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Autore: LindaBaggins    08/10/2013    6 recensioni
Nel passato di Thorin Scudodiquercia non ci sono solo un regno e un tesoro perduti. Nel passato di Thorin Scudodiquercia c'è anche una ragazza, che gli era stata promessa in sposa e da cui la caduta di Erebor l'ha separato. Molti anni dopo, però, il passato tornerà a trovarlo, portandosi dietro complicazioni e vecchi segreti che il tempo non è riuscito a cancellare.
STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7. IL COLTELLO DALLA PARTE DEL MANICO


Elinor deglutì, il cuore che, per qualche curioso motivo, sembrava aver deciso di raddoppiare i battiti.
Tuttavia non si scompose di un millimetro, e attese con calma che Thorin la raggiungesse. Non aveva idea del perché il fatto che fosse venuto a cercarla la turbasse tanto. Forse era lo strano modo in cui l’aveva guardata per tutta la sera, a renderla nervosa. O, forse, il fatto di non sapere assolutamente cosa aspettarsi da lui dopo quella cena al limite del surreale e quella conclusione a dir poco imbarazzante …
«Ve ne andate così presto?» le chiese il nano quando l’ebbe raggiunta e le fu tanto vicino che Elinor poté vedere il fuoco delle torce danzare nei suoi occhi azzurri.
La ragazza sorrise, a disagio. «Non intendevo ancora ritirarmi. Pensavo solo che mi avrebbe fatto bene una boccata d’aria. Sono un po’… scombussolata.»
«Capisco.»
Thorin la fissò in silenzio per qualche secondo con gli occhi socchiusi e la testa leggermente inclinata di lato. Poi, proprio mentre Elinor iniziava a chiedersi per quale motivo l’avesse fermata se intendeva limitarsi a fissarla senza aprir bocca, domandò d’impulso: «Vi dispiacerebbe molto se vi tenessi compagnia?»
Elinor ci mise qualche secondo ad assimilare quello che aveva appena sentito. Lo fissò a sua volta per qualche istante, sbigottita e incapace di rispondere alcunché.
«Se … preferite stare da sola, posso tornare di là» fece marcia indietro Thorin in tono secco, fraintendendo la sua espressione.
«Oh, no!» rispose precipitosamente Elinor, rendendosi conto di essere risultata scortese. «No, voi … non mi disturbate affatto! Sarebbe un piacere passeggiare con voi nei Giardini … davvero!»
Il cipiglio di Thorin si distese leggermente, e l’ombra di un sorriso increspò le sue labbra. «Bene, allora.»
Per un attimo sembrò incerto se porgere o no il braccio ad Elinor, perché accennò un impacciato movimento del gomito nella sua direzione. Ma il fugace momento di galanteria passò così come era venuto, e il nano si limitò a schiarirsi la voce, imbarazzato, e a cederle il passo.
«Dopo di voi» disse, accennando alla porta con un vago gesto della mano.
I Giardini Interni erano ancora più profumati dell’ultima volta che c’era stata. Quella sera l’aria aveva quasi un sapore estivo, e non un filo di brezza piegava le cime degli alberi e gli steli dei fiori. In lontananza, le luci di Esgaroth tremolavano, raddoppiate nell’acqua del lago, simili a tante enormi lucciole rimaste impigliate nella pianura. Mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, Elinor si chiese distrattamente che cosa stesse facendo suo padre, se fosse già addormentato o se Uren gli stesse ancora sussurrando all’orecchio con voce untuosa.
Si incamminarono lungo il viottolo in silenzio, Thorin con le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo fisso a terra, Elinor giocherellando nervosamente con i pendagli della cintura che le cingeva i fianchi. Era assolutamente certa che Thorin stesse per dirle qualcosa: l’aria, tra di loro, sembrava vibrare di attesa.
«É bellissimo, qui» osservò, prendendo l’iniziativa e cercando di rompere un po’ il ghiaccio. «Quando Balin mi ha portato a visitare i Giardini per la prima volta, qualche giorno fa, sono rimasta sbalordita. Non me li immaginavo così belli.»
«Sono lieto che vi piacciano» rispose Thorin. Dalla sua voce distratta ed eccessivamente formale, Elinor capì che, in realtà, la sua mente era rivolta da tutt’altra parte. Così decise di tacere, per dargli modo di trovare il coraggio di dire quello che doveva. Dovette aspettare ancora diversi secondi, tuttavia, prima che Thorin si decidesse finalmente a parlare.
«Pare che dovrò ringraziarvi per la seconda volta nella stessa giornata, Elinor» disse finalmente, dopo aver chiuso gli occhi e tratto un breve, profondo respiro. «Quello che avete detto poco fa, a cena … ecco, è stato molto … leale, da parte vostra.»
Per un lungo istante Elinor non rispose e continuò a camminare in silenzio al suo fianco, lo sguardo basso e le sopracciglia leggermente aggrottate. Lealtà… una parola davvero troppo eccessiva – troppo generosa - per definire il motivo della sua sconcertante esplosione di rabbia. Tutto quello che aveva sentito dentro di sé un attimo prima di sbottare contro Dàin era stata solo un’indescrivibile irritazione per l’arroganza dei suoi modi.
«Non dovete ringraziarmi» disse Elinor scuotendo la testa. «Non si è trattato di una cosa programmata. Ho parlato senza pensare, sono stata impulsiva.»
Thorin si arrestò di botto e alzò lo sguardo su di lei. «Questo toglie forse valore alle vostre parole?» chiese in tono brusco.
«Certo … certo che no» rispose Elinor disorientata.
«Il fatto che abbiate parlato d’istinto dimostra che pensavate veramente quello che stavate dicendo» riprese Thorin in tono più morbido ricominciando a camminare. «E io, mio padre e mio nonno ve ne siamo enormemente grati.»
Il coltello del senso di colpa, quel silenzioso, subdolo coltello dalla lama affilata, le affondò a tradimento nello stomaco, mozzandole il respiro per qualche secondo.
«Considerato che temevo di aver causato un incidente diplomatico, immagino di essermela cavata piuttosto a buon mercato» ironizzò, abbozzando un debole sorriso. «Vostro zio sembrava indeciso se scaraventarmi in faccia il calice di vino o dichiarare guerra ad Erebor.»
«Credo che avrebbe fatto entrambe le cose, se l’ammirazione per la vostra audacia non avesse superato, anche se di poco, l’indignazione per la vostra impertinenza» ribatté Thorin senza scomporsi. Elinor non era del tutto certa che stesse solo facendo dell’ironia. «Sono rimasti molto colpiti, nonostante tutto … e non sono stati i soli … »
La ragazza arrossì, sentendo il suo sguardo di nuovo fisso su di lei. Capì che si trattava di un altro goffo, confuso tentativo di farle un complimento, e non poté impedirsi di esserne lusingata.
«Adesso capisco i vostri avvertimenti di questo pomeriggio» buttò lì con una risata nervosa, cercando di scacciare l’imbarazzo. «Sul momento ho pensato che steste esagerando al loro riguardo, ma avevo torto: sono molto peggio di quello che mi avevate lasciato intendere.»
Un’ombra passò sul viso di Thorin, mentre le sue folte sopracciglia scure si avvicinavano a tal punto da diventare una sola.
«Mi rincresce molto per il modo in cui vi hanno trattato» mormorò, cupo. «I progetti di mio padre hanno dei punti deboli e possono suscitare perplessità, non lo nego, ma … questo non li autorizza a mancarvi di rispetto. Né a mancare di rispetto a tutti noi.»
Elinor vide le rughe sul suo viso farsi più profonde, i pugni stringersi spasmodicamente dietro la schienae i suoi passi farsi più rapidi, tanto che dovette aumentare un po’ l’andatura per riuscire a tenergli dietro. Tacque per qualche secondo, aspettando che l’ondata della sua rabbia si placasse. Sapeva che, in quel momento, qualunque cosa avesse detto sarebbe stata quella sbagliata. E l’ultima cosa che voleva era irritarlo di nuovo … C’era un pensiero, però, che le martellava nella testa, una domanda in bilico sulla punta della lingua che, lo sapeva bene, era troppo impellente per non sfuggirle fuori da un momento all’altro …
«Io non riesco a capire» mormorò d’impulso, prima di riuscire a fermarsi. «Perché voi, vostro padre e vostro nonno non avete reagito? Perché non vi siete difesi in modo più … deciso?»
Thorin alzò lo sguardo su di lei e sputò fuori una risata amara che somigliava più al ringhio di un cane. «Siamo sembrati privi di spina dorsale anche a voi, non è così?»
«No!» si affrettò ad esclamare Elinor. «No, niente, affatto! Sono solo … sorpresa, ecco tutto. Ho notato che più di una volta avreste voluto rispondere per le rime, ma che vi siete sforzati di rimanere in silenzio, o, perlomeno, di usare un tono più pacato … sebbene aveste tutto il diritto di offendervi.»
Il principe abbozzò un mezzo sorriso amaro, ma questa volta, quando parlò, il suo tono era molto meno ostile. «Ho visto abbastanza di voi da capire che il vostro carattere non vi permette di rimanere in silenzio davanti a un oltraggio o a un’ingiustizia. Non so se questo costituisca una dote o un difetto, ma credo di condividere con voi questa caratteristica. Tuttavia,» aggiunse, interrompendo sul nascere l’obiezione di Elinor «quando si è il principe ereditario di un regno isolato, in cerca di alleati, e in rapporti precari con quelli che già ci sono, non ci si può permettere troppo di essere se stessi. A volte bisogna scendere a compromessi, e … accettare molte cose.» Posò su di lei uno sguardo fin troppo eloquente da sotto le folte sopracciglia scure. «Sono sicuro che potete capire.»
Elinor, a disagio, abbassò lo sguardo sulle mani che ancora giocherellavano distrattamente con la cintura e deglutì. «Certo» rispose con un filo di voce. «Certo, capisco …»
Non poteva nemmeno immaginare quanto lei capisse. Non ne aveva idea, non fino in fondo. Ed era un bene – per lei, per suo padre e per tutta Esgaroth – che non l’avesse.
Si affrettò a riprendere la conversazione. Il terrore che la colpevolezza potesse riflettersi sul suo viso, tradendola in modo palese, era troppo forte per permetterle di indugiare un minuto di più su ragionamenti di quel genere.
«Le vostre cugine …» esordì, dando voce al primo pensiero che le venne in mente. «Dìs mi ha detto che sono rimaste molto deluse dalla decisione che avete preso in merito a … al vostro matrimonio.»
Thorin la fissò in silenzio per qualche istante, come stupito da quell’improvviso cambio di strada nella conversazione; ma la cosa non sembrò, tutto sommato, spiacergli troppo, e le rispose in tono quasi divertito, scuotendo la folta chioma scura.
«Dìs dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi, una volta ogni tanto» sbuffò, ironico. «Ma ha ragione, anche se il loro interesse per me non mi rende certo orgoglioso. E mi dispiace che abbiate dovuto scontare la loro invidia e la loro gelosia, stasera: temo che vi abbiano messo davvero a dura prova.»
«Devo essere sincera» ammise Elinor d’impulso. «Non avrei mai creduto che la ragazze nane potessero essere così … così …»
Annaspò per qualche secondo in cerca di una parola che non risultasse troppo offensiva: in fondo, per quanto insopportabili, erano pur sempre nane, ed Elinor aveva visto ormai abbastanza dell’orgoglio ferito di Thorin per voler ripetere l’esperienza. Inaspettatamente, fu proprio il principe a venirle in aiuto.
«… frivole?» suggerì infatti con un sogghigno.
Elinor lo fissò per qualche secondo, incerta se confermare o no la sua supposizione.
«Beh, ecco … non è esattamente la parola che avrei usato, ma …»
«Oh, ma certo che lo era» la interruppe Thorin con pungente ironia. Davanti allo sguardo imbarazzato che Elinor rivolse verso terra, però, la sua espressione si ammorbidì sensibilmente. «Non preoccupatevi» continuo, sforzandosi di infondere più gentilezza possibile nel suo ruvido tono di voce. «Non dovete più temere di esprimervi liberamente davanti a me. Le circostanze sono decisamente cambiate, dall’ultima volta che abbiamo avuto modo di … confrontare i nostri punti di vista. E poi,» aggiunse, mentre nella sua voce faceva di nuovo capolino un misto di ironia e acidità «se ci sono nani che non meritano di essere difesi da qualsiasi tipo di affronto, quelli sono proprio i miei parenti.»
Elinor non riuscì a trattenere un sorriso. «Quello che volevo dire, in realtà» riprese, ora un po’ più rilassata «è che, anche se non ho mai vissuto in mezzo a loro e ho avuto modo di conoscerne qualcuna solo superficialmente … ho sempre pensato alle Nane come donne energiche e dal forte senso pratico. A Esgaroth le ho viste aiutare i loro mariti a tirare su i pali di legno per allestire i banchi del mercato, tagliare quarti di carne come fossero burro, portare dalla fontana secchi d’acqua pesantissimi, e in tutto questo badare a quattro o cinque bambini per volta. Qui ad Erebor ho visto vostra sorella affrontare un gruppo di orchi a mani nude e con addosso un abito di raso. Non so se il ricamo possa essere incluso nella categoria delle attività frivole, ma di certo non credevo che una nana potesse dargli tanta importanza. Di certo, non avrei mai pensato che potesse essere considerato un requisito indispensabile per essere giudicata una buona futura moglie …»
Il sommesso e indistinto chiacchiericcio, simile alle fusa di un gatto, di una coppia di nani che passeggiavano nel vialetto parallelo li raggiunse, distraendoli per un attimo dal loro argomento di conversazione. A quanto pareva, le ombre proiettate dalle enormi e fitte chiome degli alberi dovevano nasconderli bene – o forse i due erano semplicemente troppo impegnati a tubare e a sussurrarsi all’orecchio – perché non dettero segno di aver visto né riconosciuto Thorin ed Elinor, e passarono oltre mano nella mano.
«Vedete, le cose stanno così» rispose Thorin, mentre le voci si affievolivano alle loro spalle. «Noi Nani siamo giunti in questo mondo in tempi bui e difficili, molto prima che vi arrivassero gli Uomini, e abbiamo dovuto costruire i nostri regni palmo a palmo, con fatica e sacrifici, lasciando molto spesso da parte il superfluo. Una mentalità che ancora ci caratterizza, come avete potuto constatare di persona.»
Elinor annuì. Conosceva la storia di come Aulë, il Valar fabbro e signore della terra, aveva creato i Nani, fatti comparire nella Terra di Mezzo al tempo della guerra contro Melkor il devastatore.
«Per questo le nostre donne hanno un carattere più duro di quelle degli Uomini e sono maggiormente predisposte per attività “maschili”» continuò Thorin. «Ed è per questo che, in effetti, ad attività come il ricamo e il cucito non viene data molta importanza, se non per finalità strettamente pratiche. Ma le enormi ricchezze accumulate da mio zio con il commercio del ferro, purtroppo, hanno fatto dimenticare alle mie cugine quali sono le cose veramente importanti, e hanno trasformato il superfluo in necessario.» Un sogghigno increspò le sue labbra sottili e fece brillare i suoi occhi azzurri di una luce divertita, mentre continuava: «Poi ci sono le eccezioni completamente opposte, come Dìs: il suo caratterino, unito al fatto di essere cresciuta in una famiglia di soli uomini, ha fatto sì che la sua esperienza in attività “maschili” sia andata ben oltre quella di una nana comune. Per questo, se fossi in voi, eviterei di prenderla come esempio: non tutte le nane riuscirebbero a darle di santa ragione ad un orco strizzate dentro ad un corsetto.»
Elinor, sebbene il pensiero di ciò che era accaduto quella mattina la facesse ancora rabbrividire, non poté fare a meno di sorridere pensando a Dìs che menava calci e gomitate in mezzo alle sue gonne svolazzanti. Lei, probabilmente, non sarebbe riuscita a fare lo stesso: non aveva mai avuto fratelli maschi con cui fare pratica nella lotta, e anche se a BoscoVerde i suoi abituali compagni di giochi erano stati i tre figli di re Thranduil, lo scontro corpo a corpo non faceva decisamente parte dello stile di combattimento degli Elfi.
«Beh,» sospirò Elinor calciando distrattamente lontano un sasso che si era ritrovata davanti alla punta dei piedi «non so se vostra sorella sappia ricamare, ma direi che stamattina se l’è cavata piuttosto bene … Dubito che con ago e filo avrebbe ottenuto lo stesso risultato!»
Fu una sorpresa sentire Thorin scoppiare in una breve, sommessa risata. Non l’aveva mai sentito ridere davvero, prima d’ora, e anche se si era trattato di un ruvido verso di gola durato poco più di un secondo ed emesso a labbra strette, Elinor sentì il sollievo farsi largo nel suo petto, scacciando il disagio e consentendole di respirare più liberamente. La piacevole sensazione aumentò ancora di più quando, lanciandogli una breve occhiata di sottecchi, scoprì che i suoi occhi erano animati da una luce sinceramente divertita.
«Credo che si possa dire la stessa cosa di voi» obiettò il nano. «Potete facilmente immaginare quanto mi costi ammetterlo, ma … raramente ho visto qualcuno che non sia un elfo maneggiare un arco con tanta sicurezza.»
Elinor sentì le guance andare inaspettatamente a fuoco. «Vi ringrazio» rispose chinando il capo, senza riuscire a dissimulare un certo compiacimento. Difficilmente riusciva a nascondere l’orgoglio quando qualcuno si complimentava con lei riguardo la sua predisposizione per il tiro con l’arco: era una debolezza che nemmeno gli Elfi, con il loro apparente distacco da tutti i vizi umani, erano riusciti a toglierle. La sua vanità, inoltre, era doppiamente lusingata dall’essersi appena resa conto che si trattava del secondo, esplicito complimento ricevuto da Thorin nel corso della serata. Non sapeva bene perché, ma aveva la sensazione che fosse la prima volta che il principe osava sbilanciarsi tanto. Forse perché il modo burbero con cui esprimeva il suo apprezzamento rivelava una scarsa – se non addirittura inesistente – pratica nel parlare con donne che non fossero sua sorella …
Si rese conto solo dopo un po’ del silenzio imbarazzato che era sceso tra di loro. Il rumore dei loro passi sui ciottoli del vialetto sembrava talmente forte che Elinor non si sarebbe stupita se l’avessero udito fin da Esgaroth. Il sorriso di Thorin si era poco a poco smorzato, e il nano sembrava adesso seguire il corso di un pensiero tutto suo. Elinor, di nuovo a disagio, cercò di pensare a un nuovo argomento di conversazione per tornare alla vivace e genuina spontaneità di qualche attimo prima, ma Thorin, inaspettatamente, la precedette.
«Poco fa, al banchetto, dicendo alle mie cugine di non saper cucire, avete menzionato vostra madre» disse d’un tratto il nano, leggermente accigliato. «Mi rendo conto solo adesso di non aver mai fatto le mie condoglianze né a voi né a vostro padre. Mi rincresce molto.»
Fu il turno del sorriso di Elinor di affievolirsi, mentre la ragazza sentiva qualcosa, dentro di sé, incrinarsi leggermente. «E’ successo molti anni fa» rispose gentile, evitando il suo sguardo e fingendosi molto interessata alle luci di Esgaroth in lontananza. «E’ più che naturale che con il tempo ve ne foste dimenticato.»
«Ricordo che mio padre e mio nonno parlavano sempre di lei con grande stima e ammirazione. La sua scomparsa li addolorò molto. Fu la febbre, se non vado errato …»
Si interruppe: Elinor stava fissando insistentemente davanti a sé, con le labbra strette; una profonda ruga le solcava la fronte incorniciata dalle treccine, e il suo volto pareva invecchiato di diversi anni.
«Perdonatemi» borbottò il nano, imbarazzato. «Forse voi non desiderate parlarne …»
«No, al contrario». La fronte di Elinor era improvvisamente tornata liscia, e quando finalmente si voltò a guardarlo sorrideva; ma era rimasta un’ombra di malinconia, nei suoi occhi, come se qualcuno avesse tirato le tende di una finestra per schermare la luce del sole. «Sono contenta che l’abbiate chiesto. E’ giusto che iniziamo a conoscerci meglio». Si interruppe per qualche secondo, dando giusto il tempo a Thorin di abbozzare un sorriso di sollievo per non averla turbata troppo. Poi continuò, la voce apparentemente inespressiva: «Comunque, sì. Fu la febbre a portarla via. Nessun medico ha mai capito di cosa si trattasse. Continuavano a darle medicine e a cercare di asportarle il sangue cattivo, ma lei sembrava consumarsi come una candela. E’ durata una settimana, e poi è finita esattamente com’era cominciata: all’improvviso. Il ricordo più nitido che ho è mio padre che viene a svegliarmi in piena notte, e, senza dire nulla, mi abbraccia scosso dai singhiozzi. Dopo il funerale sono partita per il Reame Boscoso e non ho più fatto visita alla sua tomba da allora.»
Si rese conto solo quando giunse alla fine che la sua voce si era ridotta ad un sussurro appena udibile. Accanto a lei, Thorin ascoltava in silenzio, le mani giunte dietro la schiena, senza emettere il minimo rumore. Persino i suoi passi di nano, di solito così decisi e pesanti, sembravano pestare la ghiaia con più cautela, come se stesse cercando di far dimenticare la sua presenza e non disturbare il discorso di Elinor. Lei gli fu grata per la sua discrezione: non avrebbe sopportato la pietà o la compassione nei suoi occhi. Non per qualche forma di orgoglio o perché fosse restia a mostrarsi in un momento di debolezza, ma perché era certa che il suo sguardo avrebbe vanificato ogni sforzo di mantenere la fermezza di facciata che si era imposta. Parlare di sua madre la metteva sempre a dura prova. Aveva mentito, quando aveva detto che l’unica cosa che ricordava era suo padre che veniva a svegliarla piangendo. Non era vero. C’era un’altra cosa che ricordava fin troppo bene, ed era il proprio sguardo – stranamente ancora asciutto - spalancato nella semioscurità sopra la spalla di suo padre sobbalzante di dolore, e il suo cervello che riusciva solo a ripeterle, come in un macabro ritornello: “Non hai avuto nemmeno il tempo di dirle addio.”
Ma questo non l’avrebbe mai detto a Thorin, né a nessun altro. Erano pensieri che, semplicemente, preferiva tenere per sé. Sentiva di essersi già sbilanciata troppo con quello che aveva appena raccontato …
Il silenzio che seguì fu talmente denso e pesante da far sembrare che persino la musica e le risate della Sala dei Banchetti si fossero d’un tratto spente. Improvvisamente, i Giardini di Erebor non le sembravano più quel luogo di pace e tranquillità dove era stata ansiosa di rifugiarsi prima dell’arrivo di Thorin. Il profumo dei fiori la nauseava, e il fruscio degli alberi le rimbombava nella testa in modo stranamente fastidioso. Eppure avrebbe dovuto essere contenta: lo sguardo di solidale comprensione che scorse negli occhi di Thorin quando il nano si voltò a guardarla era quanto di più promettente avesse mai osato sperare.
«Capisco il vostro dolore» disse il nano. «So cosa significa perdere una madre. La mia, purtroppo, non è sopravvissuta al parto di Frérin. Nel giro di poche ore mi sono ritrovato con un fratello in più e una madre di meno, e non ero ancora abbastanza grande da riuscire ad accettare subito la cosa nel migliore dei modi. Temo di aver fatto passare a Frèrin un’infanzia piuttosto spiacevole, dato che, ai miei occhi, era il colpevole della morte di mia madre.»
Immagini confuse di una nana urlante e madida di sudore molto rassomigliante a Dìs e di un neonato dagli occhi azzurri simili a quelli di Thorin attraversarono fulminee la mente di Elinor. Chissà se anche Thorin era stato svegliato da suo padre nel mezzo della notte e aveva indovinato subito, dal suo sguardo sconvolto, quello che era successo …
«Così, a quanto padre, siamo rimasti entrambi da soli con i nostri padri» mormorò la ragazza in tono amaro, prima di riuscire a fermarsi «cercando con tutte le nostre forze di compiacerli …»
Il silenzio che ottenne in risposta da Thorin fu sufficientemente eloquente. La consapevolezza di essere entrambi prigionieri dell’amore per i rispettivi padri e, allo stesso tempo, quella molto più gratificante di stare affrontando il sacrificio che quell’amore comportava con fermezza, dignità e rassegnazione, fecero sì che per la prima volta da giorni Elinor sentisse aleggiare tra loro qualcosa che somigliava molto alla complicità. E sebbene le parole che pronunciò subito dopo fossero in gran parte frutto di un calcolo volto ad allacciare ancora più saldamente i nodi di quella complicità, la stretta di dolcezza struggente che il suo cuore provò mentre parlava fu genuina, e dolorosamente reale.
«Io capisco quello che deve esservi costato prestarvi ai progetti delle nostre famiglie, Thorin» disse, alzando lo sguardo e fissandolo con determinazione negli occhi. «So di essere poco più di uno sgradevole inconveniente, per voi, perché so che quello che più desideravate dalla vita era la vostra libertà …»
Thorin non poté fare a meno di piegare le labbra in un sorriso ironico. «Se tutti gli “sgradevoli inconvenienti” mi salvassero da un branco di orchi inferociti, credo che d’ora in poi non farò che sperare che la sfortuna mi piombi addosso!»
«No, ascoltate!» continuò Elinor, testarda. «Capisco il sacrificio che state affrontando … quindi, per quello che vale, vorrei cercare di rendervelo, se non piacevole, perlomeno sopportabile.»
Fu difficile, per la sua coscienza già messa a dura prova, affrontare il debole sorriso colmo di gratitudine che vide affiorare tra la barba scura del nano. Ma in qualche modo doveva finire quello che aveva iniziato. Si era spinta troppo in là per tirarsi indietro proprio adesso. Stava persino cominciando a credere alle sue stesse bugie … il che, in un certo senso, era un bene: l’avrebbe di sicuro resa più convincente, e lei avrebbe avuto bisogno di tutta la credibilità possibile per ottenere quello che voleva e (cosa di gran lunga più importante) per uscirne viva.
«Vorrei davvero che diventassimo amici» concluse a bassa voce, abbassando lo sguardo. «E soprattutto, vorrei essere per voi una buona moglie. Prometto di fare del mio meglio … anche se non so ricamare.»
Thorin, che per tutta la prima parte della frase era rimasto ad osservarla in silenzio con aria indecifrabile, piegò un angolo della bocca in un sorriso. «Al contrario,» replicò «direi che il non saper ricamare potrebbe decisamente deporre a vostro favore.»
Elinor, colta alla sprovvista dall’accenno di vago divertimento che scorse nella sua voce, non poté fare a meno di sorridere a sua volta, mentre l’abbattimento provocatole dal ricordo della madre si dissolveva lentamente come uno sottile strato di ghiaccio sotto il sole.
Rimasero a passeggiare nei Giardini interni ancora per un po’, mentre i più svariati argomenti di conversazione si succedevano l’uno all’altro nella più totale naturalezza e solo di tanto in tanto venivano interrotti da sprazzi di lungo silenzio. Ad Elinor pareva che quel silenzio vibrasse. Di imbarazzo per quella confidenza piombata tra loro in modo così inaspettato, certo; ma anche, e soprattutto, di attesa. Nel suo caso sapeva benissimo quale fosse l’oggetto di quell’attesa: aspettava con ansia un accenno, anche il più minuscolo e insignificante, a Thròr, all’Archepietra o alla Camera del Tesoro, a cui potersi appigliare per cercare di scoprire quello che desiderava. Thorin, invece …
Non avrebbe saputo dire cosa, di preciso, lo spingesse a rivolgerle di sottecchi quei lunghi sguardi a metà tra l’ammirazione e la perplessità. Forse non si capacitava del fatto di stare iniziando ad apprezzare la sua compagnia, e si aspettava che, da un momento all’altro, qualcosa nel suo comportamento sopraggiungesse a contraddire quell’impressione positiva che stava cominciando ad avere di lei. Era un’ipotesi plausibile, dato che lei stessa, nei rari momenti in cui non si concentrava con tutte le sue forze su che strategia usare per ottenere le informazioni che le occorrevano, si stupiva della sensazione di benessere e tranquillità che stava iniziando a provare in sua presenza.
Fu solo quando le campane di Esgaroth, in lontananza, batterono le undici, che Elinor si rese conto di avere gli occhi appannati per il sonno.
«Siete stanca …» osservò Thorin, sorprendendola a nascondere uno sbadiglio dietro la mano. «Posso accompagnarvi nelle vostre stanze, se lo desiderate.»
«E’ molto gentile da parte vostra» rispose Elinor con un sorriso. «Se non vi dispiace, però, vorrei prima tornare nella Sala dei Banchetti per dare la buonanotte a vostro padre, a vostro nonno e agli ospiti.»
Fu quasi triste lasciare il silenzio, la pace e la rilassante penombra dei Giardini Interni per la soffocante semioscurità dei corridoi e poi per il baccano della sala, ma Elinor era davvero giunta al limite delle sue possibilità fisiche e mentali, e sentiva l’urgente bisogno di una salutare dormita, nonché di riordinare le idee sulla sua situazione. Thràin la salutò stringendole calorosamente le mani fra le sue, ma quando la ragazza chiese di Thròr il principe le rispose che, purtroppo, il re si era già ritirato. Non ci fu bisogno di spiegare dove: Elinor poté intuirlo senza difficoltà dal disagio dipinto sulla faccia di Thràin.
Si congedò dal clan dei Colli Ferrosi con un breve e freddo inchino, e dopo aver risposto con un sorriso a quello bonario di Balin e alla complice strizzatina d’occhi di Dìs, prese insieme a Thorin la via che conduceva ai piani superiori.
Fianco a fianco, in silenzio, percorsero il corridoio da cui erano appena venuti, ma invece di fermarsi davanti alla porta dei Giardini Interni, questa volta proseguirono dritto. Le torce guizzanti e le statue accigliate degli antichi Nani di Erebor scorrevano accanto a loro ad intervalli regolari, quasi tenendo il ritmo dei loro passi cadenzati che rimbombavano lungo le mura di pietra. Elinor lanciò un’occhiata di sottecchi a Thorin: camminava a passo svelto – tanto svelto che la ragazza faticava a tenergli dietro – le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo fisso a terra. A giudicare dalle sue labbra strette e dalla sua aria leggermente accigliata, sembrava immerso in pensieri poco piacevoli. E la ragazza, che aveva notato la sua reazione di fronte all’assenza di Thròr, non fece troppa fatica ad indovinare quali.
Si morse un labbro, incerta sul da farsi. Per tutta la sera aveva atteso pazientemente da lui un qualsiasi tipo di accenno a quell’argomento; invece, sembrava che Thorin non avesse fatto altro che evitarlo con tutto l’impegno possibile. Elinor poteva capirlo: era chiaro che parlarne era per lui molto difficile, e inoltre la complicità tra loro due non era ancora arrivata a un punto tale da potersi aspettare confidenze di quel calibro. Si rese quindi conto che, se voleva davvero sapere qualcosa in proposito, non poteva permettersi di attendere che fosse lui a prendere l’iniziativa: la prima mossa spettava solo e soltanto a lei.
Camminavano già da diversi minuti quando, finalmente, la ragazza si schiarì la voce e ruppe il silenzio del corridoio.
«A quanto pare non sono l’unica ad essersi ritirata presto» osservò con noncuranza, cercando di tastare il terreno. «Vostro nonno doveva essere molto stanco …»
Thorin, che al suono della sua voce si era riscosso e aveva rallentato il passo, quasi si fosse ricordato solo in quell’istante di non essere solo, sembrò incupirsi ancora di più.
«Sì, infatti …» si limitò a rispondere, senza guardarla.
«E’ davvero buffo» continuò Elinor in tono leggero, fingendo non accorgersi della scarsa loquacità del principe. «Anche due sere fa, finita la cena, ci siamo ritirati proprio nello stesso momento. L’ho accompagnato per un breve tratto di strada e poi ci siamo separati … A proposito, non credevo che le stanze reali si trovassero ai piani inferiori! Ero convinta che per arrivarci bisognasse salire …»
«Per quella strada non si va alle stanze reali» rispose Thorin seccamente. «Quel percorso porta alla Camera del Tesoro. Mio nonno passa sempre di lì, prima di andare a dormire, per … sistemare gli ultimi affari della giornata e … controllare che non manchi nulla.»
Elinor tacque per qualche secondo, mordendosi l’interno della guancia. A quanto pareva, strappargli qualche informazione sarebbe stato molto, molto più difficile del previsto …
«Beh, io non so nulla di queste cose,» disse cautamente «ma se il tesoro di Erebor è grande anche solo la metà di quello che dicono, comprendo che abbia bisogno di una sorveglianza stretta e costante. Quella gemma che chiamate “il gioiello del re”, per esempio … l’Archepietra … potrebbe fare gola a molti. Mi sono sempre chiesta …»
«Siamo arrivati, mia signora» la interruppe Thorin improvvisamente, con molta più fretta del necessario.
Elinor alzò lo sguardo, disorientata, e si rese conto che in effetti si trovavano di fronte alla porta della sua stanza.
«Oh …»
Era così presa da quello che stava tentando di fare, che non si era nemmeno accorta di dove fossero arrivati.
Il tono di Thorin, comunque, era stato inequivocabile: era chiaro che l’argomento gli era particolarmente sgradito, e che desiderava concludere la conversazione al più presto. Elinor non lo biasimò: molto probabilmente, lui e suo padre non riuscivano ad ammettere nemmeno con se stessi quanto fosse seria la malattia del re. Era comprensibile che non fosse ancora pronto a parlarne con lei. Anzi, adesso si chiedeva se fosse stato davvero saggio fare una mossa così diretta e azzardata …
Scrutò ansiosamente il volto di Thorin in cerca di un segno di sospetto o di rabbia che dimostrasse che aveva capito le sue intenzioni, ma tutto quello che vi trovò fu un profondo disagio: non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi, e si fissava gli stivali di cuoio con aria nervosa.
«Perdonatemi, Thorin»esclamò Elinor con un sorriso, fingendo di aver frainteso il suo desiderio di cambiare discorso. «Io me ne sto qui a chiacchierare, mentre voi volete sicuramente tornare nella Sala dei Banchetti a divertirvi! Non vi tratterrò oltre, siete stato fin troppo cortese ad accompagnarmi fin qui.»
Con suo grande sollievo, non c’era traccia di ostilità nello sguardo che Thorin alzò verso di lei. Le sue sopracciglia e la sua fronte, anzi, iniziavano già a spianarsi, e quando parlò la sua voce aveva già ritrovato quel misto di rudezza e di cortesia che Elinor non poteva fare a meno di ascoltare senza che qualcosa iniziasse a contorcersi piacevolmente dentro al suo stomaco.
«E’ stato un piacere accompagnarvi. Era il minimo che potessi fare» rispose il nano con un mezzo sorriso. «Mi dispiace che non abbiate voluto trattenervi ancora un po’ alla festa. A quanto ne so, le danze più divertenti vengono suonate tutte a sera inoltrata … quando la birra inizia a fare effetto, sapete …»
Elinor scoppiò a ridere. «Cielo, non avrete intenzione di invitarmi a danzare!»
«Non preoccupatevi, non era nelle mie intenzioni» sogghignò Thorin, divertito. «Vi ho già detto, se non sbaglio, che sono bendisposto verso la danza come voi lo siete per il ricamo …»
«Sì, lo avete fatto» sorrise Elinor. «E, come voi per il ricamo, credo che riuscirò a farmene facilmente una ragione.»
Non un rumore aleggiava nel corridoio deserto e semibuio mentre Elinor e Thorin si fissavano in silenzio, due leggeri sorrisi che ancora balenavano sui loro volti. C’era nell’aria fra di loro, Elinor lo avvertì molto chiaramente, una sensazione per metà piacevole e per metà vagamente imbarazzante, la sensazione che avrebbero potuto provare due persone che si erano appena rese conto di stare, contro tutte le loro aspettative, molto bene l’una in compagnia dell’altra, tanto da non voler essere in nessun altro posto in quel preciso momento. Elinor si sorprese a sentirsi esattamente così, e rimase quasi delusa (benché sapesse benissimo che quel momento stava per arrivare) quando Thorin interruppe quel silenzio pieno di complicità per congedarsi da lei.
«Vi auguro la buonanotte, dunque, mia signora» mormorò piegando la testa in un breve, informale inchino. «Spero riuscirete a riposare. É stata una giornata molto lunga.»
Elinor non seppe se la colpa fu dello sguardo intenso che il nano lanciò per l’ennesima volta alla sua figura quando rialzò lo sguardo su di lei, o se invece a turbarla fu l’improvvisa vicinanza che si era venuta a creare tra lei e Thorin. Fatto sta che non riuscì a fare altro che sorridere e rispondere con un debole: «Sì … sì, lo è stata davvero. Buonanotte anche a voi, principe.»
Fu strana la sensazione di leggero vuoto che la ragazza provò mentre, entrando nella sua stanza, osservava Thorin voltarsi – non prima di averle rivolto un ultimo, lungo sguardo – e allontanarsi lungo il corridoio con il suo passo deciso. Non avrebbe mai pensato di poterlo dire, ma stava veramente cominciando ad apprezzare la sua compagnia. Il che poteva avere lati positivi, poiché non avrebbe sopportato di vivere in perenne stato di litigio per tutta la sua permanenza ad Erebor (per quanto breve potesse essere), ma anche lati negativi: aveva ormai sperimentato varie volte – con Balin, e poi con Dìs – che, per il compito che doveva svolgere, affezionarsi era decisamente la scelta meno indicata, sia per i suoi sentimenti che per la sua coscienza …
Cercò di distogliere la sua mente, messa già a dura prova dalle fatiche della giornata, da quei pensieri alquanto sconcertanti, e di recuperare il suo senso pratico facendo mente locale su quanto aveva scoperto dal dialogo con Thorin.
“Ben poco, purtroppo” dovette ammettere mentre, stancamente, iniziava a slacciarsi il corsetto del vestito muovendo maldestramente le dita tra i lacci che glielo chiudevano sulla schiena. Ogni suo tentativo di entrare nell’argomento “Thròr” o “Archepietra” era caduto nel vuoto: Thorin sembrava chiudersi a riccio ogni volta che quei temi venivano anche vagamente sfiorati. Sarebbe stato arduo ottenere da lui qualsiasi informazione utile sulla parola magica del nascondiglio della gemma del re … senza contare che, anche in condizioni normali, la sua naturale riservatezza era un ostacolo non da poco. E, visti gli ultimi avvenimenti della giornata e il conseguente impegno di suo padre ad accelerare la mediazione nelle trattative con gli Elfi, non le rimaneva poi molto tempo per escogitare un piano efficace …
Respirò più liberamente quando finalmente riuscì ad aprire il vestito sul torace, e, nello stesso istante, anche i suoi pensieri parvero farsi meno pessimisti.
In fin dei conti aveva fatto del suo meglio, rifletté, gettando il vestito sulla sedia di legno e rovistando distrattamente nel baule alla ricerca della camicia da notte. Era saggio procedere a piccoli passi, senza forzare gli eventi. Cercando di sapere a tutti i costi, avrebbe soltanto irritato Thorin, vanificando tutti gli straordinari progressi che aveva fatto quel giorno e tornando al punto di partenza. Senza contare che, vista la sua reazione, non se la sarebbe sentita di insistere ulteriormente, turbandolo ancora di più … Per adesso doveva avere pazienza, e accontentarsi di aver guadagnato la sua fiducia preparando un eccellente terreno da sfruttare in futuro.
Ripensandoci adesso, proprio non avrebbe saputo dire come ci fosse riuscita. Ripercorse mentalmente gli incredibili eventi di quella giornata mentre, seduta davanti alla specchiera, alleggeriva i lobi delle orecchie dai pesanti dischi d’oro che Dìs le aveva fatto indossare. Non era certo stato frutto di un suo calcolo, se quegli orchi li avevano improvvisamente attaccati a nord di Erebor; e la sua reazione alle disgustose parole dei parenti di Thorin era stata tutt’altro che studiata. Buffo come le uniche due azioni avevano contribuito a capovolgere nettamente la sua situazione, fossero tra le poche del tutto involontarie e non programmate. A quanto pare, la fortuna e l’istinto avevano trionfato là dove il calcolo razionale aveva fallito …
Ammutolita dal carattere paradossale dell’intera faccenda, rifiutò di continuare a rifletterci un secondo di più. Era troppo stanca per sforzarsi ancora di capire, quando probabilmente da capire non c’era proprio niente.
Si gettò a pancia in su sul letto senza nemmeno prendersi il disturbo di cercare di disfarsi le treccine. Era sicura che senza l’aiuto di Dìs non sarebbe mai riuscita a venirne a capo. E poi, non sarebbe stata una cattiva idea tenerle ancora per un po’ … Thorin era sembrato gradirle, in fondo … lo sguardo che le aveva lanciato quando era entrata nella Sala dei Banchetti … e quello di poco prima, quando le aveva dato la buonanotte …
Un lieve brivido di piacere le corse su per la schiena. Nessuno, che lei ricordasse, l’aveva mai guardata con tale intensità da costringerla ad abbassare gli occhi imbarazzata. La sua bellezza non era mai stata degna di nota tra gli splendidi Elfi di BoscoVerde, abituati tra l’altro a contenere anche le emozioni più evidenti, e da adulta aveva passato troppo poco tempo tra gli Uomini per godere pienamente dell’ammirazione maschile. C’era stato, è vero, qualche pretendente più ardito che si era fatto avanti durante le poche feste che suo padre aveva dato dopo il suo ritorno; ma nessuno di essi era mai riuscito a provocarle una così piacevole sensazione di vanità lusingata.
Ridacchiò piano fra sé, le palpebre che già cominciavano a farsi più pesanti. Era consapevole di quanto fosse fuori luogo, in una situazione del genere, indugiare su pensieri tanto frivoli e infantili. Ma quei pensieri la facevano sentire più leggera … più normale. Le facevano dimenticare, almeno per qualche breve istante, la ragione per cui si trovava lì. La facevano sentire una ragazza come tante, che arrossisce e ride senza motivo perché qualcuno, ad una festa, l’ha guardata e l’ha fatta sentire desiderabile. La facevano sentire la ragazza che, probabilmente, sarebbe stata se suo padre non avesse deciso di coinvolgerla in quell’impresa ai limiti del suicidio.
E c’era voluto un nano, per riuscire a farla sentire finalmente così! Se gliel’avessero raccontato soltanto qualche mese prima, Elinor si sarebbe fatta delle grasse risate. Non era mai stata incline a fantasie eccessivamente romantiche e sdolcinate, non era nel suo carattere; ma era stata anche lei un’adolescente, e non aveva potuto sottrarsi a quei violenti subbugli emotivi che, prima o poi, prendono il sopravvento su tutte le ragazzine di quell’età. Era stato inevitabile, presto o tardi, ritrovarsi a desiderare di essere corteggiata e ammirata, e a immaginare scene fatte di sguardi fugaci e parole sussurrate all’orecchio… ed Elinor era più che sicura che nessuna di quelle fantasie avesse mai avuto come oggetto un nano. E non un nano qualsiasi: un discendente di Durin, probabilmente il più scorbutico, orgoglioso e lunatico essere che Aulë avesse messo su quella terra! Elinor stentava ancora a credere che nella stessa persona potessero coesistere due lati talmente diversi: quello gentile con cui aveva parlato tutta la sera e che si era persino cimentato in maldestri tentativi di farle dei complimenti, e quello collerico e pronto a prendere fuoco alla più piccola offesa che l’aveva accolta al suo arrivo ad Erebor. Il modo repentino con cui cambiava umore, a volte, rasentava la soglia dell’impossibile …
Ma probabilmente era del tutto normale, rifletté la ragazza abbandonandosi ad un possente sbadiglio e girandosi su un fianco, le mani giunte sotto il cuscino. Non doveva dimenticare la proverbiale caratteristica dei Nani, ovvero la loro naturale predisposizione a passare con estrema facilità da uno stato d’animo all’altro, e a mettere in ognuno di essi l’identica dose di passionale intensità. Probabilmente era soltanto questione di abitudine … del resto, per lei non era stato poi così difficile scoprire il lato gentile Thorin … e avevano fatto conversazione soltanto per poche ore …
Fece appena in tempo a rendersi conto di quanta fatica le costasse mantenere il filo dei propri pensieri, che la stanchezza ebbe la meglio su di lei, e tutto ciò che riuscì a vedere prima di sprofondare nell’oblio fu la parete di pietra della stanza ridotta ad un indistinta macchia sfocata.
 
 
Camminava a passo spedito lungo un corridoio di Erebor.
Era un corridoio uguale a tanti altri: spoglio, freddo e illuminato a malapena dalle torce che guizzavano sul muro a intervalli regolari.
Lei, però, sapeva esattamente dove si trovava.
Il cuore le batteva forte nel petto, ma non aveva paura. Quella che provava era piuttosto un’eccitazione a stento repressa, un’impazienza che la spingeva a continuare a mettere un piede davanti all’altro nonostante il corridoio sembrasse voler continuare ad allungarsi, sempre uguale a se stesso, per l’eternità.
Sapeva che presto avrebbe raggiunto la sua meta.
Lo sapeva.
Doveva solo avere pazienza.
E infatti, dopo che ebbe sorpassato altre innumerevoli torce, qualcosa cominciò a intravedersi in fondo al corridoio.
La sagoma di una porta.
Allungò in avanti una mano, come tentando di afferrare quel miraggio che si stagliava in lontananza con aria così invitante, e subito la porta iniziò a farsi più vicina, come se scivolasse verso di lei.
Senza quasi rendersene conto, la sua mano arrivò a sfiorare la maniglia.
La spinse con tutte le sue forze, aspettandosi una resistenza notevole da parte del robusto legno di quercia e del solito acciaio lavorato, ma inspiegabilmente la porta non oppose alcuna resistenza.
Entrò.
Intorno a lei, la Camera del Tesoro di Erebor risplendeva in tutta la sua abbacinante magnificenza. Era circondata da ogni tipo di meraviglie – rubini, smeraldi, zaffiri, diamanti, calici istoriati, armi che sembravano attendere solo lei per essere impugnate – eppure la sua attenzione non era attratta da niente di tutto ciò.
I piedi la condussero quasi di propria volontà al cospetto di un’altra porta, più piccola e meno maestosa di quella che aveva appena varcato.
Una piccola porta di pietra incisa con rune naniche, senza alcuna maniglia.
Si fermò.
L’eccitazione, improvvisamente, si era trasformata in attesa. Il suo cuore, improvvisamente, non martellava più perché era impaziente di arrivare alla fine del percorso, ma perché stava aspettando qualcosa …
Stava aspettando qualcuno …
Lentamente, la porta di pietra iniziò a girare sui cardini, aprendosi verso l’esterno, e appena poté abituare gli occhi all’oscurità totale che regnava dentro il cunicolo, scorse la sagoma massiccia di un uomo in piedi sulla soglia.
I suoi capelli scuri e la sua barba scendevano sul petto incolti, trattenuti qua e là da sottili treccine, e i suoi occhi azzurri luccicavano più degli zaffiri che punteggiavano, simili a tanti nontiscordardime, la distesa di monete d’oro.
Un angolo delle labbra di Thorin si piegò in un lieve sorriso, mentre il nano tendeva la sua grande mano ruvida verso la ragazza.
«Dovete essere stanca» disse, lo sguardo agganciato a quello di Elinor. «Posso aiutarvi, se lo desiderate.»
Elinor non rispose. Semplicemente, tese a sua volta la mano per afferrare quella del principe. Ma mentre la punta delle loro dita stavano per sfiorarsi, una voce alla sua destra la fermò.
«Elinor.»
Si voltò.
Suo padre era in piedi a pochi passi da lei, e la fissava con aria triste.
«Vuoi lasciarmi, Elinor?»
Elinor, confusa, aprì la bocca per replicare. Voleva dire a suo padre che non aveva nessuna intenzione di abbandonarlo; che era solo molto stanca, e che se avesse preso la mano di Thorin – ne era sicura, anche se non avrebbe saputo dire perché – la fatica sarebbe scomparsa in un attimo.
«Non deludermi, Elinor, ti prego.»
Voleva rispondergli, lo voleva più di ogni altra cosa. Ma la sua gola non emetteva alcun suono.
Se la afferrò con entrambe le mani, ma per quanto disperatamente si sforzasse, non riusciva a parlare.
Non poteva aspettare ancora: suo padre sarebbe diventato ancora più triste, e Thorin avrebbe pensato che non voleva andare con lui …
Si voltò di nuovo verso il nano per implorarlo con gli occhi di non andare, di aspettarla ancora.
Solo che questa volta, con la mano tesa e un ghigno beffardo stampato in faccia, al posto di Thorin c’era Uren.
Il consigliere iniziò a ridere, di una terrificante risata raschiante e gutturale che echeggiò tra le immense volte di pietra della Camera del Tesoro, scrutandola con i suoi piccoli e scintillanti occhietti porcini.
Fu allora che Elinor ritrovò la voce e iniziò a urlare con quanto fiato aveva in gola.

 
 
Due mani robuste la scuotevano violentemente per le spalle. Qualcuno chiamava il suo nome in tono concitato, ma il suono arrivava alle orecchie di Elinor lontano, ovattato, quasi distorto, come se fosse immersa sott’acqua.
«Mia signora! Mia signora!»
Intravedeva vagamente una sagoma sfocata china su di lei, ma per diversi secondi non seppe assolutamente dire di chi si trattasse. Le sue palpebre sembravano diventati due pesanti pezzi di piombo, e il suo cervello pareva essere stato sostituito da un inutile involucro vuoto. Ignorava completamente dove si trovasse. Tutto quello che sembrava avere una parvenza di realtà era l’agghiacciante risata di Uren che ancora risuonava insistentemente nella sua testa.
«Mia signora! Svegliatevi, vi prego!»
La voce che la chiamava, di diverse ottave più acuta del normale, si fece improvvisamente strada nella fitta nebbia che ancora avvolgeva in gran parte i sensi di Elinor.
«R … Rolgha?» balbettò la ragazza con voce roca, mettendo gradualmente a fuoco il volto, incorniciato da una corta barba bionda, della sua giovane cameriera personale. Ancora per qualche istante il suo cervello annaspò disperatamente cercando di capire perché la nana si trovasse lì e perché la stesse scrollando con aria così spaventata, ma poi, poco a poco, la cortina di nebbia si diradò.
«Va tutto bene, mia signora? Devo chiamare qualcuno?» le chiese Rolgha, la voce ora meno concitata per il sollievo di vederla sveglia e non più così assente.
«No …» Elinor tentò di mettersi in posizione eretta, le braccia che tremavano violentemente mentre le usava per puntellarsi sul materasso. Si passò una mano sulla fronte: era madida di sudore. «Sto bene … è stato … solo un sogno …»
Le sue condizioni non dovevano essere delle migliori, perché Rolgha continuava a fissarla come se si aspettasse di vederla svenire da un momento all’altro. Alzò gli occhi verso la specchiera poggiata contro la parete di fronte al letto: un volto pallido e solcato da profonde occhiaie le restituì lo sguardo. Nessuna meraviglia che la cameriera fosse così preoccupata per lei …
«Sto bene, Rolgha, davvero» insistette in tono rassicurante, sforzandosi di sorridere. «Posso chiederti di portarmi un bicchiere d’acqua, per favore? Ho la gola riarsa …»
In effetti, quando tentò di deglutire, scoprì che ogni traccia di saliva era come evaporata. Era anche sicura che, se avesse provato ad alzarsi, il giramento di testa non le avrebbe permesso di fare più di due passi prima di cadere a terra.
La nana si affrettò a raggiungere la specchiera per versarle un po’ d’acqua dalla caraffa di vetro che vi era poggiata sopra.
«Grazie» le sorrise di nuovo Elinor, prendendo il bicchiere che la cameriera le porgeva. Bevve avidamente, a grandi sorsate, rovesciandosi persino qualche goccia sul mento e sulla camicia da notte.
L’acqua fresca contribuì a farla riprendere un po’ e a calmare i suoi nervi scossi. Ora, se non altro, la stanza non le vorticava più intorno come se qualcuno l’avesse bendata e poi fatta girare su se stessa … Se non fosse stato per il sudore che le appiccicava addosso la camicia da notte e le incollava i capelli alla fronte, sarebbe quasi potuta sembrare una mattina come le altre. Tutto ciò che era rimasto a ricordarle il sogno da cui era reduce, erano il luccichìo dell’oro che tornava ad abbagliarla ogni volta che chiudeva gli occhi e il suono raccapricciante della risata di Uren, che ancora sembrava aleggiare nel silenzio della stanza come una macabra eco che soltanto lei poteva udire.
«Per curiosità,» chiese con finta noncuranza «che cosa stavo facendo esattamente?»
Rolgha riprese il bicchiere vuoto che Elinor le porgeva e le mise davanti il vassoio che aveva portato nella stanza. Sembrava ancora leggermente scossa. «Ero venuta a bussare per portarvi la colazione,» spiegò titubante «e ho sentito degli strani rumori provenire dall’interno della vostra camera da letto, come qualcuno che si lamentasse. Ho creduto che vi steste sentendo male, così sono entrata … e voi … voi eravate qui sul letto, ad occhi chiusi, che vi contorcevate e vi stringevate la gola con le mani … e gemevate così tanto, e sembravate così spaventata, che ho avuto paura anch’io, e … vi ho scosso per svegliarvi.»
Elinor, che aveva appena iniziato a sbocconcellare una fetta di pane nero con sopra del burro – il suo stomaco era ancora troppo attorcigliato per permetterle di affrontare la colazione con appetito – si sentì improvvisamente una stupida. Ripensandoci adesso, nella rassicurante tranquillità della sua stanza da letto, con del cibo davanti e una persona a tenerle compagnia, il sogno non le sembrava più così spaventoso da giustificare una reazione come quella che Rolgha le aveva appena descritto. Aveva fatto altre volte sogni, persino più inquietanti di questo, che l’avevano svegliata nel mezzo della notte in un bagno di sudore e con il cuore a mille; ma nessuno di essi le aveva mai fatto provare una tale soffocante sensazione di panico.
«Devo aver esagerato con il pasticcio di rognone, ieri sera» abbozzò in tono leggero, sapendo perfettamente che, in realtà, il banchetto non c’entrava nulla. «Mi dispiace di averti spaventato per niente, Rolgha.»
«Non preoccupatevi, mia signora» rispose la giovane nana accennando un sorriso, mentre prendeva il vestito della sera precedente dallo schienale della sedia per riporlo nel baule di Elinor. «L’importante è che voi stiate bene. Non possiamo controllare i sogni che facciamo.»
Elinor, alle prese con un altro boccone di pane e burro, smise per un attimo di masticare e fissò nel vuoto uno sguardo disorientato e confuso. Immagini improvvise – e assolutamente non richieste – avevano scelto proprio quel momento per attraversarle la mente: Thorin in piedi sulla soglia del cunicolo, la mano tesa verso di lei e quell’espressione calda, rassicurante negli occhi chiari … la sua voglia di prendere quella mano e di seguirlo senza fare domande, dovunque volesse portarla …
Ingoiò il cibo con sorprendente difficoltà. «No … » disse a mezza voce, in risposta all’affermazione di Rolgha. «Non possiamo, è vero …»
Si riscosse dopo qualche secondo, scrollando leggermente la testa per scacciare lo strano turbamento che le aveva appena afferrato la bocca dello stomaco, e cercò di dedicarsi di nuovo alla sua colazione.
«Mia signora …» esordì timidamente Rolgha, distraendola dai suoi pensieri. «Se vi siete ripresa e non vi occorre nient’altro, ho il dovere di dirvi che Sua Maestà re Thròr e il principe Thràin vi attendono nella Sala del Consiglio.»
Il cuore di Elinor mancò un battito, e per un momento temette che il boccone che stava masticando le andasse di traverso. Riacquistò il controllo di sé quel tanto che bastava per domandare, con voce falsamente tranquilla: «Oh, capisco. E … per caso ti hanno detto che cosa desiderano?»
Devono essersi accorti di qualcosa. Devono per forza essersi accorti di qualcosa. Perché, altrimenti, mi avrebbero fatto chiamare? Ma come … come possono averlo scoperto? Ieri sera ho parlato soltanto con Thorin, e non mi sono lasciata sfuggire nulla di sospetto … Non può avergli detto nulla che …
«Credo che desiderino ringraziarvi di persona per il coraggio che avete dimostrato ieri con gli orchi, mia signora» rispose Rolgha.
Il sollievo che esplose nel petto di Elinor fu tale che la ragazza dovette prendersi qualche secondo prima di riuscire di nuovo a parlare senza che la voce le tremasse.
«Molto bene» disse quando ebbe riconquistato il controllo dei suoi nervi. «Scenderò subito. Rolgha, saresti così gentile da aiutarmi con i capelli, quando sarò vestita? Alcune treccine si sono disfatte durante la notte, e temo proprio di non essere ancora in grado di sistemarle da sola …»
«Certo, mia signora» ripose la nana riprendendo il vassoio della colazione ormai semivuoto e poggiandolo di nuovo sulla specchiera, mentre Elinor scostava di lato le coperte e raggiungeva a piedi nudi il baule di legno ai piedi del letto.
Scelse un vestito verde scuro di foggia elfica bordato con sottili fregi dorati, le lunghe maniche a losanga che scendevano quasi fin sotto il ginocchio. Un piccolo sorriso malinconico le affiorò sulle labbra mentre lo estraeva dal baule, carezzandone delicatamente la morbida seta. Sapeva che non era stato un caso se le sue dita si erano fermate proprio su quel vestito. Era il suo preferito: suo padre gliel’aveva regalato per il suo diciottesimo compleanno, e l’aveva indossato troppe volte perché, ripensandoci adesso, non lo associasse a momenti della sua vita che l’avevano fatta sentire felice. La folle risata di Uren e lo sguardo rassicurante di Thorin non erano gli unici ricordi del sogno che ancora le balenavano nella mente come pitture sbiadite: anche lo sguardo di suo padre, triste e malinconico come un tramonto in autunno, era ancora ben presente davanti ai suoi occhi, chiudendole la gola con un groppo di dolceamara nostalgia. Aveva bisogno di qualcosa che le ricordasse casa, qualcosa di familiare. Qualcosa come quel vestito …
Rolgha le aveva portato dell’acqua per lavarsi, così Elinor poté togliersi di dosso, strofinandosi energicamente con una spugna, il viscido sudore freddo frutto di quella nottata. Scivolò nel vestito che aveva scelto, lasciando che Rolgha la aiutasse a stringere gli innumerevoli lacci sul petto e sulla schiena; poi si sedette davanti alla specchiera, fissando pigramente le dita della nana che, con movimenti rapidi e sicuri, le rimetteva in sesto la complicata acconciatura in parte disfatta.
«Mia signora,» iniziò timidamente Rolgha dopo qualche minuto di lavoro silenzioso «perdonatemi se lo chiedo, ma pensate di avere ancora bisogno di me, per il resto della giornata?»
Elinor fu presa alla sprovvista da quella strana domanda. «No, immagino di no» rispose fissandola nello specchio con aria sorpresa.«Perché me lo chiedi?»
«Ecco, vedete» spiegò la nana senza fermare la febbrile attività delle dita «mio padre è il proprietario della taverna più grande di Erebor ... E’ quella più vicina alle miniere e alle fucine, perciò la maggior parte dei nani che vi lavorano preferisce trascorrere lì l’ora di pranzo, piuttosto che tornare alle proprie case. Purtroppo ieri sera l’aiutante di mio padre si è preso una brutta febbre che non gli permetterà di muoversi dal letto per qualche giorno, e mio padre non è in grado, da solo, di occuparsi di tutto. Perciò vorrei andare ad aiutarlo, se me lo permettete … anche soltanto per oggi.»
«Rolgha, non preoccuparti» la rassicurò Elinor. «Potrai aiutare tuo padre per tutto il tempo che riterrai più opportuno. Io cercherò di arrangiarmi da sola, e se ne sentirò la necessità chiederòse è possibile procurarmi un’altra cameriera personale.»
Un sorriso sollevato illuminò la paffuta, graziosa faccia della giovane nana. «Vi ringrazio, mia signora. Ci rendete tutto molto più facile. Mio padre ve ne sarà immensamente grato.»
«Non sapevo che tuo padre fosse il proprietario della taverna vicino alle fucine» disse Elinor. Quella conversazione la stava riportando nel mondo reale, distraendola dall’insistente sensazione di malinconia che sembrava esserlesi attaccata addosso come un odore fastidioso. «Non dev’essere un compito facile occuparsi di un’attività del genere, persino con un aiutante con cui dividere le mansioni. Ho visitato le fucine, qualche giorno fa, ed è davvero sbalorditivo il numero di nani che vi lavorano.»
«Difatti non lo è , mia signora» confermò Rolgha. «Fino a qualche anno fa era mio fratello maggiore ad aiutarlo, ma purtroppo l’ultima epidemia di febbri se l’è portato via.»
Elinor deglutì e distolse lo sguardo dallo specchio, a disagio. «Mi dispiace molto.»
«Vi ringrazio. Ma è stato molto meglio così, suppongo: le sue sofferenze erano diventate davvero troppo grandi» rispose la nana gentilmente, senza scomporsi, lasciando che fosse soltanto una lieve inflessione malinconica nella voce a far intuire la sua tristezza nel parlarne. Elinor la ammirò: lei non sarebbe riuscita a dimostrare la stessa fermezza, parlando della morte della madre, ed era passato molto più tempo rispetto a quella del fratello di Rolgha…
«Comunque,» continuò la cameriera, senza interrompere il suo rapido lavoro di dita «mio padre ha cercato subito una persona che sostituisse mio fratello, ma non è stato facile trovare qualcuno.»
«Come mai?» chiese Elinor, fissandola nello specchio incuriosita.
Rolgha parve per un attimo incerta se rispondere o no, poi un sorriso a metà fra l’imbarazzato e il divertito spuntò sulle sue rosee labbra carnose. «Ecco …» iniziò a spiegare, titubante «qui ad Erebor mio padre ha la fama di essere … come dire … un po’ restio a condividere equamente i guadagni con i suoi collaboratori. Per questo è stato costretto a chiedere a me di aiutarlo alla taverna: non è ancora riuscito a trovare nessuno che accetti il lavoro.»
Elinor non riuscì a trattenere il sopracciglio destro dal guizzare verso l’alto: se il padre di Rolgha veniva considerato avaro persino dal suo popolo, già noto per essere una razza piuttosto gelosa delle proprie ricchezze, ciò era davvero tutto dire …
Alzando lo sguardo sulla nana, si accorse del vivo rossore che le aveva imporporato le guance, e capì di aver toccato un tasto forse troppo personale e delicato. «Perdonami, avrei dovuto evitare di immischiarmi così a fondo nei vostri affari» si scusò.
«Oh, non preoccupatevi » rispose Rolgha, sorridendo. Sembrava proprio che niente riuscisse a farle perdere quella gentilezza e quell’allegria che le rendevano così gradevole agli altri. «Non è certo un segreto. Tutti ne sono a conoscenza, qui ad Erebor, e mio padre non se ne cura troppo. A lui importa poco quello che dice la gente: dice sempre che, tanto, tutti quelli che parlano male di lui poi finiscono per venire a bere nella sua taverna … Ecco qua, mia signora. La pettinatura è di vostro gradimento?»
Elinor ruotò leggermente la testa a destra e a sinistra, ammirando soddisfatta come Rolgha era riuscita a recuperare in poco tempo quel che era rimasto della pettinatura di Dìs: le treccine che le incorniciavano la testa erano state sapientemente rimesse in sesto, mentre le più rovinate – quelle che si mescolavano ai capelli sciolti ricadendole sulle spalle – erano state completamente disfatte allo scopo di riunire la sua folta capigliatura bionda in due spesse trecce che adesso le sfioravano la schiena poco più giù delle spalle.
«Ottimo lavoro » sorrise Elinor grata, alzandosi dalla sedia e sistemandosi il vestito. «Spero di diventare anch’io brava come te, un giorno.»
«I bambini nani imparano a fare trecce ancora prima di imparare a camminare, mia signora» si schernì Rolgha con modestia, arrossendo leggermente. «Siete sicura che non vi occorra altro, prima di scendere? »
«Sono sicura, grazie Rolgha. Puoi andare da tuo padre, se lo desideri. Penserò io ad avvertire il re.»
La nana la ringraziò con un sorriso radioso e un leggero inchino. Poi Elinor lasciò la stanza e si incamminò per raggiungere il piano inferiore, il passo ora molto più sicuro rispetto ai giorni precedenti. I corridoi, con suo grande sollievo, cominciavano a non sembrarle più tutti uguali come quando era arrivata, e adesso osava persino avventurarsi da sola in ale del palazzo per orientarsi nelle quali, fino a qualche giorno prima, avrebbe avuto bisogno di un accompagnatore.
Quasi senza rendersene conto, si ritrovò a canticchiare a fior di labbra una delle canzoni che l’orchestra aveva eseguito la sera prima al banchetto, un motivo allegro e ballabile che, evidentemente, doveva esserle rimasto impresso più degli altri. Per qualche strana ragione, la malinconia che il sogno le aveva lasciato addosso si era molto smorzata, lasciandosi dietro soltanto lievi strascichi uggiosi.
Era stato tutto merito della breve conversazione con Rolgha, Elinor lo sapeva. I modi di fare dolci, gentili e rassicuranti della nana erano stati come una folata di aria tiepida per il gelo che aveva afferrato il suo stomaco dopo quel brusco e sgradevole risveglio. Adesso capiva perché le era stata assegnata proprio lei, come cameriera personale: sembrava possedere un dono naturale per mettere a proprio agio le persone. Inoltre la consapevolezza di aver fatto un grosso favore a lei e a suo padre – e, a quanto pareva, a tutti i Nani lavoratori di Erebor – contribuiva moltissimo a migliorare il suo umore, dando momentaneamente respiro alla sua coscienza soffocata tra il senso di colpa e la volontà di portare a termine il suo compito. Era meglio godersi quella piacevole sensazione per i brevi minuti che le restavano, prima che gli sguardi e le parole di commossa riconoscenza di Thròr e Thràin arrivassero a ricordarle che, in realtà, non era altro che una bugiarda e una traditrice …
Fu con una sottile punta di rassegnazione, solo vagamente percettibile fra il buonumore appena ritrovato, che Elinor imboccò finalmente il corridoio in fondo al quale si trovava la Sala del Consiglio. La porta era rimasta leggermente socchiusa, e dallo spiraglio trapelavano gli stralci di una conversazione che si stava svolgendo proprio in quel momento tra il re e suo figlio, ma che l’eccessiva distanza faceva rimanere, per ora, inintellegibili.
Più si avvicinava alla porta, tuttavia, più aveva l’impressione che i toni si facessero stranamente concitati. Non riusciva ancora a distinguere bene le parole, ma era chiaro che tra il re e suo figlio stava avendo luogo qualcosa che somigliava moltissimo ad un’accesa discussione, e che entrambi stavano facendo di tutto per smorzare il più possibile le proprie voci.
«Ne abbiamo già parlato, Thràin, e sai bene come la penso!»
L’improvvisa esclamazione, proferita in tono burbero e sbrigativo dalla profonda voce del re, costrinse Elinor a fermarsi per un attimo, incerta. Considerò per un momento la possibilità di ripassare dopo qualche minuto, giusto per sollevare Thròr e Thràin dall’imbarazzo di essere sorpresi nel corso di un litigio personale. Ma prima che avesse il tempo di formulare per intero questo pensiero, la curiosità ebbe la meglio sugli scrupoli di coscienza, ed Elinor, dopo essersi assicurata con un rapido sguardo circospetto che nel corridoio non ci fosse nessuno oltre a lei, si avvicinò alla porta in punta di piedi.
«La nostra ultima conversazione al riguardo risale ormai a diversi anni fa!» stava dicendo intanto Thràin con voce tagliente, mentre la ragazza si accostava silenziosamente ad uno dei battenti della porta e sbirciava con cautela nello spiraglio rimasto aperto.
«E posso sapere cos’è cambiato nel frattempo?» chiese di rimando Thròr, di cui Elinor poteva scorgere l’ampia schiena curva sul grande tavolo di legno intagliato, dove il nano si era appoggiato con la testa incassata nelle spalle.
«Molte cose!» rispose prontamente il figlio. «Thorin è ormai un nano adulto …»
«Di’ piuttosto un ragazzo.»
«… e in grado di assumersi pienamente le proprie responsabilità di futuro erede al trono! Perché non può iniziare a fare la sua parte?»
Thorin. Stavano parlando di Thorin. Lo stomaco di Elinor ebbe un buffo sobbalzo, e la sua curiosità per quella conversazione a cui, in teoria, non avrebbe dovuto assistere, crebbe ancora di più.
«Sta già facendo la sua parte, se non vado errato» replicò Thròr con un lieve accenno di ironia nel vocione grave, dopo un breve istante di silenzio.
«Certo, e non avrebbe potuto affrontare la prova  a cui l’abbiamo sottoposto con maggior dignità e fermezza» ammise Thràin. «Ma sebbene come principe ereditario di Erebor io continui a sostenere fino in fondo l’importanza strategica del suo fidanzamento con Elinor, come padre non posso non riconoscere di avergli chiesto molto … moltissimo.»
Elinor si rese conto solo dopo diversi secondi di non stare più respirando. L’improvviso virare della conversazione su argomenti che la riguardavano le stava facendo tendere le orecchie fino allo spasimo per non perdersi nemmeno il più piccolo sospiro emesso dai due nani.
«Beh, da come si è comportato ieri sera con la ragazza, mi è parso che “la prova a cui l’abbiamo sottoposto” gli risulti tutt’altro che pesante» borbottò Thròr in risposta. Una piccola vampata di calore imporporò la guance di Elinor, e le rese particolarmente difficile, per qualche secondo, concentrarsi sulla risposta di Thràin.
«Che abbia cambiato opinione su di lei è fin troppo chiaro,» disse infatti il principe, senza nascondere il suo compiacimento «e non avrei potuto chiedere di meglio. Ma credo che considerarlo felice di essere stato promesso in matrimonio sia ancora una parola grossa … indipendentemente dal suo attuale giudizio su Elinor.»
«Vieni al punto, Thràin. Sai che detesto i giri di parole» lo interruppe Thròr in tono aspro.
«Bene, allora. Tuo nipote è forte e determinato, e sta già mostrando chiaramente le doti del capo che sa farsi rispettare. E’ consapevole che un giorno Erebor sarà sotto la sua responsabilità, e ha lavorato duramente fin da quando era bambino per dimostrarsi all’altezza di questo compito, senza mai deluderci. Thorin è una risorsa preziosa, per noi, padre … e credo che abbia bisogno, ora più che mai, di sentirsi coinvolto davvero, non soltanto come una pedina da muovere nella scacchiera delle alleanze.»
Una lunga pausa silenzio accolse l’appassionato discorso di Thràin, probabile segno che le parole di elogio per Thorin non avevano scalfito minimamente l’inflessibilità di Thròr.
Quando parlò, infatti, la voce del re di Erebor era intrisa di distaccata freddezza. «E per farlo sentire coinvolto vorresti davvero affidargli un segreto così importante?»
«E’ pronto per assumersi una tale responsabilità. Dobbiamo dargli fiducia!» insistette Thràin, intenzionato, a quanto pareva, a non mollare l’osso finché non fosse riuscito a conquistare il padre alla sua causa, qualunque essa fosse.
«E’ ancora un ragazzo, Thràin! Non ho intenzione di mettere nelle sue mani l’accesso a …»
Una risata incredula di Thràin interruppe ciò che il re stava per dire, ma ciò non impedì ad un lampo di consapevolezza di attraversare la mente di Elinor. La ragazza, stordita, iniziò a sentire il corridoio vorticarle intorno, e dovette aggrapparsi disperatamente al muro di pietra perché le gambe non cedessero rovinosamente sotto il suo peso. Thorin dunque non sapeva ancora … Thorin non era ancora a conoscenza della …
«Io ero persino più giovane di lui, quando me l’hai affidato!» esclamò nel frattempo il principe dei nani. «Adesso voglio che sia lui a ricevere da me il testimone!»
«Tu vuoi? Vuoi? Devo forse ricordarti chi è che comanda nel mio regno?»
Un nuovo, pesante silenzio carico di tensione calò nella stanza, mentre nell’aria vibravano ancora le parole autoritarie pronunciate dal re. Elinor, che non respirava ormai da diversi secondi, credette che persino il suo cuore avesse dimenticato di battere. Le sembrò che passassero ore prima che Thròr riprendesse a parlare, e quando lo fece il sarcasmo nella sua voce era palpabile.
«Confido che non ci sia bisogno che io ti spieghi che più persone vengono a conoscenza di un’informazione, più è alto il pericolo che essa venga divulgata» osservò infatti il re.
«Stai forse insinuando che Thorin potrebbe lasciarsi sfuggire qualcosa al riguardo?» domandò Thràin, tra l’incredulo e l’offeso. «Non accetto che venga messa in discussione la sua lealtà!»
«La lealtà è qualcosa che con questa faccenda c’entra poco, Thràin» replicò Thròr, e questa volta ad Elinor parve di avvertire nella sua voce dispotica un accenno di ansia a stento repressa. «Basta un solo momento di distrazione, un solo istante in cui viene abbassata la guardia, per finire con il parlare troppo.» Poi, borbottando in tono ossessivo e febbrile, come se stesse parlando più a se stesso che al figlio, continuò: «E io non permetterò che ciò a cui tengo di più sia messo a repentaglio per una distrazione … non lo permetterò … mai …»
«Tutto questo non ha senso! Cosa …» fece per intervenire Thràin, ma un sibilo adirato del re lo fece ammutolire all’istante.
«Basta così! Non ti permetto di parlarmi in questo modo! Si tratta del mio tesoro, e condividerò le informazioni che lo riguardano con chi riterrò più opportuno!»
Le parole tagliarono l’aria come una lama affilata, ed Elinor credette, per un lungo istante, che il veleno nella voce di Thròr avesse ridotto definitivamente il figlio al silenzio. Ma, a quanto pare, aveva sottovalutato la caparbietà dei discendenti di Durin: qualche secondo dopo, infatti, Thràin parlò di nuovo, e la freddezza nella sua voce dimostrò che la violenta e ingiustificata esplosione di rabbia del padre non era riuscito a intimorirlo.
«Forse intendevi dire … del nostro tesoro» lo corresse il principe seccamente, senza scomporsi. «Del tesoro di Erebor
Fu la volta di Thròr di rimanere in silenzio. Il suo respiro pesante – carico di quelle che sembravano rabbia e vergogna represse - giungeva ad Elinor a brevi intervalli regolari attraverso lo spiraglio della porta.
«Non ti riconosco più, padre mio» asserì Thràin in un sussurro addolorato e appena udibile. «Da quando sei diventato così sospettoso persino con la tua stessa famiglia? Tutti noi daremmo la nostra vita per Erebor, tutti noi daremmo la nostra vita per te … compreso Thorin. Ti ama moltissimo, e soffrirebbe vedendoti in questo stato …»
«Non c’è niente che non vada in me …» lo interruppe Thròr sulla difensiva. Il suo tono brusco, tuttavia, sembrava adesso molto più tranquillo e meno aggressivo. «Assolutamente niente. Sono solo … stanco per il prolungarsi delle trattative con Thranduil … tutto qui.»
Il lungo, stanco sospiro emesso da Thràin strinse la gola di Elinor in un’involontaria – e indesiderata - morsa di compassione. Non ebbe tempo, tuttavia, di soffermarsi sui sentimenti contrastanti che quella penosa scena stava destando in lei, perché il principe di Erebor parlò di nuovo, ridestando repentinamente la sua attenzione.
«Allora permetti a tuo nipote di aiutarti a portare il fardello delle tue responsabilità» disse Thràin in tono deciso, ma al tempo stesso traboccante di burbero affetto. «La sicurezza di quanto abbiamo di più prezioso trarrà sicuramente beneficio dalla protezione di una mente acuta e da un cuore leale come quello di Thorin.»
Passarono diversi minuti, prima che Thròr si decidesse a parlare. Elinor poteva sentire le dita del re tamburellare nervosamente sul tavolo, quasi seguendo il frenetico ritmo del suo cuore. Le sue labbra si mossero quasi di loro iniziativa, formando una silenziosa e disperata preghiera: le sembrava che il suo destino fosse racchiuso in quegli interminabili istanti, che tutti i suoi piani futuri sarebbero stati determinati dalla risposta che Thròr avrebbe dato. In breve, ogni più piccolo rumore intorno a lei scomparve: il battito del suo cuore, rimbombante e insistente, era la sola cosa che ancora riusciva a udire.
Un grave e vibrante sospiro del re giunse, infine, a spezzare la tensione che si era accumulata dentro e fuori dalla stanza. Elinor aprì gli occhi e deglutì, sulle spine.
«Molto bene» decretò Thròr con una punta di rassegnazione nella voce profonda, mettendo chiaramente fine alla conversazione. «Prenderò in considerazione la cosa.»
Elinor si abbandonò con la schiena contro il muro e lasciò silenziosamente andare il fiato. Sapeva che tra qualche minuto, forse anche prima, Thràin e Thròr si sarebbero ricordati di averla convocata e avrebbero cominciato a chiedersi dove fosse, ma in quel momento non era in grado di pensare a nient’altro che non fosse l’immenso sollievo per la notizia che aveva appena appreso. Thròr non aveva dato ancora una risposta definitiva, ma dal tono che aveva usato era perfettamente chiaro che la sua capitolazione era molto probabile. Elinor ringraziò silenziosamente i Valar per la capacità di Thràin di essere stato così persuasivo: non poteva permettersi di rinunciare a Thorin come strumento per scoprire quale fosse la parola magica che permetteva l’accesso all’Archepietra.
Non adesso che, con lui, sembrava avere il coltello dalla parte del manico.


ANGOLO AUTRICE: Ok … ehm … il mio ritardo è stato davvero imbarazzante, quindi non posso fare altro che gettarmi ai vostri piedi, cospargermi la testa di cenere e chiedervi umilmente perdono. Posso solo giustificarmi dicendo che è stato un periodo universitario molto intenso, e l’estate non è stata da meno, dato che avevo una montagna di esami da preparare... Inoltre l’ispirazione era un po’ calata, anche perché mi sono dedicata alla messa a punto di altri progetti di cui forse, tra un po’, verrete a conoscenza.
Ma venendo a noi … Come avrete visto, questo capitolo è stato leggermente più corto degli altri e meno denso di avvenimenti, ma soltanto per esigenze di coerenza interna e di struttura dei capitoli. Spero, però, che la scena iniziale, quella in cui Thorin ed Elinor parlano nei Giardini interni, sia stata di vostro gradimento ;) Io traboccavo sdolcinatezza infinita, mentre scrivevo, anche se per adesso di sdolcinato è successo ben poco …
Bene, concludo dicendovi che spero di riprendere un ritmo di aggiornamento accettabile e che, se vi fa piacere tenervi aggiornate con le mie storie e i miei progressi nello scriverle, non dovete fare altro che passare dalla pagina Facebook dedicata al mio account EFP, ovvero

 
Mrs Black EFP
 
Un ringraziamento a tutti coloro che hanno recensito e recensiranno, e anche a chi ha solo speso un po’ del suo tempo per leggere questa storia! E GRAZIE IMMENSAMENTE per la vostra pazienza per la mia incostanza nell’aggiornare :)
A presto (spero),

Linda
   
 
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