggle. Se n'era totalmente dimenticato.
Si mordicchiò il labbro, indeciso. Non sarebbe stato male potersi allenare, dimenticare per qualche minuto il pensiero costante dell'incontro di martedì, se andare o se non andare.
Sospirò, annuendo velocemente verso i tre ragazzi. Meglio prepararsi a perdere che pensare tutto il tempo a un ragazzo tremendamente inquietante.
«Yay!» gioirono tutti e tre, sorridendo ancora più contenti. «Allora ti facciamo sapere».
Suonò la campanella e i suoi compagni tornarono ai loro posti. Il professore entrò a passo lento, poggiando la borsa sulla cattedra. Sora sbuffò, grattandosi il naso con un angolo del righello.
Roxas si limitò a tirare fuori i libri dalla cartella, disponendo quelli delle ore precedenti in una pila ordinata accanto all'astuccio e al diario, perfettamente allineati.
Lisciò le pagine piene di appunti, ripose il tappino della bic nera sul banco, annullò qualsiasi pensiero. Era facile rimanere attento durante le ore di letteratura perché le parole dell'insegnante erano calme, ponderate; anche prendere appunti era più semplice, e il callo sul medio ancora dolorante per l'ora di chimica precedente aveva finalmente un po' di sollievo.
Il tempo non passava mai a scuola.
Studiare non era mai stato un problema, ma lo era doversi svegliare ogni mattina, prendere l'autobus in mezzo alla gente, sopportare Sora anche per le cinque ore di lezione.
Sospirò silenziosamente, distendendo le gambe sotto il banco. Poggiò un piede sulla sacca di ginnastica, contando i secondi che lo separavano dalla campanella.
Altri compiti, altri doveri, altro tempo passato con la testa riempita da qualcosa.
Uscì da scuola con il sapore della carta sulla lingua. Aveva le mucose della bocca secche e per quanto le leccasse con la lingua non tornavano bagnate. Arrivò all'angolino della stradina laterale con ancora la lingua appiccicata al palato, visto che finalmente stava riprendendo umidità.
Salutò Naminé con un cenno, avviandosi insieme a lei. Le strinse la mano, liscissima senza esserlo davvero, come tenere nella mano una pietra levigata con una scheggiatura.
«Ciao, Roku-chan» sussurrò con la vocina flebile che si ritrovava di recente, ricambiando la sua stretta senza forza, leggera come un guanto di velluto.
Le sorrise. Si sforzò tanto, tantissimo: tirò i lembi delle labbra, scoprì i denti bianchi, cercò con tutta la sua forza di volontà di far illuminare gli occhi. Forse ci riuscì, perché le labbra di Naminé tremarono come se stesse per piangere, e subito lei riprese a camminare verso un bar in cui fermarsi, prendere una pizzetta da mangiare, sorseggiare una granita al sale marino come se non sapesse di avere una aspettativa di vita lunga un giorno, forse due, forse intere settimane in cui sentirsi sempre più prosciugata della propria energia.
La accompagnò al tavolino all'angolo e la osservò mentre teneva il vestito bianco con le mani nel sedersi, come teneva sempre il blocco da disegno fra le mani o sulle ginocchia, come ad ogni respiro ogni sua cellula vibrasse come se stesse liberando energia, gettando attimi di vita al vento che non sarebbero tornati più. Faceva malissimo anche solo guardarla; e Roxas la guardava da ormai cinque anni, eppure ogni giorno c'era uno spillo come un tarlo che lo pungolava all'altezza del petto, pizzicando la sua apatia con la punta acuminata, facendolo aggrappare alla speranza schifosamente viscida che forse provare un minimo dispiacere per lei era la dimostrazione che lui non fosse soltanto un pupazzo.
«Cosa vuoi ordinare, Roku-chan?» chiese, sorridendo con aria rilassata, dolcissima.
«Pizza?» propose, grattandosi distrattamente la guancia. C'erano pochissime persone nel locale e la maggior parte di loro era intenta a leggere il giornale piluccando un tramezzino.
Ordinarono una margherita senza glutine, senza sale e con tanta mozzarella. Poteva mangiare pochissime cose, ma fra tutte Naminé preferiva la pizza.
Roxas la accompagnava spesso a pranzare dopo scuola, e mangiare insieme era una delle cose che più lo faceva sentire legato a lei. Avevano gli stessi gusti quasi per tutto, nonostante le limitazioni della malattia, ed era bello non correre il rischio di dimenticarsi l'uno dell'altra condividendo qualcosa, che fosse cibo o solo un sorriso.
Roxas addentò una fetta di pizza, sentendo la mozzarella caldissima e filante scottare sulla lingua. Era insipida e un po' troppo sottile, ma rimaneva comunque squisita. Masticò il boccone e lo deglutì, sentendo il cellulare vibrare nella tasca.
Mittente: Numero Sconosciuto
Oggetto: Struggle
Ciao, scusa il disturbo! Sono Olette. Il primo allenamento per il torneo di Struggle è questo venerdì alle quattro e mezza, dacci conferma entro quel giorno e ti diremo dove abbiamo deciso di allenarci.
Buona giornata!”
Venerdì. Mancavano otto giorni. E detto così non era niente, ma a pensarci bene corrispondevano ad un risveglio, cinque ore di scuola, un pranzo, un ritorno a casa, compiti, lo spazio vuoto e lunghissimo pomeridiano, una cena e poi il letto e il sonno. Il tutto moltiplicato per otto.
E lui non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto fino a mercoledì.
Si sentì prendere da una strana sensazione, come se di colpo avesse udito il ticchettare di un orologio ed improvvisamente fosse scattato un conto alla rovescia.
Tic toc, tic toc. Il rumore dei tacchetti di Naminé, il frusciare del giornale, un pesce rosso che salta e si rituffa nella vasca, il grattare neutro di uno strofinaccio sul fondo di un bicchiere, le posate che stridono sulla ceramica. C'era troppo rumore per pensare, troppo poco per vivere.
Si aggrappò come un naufrago al ruggito che fece la sedia di un altro cliente nello spostarsi, stridendo contro il pavimento. Gli sembrò di respirare la prima volta quando si sentì lo scampanellio della cassa che si apriva; fu come muoversi per la prima volta quando seguendo il flusso dell'acqua del rubinetto aperto si versò un bicchiere di Coca e bevve avidamente.
«Roxas... sei sempre così pallido, dovresti prenderti qualche giorno di riposo» sussurrò Naminé, carezzandogli il dorso della mano con la punta delle dita. Il brivido che gli provocò quel contatto gelido lo atterrì, ma gli fu necessario come aria per distaccarsi dalle sensazioni irruente che lo avevano scosso per qualche secondo, lasciandolo attonito.
Venerdì. L'obiettivo adesso era vivere fino a venerdì.
Sollevò lo sguardo su Naminé, tremando nel momento stesso in cui incontrò il suo sguardo.
Naminé sarebbe sopravvissuta fino a venerdì?



Sabato tornò a casa quando il cielo iniziava a prender fuoco per il crepuscolo, sgattaiolando in camera propria silenziosamente, affacciandosi alla finestra spalancata, respirando l'odore di vuoto che prendeva la sua stanza ogni volta che rimaneva arieggiata per tutto il giorno. Era un aroma stranissimo, come di bucato appena fatto, come se la stanza avesse cercato di scacciare il suo ricordo durante la sua assenza. Si lanciò sul letto che profumava di arancia con ancora le scarpe indosso, annusandolo con il viso premuto sul cuscino.
C'era ancora. Esisteva ancora. C'era la macchia fatta con la penna l'altro ieri, quando nello scrivere con il quaderno sul davanzale gli era scivolata ed era rimbalzata di punta sul lenzuolo. C'era l'odore dell'arancia che si era mangiato il giorno prima, poggiando i pezzi di buccia odorosi sul cuscino.
Il letto era l'involucro dell'involucro della sua anima. Il corpo era il simulacro della sua esistenza, il letto ne era la custodia. Nella notte lo rigenerava e restaurava, gli permetteva di vivere come fosse nuovo ogni giorno.
Si sollevò, slacciandosi le scarpe con movimenti lenti, lasciandole cadere in terra con un tonfo quando finalmente il piede era libero. S'allungò per prendere lo zaino e lo trascinò più vicino, tirando fuori i libri ed il diario.
Il tempo scorreva lentissimo. Finì algebra, finì chimica, finì di ripassare storia.
Sfogliò il diario. Aveva una versione per martedì, la fece subito sfogliando le pagine del dizionario lentamente per perdere tempo, copiò i paradigmi dei verbi come se fosse più importante la grafia piuttosto che le stesse parole.
I compiti da anticipare terminarono alle cinque meno un quarto, gettandolo nella disperazione più contenuta e annichilente nei secoli dei secoli, probabilmente. Sora venne ad elemosinare il suo schema di storia alle cinque e venti, più o meno, seguito a ruota da Riku che a quanto pare era ormai parte del suo vestiario come un mantello, visto come gli stava appiccicato ovunque.
Roxas si accasciò sul davanzale della finestra che non erano nemmeno i trentadue, anzi mancavano precisamente ventritré secondi, ventidue, ventuno...
La noia non era né una novità né un onere particolarmente inatteso, ma lo devastava psicologicamente e fisicamente. C'era solo il peso enorme del niente, la fatica spropositata dell'attesa di un qualcosa che accada e scuota e divampi e incenerisca, di un qualcosa che costruisca un tutto partendo dalla polvere di quella città e dal veleno asfissiante dell'aria, che lo scaraventasse giù dalla torre, lo schiacciasse contro le pietre putride e macchiate dal Sole costantemente morente, qualcosa che lo risollevasse da quella voragine di oscurità in cui si ritrovava.
Osservò l'ombra del lampione diventare sempre più lunga, strisciare sulle piastrelle ruvide come sassi, arrampicarsi aggrappandosi alle scanalature fra l'una e l'altra. Gli parve di sentire il rumore del tempo liquefarsi e colare lungo le sue guance, bollente come la luce che lo inondava e cullava e trascinava in quel buco malsano che era l'apatia. Il rumore di passi lo risvegliò quando era già in procinto di annegare, l'acqua che inizia a penetrare nei polmoni e le mani che si agitano davanti al viso come per spostare tutto il mare con uno sforzo sovrumano.
Due impermeabili neri. Due impermeabili nerissimi sotto la sua finestra.



«Secondo me è entrato in una di quelle sette relicose, lì, come i vegetariani» sbottò Sora, la bocca piena di yogurt alla ciliegia e cereali al miele. Riku lo guardò malissimo, continuando ad azzannare la sua mela assolutamente biologica e lucidissima, lanciandogli il torsolo in faccia dopo averlo spolpato del tutto. A quanto pare Sora era molto stupido e molto masochista, almeno abbastanza da fare un commento così dichiaratamente ostile alla nuova dieta vegan di Riku.
«Sora, guarda che i vegetariani non sono una setta religiosa» spiegò Kairi, sorridendo divertita. Era seduta sul comodino, i piedi scalzi sul copriletto azzurro a nuvolette, vicini al punto in cui Riku poggiava la testa contro il letto.
Sora fece rotolare il torsolo morsicato sul pavimento, stizzito. Avanzò con gli avambracci puntati fino a raggiungere con le mani i capelli chiarissimi del suo migliore amico, tirandoli con uno strattone troppo debole per far male. Riku continuò a ghignare, allungando una mano per pizzicargli il fianco scoperto, proprio nel punto in cui c'era una cicatrice, chiarissima contro la pelle ambrata. «Roku invece si droga con quelle robe immangiabili al sale marino – voi l'avete mai trovato il bastoncino “winner”? Io mai, per me non esiste!»
Roxas affondò il mento appuntito nel cuscino che teneva contro il petto, guardandoli con occhi inespressivi. Lo tenevano lì da circa mezz'ora, da quando Sora si era affacciato alla sua finestra e lo avevo trovato intento a scambiarsi lo scambio di sguardi più intenso della sua vita con Zexion, che si era semplicemente fermato a fissarlo per una ventina di secondi protratti all'infinito dal gelo dei suoi occhi. Persino Demyx, la mano stretta in quella del presunto fidanzato, aveva abbassato il viso per non intromettersi, il cappuccio calato sul viso.
Poi Sora aveva urlato un “Roxas!” sguaiato e acuto quanto le grida di un agonizzante e Zexion aveva voltato la schiena come un animale braccato che fosse stato avvistato in un momento di debolezza e si praticamente disintegrato nell'aria per la velocità con cui era scomparso dalla loro vista, seguito altrettanto rapidamente da Demyx, che guardò verso la sua finestra con una curiosità genuina da far rabbrividire.
Allungò le gambe sul tappeto a forma di coniglietto, chinando lo sguardo sulle proprie cosce magrissime, totalmente disinteressato all'interrogatorio e alle supposizioni di Sora, sempre più lanciato nella spiegazione di come lui fosse diventato in realtà un contrabbandiere di quelle mele “logiche” che mangiava Riku.
Non era di certo una coincidenza che Zexion fosse passato sotto casa sua.
Quel tizio sapeva tutto di tutti e Axel dopotutto gli aveva rivelato che da un po' lo stavano tenendo d'occhio. Sentì una sensazione strana coagularsi fra le sua viscere, pesante e calda come l'ansia, arricciando le dita dei piedini un po' sporchi per l'aver camminato tutto il pomeriggio senza calzettini. Non voglio che vengano coinvolti anche loro, pensò, sollevando lo sguardo su suo fratello, su Kairi, su Riku. Era tutto già abbastanza spaventoso da non voler mettere a rischio altre persone. E lo era in una maniera schifosamente attraente, oltretutto, come il sorriso di qualcuno che celi un segreto.
Roxas avrebbe ucciso pur di sapere in anticipo cosa sarebbe successo martedì, per poter sapere se sarebbe tornato a casa sulle sue gambe, con gli occhi al loro posto ed ogni osso ben saldato alle sue giunture; avrebbe ucciso soprattutto per poter rivedere Axel e riempirlo di domande e insulti e calci e morsi, strappargli risposte dalla bocca con pinze talmente acuminate da ferirgli la lingua, osservare per ore la piega armonica del suo collo quando abbassava il viso per guardarlo negli occhi.
Roxas non aveva mai voluto niente. Viveva in una città vuota stipata a forza di emozioni e sensazioni e leggende che dessero all'aria una parvenza di movimento, si era ritagliato un angolo di vita liso e mangiucchiato da quella di suo fratello gemello, aveva deciso di condividerlo con una ragazza a cui sarebbe servito un intero corredo d'abiti intessuti con un'esistenza; si torturava pensando ad un uomo che vedeva talmente poche volte da far presupporre che fosse un'illusione.
Twilight Town. Roxas sospirò, alzandosi lentamente, stringendo il cuscino al petto mentre usciva a piedi nudi in corridoio, senza fare il minimo rumore mentre scompariva in cucina.
Si versò un po' di succo d'arancia in un bicchiere, bevendo ad occhi chiusi.
E poi il vuoto. Ed il rumore di cocci infranti.



Non aveva mangiato per tre giorni.
Era surreale. Aveva ancora in bocca il sapore della pizza mangiata con Naminé quando si era risvegliato nel suo letto, circondato da Sora, che lo aveva raccattato svenuto in cucina e trascinato in camera, e da sua madre. Nessuno si era accorto di niente.
Non aveva messo un cazzo di niente nello stomaco per giorni e i suoi famigliari non si erano nemmeno accorti che non era con loro ai pasti.
Roxas avrebbe voluto piangere. A dire la verità avrebbe voluto picchiare Sora, cavargli uno per uno quei denti brillanti che gli avevano sorriso quando si era svegliato, avrebbe voluto cancellare la luce sollevata che avevano preso i suoi occhi.
Rimase immobile nel letto per ore. Faceva male anche respirare.
Il problema era che il dolore non era interno, ma fisico: sentiva stridere le connessioni fra cellula e cellula, le tempie dolevano come se uno ad uno i nuclei esplodessero, rabbrividiva per un freddo glaciale e le braccia tremavano talmente tanto da impedirgli anche solo di accostare le ante.
Si era costretto a mangiare sentendo lo stomaco urlare, le viscere contrarsi e divenire brucianti; era riuscito a piangere solo dopo quattro ore di sofferenza totale, annichilente.
Sua madre era entrata in camera verso le sei, limitandosi a sciacquargli il viso con un panno, lasciando la cena sul comodino.
Era colpa sua. Doveva esserlo. Si era lasciato svenire per la fame perché non era un bravo figlio, anzi era stato un figlio tremendo, da sempre, e quella era solo la punizione che si meritava per tutto il male che aveva fatto alla sua famiglia e ai suoi amici crescendo in maniera così distorta. La verità era che non era mai stato così male in vita sua e voleva solo che qualcuno si ricordasse di lui, lo stringesse al petto come se fosse la stella più brillante e meravigliosa nel cielo.
Era tornato a scuola martedì, profonde occhiaie sotto gli occhi e la voce bassa e profonda, tremula come avesse appena finito di piangere.
Olette lo aveva guardato fisso per tutta la lezione, mordicchiando la matita con quell'aria di preoccupazione medio-alta, la stessa che aveva avuto quando Seifer s'era fatto mettere sotto e s'era rotto una gamba.
I professori lo avevano ignorato e tutti avevano assalito Sora perché mamma l'aveva fatto restare a casa insieme a lui. Roxas era rimasto al suo banco a piluccare la propria macedonia, annuendo gentilmente quando Pence gli si era avvicinato per chiedergli se andava bene la data decisa per gli allenamenti. Si sentiva stanchissimo e spossato, ma l'ultima cosa che voleva era andare a casa.
Sgattaiolò fra la folla all'uscita, infilandosi nel primo vicoletto sufficientemente buio e calmo, prendendo profonde boccate d'aria.
Era martedì. Era martedì ed era l'una e un quarto, soprattutto. Se si fosse incamminato ora sarebbe arrivato ai tre quarti nel punto stabilito da Axel.
Iniziò a camminare, incerto. La fiumana di studenti si era quasi del tutto diradata quando si diresse verso Station Plaza, infilandosi in Market Street non appena ne ebbe la possibilità.



Ad Axel non era mai piaciuto aspettare.
Non sapeva se in quel momento lo frustrasse di più il fatto che palesemente il biondino non sarebbe venuto, o che lui lo stesse ancora aspettando come un cretino quando erano le tre e un quarto. Prese un tiro nervoso dalla sigaretta accesa tenuta tra le labbra, sbuffando immediatamente il fumo fuori.
Viveva in quella città da qualcosa come tutta la vita, eppure non lo aveva mai incontrato uno che lo facesse sentire così tanto quasi-incazzato. Nemmeno Zexion ci riusciva così bene ed erano ormai sei anni che se lo ritrovava anche la domenica mattina alle prove con Demyx o addirittura nella stessa cazzo di Organizzazione.
Doveva avere un talento naturale. Lo potevano seriamente arruolare, insomma, sai che sfizio mandarlo a parlare con la gente come addetto alle pubbliche relazioni, non c'era neanche da sbattersi più di tanto il culo per farsi odiare.
Sarebbe stato il loro cavallo di battaglia. Roxas, detto Lo Scazzo Del Destino, Il Fracassatore di Balle Silente, Lo Sfrangiatore Solitario. Di certo i nomi di battaglia non mancavano.
La verità era che gli rodeva terribilmente la sua indifferenza, ecco. Insomma, aveva tredici anni fra il sì e il no, ed era La Chiave Del Destino e tutto quello che volevano i Superiori, ma era impossibile che un ragazzino fosse già ridotto così alla sua età.
Lui a tredici anni tirava su la gonna alle ragazze, anche se alla fine non aveva mai capito dove fosse la parte divertente della cosa. Okay, le mutandine erano carine nella maggior parte dei casi, ma era ben poco intrigante vedere un millesimo di pelle e dover correre via come inseguiti dalle Furie.
Lanciò via la cicca della sigaretta, pestandolo sotto lo stivale in pelle.
Era solo un ragazzino complicato. Solo un altro soggetto da studiare.
Non sarebbe stato troppo difficile. Li conosceva i ragazzini come lui. Sarebbe bastato qualche altro sorriso con gli occhi puntati nei suoi, una carezza fra i capelli, un bacio sulla fronte per scaldarlo come se la sua esistenza valesse davvero qualcosa.
Li aveva trovati quasi tutti lui gli altri dell'organizzazione. Da quando Saïx era diventato il braccio destro del capo e l'unico sottoposto era lui.
Era solo un'altra missione ed era quasi certo che sarebbe finito come per la maggior parte delle altre. Un fallimento.
A Twilight Town non c'era niente da spremere, nessuna polpa succosa sotto la scorza rigida.
C'era solo da grattare il grasso putrido sulle viti delle giunture, sporcarsene le mani per scoprire i meccanismi, c'erano solo cunicoli stretti come una gabbia in cui scavare per cercare una via di fuga. C'era la sensazione di essere solo un chiodo piantato storto, immerso fino alla testa nel marciume sanguinolento delle fondamenta. Ed il suo lavoro era sguazzarci, nel marciume.
Ghignò, infilandosi le mani in tasca. Le aveva notate, le gambe del ragazzino.
Dritte come due lame, magrissime, piccole e nervose. Le rotaie della Stazione.
I binari della città. Si accese una nuova sigaretta, assottigliando lo sguardo.
Sarebbe stato facile, facilissimo. Doveva solo aspettare che i meccanismi della città tornassero ad ingranare e poi bloccarli al momento più opportuno.



Gli era apparso alle spalle all'improvviso.
Doveva essere un'abitudine. Roxas diede una leccata lentissima al ghiacciolo al sale marino, sentendo la lingua che si appiccicava al ghiaccio e si faceva trascinare a fatica fino alla punta.
Non sapeva da quanto tempo era lì. La sua presenza si era concretizzata di colpo, nettissima, investendolo con la potenza che emanava tutto il suo essere.
Aveva qualcosa di disumano. Aveva qualcosa di catalizzante.
Roxas socchiuse le palpebre, lasciandosi graffiare dalla luce del Sole. I mattoni avevano un colore sanguigno, sporchissimo e talmente denso da far venire la nausea. Roxas lasciò cadere il bastoncino del gelato giù dalla torre, seguendolo con lo sguardo.
Passò il dito sui pantaloni, come per controllare che fossero asciutti e non pregni della materia di quella città. C'era una polvere sottilissima e ruvida dello stesso colore del cielo in ogni cucitura, annidata in fondo alle tasche e alle scarpe, nel risvolto svogliato dei pantaloni.
Era pieno fin dentro l'anima di Twilight Town. Lo macchiava come una malattia della pelle, s'infiltrava nei polmoni e lo corrompeva fin dentro le cellule, gli toglieva il respiro e lo incatenava lì, con le dita incagliate ai mattoni e le gambe nel vuoto. Sarebbe bastata una spinta e la città l'avrebbe avuto del tutto, senza che lui ne soffrisse più.
Axel emise un respiro tremulo, tossendo rauco con la sigaretta fra le labbra.
Ne sentiva l'odore penetrante, riuscì ad immaginarlo contro la parete a fumare ancora prima di voltarsi. Lo fissò per un secondo, girandosi lentamente come se non riuscisse a distogliere gli occhi da lui.
Axel sorrise e si avvicinò, sedendosi accanto a lui. Non si faceva alcuno scrupolo a soffiare il fumo fuori dalle labbra, ed anche se l'aria era fermissima Roxas sentì la puzza farsi più intensa, tagliente.
Non aveva detto una sola parola. Il che valeva per entrambi, ma Roxas non aveva mai la certezza di sapere se i suoi pensieri erano rivolti a sé stesso o ad Axel.
Era una sensazione terrificante. Era come sentirsi spaccato in due, dilaniato lentamente da lame poco affilate che straziano più volte la carne prima di riuscire a spezzarla.
«Non sei venuto alla riunione» disse Axel dopo minuti, forse ore, in cui ogni secondo era caduto giù dalla torre come una perla da una collana spezzata, infrangendosi nell'istante stesso in cui un'altra pietra si staccava dal filo ed iniziava il suo volo nell'aria.
Scosse la testa, pianissimo. Aveva di nuovo saltato un pasto e si sentiva permeato di una debolezza vaghissima, sibillina. Immaginò com'era stato affondare i denti nella pizza mangiata con Naminé, ma l'immagine era contorta, incrinata. Il ricordo stava già svanendo.
Picchiettò la lingua sui denti, senza dire niente. Era una di quelle persone profondamente mediocri che si sforzano di rispondere sempre alle domande, anche se non conoscono la risposta o non ce n'è alcun bisogno. Dava la sua risposta, poi s'inceppava e non sapeva cosa dire per continuare il dialogo. Era il vecchio grammofono rotto che ricordava nella villa degli amici di famiglia.
Un momento. Era davvero quello il luogo in cui aveva visto il grammofono?
Sì, c'era un centrino di pizzo sotto e... e... un gatto. Un gatto con il pelo nero, lucidissimo, e c'era la signora Leonhart che-
Aggrottò le sopracciglia. Cosa c'entrava la nuova moglie di suo zio? Non stava parlando di lei. Non era suo il gatto. O forse sì?
Axel lo scrutava attentamente, divorando il suo profilo con gli occhi scattanti, rapidissimi.
«Perché non sei venuto, Roxas?»

-versava il tè nelle tazzine piccolissime, e la bambola di Olette era cadut-

«Non mi sentivo bene».

-a in fondo alla piscina, lucida e profonda sotto-

«Stai mentendo».

-il sole, e c'era il sorriso di Riku e le fossette e la piega morbidissima delle sue-

Roxas sobbalzò, raggomitolandosi in un bozzolo tremante fatto delle sue gambe e delle sue braccia.
Axel sorrise aspro, facendosi più vicino. Allungò le mani con lentezza, poggiandone una sulla sua schiena e l'altra fra i suoi capelli, lievissimo.
«La senti, non è vero?» sussurrò, tirandogli una ciocca senza fargli male, attorcigliandola attorno al dito affusolato. «Senti l'interferenza e non sai più cosa sia vero e cosa sia falso, e sai che qui – gli sfiorò il petto con la punta dell'indice, sfiorandogli la tempia con il naso – dovresti sentirti sconquassato e continuare a soffrire come hai fatto ieri, ma non ci riesci».
Roxas tremò violentemente fra le sue mani, lasciandosi sfuggire un singhiozzo esausto.
Non era umano, non era possibile che riuscisse a decifrarlo così. Si abbandonò alle sue carezze distaccate, tentando di tornare... calmo.
Era tutto un ossimoro. Non sentiva niente eppure singhiozzava, si sforzava di calmarsi eppure non c'era niente in lui che si agitasse.
Axel aspettò che tornasse a respirare lentamente, facendo cadere la sigaretta a metà come lui prima aveva lanciato il bastoncino del ghiacciolo. Gli pizzicò delicatamente una guancia, rendendola più colorita, per poi tornare a fissarlo con quegli occhi vividi.
«Roxas, ascoltami. Fra pochi giorni faremo un'altra riunione e mi serve tempo, ma giuro che ti spiegherò tutto e che riuscirai a capirci qualcosa, se mi stai ad ascoltare e ti presenti la prossima volta.» Lo carezzò di nuovo, lentamente, sentendo le dita impigliarsi nei nodi dei capelli e poi scioglierli con la minima forza.
Roxas annuì, alzando il viso per guardarlo negli occhi, battendo le palpebre per cercare di cacciare il bruciore fastidioso, arricciando il naso come se vi si fosse posato sopra una mosca molesta.
«Verrai, la prossima volta?» sbuffò, soffiandogli sul viso.
Annuì di nuovo, pianissimo.
«Voglio sentirtelo dire, l'ultima volta hai annuito e ti sono dovuto venire a cercare».
«Verrò» pigolò, e dicendo un'unica parola gli sembrò di aver parlato per ore.
Axel piegò una gamba, lasciando scivolare l'altra oltre il bordo della piattaforma in cima alla torre. Osservò il cielo per qualche minuto, la gola pallida lasciata scoperta dal mento alzato.
Aveva l'aria leziosa da gatto, così rannicchiato e proteso verso la luce. Il taglio affilato dei suoi occhi rendeva il suo profilo quasi più bello del viso visto frontalmente, ma Roxas pensò che doveva essere bello tutto di lui, e che ciò era quanto più di tutto lo rendeva pericoloso.
L'altro iniziò a parlare solo dopo diverso tempo. Aveva una voce vibrante ed anche se le sue parole erano per lo più ironiche e graffianti rimaneva piacevole da ascoltare.
«Il gruppo di persone che hai visto l'ultima volta fa parte dell'Organizzazione» iniziò, grattandosi la nuca. «Per ora siamo in dodici, ma con te saremmo tredici, ed è anche abbastanza sorprendente visto che non contavamo di racimolare più di sette o otto persone».
Roxas cercò di fare mente locale. Ricordava solo Zexion e Demyx, conosceva Axel e aveva sentito più volte parlare di un certo Saïx. Era allo sbando.
«Comunque» continuò Axel, guardandolo con la coda dell'occhio. «Non so quanto ti posso dire, per ora, ma i tizi che stanno ai piani alti dell'Organizzazione pensano che... tu possa essere come noi».

-ciglia ed i capelli rossissimi e le labbra sorridenti e-

Annaspò per qualche secondo, scosso. Axel gli prese la mano fra le dita lunghissime, stringendole come se potesse ancorarlo a sé e compattarlo solo tenendolo tutt'intero con le mani.
«Ancora l'interferenza?» chiese, con una lievissima screziatura d'ansia nella voce. «Mi senti chiaramente, vero?»
«Sì» disse, e puntò deciso gli occhi nei suoi. «Cosa sono io, Axel?»
«Sei un Nessuno, Roxas. Lo sono anche io».
Un Nessuno. Non c'era poi tanto per cui essere sorpresi.
«E cosa comporta essere un Nessuno?»
«Non provare sentimenti» rispose dopo qualche secondo Axel, studiandolo con occhi attenti. «E non avere un posto in questa città, Roxas».
Ci fu un attimo di silenzio, pesantissimo.
Era come se anche il tempo volesse fermare quella conversazione, tanto che il cielo s'inscurì come di botto, diventando di quel color sangue in bilico fra la notte e gli ultimi rimasugli di giorno.
«Qual è lo scopo dell'Organizzazione, Axel». Non era una domanda.
«Fuggire».



«Che città del cazzo».
Axel si sedette su una panchina, sporco di sudore e polvere come se fosse rotolato giù per Market Street fino alla sua scuola. Roxas lo guardò inespressivo, la testolina inclinata di lato, il colletto troppo stretto della divisa che gli lasciava un segno rosso sul collo pallido.
Era piccolo da fare schifo. Lo osservò per un po', studiandolo con gli occhi socchiusi.
Aveva un visino sottile, con un'ombra di sfacciataggine infantile smorzata dagli occhi sempre spenti; un naso minuscolo e sempre rosso sulla punta, una fronte liscia da cui si scostava continuamente le ciocche più lunghe.
Reclinò il capo all'indietro, aspettando che il vociare allegro degli studenti sfumasse prima di parlare, poggiando i gomiti allo schienale della panchina.
«Hai pensato a quello di cui abbiamo parlato alla riunione?».
Roxas alla riunione non ci aveva pensato e basta. Aveva ancora la divisa nascosta in fondo all'armadio, insaccata nella busta di plastica nera che gli aveva lanciato Xaldin.
Indossarla avrebbe significato entrare a far parte dei loro piani, ammettere di avere qualcosa di sbagliato - il chiodo che sporge viene preso a martellate, gli avevano insegnato da bambino, quando sua mamma gli abbottonava il grembiule prima di spedirlo alla scuola elementare.
A Roxas piacevano le schegge all'estremità di un bastoncino spezzato di ghiacciolo, le macchioline scure sul suo davanzale, la sensazione ruvida del muro contro la tempia durante una lezione, l'odore neutro e morbidissimo delle lenzuola appena sveglio.
Lui era niente, era nato per essere una decorazione della vita altrui. Non facevano per lui complotti, missioni segrete, rivelazioni scioccanti. Il suo compito era accompagnare Naminé alla morte e poi dissolversi in un riverbero del tramonto, scomparire nel bruciore agli occhi di un lampo di luce riflessa, borbottare e spegnersi lentamente come i vecchi e cigolanti treni della stazione.
«Roxas? Hai sentito quello che ho detto?»
«No, non ci ho pensato».
Axel sbuffò, piegando le labbra in un sorriso ironico. Sempre scostante come un gattino.
«Ti accompagno a casa» disse, alzandosi lentamente.
«No.»
Si bloccò, guardandolo sorpreso. Era il primo rifiuto secco che sentiva da lui.
«Come?»
«Ho detto di no».
«Perché?»
«Ho altro da fare» mugugnò, arricciando il nasino con quel fare irritato che sfoggiava ogni tanto, come se si ricordasse di colpo di doverlo tenere lontano.
Axel ghignò, chinandosi su di lui. Gli arrivava appena al-
«Quindi adesso me ne vado. Ciao.» lo salutò svogliatamente, correndo via con la cartella che rimbalzava sulle spalle, il pupazzetto attaccato alla cerniera che saltellava impazzito.
-l'ombelico ed era uno stronzetto tremendo.
Lo guardò allontanarsi e fermarsi di colpo davanti ad un gruppo di ragazzetti che, diamine, erano alti nemmeno dieci centimetri più di lui. Una generazione di nani.
Immaginò il suo faccino imbronciato ed astioso se l'avesse seguito per tutto il pomeriggio, facendosi vedere ogni tanto solo da lui per farlo arrabbiare.
Era apatico da metter depressione ma aveva un faccino così espressivo che poteva anche essere empatico come un badile, era espressivo lo stesso.
Scrollò le spalle, lanciandogli un'ultima occhiata obliqua, per poi scomparire in un vicoletto.
Roxas lo spiò da sopra la spalla sottilissima di Olette, distogliendo lo sguardo solo quando l'ultimo lembo dell'impermeabile fu scomparso dietro l'angolo.
«Vieni! Ti portiamo al nostro posto segreto!» esclamò Pence, stranamente su di giri.
Si lasciò trascinare via, la mano sudaticcia di Hayner stretta al polso.
The usual spot. Una grata di metallo divorato dal tempo, casse di legno come sedie.
Una tenda rossa e stracciata a coprirne l'ingresso. Spazzatura pregna di ricordi ammassata ovunque.
Sedette scompostamente su uno scatolone pieno di vecchi libri di scuola, strappato in più punti.
Hayner, Pence e Olette si disposero come se fosse tutto già predisposto, lanciando all'unisono gli zaini in un angolo, gli stessi sorrisi ugualmente brillanti sul viso.
Roxas li osservò silenziosamente dalla sua postazione, guardandoli estrarre le mazze da Struggle da un sacco polveroso in un angolo, raccattare le biglie colorate e cercare quelle mancanti in ogni angolo e anfratto polveroso, impegnati a contare e ricontare e litigare perché l'uno confondeva l'altro e i conti non tornavano mai.
Erano di una purezza che sconquassava l'anima, semplici e in sintonia come linee parallele.
Li aiutò a preparare tutto e ci volle quasi un'ora prima che potesse iniziare a combattere, scontrandosi contro Hayner e Pence a turni, instancabile come non gli capitava da anni. Sembrava d'essere ritornato in mezzo all'erba, agli arbusti, sulla terra a tratti petrosa della campagna ruvida, domata con la forza. Un'ora passata in fretta come fosse rotolata giù da un colle.
Assestò un colpo netto al polpaccio di Hayner, infilando lesto la manina nella sacca aperta che gli pendeva dalla cintola. Non riuscì a prendere più di quattro biglie, ma le intascò velocissimo, allontanandosi con un balzo. Tornò ad attaccare, schivando due suoi colpi alle gambe, punzecchiandolo con la mazza da Struggle senza osare lanciarsi in un vero attacco.
Hayner piantò i piedi in terra, lanciandosi su di lui con un fendente che Roxas incassò a fatica, annaspando. Sentì la spalla sconquassata dal colpo, percepì ogni articolazione vibrare e gemere e tirare come gli avessero scavato la carne con le unghie e reciso i muscoli a morsi, strappando le ossa dalla loro posizione e lasciandolo agonizzante in quell'unica frazione di secondo.
Olette urlò, correndo in suo aiuto quando si accasciò con un sibilo, ritraendosi quando Roxas iniziò a ridere, ridere, ridere, ridere. Era vivo!
Era vivo, era vivo, era vivo; aveva occhi, naso, bocca, mani, piedi e braccia per vivere, aveva sangue nelle vene, ginocchia lucide e tonde come i fondi delle tazze in cui faceva colazione la mattina, nocche da far scrocchiare dopo ore passate a scrivere, un cuore marcio ed avariato che era pur sempre un cuore. C'era il sole, c'era la pietra, c'era la pioggia, c'era Market Street con le sue duecento mattonelle di colore più scuro, c'erano le campane ridicolmente enormi del campanile.
Era vivo! Non importava Sora, non importava Riku, non importava la mazza da Struggle che ruzzolava sotto un cesto di vimini in bilico su due cartelloni arrotolati.
Cos'era l'Organizzazione davanti al dolore lancinante della vita che s'abbatte sulla tua spalla, che ti butta a terra con il fiato splendidamente infranto, la gola arsa dalle risate? Cos'era lui stesso davanti alla vita, piccolo e misero e infelice, indegno di ogni briciola d'ossigeno che lo riempiva?
Era la vita, la vita, la vita quel che importava e per la prima volta se ne rendeva conto, la sentiva stretta fra le mani, liscia e meravigliosa come un vestito della stoffa più pregiata.
Avrebbe potuto guarire Naminé, avrebbe potuto farle vivere centinaia di anni di felicità solo portandole quel secondo di dolore come le avrebbe portato ogni giorno un ghiacciolo per l'eternità.
Faceva male vivere. Faceva male l'aria stantia che scivolava lungo la sua gola, faceva male il pavimento ruvido che gli raschiava la schiena scossa dal riso.
Si alzò a sedere lentamente, guardando con un sorriso le facce sconvolte degli altri. Hayner stringeva ancora nella mano la mazza da Struggle, fradicio per il caldo asfissiante e per la fatica.
«Mi hai fatto malissimo, stronzo!» esclamò, tirandogli una biglia sul naso.
Olette rise, dapprima timidamente, poi sempre più forte. Si accucciò vicino a lui, togliendogli i capelli dal viso e tastandogli teneramente la spalla per controllare che fosse tutto a posto. Continuava a sorridere, e forse fu per il sole, forse per l'ebbrezza del momento; i suoi capelli si schiarirono per un momento ed anche la pelle, per un secondo chiuse gli occhi e gli parve d'aver davanti Naminé.
Tornò a casa con le mani impiastricciate di gelato e polvere, pieno di lividi e graffi.
L'impermeabile nero rimase per una settimana nell'armadio.
Poi fu come se non tutta la sua vita fosse sempre stata così.



La campanellina sulla porta trillò allegramente, annunciando il loro ingresso nel locale.
La scuola era finita da quattro giorni, ormai. La luce soffocante di Giugno, rossa come le prime ciliegie, rischiarava con le sue sfumature sanguigne anche la notte che sempre più si attardava prima di calare. Si viveva di granita, di skateboard e di quaderni stipati nei cassetti.
Non aveva più visto Axel. S'era dissolto nella curva secca di un vicolo, nelle sue intricate macchinazioni e nelle irrilevanti chiacchiere con cui l'aveva attirato quasi sull'orlo del baratro.
Si sedette al tavolino mentre Hayner e Pence andavano a salutare Aerith, la cassiera, cercando di ordinare quattro pizzette nel maggior tempo umanamente possibile.
Di Olette non c'era ancora nessuna traccia. L'avevano aspettata per venti minuti alla fermata del tram, quella dove da cinque anni precisi precisi c'era appeso il volantino della festa al mare di Tifa, con il sorrisone luminoso e il “Vi aspetto!” mal posizionato che le copriva un occhio.
Vi aspetto!”. Alla fine la festa non la si era nemmeno fatta. Se lo ricordava benissimo perché Sora era stato così esaltato per un invito ad una festa dei ragazzi delle superiori, quando lui aveva appena finito la prima media.

-dieci cucchiaini sporchi lanciati alla rin-

Si mise a frugare fra le bustine di zucchero nel centrotavola mentre ripensava a quel periodo. Lui ovviamente era stato invitato in vece di fratello di suo fratello, senza che nessuno si fosse ricordato che si era buscato la peggiore insolazione della storia facendo la corsa campestre una settimana prima e che probabilmente non avrebbe potuto vedere il sole per i restanti due o tre secoli, ma a chi importava, alla fine?

-boccoli arricciati con la punta delle d-

Scosse la testa, schiacciando i palmi ridicolmente piccoli sugli occhioni chiusi. Di nuovo l'interferenza. Vietato pensare, vietato ricordare, vietato nominare Axel.
Axel. Sospirò, sentendo lentamente tutta la sicurezza artefatta scivolare via da lui, spezzando una delle bustine di zucchero per versarselo sulla mano. Si mise a disporre i granelli con la punta dell'indice, soffiando via quelli che s'incastravano nei solchi fra le dita rigide e vicine.
Questa volta era stato lui a voler sparire. Axel era l'anello che lo incatenava all'apatia, al nero putrido dell'impermeabile nascosto sul fondo dell'armadio.
Si sentì di nuovo il tintinnare del campanellino sulla porta. Aerith smise di ridere per sorridere ai nuovi clienti, sobbalzando quando si ritrovò ad essere fulminata da uno sguardo omicida.
Zexion Leroy - quinto anno, migliori voti dell'intero liceo, prossimo ad affrontare l'esame di maturità – attraversò il locale con il passo di chi preferirebbe immensamente essere in un vicoletto della città a scarnare viva la causa della sua incazzatura.
Roxas si strozzò con la propria saliva, accucciandosi dietro il bordo del tavolino per non farsi vedere. Demyx entrò nel bar dopo pochi secondi, seguendo il fidanzato con aria preoccupata.
Aerith li fissò per qualche secondo picchiettando le dita sul bancone, mordendosi il labbro: avrebbero dovuto prendere qualcosa per poter rimanere ai tavoli. Tornò a controllare le pizzette nel microonde, fissando il timer mentre lanciava di tanto in tanto degli sguardi alla coppia di clienti. Porse il piattino ad Hayner e Pence, incrinando le labbra in un sorriso cordiale che era solo lo spettro di quello di prima.
«Calmati, Zexion, calmati» sussurrò Demyx, dando uno strattone al separé che all'occorrenza poteva essere posto fra i tavolini.
«Io sono calmissimo» ribatté Zexion, facendo stridere i denti nel richiudere la bocca.
Roxas scivolò fino a dar loro la schiena, tendendosi involontariamente per poter sentire cosa dicevano. Hayner e Pence si sedettero davanti a lui, guardandolo di sottecchi per poi cominciare a parlare di Struggle fra di loro, azzannando le loro pizze.
Distese le gambe sul divanetto e poggiò la schiena alla parete, la tempia contro il separé per non perdersi un movimento delle loro ombre.
«E-ecco... ma cosa è successo, Zexion?».
Sussurri. Roxas poggiò il capo al separé per poter sentire meglio, corrucciando le sopracciglia per fingere un lieve mal di testa. Rimestò il milkshake che aveva ordinato con la cannuccia grossa come un dito, osservando l'ombra più alta di Demyx curvarsi su quella di Zexion fino ad inglobarlo in un abbraccio.
«E' tutta colpa di quel ragazzino» ringhiò in risposta, sforzandosi di tenere la voce bassa. «Axel si è fatto asportare il cervello, oppure ha deciso improvvisamente di donarlo alla scienza – e per carità, presentatemi il premio Nobel che ha avuto il coraggio di esaminarlo, ho paura che scoprirà un intero universo di germi e malattie stipato in un chilo di materia grigia marcescente».
Soffio nervoso di Demyx che cercava di non ridere. Il re della sintesi era incazzato.
«Che ha combinato Axel, Zexion?»
«Niente. E lo sai cosa? È questo il problema.» sibilò, la voce vibrante eppure moderata come sempre. «Gli abbiamo dato un unico ordine e lui non ha fatto assolutamente niente. E mi sento come Yen Sid quando affermò che c'è più di un mondo e nessuno lo ascoltò quando era vero, perché l'ho sempre detto che sarebbe stato come avevo annunciato quando Axel ha poggiato il culo per la prima volta sulla sua poltrona».
Demyx se lo strinse contro, mettendolo a tacere con un bacio in uno slancio d'audacia che forse non si poteva permettere. Zexion non si oppose e non ricambiò neanche e la sua ombra si fuse a quella dell'altro senza che Roxas fosse più in grado di distinguerli.
Il milkshake finì dopo pochi sorsi, lasciando la cannuccia a succhiare il fondo del bicchiere con il tipico suono di risucchio. Lo poggiò sul tavolino lentamente, distendendo i muscoli del collo per rilassarsi – Aerith si avvicinò per portargli una nuova bibita, il sorriso come sempre sul viso.
Zexion e Demyx non avevano ancora ripreso a parlare. Non sembrava si stessero ancora baciando – il pensiero pose Roxas in una situazione difficile, a metà fra l'interesse e la repulsione; dopotutto non potevano provare sentimenti, dunque perché baciarsi?
Axel poteva avergli mentito. Non aveva motivo per credere nelle sue parole, non lo conosceva e gli aveva rivelato di averlo spiato per settimane al punto da sapere a memoria ogni momento della sua routine giornaliera. Era pericoloso e inquietante, lo aveva preso di peso e trascinato in mezzo al nulla solo perché lo aveva scambiato per un'altra persona. Era ridicolo anche solo riflettere sulle cose che gli aveva detto – l'interferenza, poi. Gli stava palesemente mentendo e non esisteva alcuna interferenza, i suoi ricordi erano confusi perché per giorni era stato stanco e non mangiava da giorni, non c'era niente di cui preoccuparsi.
Chiuse le palpebre, tornando ad ascoltare la voce ora più distesa e calma di Zexion, il chiacchiericcio di Hayner e Pence in sottofondo.
«Dovrebbe solo eseguire gli ordini e non causare altri problemi all'Organizzazione» sussurrò, poggiando la testa al separé e causandogli un colpo al cuore. Era vicino, vicinissimo.
«Ci sono stati... problemi?». Demyx continuò a carezzargli i capelli con gesti lenti come a rabbonirlo, moderando la sua voce sempre squillante in un mormorio pacato così che non lo irritasse. Era la prima volta che gli capitava di vederli insieme da così vicino e mai avrebbe pensato che Zexion potesse essere così accomodante se trattato nella giusta maniera – e, viceversa, che Demyx potesse conoscerlo tanto intimamente.

-le mani piccole e pallide strette attorno alla sua go-

«Marluxia, come sempre» un sospiro, rumore di un bicchiere che viene sollevato e posato sul legno in un breve lasso di tempo. «Il suo tentativo di prendere potere all'interno dell'Organizzazione diventa sempre più evidente – e ai Fondatori non piace, ovviamente.»
Roxas si tese, schiacciandosi più che poteva contro il separé. «Come se esistesse davvero una cosa come il potere, in questa città» continuò Zexion. «Siamo tutti alla stregua di topi, una volta trovata la via d'uscita nessuno ricorderà più chi era il capo e chi il sottoposto».
«E... tu sai niente di cosa stia facendo Marluxia?»
Ci fu un momento di pausa. A Roxas sembrò di slittare da una parte all'altra della sua mente come se non fosse più in possesso nemmeno dei suoi pensieri, e quando finalmente Zexion riprese a parlare si riempì la bocca di milkshake per non lasciarsi sfuggire nemmeno un mugugno.

-l sapore acidissimo delle more acer-

«Penso che c'entri qualcosa con Naminé.» (Roxas deglutì in un sol colpo, i denti che sbattevano forte l'uno contro l'altro nell'irrigidire la mascella.) «Marluxia è sempre là a quella sua villa, si comporta come se non stesse per morire da un giorno all'altro».
«...Naminé?» chiese Demyx, sforzandosi di tenere il tono di voce basso. «Chi è Naminé?»
«L'amichetta di Roxas – e la schiavetta di Marluxia, a quanto sembra. Penso voglia approfittare della sua malattia e conoscendolo ne sarebbe perfettamente in grado».
Roxas strinse i denti, ignorando il saluto che Olette gli rivolse quando finalmente riuscì a raggiungerli al bar. Non riuscì a mandar giù una sola goccia di milkshake in più e per fortuna Zexion e Demyx rimasero in silenzio fino al momento in cui decise di andarsene.



C'era sempre stato qualcosa di sbagliato nel modo in cui la polvere cadeva nella stanza di Naminé.
Era su ogni mobile, ogni giorno. Si annidava nel pelo folto dei peluches allineati sugli scaffali, nelle intarsiature della cassapanca davanti al letto matrimoniale.
Roxas ricordava che da bambino, dopo le ore passate sul tappeto della piccola e pallida Naminé bambina a disegnare, ogni sera tornava a casa con un po' di polvere fra i capelli e sul naso, come se avesse giocato in una dimora infinitamente vecchia e abbandonata.
Le pareti erano bianche, cangianti. Sfumavano sul rosa durante i tramonti eterni dei pomeriggi, si spegnavano macchiandosi di grigio sul calar della sera. In primavera la grande finestra che s'affacciava sul bosco restava spalancata ed il sole picchiava tanto forte da costringerli a stare con gli occhi – così azzurri e simili – socchiusi e lacrimanti.
Adesso che la vedeva a letto, talmente sparuta e fragile che persino lui, piccolo com'era per la sua età, aveva l'impressione di poterla stringere e custodire fra i palmi, cullandola e proteggendola da quel sole irrispettoso che continuava a brillare, rendendo ancora più evidente il suo esangue pallore.
Roxas rimase a sedere sul bordo del materasso per quasi tutta la mattinata, aiutandola a disegnare in silenzio. Ogni tanto s'alzava ad un cenno di Naminé ed appendeva un disegno finito alla parete, ovunque ci fosse ancora uno spazio vuoto sull'intonaco color panna.
Si perse per un istante ad osservare le figure acerbe dei disegni più vecchi, appesi al centro della parete. C'erano fiori, spiagge, canarini tinteggiati d'un giallo così brillante da illuminare l'intera parete. Alzò lo sguardo al soffitto – al cielo, al cielo blu che copriva l'intera superficie della parete, alle stelle tratteggiate come minuscoli puntini di bianco, alle stelle più nette e colorate che costituivano la costellazione preferita di Naminé.
Aveva vivida nella memoria l'immagine di lei bambina sulle spalle di Marluxia, intenta a dipingere quel cielo come se nulla di più importante ci fosse al mondo. Il pennello nella manina, il naso sporco di vernice, lo sguardo già così tiepido e limpido come lo sarebbe stato nell'adolescenza.
Roxas continuò a pensarci per un po', la mano poggiata al ritratto di un cane randagio che per un'intera estate si era aggirato nelle vicinanze della villa. Ricordava con chiarezza quasi ogni giornata passata con Naminé; sbiadivano i colori ed i dettagli, ma le memorie erano lì, intatte, senza interferenze.
Assottigliò lo sguardo, concentrandosi: provò a ripensare ad una festa di compleanno di Sora, cercando di tracciare nella mente gli avvenimenti – subito il filo conduttore dei suoi ricordi iniziò a incastrarsi in altri particolari, a rimanere impigliato in dettagli in bilico fra la certezza ed il dubbio.
Marluxia scivolò nella stanza, spingendo un carrellino con sopra l'usuale servizio da tè e i biscotti secchi ed insapori che aveva imparato ad associare a quei pomeriggi un po' uggiosi alla Old Mansion. Naminé sorrise e ringraziò in un soffio, lanciando al tutore uno sguardo benevolo e tranquillo – a Roxas si strinse lo stomaco e subito le crude parole di Zexion gli balenarono in mente, lasciandogli un nodo aspro in gola che lo attanagliava ogni volta che deglutiva a fatica la saliva.
Tornò a sedersi vicino a lei, prendendole una mano fra le proprie. Avrebbe dovuto dirle quanto aveva udito, avvertirla che Marluxia non meritava né il suo affetto né di starle vicino nella malattia. Aspettò che l'uomo fosse uscito, facendo poi per aprire la bocca e parlare – trovandosi un dito poggiato sulle labbra ed uno scuotimento negativo di capelli biondi e bloccarlo.
«Non essere impaziente, Roxas» disse, fissandolo con quel sorriso da Gatto del Cheshire che sottintendeva fin troppe cose. «Aspettiamo ospiti».
Si lasciò tirare da quelle braccia senza forza sul letto, prendendosi giusto il tempo per sfilare le scarpe dai piedi per non macchiare le coperte bianche. Si poggiò allo schienale, le gambe perse nella marea di lenzuola. La osservò mentre rimestava lo zucchero nel tè e ne prendeva un sorso – non avevano ospiti? -, perfettamente a suo agio.
Era la cosa più fottutamente esasperante del secolo. Roxas digrignò i denti, scalciando via le coperte con stizza. Era stanco di essere l'unico cretino a non saper nulla di nulla, nemmeno delle cose più elementari – era stufo soprattutto di essere sempre zittito con delle mezze verità, come se quelle spiegazioni del cazzo che gli aveva dato Axel non fossero palesi contentini per tenerlo buono.
Era stanco. Era stanco e quindi quella storia finiva lì, non voleva più averci a che fare. Basta. Stop.
Niente più riunioni e niente più interferenze senza senso, niente più strani sproloqui sull'avere o non avere un cuore – lo controllava sempre, il suo cuore. Prima di andare a letto e appena sveglio ed in ogni momento in cui potesse fare una corsa per sentirlo martellare forte e rassicurante come mai contro le costole. Non credo più alle vostre stronzate, ciao ciao, se volete fare una partita a Struggle ogni tanto fate un fischio. Non era difficile da dire.
Anzi, era tremendamente semplice. Lo era come lo sarebbe stato dire “ehi, è il mio regalo, giù le zampe” a Sora quando al loro decimo compleanno s'era impadronito sia della sua Playstation 3 che del suo Nintendo DS, come sarebbe stato facile dire “no” quando sua mamma aveva voluto tagliargli i capelli cortissimi perché così non sembri Sora (ahah, come se avessi mai avuto l'opportunità di assomigliare a Sora); sarebbe stato facile, ma non cambiava nulla: non l'avrebbe fatto.
Lisciò le coperte con il palmo della mano dopo averle rimesse a posto, un sospiro colmo di rancore e frustrazione dalla prima all'ultima molecola.
Prese il suo tè e lo sorseggiò lentamente, lasciando che il suo sguardo si perdesse nei meandri del cielo illusorio dipinto sulla parete. Chi erano gli ospiti che Naminé aspettava?
Ci fu un rumore assordante fuori dalla porta e Axel piombò dentro la stanza, seguito dopo poco da Marluxia – che era stato seguito a propria volta da una scia di petali di rosa, ma in uno sprazzo di lucidità in mezzo allo shock Roxas pensò che probabilmente quelli avevano ben poco a che fare con la loro discussione.
«Non sei autorizzato a stare qui, Numero VIII» disse Marluxia, piazzandosi deciso fra la porta ed il letto. «La villa è mio territorio, Axel, torna ad infestare la Torre dell'Orologio».
«Non dire stronzate, Marluxia» rispose, facendosi più vicino. «La villa appartiene all'Organizzazione e di certo tu non hai tutto il potere che credi di avere».
«Stai rivelando tutto a quel ragazzino!»
«Oh, non è vero un cazzo, non gli ho detto praticamente niente!» ruggì Axel.
«È proprio questo di cui vorrei parlarvi, in effetti» s'intromise Naminé, reggendo la sua tazzina con aria rilassata. «Non pensate che sia ora di fare un po' di chiarezza?»
Marluxia corrucciò la fronte, guardandola freddamente. «Naminé, non è tuo affare cosa-».
«Grazie, Marluxia» sorrise lei «ma finché rimarrò in vita sarò sempre io ad avere le redini, non trovi? Quindi è estremamente mio affare cosa deciderete di fare con i miei possedimenti fino alla mia morte».
Roxas rimase fermo a fissarla, le mani strette alle lenzuola. «Tu... tu sei dalla parte dell'Organizzazione!?». Naminé sospirò e intrecciò le dita alle sue, il viso stanco e pallido come dopo una lunga giornata a zonzo per la città.
«Roxas... io non faccio parte di ciò che loro chiamano Organizzazione» iniziò, articolando lentamente la sua spiegazione. «Non ne farai parte nemmeno tu finché non abbraccerai i loro ideali e non sarai a conoscenza della verità».
Axel si avvicinò, sedendosi sul bordo del letto con calma felina – abbassò lentamente la zip dell'impermeabile nero, il collo imperlato di sudore per la temperatura sempre elevata della camera di Naminé. Marluxia rimase in piedi, fissandolo serio dallo stipite della porta.
«Io... Naminé» sussurrò Roxas, guardandola negli occhi. «Dimmi che cosa sta succedendo, per favore».
«Non potrai tornare indietro, Roxas. Se accetti di essere un Nessuno ed entri a far parte dell'Organizzazione non ti sarà permesso tornare a fingere di essere completo» s'intromise Axel, guardandolo fisso negli occhi. Non era mai stato così serio ed allo stesso tempo caloroso, lo stava mettendo in guardia e rassicurando insieme. Non funzionava affatto.
Si limitò ad annuire e incrociò le gambe, preparandosi ad ascoltare Naminé.
«Vedi, Roxas... questa città è compromessa. Non so bene come spiegartelo ma da qualche tempo è come se esistesse solo per le persone che la abitano.» gli lanciò un'occhiata brevissima, riprendendo subito a parlare. «Axel mi ha raccontato di quando hai avvertito l'interferenza la prima volta; mi ha detto che ha sentito i tuoi ricordi vibrare nel suo cuore, confusi e rapidi, ma... stavi immaginando la campagna ed i tuoi parenti lontani, vero?». Roxas annuì di nuovo, scosso.
«Abbiamo provato ad avvicinarci a varie persone, a spingerle a confidarsi con noi e provare a parlarci dell'esterno, ma nessuna di loro sembra ricordare. Fatico io stessa a focalizzarla, ma sono sicura che fino a pochissimo tempo fa sotto la Torre dell'Orologio ci fosse una stazione ferroviaria che ora non esiste più – che è sparita nel nulla».
«Una... stazione?». C'era mai stata una stazione, a Twilight Town? Ricordava solo i mattoni scuri a cui si poggiava dopo ogni corsa per raggiungere la torre, la porta nera macchiata dalla ruggine che dava accesso alla chiocciola di scale metalliche. «Non la ricordo».
Naminé sorrise, annuendo. «Lo so, Roxas, quasi nessuno di noi la ricorda chiaramente – ma... cosa ci hanno insegnato su Twilight Town a scuola?»
«Twilight Town è una città dell'entroterra che basa la sua economia principalmente sul turism-» Naminé lo interruppe, guardandolo negli occhi. «Roxas, hai mai visto un turista?»
Ci fu un momento di silenzio, denso come il sudore sul collo di Axel, ruvido come le labbra screpolate sotto la lingua quando se le inumidì prima di parlare. «No, Nami, non ne ho mai visto uno.»
«Roxas, noi non sappiamo niente di quanto sta accadendo in questa città. Alcune cose spariscono, persone vengono dimenticate, intere memorie cancellate e riscritte. Sappiamo solo che noi – che voi resistete più degli altri e che non ci sono cure o vie di fuga note».
Marluxia fece un passo avanti, prendendo la parola. «Non siamo i soli a non aver dimenticato, anche altri si erano uniti all'Organizzazione – sono scomparsi tutti e tre e non abbiamo loro notizie da mesi».
«Ricordi Ventus? Il ragazzo per cui ti avevo scambiato?» gli suggerì Axel, ghignando appena sotto i baffi – se lo ricordava tremendamente bene, visto quel che aveva scatenato quell'incontro.
«Roxas, diventerai il tredicesimo membro dell'Organizzazione?» gli chiese Marluxia, mortalmente serio.
Scosse la testa, facendo inarcare una delle sottilissime sopracciglia di Axel. «Prima vorrei domandare una cosa, veramente: Naminé, se tu non fai parte dell'Organizzazione, allora cosa sei?».
«Io sono il vostro tramite, Roxas. Non sopravviverò ancora a lungo, ma voglio fare il possibile perché tu possa scappare e continuare a vivere lontano da qui».



#Giorno 6160 – Nota 1
Naminé mi ha consigliato di tenere un diario in cui annotare gli avvenimenti di ogni giorno.
Dice che mi farebbe bene, ma io non ne sono troppo sicuro.
Oggi c'è stata una riunione, ho finalmente conosciuto tutti i membri dell'Organizzazione. Sono ufficialmente un membro; non sono sicuro di provare qualcosa a proposito, Axel dice che è normale non sentire niente quando non si ha un cuore.


#Giorno 6161 – Nota 2
Ho aggiunto un titolo a questi appunti. Ho calcolato il numero mentre facevo una versione con Sora: sono al mondo da seimilacentosessantuno giorni. Zexion mi ha regalato un taccuino per darmi il benvenuto nell'Organizzazione, ora è dove scrivo il mio diario.


#Giorno 6162 – Nota 3
I dolcetti di riso sono buoni. L'orologio di Aerith ha suonato tre rintocchi mentre li mangiavo.


#Giorno 6166 – Nota 4
L'uniforme che mi avevano fornito era troppo lunga, mentre prendeva le mie misure Xaldin ha detto che era un impermeabile di scarto appartenuto a Zexion. Sono sollevato di non doverlo indossare per qualche giorno, a volte mi sembra di sentirla sfrigolare sotto il sole.
Riku ha comprato un nuovo telescopio, spero me lo presti se glielo chiedo per favore.


#Giorno 6170 – Nota 5
Continuo a dimenticare di aggiornare il diario. Me ne sono ricordato stamattina, Sora l'aveva trovato e voleva leggerlo – Riku gli ha detto che non gli avrei mai voluto bene se continuava ad essere così impiccione e per tutta la mattinata ho dovuto ripetere a Sora che gli voglio bene comunque. Posso volergli bene anche senza un cuore?


#Giorno 6175 – La Torre
Ogni giorno dopo una missione Axel mi accompagna alla Torre per mangiare un gelato al sale marino insieme a me. Gli sono stato affidato perché mi istruisse a dovere, ma non sono sicuro che anche questo faccia parte dei suoi incarichi.


#Giorno 6180 – Memoria
Ho chiesto ad Axel se lui non avesse paura di venire dimenticato dagli abitanti di questa città. Sembrava sorpreso. Mi ha detto che non dovevo preoccuparmi di questo, che le persone davvero importanti avrebbero conservato il mio ricordo nel profondo del loro cuore.
Questo vuol dire che io non potrò ricordarmi di loro?


#Giorno 6183 – Sorridere 
Fra due settimane ci sarà il torneo di Struggle. Pensavo che Hayner, Pence ed Olette non mi considerassero più loro amico, invece mi hanno chiesto se voglio ancora partecipare insieme a loro.
Oggi Riku è venuto ad allenarsi a casa nostra. Sono rimasto con loro in giardino, Kairi dice che se sorridessi più spesso sarei carino. Ho fatto le prove davanti allo specchio, prima di venire a letto.
Quando sorrido ho le stesse fossette di Sora.


#Giorno 6186 – Il tempo non passa
Io e Axel siamo di nuovo andati sulla Torre dell'Orologio assieme. Non ha detto quasi niente, era strano. Domani mi ha detto che passerà a prendermi presto, non so a che ora puntare la sveglia.

  • #giorno 6186 bis – È quasi mezzanotte, non riesco a dormire. Prima me ne ero scordato, ma oggi Sora è caduto dallo skateboard e non sa se potrà partecipare al torneo.


#Giorno 6193 – Sangue
Naminé si è sentita meglio in questi giorni ed è voluta uscire con me nei momenti in cui non devo stare con l'Organizzazione. Forse me lo sono solo immaginato, ma ho avuto l'impressione che ogni tanto tossisse sangue. Non penso di sentire qualcosa, c'è solo un peso sulla mia pancia e non so cosa sia. Ho di nuovo dimenticato di mangiare?
A volte la mia memoria fa brutti scherzi.


#Giorno 6197 – Regalo, forse
Oggi ho affrontato la prima “missione”. Mi ha accompagnato Xigbar sotto ordine di Saïx, perché è quello che meglio conosce le campagne dentro le mura. È una persona strana, non so se mi piace.
Abbiamo passato il pomeriggio a setacciare i campi a vuoto, per ore. Volevo passare a far visita a Naminé, far aggiustare la ruota che rischia di staccarsi dello skate, però Axel mi ha accompagnato a casa e penso di essermene dimenticato. Non voglio dimenticare Naminé, domani le porterò una conchiglia dello scacciapensieri sulla finestra di camera mia.


#Giorno 6199 – Topi 
Demyx mi ha prestato un libriccino. È piccolo e sgualcito.Parla di un uomo senza cuore che viaggia per i mondi e perde il senno per il dolore di non poter provare niente. È scritto a mano, però era bello come i libri stampati della biblioteca della scuola.
Forse di più. All'ultima pagina c'è scritto “Stiamo tutti in una fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle”. Sotto, sottolineato tre volte, c'è: “Qui noi valiamo meno di topi”.


#Giorno 6200 – Diverso
Fra due giorni c'è il torneo di Struggle. La caviglia di Sora è ancora gonfia.
Axel mi accompagna a casa quasi ogni giorno. È strano, è diverso dagli altri dell'Organizzazione.
Solo Demyx è più strano di lui. Ridono, spesso scherzano. Davvero non hanno un cuore come me?
Mi chiedo se anche io potrei sorridere così. Forse Kairi aveva ragione.


#Giorno 6203 – Amici
Abbiamo vinto. Sora è stato eliminato ai quarti di finali, non era mai successo prima.
Hayner mi ha preso sulle spalle e mi ha portato per tutta la città come un trofeo, poi tutti e quattro siamo andati a comprare un gelato al sale marino.
In mezzo alla folla mi era sembrato di vedere Axel. Solo un'allucinazione?


#Giorno 6208 – Dubbio
Domani è il nostro compleanno. Mio e di Sora.
Sora vorrebbe andare al mare. Esiste ancora, il mare? È lontano... non lo si vede nemmeno dalla cima della Torre dell'Orologio. Naminé mi ha invitato alla sua villa per festeggiare insieme il mio compleanno, vorrei solo che si sentisse bene almeno per un giorno.
Ancora una volta non so come sentirmi.


#Giorno 6209 – Axel
A casa di Naminé c'erano anche Hayner e Olette. Pence è arrivato poco più tardi, ha comprato un sacco di cose da mangiare con il fondo comune che tengono all'Usual Spot.
C'era come sempre Marluxia e verso sera è sbucato Axel accompagnato da Demyx che ha trascinato Zexion che ha chiesto supporto a Lexaeus. Non c'erano mai state tante persone al mio compleanno.
  • #Giorno 6209 bis – Axel mi ha accompagnato a casa dopo la festa. Ci siamo fermati a mangiare un ghiacciolo, lui mi ha chiesto se sapessi perché il tramonto è rosso.
    La luce è formata da molti colori e il rosso è quello in grado di arrivare più lontano.” ha detto. Non so se sia vero, forse stava scherzando. Ho sempre avuto problemi a capire gli scherzi.

  • #Giorno 6209 tris – Axel ha voluto leggere il mio diario. Forse dovrebbe essere una cosa privata, ma non ne sono sicuro. Secondo lui dovrei provare a scrivere di più. Quando sono salito in camera l'ho trovato ad aspettarmi sul davanzale.
    I baci hanno il sapore di gelato al sale marino.



#Giorno 6214 – 
Mi sono svegliato presto. Questa mattina non ci sono né Sora né i suoi amici.
Naminé è troppo stanca per uscire. Mi hanno detto che è per via della festa, che si è affaticata.
Ho fatto riparare lo skateboard. Forse-


 

Roxas alzò lo sguardo, la penna stretta fra le dita.
La luce gli ferì gli occhi per un istante prima che riuscisse a mettere a fuoco la figura di Axel, rannicchiato in bilico sul davanzale della finestra. Non aveva idea di come riuscisse a comparire dal nulla ogni volta, come se non avesse nemmeno dovuto arrampicarsi.
«Buongiorno, Roxas» disse, grattandosi una guancia con uno sbadiglio. Si sfilò gli stivali, lanciandoli sul pavimento per poter poggiare i piedi sul letto – aveva dei piedi lunghissimi, nodosi, con il secondo dito di poco più lungo dell'alluce. Tutto di lui era esasperato fino allo spasmo, dai capelli troppo rossi alle gambe troppo lunghe ai fianchi troppo stretti. Eppure, a modo suo, funzionava.
Roxas non gli rispose, continuando ad osservarlo un po' incerto. Indossava i pantaloni in pelle e gli stivali – ora sfilati – della divisa, però non l'impermeabile. Non lo vide nemmeno a pendere dall'albero davanti alla finestra di Sora, dove di solito lo lasciava quando faceva troppo caldo.
«Non mi dai nemmeno un bacio?» chiese Axel, sporgendosi per afferrare la manica del suo pigiama. Roxas annuì, avanzando goffamente sulle ginocchia per raggiungerlo, lasciandogli un bacio leggero sulla bocca. Sentì la sua mano posarsi sulla schiena un po' umida e non la scacciò, lasciandosi baciare in silenzio. Si staccò dopo pochi secondi, lo stomaco in subbuglio senza che ne riuscisse a capire il perché.
«Vieni, micio, ti porto a fare una passeggiata». Axel gli grattò i capelli vicino all'orecchio come avrebbe fatto con un gatto, fissandolo con un ghigno affilato. Roxas si limitò a scostarsi, lanciandogli un'occhiata offesa, raggiungendo l'armadio per tirare fuori i vestiti e cambiarsi.
Un tonfo ed era sparito dalla finestra. Senza nemmeno recuperare gli stivali.
Infilò pantaloni e maglia e si diresse in bagno, lavandosi i denti con le guance ancora piene dei segni del sonno. Aveva le palpebre pesanti e collose e subito si sciacquò il viso per far passare il fastidio perpetuo di quando ci si sveglia di colpo, nel mezzo di un sogno talmente vivido da far male. Roxas non ricordava di aver mai fatto un sogno che potesse definirsi tale, ma così diceva un libro che aveva letto per le vacanze e l'immagine gli era rimasta impressa – la stessa cosa che accadeva per le sue emozioni, dipinte a tratti leggeri ed impalpabili, troppo stilizzate per essere davvero comprensibili.
Uscì di casa dopo pochi minuti e si avvicinò ad Axel, poggiato alla ringhiera proprio dietro l'albero, dove nessuno sarebbe stato in grado di vederlo dall'interno della casa. Roxas gli si avvicinò e gli sorrise leggermente, tirando le labbra come si era allenato a fare nelle ultime settimane.
Si avviarono per le strade battute dal sole, la temperatura che si alzava con il procedere delle ore. Gironzolarono per la piazza e la campagna, parlando poco e spostandosi alla ricerca dell'ombra, gli occhi sferzati dalla luce e la pelle umida per il sudore.
Roxas si sedette su una delle panchine vicino alle aiuole di piante alte quasi due metri. Si poggiò sulle gambe il cartone con le pizzette e le patatine, iniziando a mangiare con il viso rivolto verso l'alto, lo sguardo fisso sul cielo eternamente sfumato di rosso.
Da quando era entrato nell'Organizzazione il tempo aveva iniziato a scorrere in maniera strana, singhiozzante. Di solito era scandito in maniera precisa, ugualmente lento e metodico.
Adesso era viscoso, in parte grumoso. Scorreva sulla pelle ma s'incastrava nelle pieghe, a volte si seccava e si doveva aspettare la pioggia perché riprendesse il suo flusso. Roxas aveva imparato ad amare la pioggia con il tempo, perché era l'unico momento in cui il cielo cambiava il suo colore e smetteva di macchiare di sangue ogni cosa.
Prese un morso di pizza e poi un altro ed un altro ancora, fino a che non rimasero solo la base unta del contenitore e la ciotola con le ultime patatine. Axel non aveva mangiato nulla, limitandosi a fissare lui e poi la piazza vuota, costellata di persiane chiuse e luci spente.
Faceva così caldo che anche l'aria che inspirava avrebbe potuto essere digerita, pensò Roxas. L'aria era statica, densissima, ricolma di umidità che gli s'incollava ai capelli e lo faceva sentire pesante e sfumato insieme, come se fosse ad un passo dallo sgretolarsi e l'afa tremenda lo tenesse insieme con il suo appiccicume colloso.
Ripresero a gironzolare pochi minuti dopo, iniziando la lenta scalata di Market Street quando il sole smise di essere a picco sulle loro teste, rifugiandosi di negozio in negozio sotto i parasole. Raggiungere la cima della Torre fu insieme un sollievo ed una condanna, visto che la pietra era tanto calda da scottare anche attraverso i vestiti. Roxas si sfilò la felpa che già teneva slacciata, tenendo la maglietta umida lontana dal petto e dalla pancia per far loro prendere un po' d'aria.
Axel sbuffò, facendo lo stesso con la propria maglia senza maniche. Rimasero in silenzio ancora un poco, poi Axel si voltò a guardarlo e gli chiese: «Ma tu quanti anni compievi l'altro giorno?».
«Diciassette.» rispose, dondolando i piedi ora nudi nel vuoto.
Lo sentì ridere e farsi più vicino. «Eddai, non mentire, non lo dico a nessuno che sei un bimbetto».
Roxas storse il naso, guardandolo male. «Guarda che ho davvero diciassette anni». Scavò nella tasca per cercare il portafogli, tirando fuori la tessera studentesca per fargliela vedere.
Lui gliela rubò di mano e rimase a fissarla per quasi un minuto intero. «Non so se sentirmi più sollevato perché non bacio da cinque giorni un tredicenne con disturbi mentali o se essere confuso perché alla tua età una mia gamba era lunga quanto te».
«Teoricamente non dovresti sentire nien-» «Sì, sì, lo so, è per dire che cazzo, sembri un bimbetto – anche Zexion crede che tu sia un ragazzino, era già tutto un fascio di nervi perché se ti portiamo con noi e falliamo nella fuga ci sbattono tutti in galera per rapimento di moccioso».
«Ma non eri tu quello che mi pedinava e sapeva tutto di me?».
«Oggi parli troppo».
«Mi avrà contagiato la tua logorrea».
Axel lo guardò di sbieco, restituendogli la tessera. «Comunque sì, ti seguivo e so cosa fai di solito e con chi passi il tempo, però fai talmente poca roba autonomamente che era come pedinare un albero». Si accese una sigaretta, sbuffando via il fumo con una smorfia scocciata, asciugandosi la nuca con il palmo della mano. Roxas schioccò la lingua con il palato, pensando che un ghiacciolo in quel momento sarebbe stata la cosa migliore possibile.
«Roxas» lo chiamò Axel, dandogli un lieve colpetto sulla spalla. «L'avevi ma baciato qualcuno prima di me?».
Si limitò a scuotere la testa, osservando le poche persone che passavano per la piazza metri e metri sotto di loro. Provò a focalizzarsi sulla facciata, cercando di ricordare la stazione di cui aveva parlato Naminé – gli passò un lampo davanti agli occhi e gli parve di vederla per un secondo, ma subito tutto tornò come prima, lasciando dietro di sé una fitta di mal di testa che si estinse all'istante.
«Axel, perché mi hai baciato?» chiese, stropicciandosi gli occhi stanchi per la luce forte. Era costretto a tenere il viso chinato per farsi scudo con la frangetta corta, quindi non riuscì a vedere la reazione di Axel, che rispose dopo qualche secondo.
«Mi andava di baciarti – non è che... possa essere innamorato di te, no? Però non mi dispiaci e mi è venuta voglia di baciarti, visto che non ti sei rifiutato ho continuato».
Roxas annuì, fissandolo con aria interessata. Axel... aveva voluto baciarlo. Aveva voluto baciare lui e non un altro – non Sora. Sora nemmeno sapeva cosa stesse succedendo, Sora non sentiva l'interferenza, Sora sarebbe rimasto lì a marcire e-
Sentì un tonfo al cuore, sordo e vibrante. Voleva davvero lasciare tutti? E Naminé? Sarebbe davvero stato in grado di lasciarla sola e scappare? Hayner, Olette, Pence. La sua famiglia.
Axel se lo tirò contro, portandolo più vicino per poterlo baciare, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Seguì i suoi movimenti quando Roxas iniziò a baciarlo, spingendosi più indietro e facendo aderire la schiena alla Torre per farlo sedere sulle proprie gambe. Lo guardò con gli occhi socchiusi, lasciandogli lievi morsi sulle labbra prima di scostarsi, la fronte premuta sulla sua. Gli carezzò la schiena con i palmi aperti, la maglia larga che non scorreva sotto le sue mani e lasciava scoperta la pelle. Tenne lo sguardo sulle sue palpebre finché non le sollevò e ricambiò il suo sguardo, gli occhi azzurri placidi ed inespressivi.
Axel infilò le dita sotto il bordo della maglietta, facendole pattinare sulla linea sporgente della spina dorsale, i fianchi sporgenti, le scapole lisce. Roxas non si mosse, continuando a guardarlo come se non fosse il suo corpo ad essere esplorato e toccato – come se non l'avesse baciato cinque giorni prima e adesso non gli stesse palpando il culo da sopra i pantaloni. Si limitò a piegare le gambe per stare in ginocchio, una smorfia leggerissima per la pietra ustionante che ora gli bruciava la pelle pallida delle gambe, lasciate per metà scoperte dai pantaloni corti. Axel scivolò sulla pancia, pizzicandogli l'addome piattissimo e aggirando con il polpastrello dell'indice l'ombelico adorabilmente rotondo. Gli strinse i fianchi stretti con la sensazione di stare molestando un bambino, quegli occhi schifosamente chiari e grandi a fissarlo con indifferenza, il pancino che si contraeva di scatto quando scivolava più in basso e gli faceva il solletico solo sfiorandolo.
Sbuffò, piegando le gambe per far scivolare Roxas più vicino, il petto da uccellino premuto contro il suo. Riprese a baciarlo, stringendolo e leccandogli la lingua per cercare di avere una reazione, che fosse uno schiaffo o un sospiro. Roxas ricambiò ogni bacio e morso, gli leccò le labbra e gli succhiò la lingua con precisione asettica, il naso che di tanto in tanto cozzava contro il suo e lui subito correggeva l'inclinazione, piegava il viso di lato per lasciarsi baciare più comodamente. Sembrava più interessato alla dinamica che al bacio in sé. Axel lasciò perdere quando lo vide aprire gli occhi e studiare la parete, lo ignorò anche quando iniziò a giocherellare con i bottoni delle tasche (anzi lo baciò con più foga e lo strinse ancor di più, riprendendo a palparlo); quando lo sentì tamburellare le dita contro il muro riproducendo la fanfara eroica alla fine di una boss battle di Final Fantasy – che lui conosceva solo perché Demyx gliel'aveva inculcata canticchiandola ogni secondo per metà della sua adolescenza – decise che ne aveva le palle piene e lo staccò dalla propria bocca con uno strattone, fissandolo con le sopracciglia arcuate come la schiena di un gatto incazzoso.
«Se non vuoi baciarmi puoi benissimo dirlo, eh» sputò fuori, artigliandogli il culo da moccioso, i denti che slittavano l'uno contro l'altro nel digrignarli. Roxas batté le palpebre e il suo naso era così piccolo e le ciglia sottili come fossero fatte di polvere e la bocca rossa per i baci ed i morsi ed i ciuffi perfettamente identici che gli coprivano le orecchie a conchiglia da azzannare e tenere vicine per ascoltare il rumore del mare; la sfumatura tremenda delle iridi che s'adombravano ad ogni vibrazione, ad ogni infinitesimale spostamento del suo sguardo.
Axel sentì la rabbia diradarsi lentamente, seguendo il ritmo del suo respiro e delle carezze ruvide che Roxas gli depositava come granelli di sabbia al centro del petto. Dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere quando lo vide storcere il naso come un coniglietto scocciato – era talmente empatico anche senza volerlo che ti faceva venire voglia di simulare le emozioni ed ignorare quello scarto di pochi secondi che precedeva ogni risata o cambio d'espressione. Era una cosa finta, ma guardandolo sembrava davvero che provasse qualcosa. Axel era abituato a dover scavare nel fango, a doversi spezzare dita e unghie per raggiungere quelle misere briciole di cose buone che riusciva a salvare dalla melma, era abituato ad essere circondato da persone la cui vita valeva meno di nulla senza che ci fosse veramente qualcosa da fare. Roxas probabilmente era pieno zeppo di melma e marciume e cose disgustose, però valeva la pena graffiarlo e morderlo e lacerarlo per poterlo svuotare e riempire di nuovo, farlo piangere fino a finire ogni goccia d'acqua in corpo e poi prenderlo e annaffiarlo come fosse una pianta nella terra, senza il vaso – senza la gabbia in cui era cresciuto finora. Gli carezzò i capelli e per un secondo sentì sotto i polpastrelli i bordi seghettati delle foglie di menta, le venature sottili della corteccia di salice.
«Mi sono solo distratto un po'» mormorò Roxas, disegnando con la punta delle dita il contorno delle sue clavicole – e merda, era il moccioso più eccitante del millennio anche con quell'espressione da funerale sempre stampata sul volto. «Non sono abituato ai baci e al contatto fisico, stavo solo pensando ad altro per cercare di capire se mi piacciono o se mi infastidiscono».
Axel annuì, la nuca che grattava fastidiosamente contro la parete ruvida. Poteva anche piombare dal cielo l'intera Organizzazione a strepitare che avevano trovato un modo di andarsene e che dovevano scappare in quel preciso istante, non avrebbe sperato in niente più di quanto non pregasse adesso perché a Roxas piacessero i baci e i suoi tocchi, le sue occhiate che lo spogliavano più di quanto le mani sarebbero mai riuscite a fare. Tutto quello che avrebbe voluto in quel momento era distruggerlo e spezzarlo nei pezzi più piccoli che sarebbe riuscito a strappare; e Axel conosceva un solo modo per spezzare una persona senza farla fisicamente a pezzi, e se c'era una cosa che necessitava il contatto fisico ed i baci allora era scoparselo lì in ginocchio contro la Torre, premurandosi soltanto di trascinarlo nel punto in cui c'erano più di quaranta centimetri scarsi di pietra a fare da piedistallo e farlo godere quanto più possibile.
Alzò le ginocchia di colpo, facendolo scivolare a sedere sul proprio bacino, le gambe divaricate perché fosse costretto a divaricare anche le sue. Roxas lo guardò malissimo e Axel lo ignorò per riprendere a pizzicargli la pancia, assottigliando lo sguardo per riuscire a scorgere il suo viso anche con il sole che gli era perfettamente davanti, oscurato dalla sua testolina bionda.
Le sue fantasie iniziarono a diventare un problema quando si rese conto che il culo di Roxas era proprio where it was meant to be e soprattutto lo furono quando ripresero a baciarsi, martoriandosi le labbra a vicenda ed aggrappandosi l'uno alla maglia dell'altro.
Gli morse la bocca mentre infilava le mani dentro i suoi pantaloni, mancando di una frazione di millimetro l'elastico dei suoi boxer – o erano slip? Affondò le mani più in profondità per stringere tutto fra le dita – e ci stava, ci stava come se fossero state fatte per quello – constatando con una punta di sollievo che erano boxerini e che praticamente nemmeno c'erano per quanto stavano stretti e minuscoli. Sentì una fitta di eccitazione scendergli dallo stomaco fino a-
«Vuoi che ti faccia una sega?»
-l CAZZO e sì, esclamò senza riuscire a trattenersi, fissandolo sconvolto – e per un secondo gli sembrò che davvero che quell'emozione fosse vera perché cazzo sì sì sì.
Gli diede un morso forte sulla guancia facendolo mugugnare in maniera indecente – era tutta suggestione, di certo, Roxas non aveva nemmeno abbastanza muscoli facciali non atrofizzati per provare ad essere indecente.
«Non avevi detto che non ti piace il contatto fisico?» chiese, deglutendo le imprecazioni perché se avesse cambiato idea adesso sarebbe stata una tragedia. Roxas annuì, carezzandogli di nuovo il petto con quelle sue manine da bambino.
«È che ho sentito ieri Sora che ne faceva una a Riku – si erano scordati che io ero ancora in casa» disse, alzando poi lo sguardo per guardarlo dritto negli occhi. «Magari anche tu volevi che lo facessi». Axel lo spostò di lato, alzandosi in piedi per spingerlo fino allo spiazzo più largo – erano in alto e difficilmente si vedeva più delle gambe dalla piazza, ma comunque non ci teneva a farsi vedere mentre un simil-tredicenne lo masturbava in un luogo pubblico.
Tornò seduto come lo era prima, stendendo le gambe e rilassandosi per il cono d'ombra che si era formato su quel lato della torre con il calare del sole. Roxas lo seguì trascinandosi dietro le scarpe, i capelli biondi che si sfumavano d'ambra non appena l'angolo li nascose dal sole. Axel sospirò e gli carezzò una guancia, baciandogli più volte le labbra mentre si slacciava la cintura, i pantaloni dolorosamente stretti.
«Non l'hai mai fatto prima, vero?» Roxas si limitò a scuotere la testa e chinare lo sguardo per studiarlo, arricciando il nasino di nuovo, facendo scorrere il palmo sul rigonfiamento nei boxer; Axel dovette mordersi la bocca per non mangiarselo in un sol boccone, visto che quell'aria spaventata ed indifferente gli prendeva la testa e gliela scuoteva fino a non fargli capire niente – e se questo era come si sentiva per una carezza impercettibile merda, quel ragazzino lo avrebbe reso ancora più pazzo di come non fosse ora.
Alzò il bacino per abbassare i pantaloni fino alle cosce – la pietra raschiò la pelle lucida dei pantaloni e gli graffiò la cute; lui afferrò il polso di Roxas, guidandolo per fargli sfregare le dita sull'erezione, guardandolo negli occhi per sforzarsi di non immaginare la sua mano minuscola che lo masturbava e gli si infilava nelle mutande senza nemmeno sfilargliele, l'elastico stretto che gli avrebbe di sicuro lasciato il segno sull'avambraccio. Gli morse la bocca e leccò le labbra, tracciandone il contorno con la punta della lingua. Roxas ricambiò ogni bacio, strattonandogli la maglia verso l'alto per convincerlo a spogliarsi – cosa che Axel fece subito, con una devozione e prontezza che lo umiliò ed eccitò ancora di più, facendolo ansimare roco nella conchiglia del suo orecchio perfetto. Strappò la sua mano dai propri boxer quando iniziò a sentire il piacere coagularsi nello stomaco, rendendolo languido e quanto mai bisognoso della sue carezze sdegnose, imprecise. Si sfilò anche quelli, arrotolandoli all'altezza del ginocchio ed imprecando per i graffi rossi che si sarebbe di sicuro ritrovato sul culo quella sera. Roxas lanciò un'occhiata scrutatrice alla sua erezione – e sembrava davvero che stesse osservando la cosa più importante della sua vita per quanto era concentrato e Axel si ritrovò a sentirsi orgoglioso, nonostante l'espressione lasciasse intendere più disgusto che approvazione. Reclinò il capo all'indietro con un gemito mal trattenuto quando Roxas riprese a massaggiare e strattonare e ancora, cazzo, ancora e ancora e ancora.
Venne con un ringhio esausto e rimase fermo a cercare di riprendere fiato per interi minuti, senza che Roxas facesse o dicesse niente per tutto il tempo. Alzò la testa con cautela, la vista che si schiariva di secondo in secondo. Gli prese il viso fra le mani e lo tempestò di baci, facendolo rizzare come un gattino e tentare di scappar via. Rise forte e se lo tirò contro il petto, costringendolo a rimanere lì e farsi toccare e carezzare finché non smise di dimenarsi e si rassegnò.
Axel gli fece i grattini fra i capelli biondi, gli tirò le orecchie diciassette volte perché non gliele aveva tirate per il suo compleanno, lo costrinse a rannicchiarsi per poter prendere un piedino in mano e tastarlo tutto, facendogli anche il solletico – Roxas era capace di ridere. La sua vita era completa.
Ad Axel non era mai importato molto di non avere un cuore. Era bravo a fingere, sapeva abbastanza delle persone da riuscire a simulare emozioni convincenti senza sforzarsi troppo.
Non era tremendo non riuscire a sentire nulla. Era sempre stato così, era più spaventosa l'idea di cominciare a sentire all'improvviso che passare una vita intera in quella condizione. Se n'era fatto una ragione secoli prima. C'erano parti di Roxas che adorava e che avrebbe potuto passare la vita a fissare e stuzzicare e palpare e leccare, con quella sua tenacia assurda per la quale qualsiasi cosa tendeva all'infinito, nella sua mente – e questo implicava che se gli piacevano gli occhi di Roxas, allora gli sarebbero piaciuti fino alla fine del mondo, che diventassero brillanti e vividi o rimanessero vuoti com'erano. E non importava se alla fine poteva farsi piacere solo l'apparenza, la voce, il modo di parlare e qualsiasi cosa potesse memorizzare ed incidere nella propria mente, perché era sicuro che anche se Roxas avesse avuto un cuore non l'avrebbe fatto vedere a nessuno, l'avrebbe tenuto chiuso nel suo petto scarno, strizzato nella carne perché la gente si scordasse che era lì, da qualche parte; che scavando, forse, lo si sarebbe potuto raggiungere.
Non importava, decretò Axel, il naso premuto fra i suoi capelli color dell'oro.



L'estate era agli sgoccioli. Anche Agosto stava volgendo al termine.
La boscaglia vicino alla Old Mansion era color ruggine come in autunno, seccata e martoriata dal caldo cocente che non dava tregua da mesi. Roxas sedette sotto un salice ricurvo e senza foglie senza badare troppo alla terra polverosa che gli avrebbe sporcato i vestiti.
Naminé era morta nel sonno, avevano detto. Non aveva sofferto, non soffriva più.
Sua mamma l'aveva infilato nel completo di Sora, quello che aveva messo la sera in cui doveva ritirare il premio di campione della squadra di nuoto della scuola. Non era venuto nessuno al funerale. Lui ed Axel avevano aspettato quasi mezz'ora davanti al cumulo di terra con la croce di legno conficcata al centro. Nessuno voleva salutare Naminé.
Aveva smesso di soffrire. Stronzate.
L'aveva vista, all'obitorio. Stesa su un tavolo come un oggetto, rimaneggiata e sistemata perché non fosse così tremenda la vista di un cadavere. Naminé non aveva mai sorriso come sorrideva su quel bancone. I suoi sorrisi erano tiepidi, segreti. Non aveva mai teso le labbra a quel modo, gli angoli della sua bocca non si piegavano così. Era finta e non aveva di certo smesso di soffrire.
Come si poteva smettere di soffrire se qualcuno si sentiva in diritto di scolpirti un sorriso che non è il tuo? Era assurdo, pensò Roxas, assurdo.
Axel ricomparve dalla boscaglia dopo quasi un'ora che ne era stato inghiottito. Gli si accucciò vicino, porgendogli un bicchiere pieno di poltiglia azzurra – guardando più attentamente, era una granita. Si lasciò carezzare e baciare la fronte, iniziando a bere dalla cannuccia di un blu più scuro di quello della granita. La gola, seccata dalle ore passate senza aprir bocca, smise di bruciare ed iniziò a dolere per il contatto con il ghiaccio gelido. Si era sciolta per il caldo, però era ancora abbastanza granulosa da conservare il retrogusto salato e bilanciare la dolcezza che altrimenti sarebbe stata mielosa, fastidiosa.
Morse il bordo del bicchiere, immergendo i denti nella poltiglia ghiacciata. Facevano malissimo e lui continuò fino a che il dolore non fu insopportabile, le lacrime che gli si formavano negli occhi. Axel non disse niente, continuando a fissarlo con espressione indecifrabile. Quando Roxas iniziò a singhiozzare, mordendosi la bocca e la lingua per continuare a piangere, Axel lo afferrò e lanciò via il bicchiere di granita, incastrandolo fra le proprie braccia per tenerlo fermo.
«Che cazzo stai facendo, Roxas?» sussurrò, cullandolo come un bambino fra le proprie braccia. Aveva il viso grigio, a tratti verdastro – era riuscito a malapena a fargli bere granite e mangiucchiare ghiaccioli, in quei giorni. Il suo corpo, malleabile come argilla fresca, ne aveva subito risentito e adesso le sue guance erano meno gonfie, lievemente incavate. Axel non provava nulla, vedendolo così, ma sapeva che quando il dolore era troppo per quelle loro spettrali emozioni il loro corpo lo convertiva in dolore fisico. Infilò una mano sotto la sua maglia per carezzargli l'addome magrissimo, sentendolo sbuffare un singhiozzo a metà, esausto.
Roxas nascose il viso contro il suo collo, lo stomaco strizzato da infinite mani, il corpo in preda ai brividi e la pelle increspata dal freddo nonostante il sudore che la ricopriva. Si morse di nuovo più e più volte le labbra, disperato. Niente. Nessuno aveva versato una lacrima per Naminé.
E lui, che per lei ne avrebbe piante infinite fino a infradiciarne la tomba per millenni, non ne poteva piangere nemmeno una. I Nessuno non piangono neppure per loro stessi.
Alzò appena il viso, baciando il collo di Axel mille volte, il rumore leggerissimo dei baci doloroso come una nenia di preghiere disperate. Roxas lo strinse per poter sussurrare contro il suo orecchio, la voce spezzata e rauca. «Picchiami, Axel, picchiami» disse, le labbra contro la sua tempia. «Fammi piangere».
«Non dire stronzate, Roxas» sussurrò, poggiando la mano sulla sua bocca per non farlo parlare, la fronte china per sfiorare il suo naso con il proprio. «Adesso ti porto a casa e ti infili quel pigiamino ridicolo con i pinguini e io rimango lì e tu dormi, capito?». Si alzò e lo prese in braccio, iniziando a correre verso la città. Attraversò gli innumerevoli vicoli vuoti della città, l'aria che ardeva come zolfo nei suoi polmoni, Roxas stretto al petto come un bambolotto di pezza; lo depositò davanti al cancelletto di casa per lasciarlo salire in camera quando se la sarebbe sentita, arrampicandosi sull'albero e lanciandosi sul davanzale della finestra chiusa – e si sarebbe distrutto tutte le ossa immaginabili, prima o poi, se Roxas non avesse imparato a tenerla sempre aperta.
Axel artigliò le dita agli appigli più solidi che riuscì a trovare, rannicchiato e schiacciato contro gli infissi per non rischiare di cadere. Era ridicolo come si fosse ridotto a fare da zerbino per quel ragazzino disturbato dopo solo qualche mese che lo conosceva.
Sbuffò contro il vetro, lasciando una patina opaca che si dissolse un secondo dopo. Sentiva il sudore lungo la schiena, lo scricchiolio della suola di gomma degli stivali, la pelle dietro al ginocchio strizzata fra la pelle dei pantaloni e quella più rigida delle calzature. Rimase a fissare i movimenti di un ragno per interi minuti, le zampe sottili e lunghissime che si muovevano sulla sua ragnatela. Le dita dei piedi facevano un male incredibile e la schiena lanciava fitte tremende ad ogni respiro, però andava bene stare lì ad aspettare Roxas nonostante tutto il dolore, andava bene perché lui era l'unica persona rimasta ad attendere Roxas all'angolo, a dargli il suo tempo di decidere se vivere o meno e poi riempirlo di calci in culo perché no, non gliene fregava un cazzo di quanto si sentisse inutile o depresso, lui aveva deciso che avrebbe vissuto e così sarebbe stato.
Per Axel non esistevano mezze misure, lui era una mezza misura e faceva schifo esserlo, quindi non vedeva perché appiccicare quella posizione scomoda anche alle cose che lo circondavano. Era una scelta di vita idiota perché a fare scelte di continuo alla fine ti ritrovi con un metro di decisione sballato e insopportabilmente saccente, ma lui era entrambe le cose e, di nuovo, andava bene così. Non c'era il “non sei male”, c'era solo il “vedi di non rompere il cazzo e rimani con me” e poi c'era l'opposto, sintetizzabile in “ti darei fuoco quindi non rompere il cazzo nemmeno tu”.
Roxas fece capolino dalla porta, scrutandolo con il viso rosso ed i capelli umidi, un sorriso sul viso che faceva più male di ogni tragedia e dolore e disgrazia che Axel aveva mai visto. Lo guardò mentre si avvicinava e gattonava sul letto – aprì la finestra e lui gli piombò addosso, schiacciando il corpicino minuscolo contro il materasso. Sentì le sue braccia abbracciargli le spalle e lo lasciò fare, rimanendo fermo mentre Roxas carezzava i suoi capelli con cautela, usando poi il gel che gli era rimasto sulle dita per tracciargli linee collose sulle guance.
«Vuoi dormire un po', micio?» gli chiese, le dita di una mano intrecciate alle sue. Roxas annuì e Axel sfilò le coperte da sotto la sua schiena per coprire entrambi, sfilandosi gli stivali per non sporcare ovunque. C'era ancora quel sorriso tranquillo sul suo viso.
«Ti senti meglio, adesso?». Nessuna risposta. «Non ti va di parlare?». Nulla. «Posso stare con te?».
Si morse la bocca, costringendosi al silenzio. Sfilò anche l'impermeabile e lo lanciò per terra, rotolando sul fianco e stringendoselo al petto. Aveva i capelli tutti ricci visto che li aveva inumiditi senza poi asciugarli per bene ed era la cosa più ridicola e adorabile del mondo, con quegli occhioni e i ricciolini sulla fronte come un bambino. Sbuffò e lo aiutò a cambiarsi, vestendolo con il pigiamino pericolosamente minuscolo, carezzandogli le guance ancora segnate dal pianto.
Non aveva ancora detto una parola. Non che fosse poi così sconvolgente per Roxas, ma che ora sorridesse e fosse tranquillo quando meno di mezz'ora prima l'aveva implorato di picchiarlo e farlo piangere era senza dubbio preoccupante. Roxas accese la sua lampada piena di pesci – uno degli elementi trash più lampanti di quella stanza che sembrava arredata pescando cose dalla discarica – e rimase per un po' a fissarla, il vecchio meccanismo di un carillon che strideva ogni volta che un giro del paralume si concludeva ed il pesce color oro tornava al punto di partenza.
Non sembrava uno appena tornato da un funerale. Sembrava uno appena evaso da un manicomio.
«Axel» lo chiamò Roxas di colpo, dopo interi minuti passati a soffiare sullo scacciapensieri per farlo tintinnare. «Secondo te cosa succede quando si muore?».
«Siamo Nessuno, Roxas» rispose, dopo un lungo silenzio. «Per noi non c'è niente qua e non ci sarà mai niente dall'altra parte». Sospirò, posando un bacio sulla sua tempia. «Mi dispiace, micio. Non so cosa ci sia dopo la morte. So solo che adesso siamo vivi e che i morti non tornano indietro. Mai».
Ci fu ancora un lungo momento in cui entrambi rimasero zitti, troppo presi dai loro pensieri e dalla luce del tramonto che attutiva i sensi, smussava gli angoli dei problemi, cullava con dolcezza anche le palpebre affaticate dal pianto. C'era un angolo nel corpo di chi abitava a Twilight Town, anche in coloro che non avevano un cuore, che sarebbe sempre stata riservata al crepuscolo. Rimaneva dentro, in qualche modo. Era la membrana sottile come ali di libellula che li teneva insieme e non li faceva sciogliere in pozzanghere senza vita.
Roxas rotolò contro il suo petto e premette il naso fra le clavicole ossute, lo sguardo fisso nel suo. «Axel... Naminé aveva un cuore. Perché lei poteva ancora ricordare?» chiese, la voce soffice e pacata. «Le altre persone con un cuore non si ricordavano della stazione e nemmeno noi. Perché lei sì?».
Prese fiato. «Stava morendo, Roxas» mormorò. «Nessuno si sente minacciato da una ragazzina in fin di vita. Non valeva la pena sprecare energie per cancellarle la memoria».
Il sorriso di Roxas s'incrinò, crollando su sé stesso come un castello di carte spazzato via dal vento. Iniziò a tremare, le labbra vibranti e aperte come per dire qualcosa, senza che l'aria creasse niente più che sospiri e singhiozzi strozzati attraverso le sue corde vocali. Quando iniziò a piangere senza il bisogno di farsi del male, Axel seppe che nemmeno la morte di Naminé era riuscita a ferirlo quanto le sue parole. Socchiuse gli occhi e lo lasciò fare, il battito del suo cuore atrofizzato calmo e ritmico a rimbombargli nelle orecchie insieme a quei singulti disperati.
Il pianto crebbe d'intensità a mano a mano che il tempo passava fino a che Roxas non iniziò a sobbalzare ad ogni singhiozzo, il naso che colava ed il viso della stessa sfumatura del crepuscolo all'ora di pranzo. Era grottesco e sbagliato da guardare, pensò Axel, preso dalla nausea. Ai Nessuno non dovrebbe essere permesso piangere così, come se avessero un cuore. Non era giusto che non potessero provare emozioni ma che potessero sentire il dolore così profondamente nel loro animo da portarli alle lacrime. Come se per la loro anima non fosse già troppo tardi per essere salvata.
Aspettò pazientemente che si calmasse, fermando le sue mani quando si premette le unghie nelle guance e le fece scorrere, lasciando righe prima bianche e poi violacee sulla pelle. Roxas lo guardò con gli occhi lucidi e sembrò che la sua stessa iride si stesse sciogliendo e stesse riversando goccia per goccia ogni lacrima, l'azzurro così vivido da far male, contornato dai rigagnoli rossi dei capillari. Roxas allontanò il viso dal suo petto ora umido, ricadendo di schiena sul letto, i capelli biondi sparsi sul cuscino. Aveva il respiro più calmo, ma faticava a respirare dalla gola perché di sicuro gli si era infiammata. Axel allungò un braccio sopra il suo corpo, aprendo ogni cassetto alla ricerca di fazzoletti – ce n'erano un paio nel terzo ripiano e li afferrò, porgendogli a Roxas che subito si soffiò il naso, cercando di liberarlo dal muco accumulato con il pianto per poter tornare a respirare senza sentirsi un paio di spade in gola.
Ci fu una risata dall'altro lato della parete e poi il rumore di qualcosa che la colpiva, seguito dalle urla di Sora che a quanto pare aveva di nuovo perso contro Riku in qualsiasi gioco stessero facendo.
Roxas smise immediatamente di piagnucolare, tirando per l'ultima volta su con il naso. Si voltò a guardarlo come se fosse l'ultimo appiglio rimasto a cui aggrapparsi, il vuoto sotto i piedi e nessuno disposto a tendergli una mano. Axel ricambiò il suo sguardo con freddezza, sentendosi calmo e appena sfiorato dagli avvenimenti. Non sapeva cosa gli fosse successo poco prima, per reagire così d'impulso, per comportarsi come se davvero il dolore di Roxas potesse fargli provare qualcosa. Probabilmente Roxas ogni tanto sembrava così completo che non poteva fare a meno di illudersi d'esserlo anche lui.
«Axel» sussurrò, la voce distorta dalla gola martoriata, il dolore che appiattiva il suo tono e lo levigava fino a renderlo piatto, pieno di discrepanze ma tenuto insieme dal fiato ansante, dagli occhi che brillavano per la luce, dalla curva perfetta e dolorosamente infantile del ricciolo che gli cadeva sulla fronte. «Axel, io per cosa esisto adesso che Naminé... non c'è più?».
Axel passò la mano fra i boccoli dorati per scoprirgli il viso gonfio per i pianti e si chinò a baciargli una palpebra, il sapore del sale sulle labbra come al primo assaggio di gelato al sale marino. La sofferenza aveva un sapore abituale. L'ironia.
«Che vuol dire, Roxas?» chiese, mormorando nel suo orecchio – lo sentì tremare da capo a piedi, il corpo minuscolo di nuovo schiacciato contro il suo, gli angoli e le asperità della loro forma fisica che collidevano come stelle a migliaia di anni luce da qualsiasi altra cosa in quella città del cazzo.
«I-io...» balbettò, troppo stanco anche solo per mettere i pensieri in linea sui binari distrutti della sua mente. Aveva una lacrima impigliata alle ciglia e Axel la leccò via senza esitazione, la pelle liscia che scorreva sotto la sua lingua. «Io ero quello che... viveva per non farla sentire sola, A-Axel. Non mi sono mai considerato più importante di lei, n-non lo sono m-mai stato» singhiozzò, lasciando uscire le parole senza pensarci mille e mille volte su come accadeva di solito. «N-Naminé aveva un cuore eppure... è s-stata considerata molto meno i-importante anche di noi Nessuno e... lei lo sapeva». Respiro, altra lacrima da leccare, altro bacio sulla palpebra. «I-io ero... convinto di esistere perché esisteva lei. Poi sei arrivato tu e hai... hai rovinato tutto. Perché hai rovinato tutto, Axel?» pianse contro la sua maglia, nascondendo il viso a forza di schiacciarlo contro il suo petto. «S-se non esisto per Naminé, a-allora perché io esisto?».
Sospirò ed intrecciò le dita alle sue, facendogli sollevare lo sguardo per poter vedere quel viso così distrutto, piegato come una cannuccia di plastica messa a sciogliersi sopra una candela. Puttanate. Poteva fingere quanto voleva, di Roxas gli sarebbe sempre importato qualcosa.
A questo punto rispondere non era più un gioco di parole, di voce, di tono modulato come se tutto andasse bene e si sarebbe risolto per il meglio. Era una questione di pancia, era districare il calore aggrovigliato alle viscere, seguire la linea soffusa dei sentimenti che non riusciva a provare, che rimanevano incastrati nel nodo amaro all'altezza del petto. Era sparare fottutamente alla cieca e pregare di non colpire punti vitali.
«So come ti senti, micino» sussurrò, carezzandogli la guancia ancora umida. «Ma devi capire che noi siamo Nessuno. Siamo nati ma la nostra vita è un errore e dobbiamo imparare a badare a noi stessi, perché nessuno si prenderà mai cura di noi». Sospirò, modulando la voce come aveva visto fare alle madri con i figli spaventati. «Siamo creature sole, egoiste. La stessa ragione per cui sei venuto al mondo sei tu, Roxas, la ragione per cui esisti sei tu».
Lo sentì tremare per l'ultima volta, il sorriso di nuovo sulle labbra. Lo cullò fino a che non smise quasi di lacrimare, immerso in un dormiveglia che il suo corpo gli stava imponendo. Axel si alzò dal letto con il fruscio delle lenzuola sulla pelle, il calore di un corpo stretto al suo, la sensazione indecifrabile di vuoto nello stomaco che si ha quando ci si sveglia nel letto di un amante occasionale e si esce dalla finestra senza una parola. Gli baciò la guancia, ricambio lo sguardo stanchissimo di quegli occhi così rossi e dolorosi. «Ti porterò via di qui, Roxas» sussurrò. «Tu dormi, dormi e svegliati più forte, perché adesso che esisti per te stesso ogni colpo farà più male».



Roxas strinse nel pugno la maniglia della porta d'ingresso.
La casa era tranquilla, silente. Era ancora avvolta dalla stretta morbida ed accogliente del sonno. Il parquet lucido non aveva fatto rumore quando si era mosso lentamente lungo il corridoio delle camere da letto, gli stivali sottobraccio per non rischiare di svegliare nessuno. La luce giungeva ovattata dalle finestre socchiuse, rendendo tutto un po' polveroso e sospeso, ancora incompleto.
Roxas aveva tirato lo zaino fuori da sotto il letto, già vestito di tutto punto e pronto per uscire. Si era svegliato quando il sole era solo una striscia d'oro brillante sull'orizzonte ed era scivolato in bagno a farsi una doccia, passando una mezz'ora intera ad asciugare i capelli solo con l'asciugamano. Non aveva osato affacciarsi alla camera dei suoi genitori, chiusa e di solito cigolante quando veniva aperta. Quella di Sora però era spalancata e Roxas si prese un secondo per studiare la sua figura raggomitolata sul letto, le coperte lanciate in terra e il pavimento ricoperto di cianfrusaglie, disordinato come sempre.
Non era facile capire come si sentiva nel guardarlo – non era facile nemmeno capire se stava provando qualcosa – ma Roxas sapeva che quello era sua fratello e che in un angolo molto profondo del suo cuore faceva male sapere che sarebbero bastate poche settimane, forse addirittura giorni, perché lui si dimenticasse di aver mai avuto un gemello. La sua vita sarebbe continuata, semplice e monotona come lo era sempre stata, divisa fra l'attrazione per Riku e la tenera infatuazione per Kairi. Se ne avesse avuto uno, gli avrebbe augurato con tutto il cuore di poter essere felice, con o senza di lui.
Era l'ultima volta che vedeva la sua casa. Lasciò lo zaino contro la porta, tornando indietro per poter guardare la cucina, sempre pulita e dolce, perfetta per la tipica famigliola felice. Gattonò sotto il tavolo per poter carezzare le incisioni nel legno, opera sua e di Sora quando ancora erano bambini. C'erano Sora, Kairi, Riku. C'erano lui e Naminé, quasi al centro esatto, dove stava il centrotavola di vetro che poi era caduto non ricordava come e di cui non rimaneva altro che il centrino bianco un po' spiegazzato, ancora ad aspettare un nuovo vaso da reggere e abbellire. C'erano i frutti di Paopu, un milione di stelle agli angoli, gli abbozzi mal riusciti di due manine intrecciate che erano costate interi pomeriggi a Sora e migliaia di tagli sui palmi. Sarebbero spariti anche quelli?
E poi il salotto. La grande finestra dalla quale si vedeva la cima della Torre in alto nel cielo. I divani azzurri ed il tavolino basso, con il vetro e sotto la sabbia e la stella marina che era un po' un dispiacere guardarla, era così grande e rossa, doveva essere bellissima. C'erano le foto nella libreria e Roxas non compariva nemmeno una volta, se non per metà o pensieroso, lontano. I trofei di Sora, in bella vista in cima al mobile. C'era anche il suo, su una mensola più bassa perché nessuno aveva ancora avuto il tempo di metterlo in alto. Roxas si avvicinò e lo prese fra la mani, le gemme di più colori che brillavano nella tenue luce del salotto. L'aveva vinto con Hayner, Pence, Olette.
I suoi primi amici. I primi dopo Naminé. Naminé. Sorrise senza nemmeno pensarci, riposandolo al suo posto. Era lì che doveva stare, dopotutto. Non era la vittoria, il trofeo, quello che contava. Era il tempo che aveva passato ad allenarsi, a ridere insieme a loro per la fatica ed il sudore e il caldo che non li lasciava in pace, che non li lasciava combattere liberi come dovrebbero essere alla loro età.
Ricordava ogni secondo del pomeriggio in cui aveva portato Naminé all'Usual Spot. Lei e Olette erano subito andate d'accordo ed erano rimaste in un angolo a chiacchierare, unendosi alle loro risate e facendo il tifo per ciascuno di loro. Non aveva mai visto Naminé così felice.
Il trofeo non era importante. Andava bene lì dov'era. Era un regalo di tutti gli altri come pegno della loro amicizia. Sarebbe scomparso, magari, oppure si sarebbe unito a quelli di Sora e lui sarebbe rimasto il campione indiscusso. E così sarebbe continuato il ciclo degli incontri estivi e Hayner non si sarebbe mai arreso e avrebbe continuato a stremarsi per riuscire a vincere.
La loro vacanza estiva sarebbe continuata all'infinito. Andava bene così.
Fece per voltarsi e tornare alla porta, bloccandosi di colpo. No che non andava bene.
Poteva far vincere Hayner, poteva fare in modo che quella estate di sforzi non andasse vanificata. Era tutto nelle sue mani, per una volta, e se anche avesse fallito non avrebbe mai potuto saperlo – o almeno sperava così. Non era più il tempo dei dubbi, era il momento di agire o star fermi e morire.
Riprese il trofeo in mano, andandolo a ficcare a forza nel borsone – e aveva preso così poche cose con sé che c'entrava senza problemi.
Si sentì uno sbadiglio e Sora comparve sulla porta del corridoio. Lo guardò stupito come uno scoiattolino, le guance gonfie e gli occhioni assonnati. Dopo un momento di stasi dovuto al sonno fece un saltello e si avvicinò, già attivo ed esagitato come sempre.
«Cosa fai Rocchan?» chiese, sorridendogli. «Oh, vai a stare un po' a casa di Naminé?» continuò, notando il borsone in terra. «Va bene, non ti preoccupare, ti copro io con mamma e babbo! Però non essere troppo triste, okay? Quando torni voglio vederti con un sorrisone!».
E glielo mostrò, il sorrisone che voleva. Tirò le guance fino a farle sembrare sul punto di spaccarsi, i denti bianchi e dritti scoperti dal primo all'ultimo. Non aveva nemmeno il pigiama addosso. Solo i boxer blu con i fiocchetti rosa che gli aveva regalato Riku per prenderlo in giro e dirgli che era una principessina viziata. Si erano picchiati a sangue con le mazze da Struggle, poi, ma Sora non si faceva troppi problemi a portarli comunque. Era adorabilmente ridicolo.
Roxas si alzò, un po' impacciato. Adesso che c'era lui non sapeva come andarsene. Non si era preparato a dover dire addio a nessuno di loro. Sora lo fissò per un lungo secondo e poi sorrise, lanciandosi contro di lui per abbracciarlo. Lo stritolò forte fra le braccia, saltellando esaltato. Poi lo lasciò andare, rimanendo comunque vicinissimo. Era la prima volta che Roxas guardava i suoi occhi e li vedeva identici ai suoi.
S'infilò una mano in tasca e sentì le schegge di legno del suo ultimo ghiacciolo al sale marino, che aveva mangiato rannicchiato in cucina come un ladro non appena si era svegliato. Passò le mani sul bastoncino di legno, scorrendo le lettere incise, quasi impercettibili. Roxas poi l'aveva stretto troppo forte mentre era sovrappensiero e si era spezzato, però quando lo poggiò sul palmo di Sora lui sembrò ricordare («voi l'avete mai trovato il bastoncino “winner”? Io mai, per me non esiste!») e sorrise, lasciandolo andare via mentre gli faceva ciao ciao dalla finestra come se fosse lui quello che partiva e lo salutava dal treno in corsa. L'ironia di questi pensieri che lo vedevano statico a veder qualcun altro andare avanti anche quando era lui a muoversi.
Non c'era nessuno per le strade, ma ormai era l'abitudine. Roxas si chiese come avesse fatto a non notarlo, ora che era così palese. C'era così poca gente, in giro per Twilight Town. Ne era comparsa a fiumane per il torneo di Struggle e poi era sparita come se non ci fosse mai stata, bardata nelle sue case con le finestre chiuse e le tende tirate. Camminò lentamente per le strade più strette, ancora scure come se fosse sera sul tardi, costeggiando le pareti fresche e contando mentalmente i passi a mano a mano che avanzava. Evitò di passare troppo vicino alla serranda del garage – non passare mai lì vicino, aveva detto una volta mamma a Sora, c'è un sacco di gente poco raccomandabile! - per raggiungere la spaccatura nella parete che portava alla boscaglia della Old Mansion.
Si voltò di scatto quando ci fu un rumore come di cingoli e si ritrovò davanti Zexion, in procinto di uscire proprio dal garage che era il terrore di ogni mamma nel raggio di chilometri. Lo salutò con un cenno, guardandolo scomparire nel dedalo di incroci. Per una volta Demyx non era con lui.
Riprese a camminare, inoltrandosi nella penombra accogliente sotto le chiome degli alberi, scosse dal leggero vento mattutino. Il sole si alzava nel cielo ad ogni passo, rosso come la corolla di un papavero nel grano. La tomba di Naminé era pulita, semplice. Marluxia non aveva speso troppo in fronzoli inutili e Roxas gli era grato per questo, perché qualcosa di diverso non sarebbe stato davvero suo. S'inginocchiò vicino alla lapide, strappando con le mani alcune erbacce che erano cresciute in mezzo ai fiori. Erano tutti gigli, bianchissimi e perfetti.
C'era una sua foto, incorniciata al centro della lastra lucida di marmo. Naminé stava disegnando, un sorriso impercettibile come se si fosse perduto nelle pieghe di un origami e non trovasse più la via d'uscita. I capelli biondi ricadevano su una spalla, la linea acquarellata del mento di una dolcezza slavata, come se la foto fosse rovinata dal tempo. Sopra il portafoto il suo nome in un carattere strano, intricato. Per quanto si sforzasse non riusciva a leggere il cognome – non lo ricordava nemmeno. Era sulla punta della lingua, baluginava nella sua mente a sprazzi confusi. Ricordava un suono slavato, qualche lettera confusa. Niente.
Carezzò con la punta delle dita le scritte, rimettendosi in piedi per andare. Non c'era più tempo da perdere, doveva raggiungere gli altri Nessuno.
«Ciao, Naminé» disse, stringendo la mano alla tracolla del borsone. Nient'altro da dire.
Si udirono dei passi, aritmici e affannati. Hayner, Pence e Olette spuntarono fuori dai cespugli, tutti e tre senza fiato. Sorrisero nel vederlo, avvicinandosi subito.
Si fermarono di colpo quando la tomba di Naminé divenne visibile anche per loro, guardandosi imbarazzati fra di loro come chi piomba in una stanza nel mezzo di una discussione privata. Olette tolse un fiore da quelli che s'era infilata fra i capelli mentre attraversavano la boscaglia, poggiandolo gentilmente sul marmo chiaro. Roxas ricambiò il sorriso e cercò di sembrare tranquillo per non farli impacciare ancora di più.
«Sei venuto a dare il buongiorno a Naminé, Roxas?» chiese Hayner, grattandosi la nuca. Aveva ancora la guancia rossa per lo schiaffo ricevuto da Selphie la sera prima e nessun giacchetto militare sulla t-shirt. «Non ti abbiamo trovato a casa e abbiamo pensato che fossi qua».
Annuì, ricambiando il suo sguardo, le parole raggomitolate sul fondo della gola come bambini non ancora pronti per nascere. Anche Roxas si sentiva così. Gli era arrivato tutto addosso, in quei mesi, a ventate incostanti e forti per scuoterlo dalla sua stasi e per forzarlo ad alzare il capo dalla melma fangosa delle fogne in cui continuava ostinatamente a nascondersi e guardare le stelle, a lungo, anche se all'inizio non le avrebbe capite.
Ne aveva parlato con Zexion per ore intere giorni prima, quando a lui era stata affidata la mansione di istruirlo sul piano e sui particolari che durante la riunione chiunque altro conosceva. C'era voluto tempo perché entrambi trovassero un punto d'incastro fra i loro silenzi scomodi, le pause lunghe fra una frase e l'altra, un punto di contatto per sentirsi a proprio agio nel manifestare dubbi e idee. Non c'era tempo per dubitare («Abbiamo trovato una breccia, una discordanza. Dobbiamo approfittarne prima che il sistema se ne accorga e la corregga e dobbiamo essere già lontani quando succederà.») e c'erano troppe cose che era meglio tenere dentro, in momenti simili, ma che premevano per uscire più che mai.
Alla fine Zexion gli aveva preso le mani e le aveva osservate a lungo, tenendole sulle proprie con la delicatezza con cui avrebbe saggiato la consistenza di un libro vissuto, troppo fragile per rischiare di romperlo. Aveva dita lunghe, pallidissime. Si staccava le pellicine ed era pieno di piccole cicatrici traslucide a macchie, come se per lungo tempo avesse maneggiato sostanze corrosive. Era rimasto in silenzio per minuti interi, il viso parzialmente nascosto dal lungo ciuffo slavato. Poi lo aveva ringraziato, mormorando, perché da quando era entrato nell'Organizzazione tutti loro avevano iniziato a sentire l'interferenza sempre di più. Aveva detto qualcosa anche su memorie di un'altra vita ma Roxas non era certo di aver capito, perché subito dopo Zexion si era alzato e gli aveva chiesto scusa, andandosene con la fretta di chi non sa rimediare ad un errore e spera solo che le ultime cose dette non vengano ricordate.
Scosse la testa, chinandosi sul borsone per tirare fuori il trofeo, studiandolo per un'ultima volta. C'erano i loro quattro nomi, incisi sulla targa. Il suo sarebbe sparito, forse sarebbe stato sostituito da quello di un'altra persona. Non erano difficili da cancellare cinque piccole lettere prive di significato. Erano sparite quelle del cognome di Naminé, lo stesso destino sarebbe toccato al suo nome.
Sospirò e porse il trofeo ad Hayner, sforzandosi di sorridere come aveva fatto per tutto il tempo sin dal suo risveglio. Quando l'altro non fece alcun cenno a muoversi – o a pensare, o a vivere in alcun modo – Roxas glielo sbatté contro il petto e lasciò andare, costringendolo a stringere il premio fra le braccia a meno che non volesse vederlo in pezzi. Pence e Olette lo guardarono straniti, senza ben sapere cosa dire.
«Voglio che lo teniate voi» disse, guardando il trio di facce confuse. «Che lo teniate all'Usual Spot, dove merita di stare».
«Ma è il tuo trofeo!» esclamò Pence e strinse i pugni, agitandoli per dare più enfasi alle sue parole. «L'hai vinto tu, Roxas, devi tenerlo tu!». Roxas scosse la testa e unì le mani dietro la schiena, il borsone di nuovo a tracolla. Erano meno pesante ora, visto che non c'era ormai più niente dentro.
«È il nostro trofeo, l'abbiamo vinto insieme. Merita di stare nel nostro posto, non a casa di uno di noi».
Olette sorrise, annuendo. Prese fra le mani il trofeo e Hayner glielo cedette volentieri, sapendo che con lei sarebbe stato più al sicuro. Era l'elemento responsabile del gruppo, dopotutto. Quella che sapeva quando dire basta per evitare di fare indigestione di gelato salmastro, quella che si ricordava che le vacanze non prevedono solo divertimento ma anche quei dannatissimi compiti estivi. Invece Olette lo afferrò e staccò una ad un la sfere colorate ai margini, lanciandone una a testa. «Così ne avremo un pezzo a testa, ma per creare il trofeo completo ci vorrà la sfera di ciascuno di noi» spiegò, sorridendo tranquilla.
Roxas intascò la sua pietra azzurra e le sorrise, grato. La sua mano cozzò con qualcosa più a fondo nella sua tasca e scavando un poco riuscì a stringerlo nel pugno e tirarlo fuori. Era il portafortuna di Naminé. Era caduto mentre andava in skateboard, una volta, e s'era staccata una delle punte della stella di cui aveva la forma. Naminé non si era arrabbiata e gli aveva sorriso, dicendo di tenerlo anche se era rotto, che dopotutto andava bene anche così. Adesso capiva cosa voleva dire.
Continuò a guardarlo per qualche minuto, salutando con un cenno vago Hayner e Pence che venivano trascinati via da Olette - «Lasciamolo solo» aveva sussurrato. Roxas sospirò e fissò sconsolato la foto di Naminé, sorridendole senza nemmeno sapere perché.
«È ora che vada, Nami» le disse, chinandosi per un'ultima volta. «So che vorresti che lo tenessi con me, ma... il suo posto è qui». Depositò il portafortuna vicino al fiore di Olette, voltandosi per tornare in città e raggiungere finalmente la stazione.
Erano settimane che non andava alla Torre dell'Orologio. Era come se gli fosse passata di mente, volatilizzata dalle sue giornate come se non fosse sempre stata parte della routine. Quando la raggiunse non vide nessuno, non una sola persona, non un impermeabile nero sotto il sole che diventava sempre più cocente.
Tirò fuori il cellulare, controllando lo schermo rovinato. Nessun messaggio.
Aprì la rubrica e cliccò sul primo contatto (*Axel*) per inviare un messaggio. “Dove sei? - Roxas.”
Erano mesi che non usava il telefono e rimase per diversi secondi a fissare l'iconcina che indicava che l'SMS era ancora in spedizione. Quando scomparve tirò un sospiro di sollievo e lo ripose nella borsa, dove sarebbe finito in un qualche angolino dimenticato come sempre.
Axel comparve davanti a lui con la rapidità di un'ombra e Roxas lo riconobbe anche senza alzare lo sguardo per la sua figura spigolosa proiettata in terra dal sole.
Alzò lo sguardo, guardandolo dubbioso. Lui era vicino alla torre e nella piazza non c'era nessuno fino ad un secondo prima, era caduto dal cielo? Conoscendo Axel: probabilmente sì.
«Ciao» disse «hai ricevuto il messaggio?».
Axel annuì, strappandogli il borsone di mano – probabilmente pensava che fosse pesante. Roxas lo guardò ancora e ancora, fino a che Axel si grattò la nuca a disagio e borbottò un “cosa?” e ricambiò lo sguardo, mormorando altro che lui non riuscì a sentire.
«Dove sono gli altri?». Il sole era ormai alto nel cielo ed il punto d'incontro era lì. C'era stato un cambio di programma?
«Vieni, su» Axel gli porse la mano, sforzandosi di modellare il viso in una espressione rassicurante. Roxas aveva un po' parlato con Sora – era stato costretto da Sora a parlare – e Riku, venendo a sapere della molto vaga non-relazione che aveva con lui aveva commentato che “su una faccia da pedofilo così anche un sorriso mi farebbe temere per il mio culo”. Roxas riconobbe a malincuore che aveva ragione. «Ti portò là, stanno tutti aspettando – persino Demyx è arrivato prima di te».
Prese la sua mano, lasciandosi trascinare. Axel camminò con molta disinvoltura lungo la parete, stringendolo poi di colpo fra le braccia e lanciandosi contro il muro.
Roxas strillò e cercò di divincolarsi, bloccandosi di colpo quando non ci fu nessun impatto e nessun osso che si spacca sangue che scorre a fiumi. Si staccò di colpo da Axel e si guardò attorno, venendo colto all'istante da una mal di testa lancinante. Quando lentamente le fitte calarono e lui riuscì ad aprire gli occhi senza la paura di sentirli schizzare via dalle orbite, attorno a lui c'era la stazione come ora finalmente la ricordava, piena di Nessuno seduti su borsoni e di impermeabili neri brillanti.
Roxas li guardò uno ad uno – c'era Xaldin, intento ad intagliare un pezzo di legno con viso impassibile, c'era Vexen con i suoi libri, c'era Xigbar che li scrutava con quel suo unico occhio giallo. C'era Demyx, poi, che piangeva avvinghiato a Zexion e sembrava aver pianto per ore, visto quant'era gonfio e rosso il suo viso.
Si voltò per chiedere spiegazioni ad Axel, che scosse la testa. «Zexion non voleva dirgli della partenza. Sai, Demyx è un Nessuno, però è bravo a fingere e... non ha mai sentito più di tanto l'interferenza, quindi lui pensava che sarebbe stato più felice rimanendo qua» rispose, però poi fece una risata gutturale, strana. «È divertente, visto che è stato lui a scoprire per sbaglio quella breccia nel muro».
Roxas si avvicinò a loro, stendendo il proprio impermeabile come una coperta poco lontano dall'angolo in cui entrambi erano rannicchiati. Demyx si asciugò gli occhi e gli sorrise, agitando la mano, Zexion invece si limitò ad un cenno evasivo, come se volesse evitare il contatto visivo. Era la prima volta che li poteva vedere così vicini ed erano scomodi, incastrati l'uno con l'altro a forza, stridenti come note che si sforzano di essere in armonia senza uno spartito da seguire.
Tirò fuori la sfera azzurra dalla tasca dei pantaloni. Era abbastanza piccola da poter stare in un pugno, screziata di ogni sfumatura di blu a seconda della luce. La lasciò rotolare nella conca delle proprie mani, ignorando il rumore sibilante dei sussurri, ed era un po' come se il girare della biglia gli stesse scavando una buca lontano dal nervosismo, dall'attesa estenuante, dal dubbio.
A Roxas piacevano le cose incerte, tutta la sua vita era stata incerta, alla fine ci si abituava e si imparava a rimanere a galla, a smettere di farsi domande sul futuro e focalizzarsi sul presente, anche se spesso è più marcio di quella frutta che magari hai comprato e dimenticato di mangiare per settimane.
Rimanere a Twilight Town sarebbe stato estenuante, eterno. Gli avevano detto che non c'era niente di sicuro, nemmeno al di fuori della città, che nessuno poteva garantirgli che il treno fantasma sarebbe passato e che si sarebbe fermato per loro. Roxas aveva annuito e poi se ne era dimenticato, perché sarebbe potuto anche essere una carriola fantasma, a lui bastava che lo portasse via di lì e tagliasse le mani a chi si divertiva ad impastargli il cervello, a renderlo più insignificante delle poche ore in cui il cielo non era in fiamme ma più scuro, violaceo. Ogni tanto si vedevano le stelle e lui capiva perché Naminé le aveva volute sul suo soffitto.
Siamo tutti in una fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle. Prese il suo diario dalla tasca del borsone, sfogliando le pagine stropicciate, osservando la grafia rotondeggiante delle sue annotazioni. “Noi qui valiamo meno di topi”, aveva scritto Zexion. Continuò a sfogliare fino ad una pagina vuota, alzando lo sguardo per sbirciare cosa stesse facendo Axel.
Era chino sulle proprie gambe incrociate, concentrato su un blocco da disegno. Anche Naminé si raggomitolava così per disegnare, il viso obliquo, il profilo più netto come se fosse stato tracciato a carboncino. Disegnava la Torre dell'Orologio a tratti veloci, frenetici, secchi e precisi come tutto in lui. Era diverso da qualunque altra persona Roxas avesse mai conosciuto.
Era rassicurante. Lui era sbiadito, confuso con il resto del paesaggio, anonimo.
La sua pelle era la pietra ruvida delle case, le piante dei suoi piedi i ciottoli lisci e polverosi di Market Street, le sue palpebre le serrande cigolanti dei negozi. Gli sarebbe mancata più d'ogni altra cosa la Old Mansion, le sue scale infinite, i tappeti che attutivano i passi fino a farti sentire lo spettro di ciò che sei stato. Ci sarebbe stato il gelato al sale marino, in altre città?
Axel si accorse del suo sguardo e gli fece un cenno, porgendogli il blocco per fargli vedere lo schizzo. Era bellissimo. Non sapeva che sapesse disegnare così bene. Non sapeva niente di lui.
Glielo restituì, piegando le labbra in uno di quei sorrisi tiepidi che aveva copiato da Naminé. Qualcosa di lei gli sarebbe rimasto.
Ci furono dei passi frettolosi, pesanti, e Saïx si avvicinò ad Axel, seguito dagli occhi color ambra di Xemnas, il Superiore. Si guardarono a lungo, prima che l'uomo iniziasse a parlare.
«Il Superiore desidera che a Roxas venga detta la verità» disse, lo sguardo che dardeggiava da lui ad Axel, più volte, come se non sapesse davvero a chi si stava rivolgendo dei due.
La verità. Quante mezze-verità gli erano state dette? Quella sarebbe stata davvero la verità ultima, completa, vera? Sospirò e richiuse il taccuino, la pagina di quel giorno ancora bianca.
«Adesso? Non potevamo dirgliela prima, o più tardi?» disse, beccandosi una occhiataccia come risposta.
«Quando morirà senza sapere nemmeno perché non penso ne sarai felice, Axel» rispose Saïx, il tono risoluto come ogni volta che il Superiore gli affidava un incarico. Si sentì una risata gutturale e Zexion si avvicinò, fermandosi a pochi passi da lui. «Roxas non morirà per così poco, Saïx» disse, fronteggiando senza problemi il secondo in carica nell'Organizzazione. «Non ritengo sia una scelta saggia, però, dirgli adesso-»
«Numero VI» chiamò Xemnas dall'altro capo del binario, facendo sobbalzare Zexion che lentamente si voltò a guardarlo, rimanendo in attesa. «Non vorrai disobbedire agli ordini».
Roxas sentì nitidamente il rumore dei guanti di pelle che scricchiolavano e dei denti digrignati, ma non ci fu risposta. Axel sospirò e lo guardò con la stessa espressione che aveva la prima volta, la prima in assoluto, come se la sua pazienza fosse al limite e avesse solo voluto strangolare qualcuno.
Si limitò a ricambiare l'occhiata, indifferente. Non era colpa sua se gli aveva mentito più volte, se gli aveva promesso di spiegargli tutto e non l'aveva fatto, se continuavano a saltare fuori nuove verità, più vere delle altre ma non del tutto vere, proprio quando lui si sentiva in equilibrio e voleva solo rimanere lì e farsi carezzare dal vento. Non importava se ne sarebbe morto, se il suo non-cuore sarebbe andato in cancrena per il dolore fisico più forte che avesse mai provato, se non avrebbe mai perdonato Axel per averlo illuso per mesi che un giorno anche i Nessuno sarebbero potuti essere felici.
Saïx lo fissò a lungo, gli occhi inespressivi e le labbra strette in una smorfia pallida. Roxas gli fece un cenno e Zexion sospirò allo stesso modo in cui aveva sospirato lo “scusa” giorni prima.
«Tu non sei un Nessuno, Numero XIII» iniziò Saïx, monotono e deciso come se quello fosse un discorso preparato secoli prima, scritto a caratteri altisonanti in uno dei libri giallognoli contenuti nella biblioteca della città. «Probabilmente lo diventerai una volta varcato il confine che separa questa città dagli altri mondi, poiché Naminé ha sacrificato il suo cuore per te». Ci fu una lunga pausa, studiata perché potesse assorbire le informazioni, corta abbastanza perché non sprecasse il prezioso tempo del Superiore. Roxas annuì, stringendo forte come non mai la sua sfera del trofeo, sentendola stridere un poco contro la pelle sudata delle sue mani. Non era un Nessuno. Lo sarebbe diventato.
«Un Nessuno è una creatura che un tempo era completa ed ha ceduto il suo cuore all'oscurità. Siamo involucri pieni soltanto della propria anima». Zexion sbuffò dal naso, crollando a sedere su una valigia. Sembrava che le cicatrici di bruciature sulle mani avessero ripreso a prudere. «Conservano memorie della loro vita passata e ricordano cosa siano le emozioni, ma non avranno mai modo di recuperare il proprio cuore».
Non era un Nessuno. Non c'era nessuna vita passata nella sua memoria.
Non sapeva cosa fossero i sentimenti, ma aveva imparato a simularli. A volte li sentiva lievemente, come brividi rapidi lungo la schiena. Non aveva un cuore, ma non era un Nessuno.
«Roxas, questa città ha una mente, un sistema che controlla anche i suoi cittadini, un sistema che qualcuno ha compromesso e che ora tiene imprigionati i suoi abitanti» disse e Roxas rabbrividì per quella che riuscì a catalogare dopo un attimo di sconcerto come paura. «Twilight Town aveva bisogno di qualcosa che un virus non potesse infettare, qualcosa che interferisse con la memoria delle persone e le tenesse qui anche se non c'è più nulla, anche se questa è ormai una città fantasma – ne aveva bisogno, e quindi sei stato creato tu. Roxas, tu sei l'interferenza e sei Twilight Town».
Faceva schifo. Era disgustoso perché quello era il discorso preparato ed infiocchettato da chi non sa nemmeno cosa voglia dire scoprire di non essere abbastanza nemmeno per una mezza vita, da chi non sa cosa voglia dire scoprire che non sei abbastanza importante per meritarti di vivere e basta. Roxas guardò le sue mani e se le morse e facevano male, erano fatte di carne e sangue e vene e ossa e recettore del dolore che stavano impazzando ed erano vive. Erano vive come lo era tutto di lui e faceva male da morire perché lui era vero come lo era la parete che aveva attraversato una mezz'ora prima, quindi era un accumulo di dati faticosamente messi assieme perché manipolasse le persone e le tenesse con lui perché non fuggissero da lui. Lasciò la presa dalla mano solo quando iniziò a sanguinare, guardando le gocce di sangue che cadevano e la carne viva e le nocche e le unghie.
Saïx non ebbe pietà e continuò. «Naminé aveva il potere di contrastare chi sta manomettendo Twilight Town e l'ha fatto finché è vissuta. Ciò avrebbe però consumato la sua vita e l'avrebbe portata alla morte, e lei ha deciso di diventare il tuo cuore così che quando varcherai il confine non scomparirai insieme alla città di cui sei l'anima. Sarai umano per una frazione di secondo e per bilanciare il contraccolpo della morte di Twilight Town perderai il cuore che Naminé ha sacrificato per te. Non sappiamo se funzionerà, però il fatto che tu senta l'interferenza è un fattore positivo. Non sappiamo nemmeno se Twilight Town svanirà davvero, forse tornerà semplicemente alla normalità». Roxas singhiozzò e Axel fu subito lì a stringerlo come fosse la sua ombra, a cullarlo fra le braccia come aveva fatto alla morte di Naminé. Tentò di spingerlo via e lui lo strinse con più forza, senza scostarsi nemmeno quando gli graffiò il viso per scaricare almeno un po' del proprio dolore a qualcun altro. Aveva ammazzato Naminé. L'aveva uccisa lui e lei si era lasciata strangolare con il sorriso sulle labbra, chiedendogli se era tutto okay quando allentava la presa e le lasciava prendere una boccata d'aria. Aveva contaminato la mente dei suoi amici e famigliari solo perché non voleva rimanere solo, perché le persone non si accorgessero che lui non riusciva nemmeno a fingere di essere vero. Faceva un male di merda e lui voleva solo andarsene e trovare un buco in cui piangere tutta la vita e strapparsi ogni cellula di pelle con le unghie.
Axel gli prese il viso fra le mani e gli chiese scusa, mille volte, troppo piano perché gli altri riuscissero a sentire sopra il rumore dei singhiozzi, del fiato che s'incastrava in gola e delle mani che tiravano la pelle dell'impermeabile.
Noi qui valiamo meno di topi. E la sua vita, la sua vita quanto valeva? Era meno della polvere sabbiosa, meno dello sporco nei vicoli più scuri, meno della lancetta spezzata della Torre dell'Orologio. Era ciascuna di quelle cose e riusciva a valere meno anche della più infima.
Strinse la mano sulla divisa all'altezza del cuore e aspettò. Il dolore sarebbe scemato, ci volessero anni o secoli o millenni. Sarebbe arrivato il momento in cui il dolore sarebbe diventato un fantasma, un ricordo offuscato dal tempo, un dolore nostalgico da rispolverare nei momenti in cui Naminé si affacciava nella sua mente con le sue mani minuscole, i capelli biondissimi, il vestito color panna sempre impeccabile. Sarebbe venuto un giorno in cui sarebbe stato metà di qualcosa e sarebbe stato felice di essere meno di una lacrima pianta da Sora quando cadeva dallo skateboard e lasciava metà delle gambe sull'asfalto, perché sarebbe stato più di niente.
Strinse la mano di Axel, cercando di smettere di piangere. Lui sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, prima o poi, e le scuse non avrebbero fatto male come coltellate, perché era lui che stava costringendo quelle persone a scappare dalla loro casa, a lasciarsi tutto alle spalle per trovarsi un luogo in cui poter essere quel poco più di niente che erano senza il rischio di venir schiacciate come insetti, come topi. Alla fine era sempre questione di aspettare, di saper cogliere il momento giusto per balzare su un treno in corsa, di saper decidere se è meglio lanciarsi dalla Torre e morire come si merita di morire oppure provare ad andare avanti e farsi male quando non se ne può più del dolore che già ti perseguita.
Roxas non meritava niente, niente, però la vita gli stava dando l'opportunità di andarsene e diventare qualcosa, imparare cosa vuol dire esistere e magari costruirsi qualcosa in modo da poterlo perdere e arrivare poi a meritare qualcosa. E faceva male, malissimo, più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma se Naminé aveva deciso di farsi uccidere per lui allora non poteva lanciare via tutto quello che lei aveva fatto, non poteva pretendere che morire sarebbe stato abbastanza per ripagare le vite che aveva riscritto, le persone che aveva plagiato e ucciso.
Almeno adesso aveva una mano da stringere. E un desiderio.
Sperava solo che Sora vivesse, che trovasse il coraggio di decidere fra Kairi e Riku, che riuscissero ad essere felici anche dopo la decisione. Desiderava che Pence, Hayner e Olette rimanessero amici, che restassero com'erano e che conservassero una memoria di lui nelle profondità del loro cuore, dove i ricordi non sono accessibili e giacciono in attesa di essere risvegliati.
Axel gli baciò la fronte e Roxas lo guardò, ne studiò il viso pallido, i tatuaggi sotto gli occhi, le iridi verdissime in cui si rifletteva il proprio viso. Era bello come la prima volta che l'aveva visto. Continuò a stringergli la mano, forte, e tremò quando lui sospirò e lo bacio piano sulla bocca come non aveva mai fatto, sfregando le labbra sulle sue come fossero la cosa più delicata e preziosa del mondo. La cosa più preziosa del mondo.
Non sapeva cosa fare. Axel gli sussurrò di nuovo che gli dispiaceva, implorò di nuovo con il suo perdono stringendolo fra la braccia come se davvero pensasse che fosse più di un cumulo di dati senza cuore e anima. Come se l'avesse sempre pensato, anche se sapeva. Roxas non sapeva cosa fare, dunque sorrise.

 

 



 

Note incoerenti dell'autrice:
Oh. Mio. Dio. Finita. L'ho finita ed è pubblicata.
Questa storia me la trascino dietro da
maggio, ma ho iniziato a pensarla a novembre.
All'inizio era una "storiellina per Ella", "massimo dieci pagine", "dai facciamo quindici", "no le venti non le supero" e così via fino alle attuali QUARANTA CAZZO DI PAGINE. Non dico che sia una cosa lunghissima, voglio dire, ci sono storie decisamente più lunghe, ma... no. No. Spero vi sia piaciuta, a me stranamente piace - anche se penso si noti parecchio il lungo tempo che ho impiegato a scrivere, visto che la prima parte è scritta diversamente dal finale e così via.
Il titolo significa "La ragione per cui sei nato sei tu". Kimi ga kimi ni umareta wake è una canzone proveniente da Evangelion e non mi sono fatta troppi scrupoli a deturpare un pezzo di una opera così
intoccabile per scrivere questo sgorbietto. Ci sono altri riferimenti nel testo, eccoli qua di seguito:
- la citazione iniziale è da Tempi Difficili di Charles Dickens
-Il chiodo che sporge va preso a martellate è un proverbio giapponese terrificante. La storia non è ambientata in Giappone, non è ambientata e basta, però è così assurdo e tremendo che ci stava
-
Siamo tutti in una fogna ma alcuni di noi guardano le stelle è un aforisma di Oscar Wilde
- il fatto che il numero di Axel sia salvato in rubrica con gli asterischi ( *Axel* )è una citazione quantomeno idiota ma assolutamente necessaria a Little Earthquakes di CaskaLangley (come se non la conosceste tutti a memoria, porci)
Vi ringrazio se avete avuto il coraggio di arrivare fino alla fine - vi sarò grata se lascerete una recensione, ma davvero, va bene anche solo che voi abbiate letto e apprezzato.
Grazie mille,
Syr.

   
 
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