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Autore: valfoy    19/08/2013    2 recensioni
negli ultimi mesi non ho potuto fare a meno di notare che sono circondata da dottori. diagnosti, soldati, dentisti e psichiatri che all'unisono mi hanno strappato, curato, pompato e "assaggiato" il cuore. lascio a voi il divertimento di scoprire di quali dottori io stia parlando.
personalmente è stato un divertimento scriverla; trovarmi lì in mezzo sarebbe la mia morte.
e voi, preferireste aspettare Lecter, o Godot?
Buona lettura!
Genere: Comico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Il pranzo di Wilson è sempre buono”.
Greg House si siede sulla panchina in prossimità del parco. Sogghigna sotto i baffi. Si sazia di più pensando alla faccia dell’amico quando vedrà il suo pranzo scomparso, che non per il sandwich stesso. “Immagino” sospira un ometto leggermente ricurvo, seduto sulla panchina retrostante. House si volta con la bocca piena, sgranando gli occhi per vedere chi ha parlato. “E tu,” iniziò lo zoppo, “non mangi?”. L’uomo dall’altro lato sospirò. Sicuramente aveva passato la trentina, ma il suo viso restava quello di un ragazzotto impacciato. “Evidentemente io soffro delle stesse disgrazie di questo Wilson” Prima di rispondergli, House pensò con suo divertimento, che dei baffi sul quel viso, sarebbero stati decisamente fuori luogo. “Intendi dire che hai un amico che ti fotte il pranzo?” “Precisamente”. Calò un silenzio imbarazzante; solo la masticazione nervosa e ghiotta di House lo rompeva, facendo così salire ulteriore fame all’altro. Quest’ultimo decise infine di farsi avanti. Si girò una volta, e poi una seconda cercando d’inquadrare l’uomo dietro di sé. Arricciò le labbra, intrecciò le dita della mano sinistra con quelle della destra, fece per parlare ma richiuse la bocca subito dopo. House dal canto suo continuava a mangiare ormai dimentico di chi gli stava intorno. Con un’ultima presa di coraggio, l’ometto si alzò per sedersi al fianco dell’uomo. Con sua meraviglia, notò che egli teneva un bastone vicino a sé. House smise di masticare il boccone per quello che all’ometto sembrò un’infinità inquisitoria, e lo osservò con i suoi occhi azzurri. Sospirando tra sé e sé allungò una mano, prima che l’altro tornasse a fregarsene di tutto e di tutti. “John Watson” anche il silenzio che seguì, venne percepito come un’infinità. Stavolta d’imbarazzo. House tornò a masticare e mostrando orgoglioso la bocca piena disse: “Guarda, che non è mia intenzione dividere il pranzo. Non hai idea delle fatiche che ho fatto per rubarlo”. John mostrò un’aria contrita che maledì non esser riuscito a nascondere. Deciso ad andarsene stava per alzarsi quando Greg lo fermò. “Gregory House”, si pulì la mano sui jeans e l’offrì a John. Questo gliela strinse, accennando un sorriso: “Non era mio fine chiederti da mangiare, comunque”. “Chiedilo alla bava che ti cola dalla bocca” Watson rise. “Ho notato il bastone,” continuò, “com’è successo?” “Aneurisma alla gamba mal diagnosticato” lo sentenziò con tutta la superficialità che il suo tono potesse esprimere. John non seppe esattamente come rispondere, o come comportarsi. Dopotutto era una faccenda seria e per nulla piacevole. La superficialità usata da House doveva nascondere un profondo dolore che il danno gli aveva inflitto. “Mi dispiace” “Beh nemmeno tu hai avuto vita facile” House non lasciava respiro alla conversazione: amava il botta e risposta. “Come dice?” “Deve essere stata una faccenda poco simpatica. Non che vi siano guerre piacevoli e di certo non la invidio” John rimase senza fiato. Era un fottuto déjà vu! “Ma non è da tutti tornare a camminare dopo aver superato la crisi post-traumatica”. John mostrò un finto risentimento: “E sentiamo, da cosa lo avrebbe capito? Dal palmo della mano con cui usavo il bastone, o dalla suola della scarpa più usurata?” “Veramente ho letto di lei a una conferenza”.  E tutte le volte, John ci cascava. O era troppo ottuso o troppo laborioso. “Dr. John Watson”, riprese House fingendo di ricordare, “lei è un tipo un po’ strano”. “Sono inglese!”  Greg sogghignò. Prese una lattina di birra dal sacchetto e l’aprì. La porse a Watson e ne prese un’altra. Brindò portando la sua verso quella di John e concluse: “Condoglianze”.

 


♢ ♢ ♢
 


John stava sorseggiando la sua birra. House aveva notato che si era fatto guardingo, quasi sospettoso. “Sei ancora alla prima lattina. Non hai sete?” Watson evitò spudoratamente la domanda ponendone un’altra. “Quel uomo ci sta osservando?” Greg guardò davanti a sé. “No! Non fissarlo!” House alzò un sopracciglio: “Sono in un parco pubblico, fisso quello che voglio. Comunque sì, se vuoi saperlo” “Sì, cosa?” “Sì, ci sta osservando. È da quando ti sei seduto accanto a me che lo fa. E ammicca nel farlo”. Watson aggrottò la fronte “Cosa?” “Mi stupisce che non te ne sia accorto prima. Ti sta mangiando praticamente con gli occhi!” avvicinò la lattina alla bocca. John sentì un brivido percorrergli la schiena: “Non scherzare!”. L’intruso in questione era un uomo di alta classe, dallo stile impeccabile. Sedeva simmetrico al centro della panchina oltre il sentiero. Capelli perfetti, pettinati da una parte, capotto scuro che lasciava intravedere una camicia bordeaux con tanto di cravatta e gilet.
“Salve gentili colleghi!” i due erano così presi dallo sconosciuto, che sobbalzarono all’udire quella voce cristallina. Non si erano accorti di chi si era affiancato, fin tanto che questi non proferì nuovamente parola. “Giornata incantevole, vi pare?” House si volse: “Tedesco.” lo salutò e tornò a bere la sua birra. “Non vorrei esser sfrontato, ma ho una certa qual sete …” Greg sbuffò senza nascondere quanto fosse scocciato. Si era nascosto da Wilson per cercare la pace dei sensi, ed ecco che ben altri due dottori, lo avevano avvicinato. Prese l’ennesima birra e la lanciò al nuovo arrivato. “Danke!” John mosse velocemente gli occhietti vispi. Nonostante il tedesco, così come lo aveva chiamato House, si fosse riferito ad entrambi, Watson era sicuro di non conoscerlo. “Chi è il suo amico?” “Dr. King Schultz, al vostro servizio” rispose direttamente l’interessato. John non seppe trattenersi e notò ogni singolo particolare di quel uomo. Così strano, stravagante e nel complesso così a suo agio. Gli abiti erano di antica fattura, vestito di un grigio azzurrino, sapeva portare il suo completo con incantevole disinvoltura e eleganza di altri tempi. Pareva esile ma decisamente tonico e in ottima forma per essere un uomo di mezz’età.
“Dovrò fare un reclamo alla scrittrice” se ne uscì d’un tratto House. “Perché mai?” chiese Schultz. “Buon collega, lasci stare quella povera ragazza, avrà sicuramente altro a cui pensare” “Non è un mio problema” riprese “Sono intenzionato a capire perché mai in un crossover di dottori, abbia deciso d’inserire un dentista!” John trattenne a stento le risa. Era il solito luogo comune cucito addosso agli odontoiatri che abusando del titolo di medico, erano fuori luogo quanto un imbianchino onorato del titolo di pittore. Vecchio luogo comune, pensò John, ma sempre valido. Dal canto suo, il composto Dr. Schultz evitò di mostrarsi irritato, anche se non poteva negare di sentirsi colpito nell’orgoglio. Respirò profondamente, arricciò un baffo e disse semplicemente: “Touchè!”

Fu in quel momento che l’estraneo impeccabile si alzò, per dirigersi verso i tre della panchina oltre il sentiero. 
     

 

♢ ♢ ♢     


“Greg, quel tipo si dirige verso di noi!” proferì allarmato John. “Non chiamarmi Greg. Nemmeno Wilson lo fa.” “E chi sarebbe il vostro amichetto?” s’intromise Schultz, notando il passo felpato dell’uomo che li stava raggiungendo. “Amichetto non direi. Dico, l’hai visto?” disse House “Quello è tipo da fare nozze il giorno di Halloween!”. Watson non colse la battuta, era troppo intento a catturare altri particolari dell’uomo. Aveva occhi piccoli ma accesi, potevano insinuarsi in qualsiasi animo umano, come i serpenti fanno con le rocce. Zigomi alti ben levigati, lasciavano le gote vuote e ciò che qui non riempiva, era stato sistemato sul labbro superiore fortemente accentuato. Quel insieme per quanto particolare, gli dava un’importanza, un fascino non da tutti. E quel volto anche se non sorrideva pareva sempre sogghignare a ogni tua mossa o parola. Come se ti avesse sempre avuto in pugno, qualsiasi fosse stata la tua difesa. Giunse a loro poco distante quando finalmente parlò. “Scusate il disturbo,” la sua voce era bassa, leggermente impastata ma decisa. Ricordava vagamente il tocco di una mano sul velluto. Come se le sue corde vocali fossero di velluto. “Sto cercando il Dr. Gregory House”. “E’ lui”, disse House indicando John. Prima che la burla saltasse fuori, l’uomo rise delicatamente socchiudendo gli occhi. “Signor House, mi avevano avvertito del suo comportamento poco consono e giocoso. E per giocoso intendo dire infantile”. “Non mi offenda, sono sensibile nel profondo del mio animo tormentato” rispose Greg, il tutto pronunciato con acuto versetto isterico. “Proprio per questo mi hanno offerto il suo caso,” estrasse un biglietto da visita dalla tasca del cappotto. “Dr. Hannibal Lecter.” Lesse House. “Psichiatra” Alzò gli occhi con palese espressione “non-mi-prenda-per-il-culo”. “Non ne ho bisogno” “Ogni mio paziente parte con questa frase. E’ un buon inizio” sorrise soddisfatto. “Lei non capisce,” stavolta House dimostrò una serietà glaciale. “Io non cambierò solo perché uno pseudo psichiatra resta col culo seduto sulla sua poltrona da tremila dollari”. Hannibal lo guardò dritto negli occhi: “Io non intendo cambiarla. Intendo ascoltarla”. House cercò d’interpretare quel individuo così illeggibile e complesso; un vero caso interessante per la sua mente. “Potremmo essere amici” riprese Lecter. “Io non ho amici” fu la risposta gettata fra i denti.
“E’ questo che ci rende simili”.

Erano affascinati l’uno dall’altro; due menti malate che si studiavano in un valzer d’incongruenze.
John avrebbe voluto rompere il silenzio con una delle sue battute, magari la solita “Hamish! John Hamish Watson. Nel caso vi servisse un nome per il bambino..” ma fu battuto sul tempo. “Non ho potuto fare a meno di notare che lei non ha mangiato,” e John capì che Lecter si stava rivolgendo a lui. Riuscì a biascicare un no come risposta. “Se mi permette, le offrirei volentieri parte del mio pranzo”. “E’ davvero gentile, ma non potrei mai…” “Ne sono sazio,” insistette Lecter, “e trovo abominevole gettar via del buon cibo”. Di nuovo quello sguardo calcolatore. “La prego d'accettarlo. Lo preparo appositamente con le mie mani.” Sorrise “Può fidarsi”. Era chiaro che un no come risposta non era contemplato, quindi Watson fu costretto ad accettare. Non per questo controvoglia.
Hannibal Lecter chiaramente soddisfatto, si rivolse un’ultima volta a House, prima di congedarsi.
“Mi chiami”. E girò i tacchi verso l’uscita con passo studiato.


 

 ♢ ♢ ♢


“Che personalità strana”, sospirò John Watson osservando il bottino che aveva in grembo: insalata fredda con pomodorini, pollo e altri ingredienti, forse troppo costosi o introvabili perché ne conoscesse il nome. “Inquietante, vorrai dire!” gli rispose House. “Eri tu quello che se la faceva sotto, o sbaglio?” “Beh, è uno psichiatra” si giustificò John, “Tutto si spiega. Ha i suoi perché”. House puntò gli occhi sull’insalata di Watson. “Io non chiuderei così la questione. Ha una personalità troppo contorta e intrigante per esser archiviato in maniera così superficiale”. Watson sbottò, facendo trasalire anche il Dr. Schultz. “Ma se hai appena detto che è inquietante! Non mi pare un modo carino per definire una persona” House respirò a pieni polmoni, e iniziò il  monologo: “Primo: non mi fido degli uomini che indossano gilet e cravatta.” “Apprezzo la sua sincerità” lo interruppe Schultz sentendosi preso in causa. “Secondo: l’hai visto in faccia?” riprese Greg, riferito all’ormai assente Dr. Lecter. “Uno con un nome come il suo, non deve starci tanto con la testa!” “E tu, allora?” rispose Watson, “Hai un nome normale, ma ti fai di Vicodin: sei un drogato e pure stronzo!” House sorrise compiaciuto come se gli avessero appena fatto un complimento. Citò il tedesco per darsi ulteriore tono: “Touchè”.
 


♢ ♢ ♢
 


John stava rimuginando sul dialogo appena avvenuto. “Tutto ciò, è insensato. Le cravatte le porti pure tu”.
House puntò gli occhi al cielo, lamentandosi: “E’ insensato che tu voglia tornare sull’argomento. Proprio perché le indosso, so che non vi dovreste fidare di me. Eppure lo fate tutti”. Schultz rise sotto i baffi. E la barba. “Ha ragione lui, giovanotto. Ammettiamo che se ne renda almeno conto”. Greg alzò la mano per battere il cinque al dentista, ma questo non capì. Anzi, alzò la sua lattina di birra e disse semplicemente: “Prost!” Dissetatosi piacevolmente, mosse la mano per pettinarsi ancora una volta i baffi. “Sa, gentile collega” rivolto a Greg “stando al suo ragionamento, lei non dovrebbe fidarsi nemmeno del sottoscritto”. King allargò le braccia per appoggiarle allo schienale della panchina. “Schultz per lei il discorso è diverso,” spiegò House, “E’ un cacciatore di taglie. Glielo si legge in fronte che non ci si può fidare”.
“Ottima risposta, collega. Tuttavia non può negare che ho un certo stile”.
House alzò un sopracciglio. John s’illuminò come un bambino e s’intromise: “Ricorda tanto la battuta che Kingsley fa a Silente!”
Stavolta non solo House lo guardò di sbieco, ma anche Schultz.

 

    ♢ ♢ ♢    


Il sole stava calando, il pomeriggio era passato e House fra tutti non vedeva l’ora di stendersi sul letto per non dover più pensare. Si alzò stiracchiandosi. “Sai Watson,” concluse “dovresti iniziare a darti un tono anche tu. Indossa una cravatta ogni tanto,” cercò l’appoggio di Schultz. “Non ti si può vedere con quel pullover!”. King gli sorrise, lasciando intendere che l’eleganza era anche uno stile di vita: non bastava una cravatta per fare un gentiluomo. Quel giovanotto però gli era simpatico e intuiva quanto fosse di animo gentile. “Vi auguro una soave serata, signori” disse poi, incamminandosi verso il tramonto con tanto di cappello.
House accennò un saluto e fece altrettanto.
Rimasto solo, John prese a discutere con sè stesso, tirando e guardando il suo pullover.
Non si rese nemmeno conto di aver scordato il pranzo offertogli da Lecter, sulla panchina.

“Che ha che non va il mio pullover?” sbuffò “Al fandom piace!”.

   
 
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