CAPITOLO
QUARANTADUE
Severus
Piton alzò lo sguardo su Charlie, seduto
sull’ultimo gradino dei sotterranei di Grimmauld,
perfettamente mimetizzato con
l’oscurità del luogo che quasi non lo si vedeva.
L’insegnante di Pozioni studiò attentamente la
figura del figlio con i suoi
occhi scuri e poi li riportò sul Mangiamorte steso a terra,
quello che il
ragazzo aveva sconfitto durante il combattimento di poche ore prima.
“Riesci
a farlo ritornare?” chiese l’uomo, il tono
da insegnante odioso completamente sparito. Non gli piaceva usarlo col
figlio,
anche se doveva ancora abituarsi alla consapevolezza di averne uno. Per
lui non
era di certo stato facile come per Sirius o Remus e, oltretutto, il suo
Charlie
non era così esuberante come gli altri ragazzi e non gli
aveva reso il lavoro
più facile.
“No.
Credo che sia irreversibile”, rispose il
ragazzo, senza particolare enfasi nel tono, come se la cosa non gli
interessasse.
Piton sospirò, provando un certo senso di pietà
verso quell’uomo
dall’espressione grottesca, costretto a vivere il suo incubo
a occhi aperti
senza poterne uscire, nonostante fosse il servitore del mago
più crudele di
tutti i tempi. Quella era una punizione che non avrebbe augurato
nemmeno al suo
peggior nemico.
“Come
fai ad avere un potere del genere?” chiese,
poi.
Charlie
portò lo sguardo dall’altra parte, come se
temesse un contatto visivo col padre.
“Legilimanzia”.
“Ma
la Legilimanzia è in grado di far leggere nel
pensiero e, a volte, anche di controllarla. Non puoi aver ereditato
tutto
questo potere da me”.
“Anche
mia madre era una brava Legilimante”.
Piton
si immobilizzò di colpo e non aggiunse altro.
Il ragazzo non aveva mai voluto svelare il nome della madre e non lo
avevano
fatto nemmeno i suoi amici, sempre se lo sapevano. Questo significava
solo una
cosa: aveva un rapporto difficile con la donna che lo aveva messo al
mondo.
Ciononostante, si arrischiò a chiedergli: “Chi
è tua madre?”
“Non
posso dirtelo”.
L’uomo
restò per qualche secondo a guardarlo. Sapeva
che era inutile, ma provò lo stesso a penetrargli la mente
con quella tecnica
che padre e figlio conoscevano bene, incontrando soltanto una specie di
muro di
pietra che gli impedì di vedere qualsiasi cosa. Charlie gli
lanciò quella che
pareva essere un’occhiata di sfida. Già, non era
certo così stupido.
Con
un sorrisetto divertito e un moto di orgoglio
che sentiva invadergli il petto, si apprestò a tirare fuori
un’ampolla
contenente del liquido azzurro e a versarlo nella bocca del
Mangiamorte. Dopo
qualche secondo, lo guardò annaspare in cerca
d’aria finché la vita non lo
abbandonò totalmente.
La
morte non era così brutta, dopotutto. A volte era
una buona amica che veniva a porgerti la mano quando ne avevi bisogno.
James
si allungò per riporre un libro sullo scaffale
sopra il letto e solo per poco riuscì a trattenere il gemito
che stava per
spuntargli dalle labbra. Si portò una mano al fianco con una
smorfia di dolore
e si massaggiò la ferita che si era fatto affrontando i
Mangiamorte. Gli dava
parecchio fastidio, prudeva e faceva male. E, oltretutto, un assiduo
mal di
testa gli premeva contro le tempie e aveva brividi di caldo che gli
correvano
lungo la spina dorsale.
Si
appoggiò alla porta, sospirando, un sorriso
rassegnato a decorargli le labbra.
Forse sarebbe avvenuto prima del previsto.
Con
uno sforzo enorme, tentò di rimettersi dritto e
di assumere l’espressione più normale che potesse.
Aprì la porta e uscì in
corridoio.
“James!”
si sentì chiamare da una voce allegra e,
improvvisamente, si ritrovò Ariel appesa al collo.
Nell’abbracciarlo, però, la
ragazza era andata a sbattergli contro il fianco e ciò gli
aveva provocato una
scarica di dolore talmente forte che gli aveva oscurato la vista per
qualche
secondo e mozzato qualsiasi urlo gli fosse nato in gola.
“Ari”,
mormorò. “Che succede?”
“Niente!”
rispose lei, sempre in tono squillante.
“Avevo solo voglia di abbracciarti”. E, dopo
avergli dato un bacio sulla
guancia, scappò su per le scale, saltellando allegramente.
Il ragazzo si trovò a sorridere per l’esuberanza
della sorella e, per non
cadere a terra, si appoggiò qualche secondo al muro, prima
di continuare a
trascinare i piedi lentamente al piano terra, reggendosi il fianco con
una
mano.
Quando
entrò in cucina, trovò la signora Weasley
intenta a cucinare e i suoi amici seduti attorno al tavolo da pranzo.
Si
avvicinò al frigo e tirò fuori un cartone di
succo, bevendo direttamente da lì.
“James,
sei pallido”, notò Teddy, seduto accanto al
padre di fronte alla sua pozione antilupo.
“E’
vero. Sembra che stai per vomitare da un momento
all’altro”, aggiunse John con la solita delicatezza
che lo contraddistingueva
tanto.
Il
moro si sentì puntare tutti gli occhi addosso e
cercò di apparire più naturale possibile.
“Sto bene, sono solo un po’ stanco”,
rispose lui, cercando di raggiungere velocemente la porta. Un movimento
brusco,
però, gli provocò un’altra scarica di
dolore che questa volta gli fece venire
le lacrime agli occhi, mentre cadeva in ginocchio tra gemiti di dolore.
Gli
amici presenti nella stanza si alzarono di
colpo, allarmati. Ted corse a sorreggere l’amico
perché non sbattesse la testa
contro il pavimento e si inginocchiò accanto a lui. Poi lo
fece stendere per
terra a pancia in su, rivelando così una grossa macchia di
sangue che si era
allargata sulla sua maglietta.
“Oh
Merlino!” esclamò la Signora Weasley, portandosi
le mani alla bocca.
Remus,
intanto, cercava di sollevargli la maglietta,
ma le mani del ragazzo continuavano a spingerlo via. Così
Ted fu costretto a
bloccargliele.
“No”,
biascicò James, contorcendosi sul pavimento.
L’uomo
era riuscito a scoprirgli le fasciature che
ancora gli coprivano l’addome e che erano piene di sangue
fresco. Sperava che
si trattasse soltanto della ferita che si era riaperta, ma in cuor suo
vedeva
qualcosa di ben peggiore.
Infatti,
non appena gliele tolse, tutti i presenti
sgranarono gli occhi, inorriditi e sconvolti.
Jolie
si buttò sul letto con un gran sospiro e
rimase immobile a fissare il soffitto sopra di sé.
“Che
c’è, Lie?” le chiese Emmie, seduta sul
proprio
baule, notando l’espressione un po’ strana
dell’amica.
“Stavo
pensando…”, le rispose la ragazza, senza
voltarsi a guardarla.
“Ah,
perché sai pensare?” fece Victoire in tono
scherzoso. La rossina, per tutta risposta, le fece una linguaccia.
“Comunque,
pensavo…”, continuò Jolie.
“Secondo voi
la battaglia in cui dovevamo salvare Harry era quella che abbiamo
appena
affrontato?”
Le
due ragazze presenti nella stanza con lei non le
risposero subito, probabilmente impegnate a riflettere sulle parole
dell’amica.
“Secondo
me sì”, le rispose Emmie. “Prima di
partire
ci hanno descritto più o meno che cosa sarebbe successo e le
cose hanno
coinciso. Insomma, quelli che c’erano, il motivo
dell’attacco…”.
“Sì,
ma Harry non è stato neanche ferito”, la
interruppe Vicky pensierosa. “Voglio
dire…”. Ma prima che la bionda potesse
aggiungere altro, Jolie si era alzata di colpo dal letto e si era
precipitata
fuori dalla stanza; un terribile presentimento le era venuto tutto
d’un colpo.
Quando
Jolie giunse nella stanza di JamesRemus,
seguita da Emmie e Victoire, trovò il ragazzo steso nel
letto con un orribile
segno che gli copriva quasi tutto l’addome. Ricordava una svastica inscritta in una specie di
cerchio. Aveva tutta l’aria di
essere un tatuaggio, solo che era realizzato col suo sangue.
Al
suo capezzale si erano radunati quasi tutti, con
espressioni sconvolte e preoccupate.
La
grifoncina si sedette accanto a lui e gli prese
la mano delicatamente. “Jamie”, chiamò.
“Lie”,
mormorò lui, quasi senza voce. Aprì piano gli
occhi, puntandoli in quelli della ragazza, e le strinse la mano.
“E’
stato quel Mangiamorte?” chiese Jolie. “Quando
hai spinto Harry? Era la maledizione di cui è morto mio
fratello?”
“Cosa?!”
esclamò Harry, appoggiato al muro vicino
alla porta.
“Credo…
credo di sì”, biascicò JamesRemus,
cercando
di mettersi seduto.
“Ho
mandato un Patronus al dottor Kent!” disse la
voce di Sirius, accorso in quel momento nella stanza. “Avete
chiamato Silente?”
“Remus
è andato ad avvertirlo”, gli rispose James,
ponendogli una mano sulla spalla.
“Jimmy,
tu lo sapevi?” fece John, rivolto all’amico
steso nel letto.
“Lo
immaginavo”, il moro si spinse con le braccia
per mettersi seduto meglio, ma un’altra fitta lo colse
all’improvviso e Teddy
si slanciò per aiutarlo.
“Perché
l’hai fatto?” si intromise allora Harry,
avvicinandosi al letto e poggiando le mani sul bordo.
“Perché mi hai spinto
via?”
“Dovevamo
salvarti! Siamo venuti qui per questo.
Sapevo che quella era la battaglia in cui saresti stato ferito e non
poteva
succedere”.
“Ma
così…”. Harry non ebbe il coraggio di
concludere
la frase, ma tutti capirono che cosa intendesse dire. E lo sapeva anche
JamesRemus, proprio per questo non aveva voluto dire niente a nessuno.
Sperava
che la cosa riuscisse a passare inosservata, almeno fino alla sua
dipartita, e
invece aveva sottovalutato i dolori che avrebbe patito.
Piton
rimase a fissare il simbolo maledetto sul
corpo pallido di James per una decina di minuti buoni, poi
riportò lo sguardo
su Silente, poggiato alla testiera del letto accanto a lui. Nella
stanza erano
rimasti Sirius e gli amici del ragazzo.
“Allora,
Severus?” chiese l’anziano mago, senza
guardare nessuno dei presenti. Teneva lo sguardo fisso sulle proprie
mani.
“E’
una maledizione molto antica”, rispose il
professore di pozioni, col solito tono strascicato. “Veniva
utilizzato ai tempi
della comparsa dei primi maghi, ma ormai dovrebbe essere stata
dimenticata.
Sicuramente colui che l’ha usata doveva avere una conoscenza
molto vasta delle
arti oscure”.
Dopo
le parole del Serpeverde, la stanza cadde in un
pesante silenzio.
“E
non c’è niente che possiamo fare?”
chiese Ariel,
angosciata. Come tutti gli altri del resto.
L’insegnante
parve riflettere per qualche secondo,
poi ricominciò a parlare, osservando il morente.
“Ci sarebbe una pozione. È
piuttosto complessa, ma posso prepararla. Se non fosse che manca un
ingrediente
nella mia dispensa”.
“Quale?”
chiese Sirius con trepidazione.
“Si
tratta del Cuore della Cometa”.
“Ma
non era una leggenda?!” sbottò Ted, guardando
Piton come se avesse appena detto di aver fatto un viaggio su Marte.
“No,
non lo è”.
Il
Cuore della Cometa era un fiore in grado di
curare tutte le maledizioni, spiegò Piton. Era poco
conosciuto per il fatto che
era stato usato forse soltanto due volte in tutta la storia magica ed
era stato
poco usato perché era quasi irraggiungibile. Cresceva nelle
foreste
dell’amazzonia, vicino ad un villaggio di maghi e streghe che
vivevano ancora
in un ambiente primitivo, però molto capaci nel creare
tranelli e incantesimi
per proteggere le loro ricchezze, come, appunto, il Cuore della Cometa.
“Allora,
siamo d’accordo?” chiese Sirius, lo sguardo
fisso sulla mappa stesa sul tavolo che segnava la strada che avrebbero
dovuto
fare. Avrebbero raggiunto la foresta con una passaporta, ma quella li
avrebbe
portati soltanto al limitare. Tutto il resto sarebbero stati costretti
ad
attraversarlo a piedi.
Frank
e James annuirono. Avevano deciso di
accompagnare l’amico in questa spedizione altamente mortale
senza esitare.
Dopotutto, se si fosse trattato di uno dei loro figli sapevano che
nemmeno
Sirius li avrebbe lasciati andare da soli.
“Papà,
veniamo anche noi”.
I
tre uomini si voltarono verso la porta, trovandovi
Joel e John fermi sulla soglia che li guardavano con aria decisa.
“Cosa?!”
sbottò Frank, spalancando gli occhi.
“Be’,
avrete bisogno di tutto l’aiuto possibile”,
rispose John, scrollando le spalle, con un sorrisetto beffardo stampato
sul
volto. Sembrava che percepisse quella spedizione come una gita al luna
park.
“Sì,
ma di certo non porteremmo voi. Siete solo dei
ragazzini”, fece notare Paciock senior, scambiando
un’occhiata con i due amici.
“Ci
risiamo”, sospirò John in direzione di Joel,
mimando le parole con le labbra. L’amico alzò gli
occhi al cielo.
“Continuate
a sottovalutarci”, iniziò allora il più
piccolo dei Black. “Abbiamo affrontato cose peggiori. E poi
non ho intenzione
di guardare mio fratello morire senza fare niente”.
John
annuì, avvicinandosi di più all’amico.
I tre
uomini sospirarono, ben consci che non avrebbero potuto fare molto per
far
cambiare loro idea.
“Vengo
anche io!” Questa volta era stata la voce di
Harry a parlare. Arrivato in cucina senza essere notato, guardava il
padre così
intensamente che sembrava volergli dire qualcosa soltanto col potere
dello
sguardo. “James mi ha salvato la vita. Glielo
devo”.
MILLY’S
SPACE
Torna
settembre e torna anche Milly : ) come state? Vi
sono mancata?
James:
ti piacerebbe -.-‘’
Milly:
sta’ zitto tu! Allooooora ^^
Che dire? Questo capito l’ho scritto finché ero al
mare, ma non saprei dire se
mi soddisfa oppure no. Lascerò a voi i commenti.
Piccole precisazioni, anche se penso siano superflue: il Cuore della
Cometa è
una mia totale invenzione, non l’ho presa né
rubata in altre parti. Se ne avete
già sentito parlare allora è soltanto una
coincidenza, o forse no ^^.
Sto
vedendo già delle asce levarsi sopra la mia testa. Questa
cosa non mi piace. Be’, levo le tende, allora, prima che il
mio sangue inizi a
scorrere a fiumi o la mia testa faccia la fine di quella di Ned Stark.
Bacioni
e buon rientro a scuola o al lavoro : )
Milly.
PUFFOLA_LILY:
ehm, mi sa che anche tu stai levando l’ascia ora D: ma ti
avviso che se mi
uccidi non potrai mai sapere il finale u.u Sì, John e
Charlie sono tenerissimi,
li adovvo. C’è da ringraziare solo Ino.
Alla prossima,
bacioni,
M.