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Autore: hanabi    12/10/2013    3 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Nel piccolo bagno di quella casa terribilmente indegna di accogliere un principe, Ibal scaldava l’acqua in un bricco, contando mentalmente in modo che avesse la temperatura giusta. Una pratica di anni l’aveva reso preciso più delle aste di metallo liquido con cui il suo padrone lavorava nel suo laboratorio, dove preparava le sue armi. 

Dalla stanza accanto la progressione del piacere procedeva bene. Ibal era esperto in quelle cose: nato tra i servi di palazzo, castrato alla giusta età e da quel momento introdotto nel quartiere riservato alle donne, aveva passato la vita ad assistere alla sessualità degli altri. Aveva già pronto il registro degli accoppiamenti, per quanto poco servisse, dato che non ci sarebbe stato un figlio. Ma con quello forse avrebbe potuto capire se era in arrivo o no una Prima tra le Prime. 

Tre, cinque, uno, dodici, otto e nove, uno quattro dieci insieme, dodici due e sette insieme...

I gusti di Deyan variavano capricciosamente. A volte voleva la tenerezza di una fanciulla, a volte la malizia dell’intraprendente, a volte la timidezza della recalcitrante, a volte la bizzarria della schiava che era stata di Gamosh. E non di rado le voleva in gruppo, quand’era di buon umore.

Sembra non aver preferenze... prima o poi gratifica tutte.

Da un lato era una complicazione: senza la Prima tra le Prime molti compiti decisionali cadevano sulle spalle del Maestro delle Chiavi, cioè Ibal stesso (che era tra l’altro l’unico eunuco della casa, mentre anche un nobile minore ne avrebbe avuti diversi al suo servizio). D’altra parte però era la situazione che tutti auspicavano: niente schiave trascurate e depresse, niente ripicche e vendette. La serenità in quasi tutti i serragli era simulata, ma lì poteva anche essere abbastanza autentica: il bel padrone e le sue innamorate, unite tutte dal desiderio che avevano di lui. 

E non dalla sola paura, come altre schiave meno fortunate.

Ibal scorse le date: Deyan sfruttava bene la sua shanda, senza gli eccessi di altri nobili che, non avendo altro da fare nella loro pigra vita, ne facevano il loro interesse primario. Una regolare attività sessuale, con una tendenza ondivaga e qualche pausa inquietante. Poi c’erano periodi come quello, dove sembrava frugare febbrilmente tra le sue ragazze, alla ricerca di qualcosa che non trovava... 

Colpa mia?

Ibal era preoccupato. Le ragazze erano brave, ma la loro istruzione erotica era abbastanza convenzionale. Forse Deyan si stava stancando di quella povertà tecnica: con dei gusti raffinati come i suoi, ci voleva dell’altro... nuove danze, nuovi vestiti, nuovi strumenti, nuove arti.

Ma dove trovo materiali e manuali da cuscino adatti, in questo posto squallido?

Uno schiocco di dita: non era necessario niente di più da parte del suo padrone, per avvisarlo che era il momento di entrare. Accantonò il problema per parlarne con Saal alla prima occasione, e versò l’acqua in un catino; ci aggiunse la giusta dose di profumo rilassante, vi tuffò una piccola spugna e si mise sul braccio un telo pulitissimo. Quindi, con discrezione, penetrò nella stanza padronale.

La tenda di velo danzava mollemente di fronte alla grata della finestra, dando un colore dorato alla cruda luce dei due soli nel meriggio. Il grande letto coperto di seta era alquanto disfatto dopo la battaglia dell’amore, e il corpo ondulato e bianco della schiava Due era avvinghiato, ansimante, a quello del padrone. Lui riprendeva fiato, con la testa sul cuscino, i capelli che gli si erano appiccicati al volto sudato. Era una scena che sarebbe stata perfetta per un quadro erotico, di quelli che con discrezione erano venduti a caro prezzo solo a clientele molto selezionate.

Se solo avessi la capacità di mettere su tela ciò che questi occhi vedono... 

Se solo avesse avuto la libertà di raccontare a qualcuno quei segreti che solo lui sapeva.

Sospirò e si mantenne in disparte, in paziente attesa. 

Gli albini erano notoriamente molto precoci: al primo interesse mostrato verso il sesso venivano introdotti al piacere direttamente nella casa dei padri, fino a quando non avessero avuto diritto ad avere una shanda tutta loro. Quando Deyan aveva cominciato a sentire i primi turbamenti, Unari aveva affidato ad alcuni eunuchi il compito di gestire i suoi rapporti con le donne. Ibal era stato scelto tra gli altri: a quell’epoca era giovane e non aveva molta esperienza, ma era figlio di un funzionario di palazzo, quindi di buona famiglia, raccomandato e molto ben educato; e con lui i chirurghi avevano fatto un capolavoro, evitando che puzzasse. Per questo, quando secondo l’uso gli avevano cambiato nome dopo la castrazione, l’avevano chiamato Puro nell’antica lingua.

Nel corso del tempo aveva appreso dai suoi superiori tutto quel che c’era da sapere sull’arte di lavorare in una shanda principesca, dove rigide regole e libertà sfrenata dovevano convivere in un sottile equilibrio. Sapeva che molti lo compativano per non essere più un uomo, ma quanto poteva essere intensa ed eccitante la vita in quel luogo pieno di lusso e di bellezza, brulicante di intrighi! Era un vero universo, che non gli faceva rimpiangere quello al di fuori. E lì Ibal aveva fatto il suo apprendistato con dedizione, servendo e istruendo il suo giovanissimo signore sulla varietà dei piaceri a cui aveva diritto. 

Poi, un giorno, Deyan aveva rivolto la sua principesca attenzione anche su di lui. Era stato un passaggio quasi inevitabile, in un’educazione che favoriva ogni curiosità in materia sessuale. Ibal aveva dunque finalmente compreso perché fosse stato scelto tra molti anziani, e non aveva avuto altra scelta che sottomettersi al capriccio di quel fanciullo; ma non era stato così terribile, né umiliante come gli avevano detto. Era accaduto per due o tre volte, e poi il suo padroncino aveva naturalmente accantonato la cosa, senza più richiederla. 

Ma quella minuscola parentesi aveva significato tutto, nella vita di Ibal. L’aveva completato rendendo la sua menomazione soltanto fisica, e non spirituale. Era stato in grado di capire molte cose che in teoria gli erano negate, era maturato diventando un essere nuovo. Aveva accolto anche l’inevitabile degradazione del suo corpo, che nella maturità si ribellava alla castrazione; e ne aveva anzi favorito la bruttezza, perché in quella carne grassa avrebbe nascosto per sempre il giovane servo che si era innamorato di un essere incomparabilmente superiore. Naturalmente non sarebbe toccato a lui dargli le gioie dell’amore; ma sarebbe stato suo dovere fare in modo che qualcun altro provvedesse e fosse all’altezza: e in questo, nessun Maestro delle Chiavi sarebbe stato più severo di lui. Nel letto di Deyan, sempre, ci sarebbe entrata anche una piccola parte del suo spirito. 

Sei stato soddisfatto, mio signore? si chiese, osservando la situazione con occhio critico.

Era evidente di sì: molto seme era stato sparso. E la ragazza aveva il volto arrossato, segno che anche lei aveve avuto la sua parte, benché non le fosse dovuta. Aderiva tremante al corpo sudato del suo amante; ma faceva caldo, e Deyan non voleva indugiare con quella morbida carne bianca addosso; per cui le diede un colpetto sul fianco e le ordinò di ritirarsi. Lei sospirò e si rialzò con riluttanza: Ibal vide grosse chiazze rosse sul suo seno, e sull’incavo della gola d’alabastro.

Oh padrone, finirai per scorticare le tue ragazze!

Per qualche misteriosa ragione, Deyan aveva deciso di smettere di radersi. Era bastato poco tempo perché già un alone bianco si notasse sul suo volto: gli Shanì erano una razza molto antica, e non erano glabri come le etnie vicine: l’albinismo non alterava questa caratteristica. Le schiave erano pazze di curiosità: sapevano che a volte i nobili si facevano crescere dei baffi sottili, ma nessuna di loro aveva mai visto un uomo con la barba. 

Oh, è così... così animale!

Ibal aveva sorpreso Dieci a fare quel commento irrispettoso, e dato che era orgogliosa del proprio florido cespuglietto candido, gliel’aveva strappato con la cera calda, lasciandola in lacrime e implume. Però dentro di sé si vergognava, perché la ragazza aveva avuto ragione. Deyan non sembrava mai pago di rovinare il suo splendido aspetto principesco: aveva anche spezzato il cuore di Saal sforbiciandosi i capelli, proprio quando avrebbe potuto essere acconciato come si conveniva a un nobile. 

Perché?!

Ovviamente non aveva dato alcuna spiegazione. Si era chiuso nel suo laboratorio, con quelle ciocche preziose in mano e polveri chimiche, nonché tutto il materiale per scrivere e svariati testi da consultare. E non ne era uscito se non per mangiare qualcosa. Poi si era ritirato a riposare nella sua shanda; ma prima aveva scelto la soffice Due per scaricare la tensione, con un Drago Verde Attorcigliato. E seppur esausto, sembrava sul punto di chiedere qualche altro esercizio erotico: come se il suo spirito avesse una fame che il corpo non era in grado di saziare. 

Quale demone ti tormenta, padrone? Perché nulla sembra darti pace?

Ibal si avvicinò al letto, come prescriveva il suo dovere, e la schiava prese la spugna dal catino per rinfrescare e ripulire il corpo del suo padrone. Quando finì le porse il telo pulito per asciugarlo, e contemplò quel corpo che non aveva mai avuto la morbidezza prevista dai canoni estetici di moda tra le corti. 

Se solo ti avessero lasciato vivere la pigra vita di un principe, mio signore...

Ma se mai Deyan aveva avuto l’occasione di addolcire le sue forme, l’aveva persa nel momento che era diventato un reietto. La dura vita di Luna di Fuoco aveva poi spazzato via da lui ogni morbidezza residua: ora era più simile a uno dei suoi ex sudditi, con la loro stessa aggraziata e ostinata resistenza alle crudeltà del clima... e degli uomini. 

Uno Shanì autentico, anche nell’indole. Difficile da accontentare.

Chissà cosa sarebbe accaduto, se a un uomo con quell'ascendenza si fosse permesso di salire al trono. Chissà anche cosa sarebbe stato di Ibal, Primo Eunuco e Maestro delle Chiavi di un principe regnante, con tutta la ricchezza e il potere di un simile ruolo... 

Ma il destino ha voluto altrimenti. 

Irrigidì il suo cuore. Un eunuco dopotutto aveva un solo signore: era disdicevole che qualcuno che conoscesse così bene l’intimità di un nobile si mettesse al servizio di qualcun altro. Gli altri eunuchi di Deyan avevano dimenticato quella semplice regola per loro convenienza: solo Ibal aveva accettato piuttosto la degradazione a servo.

Non servirò mai un altro padrone, finché il mio vive.

Quella sua scelta, che era sembrava pazzia all’epoca, era stata premiata. Gli altri eunuchi erano morti, uccisi giustamente da Deyan stesso quando si era ripreso lo scettro di Shana e le sue schiave. E lui viveva ancora, dirigendo con fatica ma anche con maestria quella minuscola, ma ben organizzata shanda. 

Tocca a me renderla degna di un principe, nonostante la nostra povertà.

Anche se erano poche, le schiave erano di prima qualità, e nella loro varietà rappresentavano bene il canone tradizionale della perfetta bellezza kelith, con corpi morbidi, forme rotonde ma non flaccide, pelle immacolata, visetti delicati. Due era particolarmente florida, con i seni grossi come la Bianca Dea: quando finì il suo compito si chinò a baciare la mano di Deyan, e nel farlo lo sfiorò deliberatamente con tutta la sua abbondanza. Poi, nuda com’era, se ne andò ancheggiando in maniera invitante. Ibal per un momento sperò che il padrone la richiamasse indietro...

Invece lui si voltò dal lato opposto, la faccia semiaffondata nel cuscino. 

“La sayanni non è ancora tornata?”

Lui restò interdetto alla domanda. 

La sayanni?!

“No, padrone.”

E magari non tornasse più!

Non era quello il suo posto. Veniva dal passato di un popolo che era tuttora incivile, era troppo selvaggia, ineducata, rozza per stare assieme a quei gioielli di perfezione che erano le ragazze albine: anche se fosse stata destinata a un capriccio bizzarro dei sensi (c’erano nobili che per noia si accoppiavano con nani, esseri deformi e anche animali) avrebbe dovuto essere confinata in un serraglio separato, ben nascosto, dove nessuno la vedesse. Ma a quanto sembrava non era quello il caso: dopo tutto quel tempo era ancora vergine, e totalmente inutile a qualsiasi soddisfazione dei sensi: si rifiutava persino di danzare, e cantava soltanto i propri inni barbari. 

E quindi cosa ci faceva, in un’onorata casa kelith? La guerriera? Non era un lavoro da donne, quello. I sayanni erano dei folli a consentire alle loro femmine certe libertà: poi era naturale che diventassero arroganti nei confronti degli uomini. Ibal ammirava la stabilità geometrica della propria società, dove la convenzione faceva sì che non si sprecassero energie a cambiare ciò che già funzionava: ognuno aveva il proprio compito. Gli uomini facevano gli uomini e le donne facevano le donne (e gli eunuchi facevano gli eunuchi); gli uomini comandavano, tutti gli altri obbedivano; gli uomini possedevano, tutti gli altri erano posseduti.  

 Ma i sayanni dicono di appartenere soltanto ai loro dèi incarnati. Non hanno nemmeno un adeguato concetto di proprietà! Sono come insetti, tutti intorno alla loro ape regina. E quando se ne stacca uno dall’alveare, si ha a che fare con una creatura elementare e screanzata.

E quanto era difficile educarli... ci si riusciva a malapena se gli schiavi erano presi giovanissimi. Ma quella femmina non lo era: anzi, era immensamente antica, e per di più di una casta che era notoriamente riottosa a qualunque tentativo di doma. Un tatuaggio da guerriero su un sayanni significava che il prodotto era spendibile solo nell’arena, o per qualche morte spettacolare: era inutile per ogni altro scopo. Se Deyan si illudeva che bastasse qualche frustata e un pozzo, per riuscire dove altri avevano fallito...

Non c’è speranza, padrone. L’unica cosa che hai ottenuto è un rispetto minimale delle più basilari regole di questa casa, ed è già più di quanto si potesse sperare da una selvaggia. Ma non pretendere l’impossibile. 

Sarebbe stato meglio sbarazzarsi alla svelta di quella schiava, realizzando il capitale che rappresentava in un periodo dove gli affari di Deyan comprendevano più uscite che entrate. Saal si era informato con discrezione sul possibile valore di mercato di una Xarani vergine, l’ultima di una razza estinta: e aveva capito che era ingente. Ne aveva parlato col padrone, sperando che si decidesse a sbarazzarsi di quell’anomalia...

Lei l’aveva sentito. Aveva fatto irruzione nella stanza e aveva osato interrompere i due uomini che parlavano di lei, dicendo con le lacrime agli occhi che aveva fatto un patto sacro davanti a suoi dèi, e pertanto non potevano venderla: non avrebbe mai accettato un altro padrone. Saal era rimasto senza parole di fronte a quell’incredibile impudenza.

Come si permette una schiava di dire la sua su chi la possiede?

Ma ormai follie come quelle erano all’ordine del giorno. Che dire di una donna che ogni giorno si esercitava in ginnastiche durissime, per poi tornare nella shanda e mettersi a scrivere? Che non stava mai ferma, rovinandosi le mani a scolpire gingilli o a tagliar pelli, trasformando la sua cuccia in una specie di laboratorio? Che ringhiava quando Ibal minacciava con la frusta le schiave disubbidienti, e dichiarava di voler dar loro un nome vero al posto del numero che avevano?...

Ibal sospirò, scuotendo lentamente la testa.

No, padrone, ti prego: basta. È meglio che lei rimanga in compagnia del tuo amico, come pagamento di quel triste debito d’onore che hai con lui. Sarà la pace per questa casa, che tornerà alla sua primitiva purezza. E anche quella poveretta starà meglio, senza più dover essere disciplinata per farla diventare ciò che non potrà mai essere... una di noi. Lasciala dunque tra i suoi simili, a strappare bocconi di carne dagli spiedi sul fuoco, far giochi maneschi coi compagni, affilare le proprie armi, cucire le proprie pelli, pregare i suoi dèi...

Si accorse che Deyan aveva chiuso gli occhi. 

Sorrise, soddisfatto: finalmente si era addormentato. Aveva riposato pochissimo negli ultimi giorni, anche meno del solito; e aveva usato droghe pericolose per combattere la stanchezza. L’eunuco contemplò il suo volto: c’era come una punta di dolore, nei suoi tratti regolari. 

Sei troppo giovane per poter fare a meno del sonno, mio povero signore. 

Lo coprì col lenzuolo, andò a tirare un’altra tenda rossa per mascherare ulteriormente la luce della grata, e accese un bruciaprofumi spargendovi sopra un’essenza rinfrescante. Quindi scivolò silenziosamente via da quella stanza, portando via il catino.

Non fece nemmeno in tempo a finire di riordinare per bene ciò che era stato adoperato: l’ultima goccia della clessidra era ancora appesa al cristallo, quando si sentì chiamare di nuovo.

“Ibal!”

Posò il panno che teneva in mano, desolato. 

Così poco riposo? 

Entrò nella stanza e vide Deyan seduto sul letto, la testa china e i capelli scomposti. 

“Vestimi per uscire.” 

“Padrone... è ancora giorno, e la luce ferisce...”

“Quindi mi servirà la maschera.” Si strofinò gli occhi, poi si passò la mano sul volto non rasato. “Fai presto.”

Aprì la bocca per protestare...

Gli albini kelith discendono da una stirpe divina, e tu hai l’onore immenso di poterli servire. Il tuo compito è obbedire al meglio delle tue capacità. Puoi far loro delle domande, ma solo per servirli meglio. Non hai il diritto di discutere con loro. Di fronte alla loro nobilità, ricorda che tu non sei niente.

L’antico catechismo degli eunuchi risuonò nella sua mente. E Ibal inspirò profondamente, inchinandosi. 

“Sì, padrone.”











Ran era in piedi, nella piazzetta in mezzo al quartiere della Squadra Sacrilega, e squadrava le figure sedute a terra intorno a lui. 

Quanti sono?!

Non li aveva mai contati veramente. Ma adesso i suoi predoni erano davvero tanti. Sayanni e kelith, che tendevano naturalmente a far gruppo separatamente, ma i veterani si mescolavano ormai senza problemi. Una varietà di costumi diversi, figure massicce o esili, capigliature di vari colori. 

C’erano anche gli schiavi: comprati tra i falliti, e che erano contenti di essere finiti in un posto dove, con colui che aveva avuto il coraggio di liberare nientemeno che un albino kelith, c’era la speranza di tornare all’antica dignità. Con loro Ran aveva fatto un patto chiaro: se avessero fatto bene il loro lavoro di servi, quando si fossero ripagati la spesa del loro acquisto sarebbero stati dichiarati liberi. 

Deyan aveva aggiunto alla compagnia uno strano regalo: un gruppo di Shanì troppo vecchie per i bordelli. Erano vedove campagnole, rimaste senza figli maschi che potessero ricomprarle alla morte del marito, e che venivano offerte al mercato rimanendo spesso invendute, e per questo venivano soppresse: ma lui aveva mandato un mercante di Luna di Fuoco a procurarsele in segreto. Ran aveva storto la bocca a veder arrivare quelle vecchie asciutte, ma quando le aveva viste all’opera aveva capito la saggezza dell’amico: erano lavoratrici instancabili e meticolose, vere forze della natura. Tenevano in ordine le cose, dormivano e mangiavano pochissimo, e non turbavano i sensi dei predoni. Anche in quel momento se ne stavano sotto il portico a preparare il cibo, e bisbigliavano tra loro a proposito del loro principe. 

A quanto pare Deyan-shir è diventato una sorta di eroe popolare per il popolo di Shana. I cantastorie narrano la sua vicenda e le sue imprese, anche se devono farlo in segreto perché Gamosh ha ordinato di strappare la lingua a chiunque osi nominarlo. 

Ran sospirò. Era inutile illudersi: il legame di Deyan con la sua terra era qualcosa che avrebbe sempre interferito con la sua vita da predone. Lui non aveva nessun legame con Sayanna, e ne era ben felice: si sentiva totalmente libero. Laggiù non era stato nessuno, su Luna di Fuoco... era diventato un capo.

Con quel pensiero in mente, si erse orgogliosamente, squadrando gli astanti. 

“Compagni, la stagione è finita. I Marjaban ci hanno accreditato una bella somma dopo aver ritirato il bottino di Zakkara; dopo aver pagato i debiti, sia io che Deyan-shir ci siamo presi la parte del capo secondo gli usi di Luna di Fuoco. Ma tutto il resto ci avanza: la Squadra Sacrilega non accumula ricchezze nelle proprie casse, quindi abbiamo deciso di distribuirla a tutti.”

Un’acclamazione di gioia salì nell’aria.

“Solo chi ha partecipato a quel colpo ha diritto a un premio,” obiettò un sayanni, alzandosi in piedi; e un brivido di tensione passò tra i predoni. 

Ran lo squadrò, corrugando le sopracciglia.

Manai, uno dei luogotenenti di Saraji.

“Questo valeva nella tua vecchia squadra, fratello. Qui le regole sono diverse, e la prima regola... è che la distribuzione del bottino la decidiamo io e Deyan-shir, e nessun altro: è chiaro?”

Manai tornò a sedersi, intimorito.

Ran addolcì il suo tono. “Se possiamo partire sicuri e ben equipaggiati, è anche grazie al lavoro di quelli che sono rimasti a casa. E questo da noi viene riconosciuto.” Una scrollata di spalle. “Poi, se le nostre decisioni non vi aggradano, siete liberi di lasciarci in ogni momento: tranne gli schiavi, nessuno è vincolato a restar qui contro la sua volontà. Siamo liberi predoni, che vanno dove c’è la convenienza di stare...” Un’occhiata suadente tutt’intorno. “Ma fate bene i vostri conti, amici miei. Perché chi lascia questa squadra... non ci ritorna.”

 Gli uomini si guardarono, ma nessuno si mosse. 

“Avrete le tasche belle piene. Alcuni saranno contenti di quel che hanno, e riposeranno; altri cercheranno di metter su casa su questo posto spendendoci una fortuna, e altri se la berranno e mangeranno nei prossimi giorni rimanendo senza un soldo in tasca, come spesso accade a noi predoni... non c’è problema, il mondo lassù è pieno di cose buone da rubare.”

“Vuoi dire che hai in mente altre missioni?” chiese qualcuno.

“Ma non hai rubato abbastanza?!”

Ran fece un sorriso smagliante. “Quando uno ha fatto la fame, non basta certo un banchetto a saziarlo: lo stomaco si calma, ma il ricordo del digiuno no. Per essere ricchi non è per forza necessario scovare tesori come quello di Zakkara: il grande frutto è buono, ma vale come dieci piccoli frutti.” Fece un ampio movimento con le mani. “La nostra idea è quella di un flusso di ricchezza per la nostra squadra, poca o tanta che sia, sulla quale poi ricamare quelle grandi imprese che fanno in modo che la gente ci sorrida quando entriamo nelle bettole. Finché non ne organizzeremo un’altra, vi lasciamo la libertà di dividervi in squadre più piccole, per colpi più agili e meno impegnativi, sui quali ovviamente la quota che vi chiederemo come capi sarà... poco più che simbolica.”

Gli uomini si scambiarono occhiate ironiche. Sapevano che Ran non aveva in mente nulla di simbolico, ma la proposta li interessava. 

“Nessuno sarà costretto a lavorare; ozio, buon cibo, buon vino e divertimenti innominabili sono a disposizione di chi vuol riposare. Ovviamente, chi non riposa diventa più ricco. Io ho saputo che da qualche parte, sulla Grande Strada che solca le pianure meridionali, transiterà un carro molto ben sorvegliato carico di perle rosse destinate alla decorazione di qualche luogo sacro. Non ho mai visto una perla rossa, e sono molto curioso...”

“Te la potresti comprare,” disse qualcuno, e ci furono delle risate. 

“Io non compro se non da altri predoni,” fece Ran, sdegnosamente.

Tutti risero. “Giusto!”

“In fin dei conti che scopo ha la nostra vita, se non l’avventura? Ho riposato, mangiato e bevuto: mi annoio. E anche Deyan-shir.” Indicò genericamente alla sue spalle, anche se non c’era. “Partirà anche lui, perché anela ai tesori di Kelitha; com’è giusto che sia.”

“Io al suo posto non mi annoierei, con tutte quelle schiave al mio servizio,” borbottò uno dei kelith.

“Al mio paese si dice che il pane è più buono quando si ha fame,” ribatté Aydie. “Vuoi mettere il piacere di tornare tra calde braccia, piuttosto che starci?” Sputò un pezzo di foglia di spezia. “Deyan-shir è oltremodo saggio per la sua età. Penso che seguirò il suo esempio: non mi va di bighellonare in questa luna di reietti mentre gli altri si divertono sul mondo.”

“Si divertono,” disse il suo compagno. “Ma a volte ci muoiono.”

“E allora?” La cicatrice di Aydie si contorse in una smorfia. “Si muore anche quassù...”

Ran ripensò a Nafur. Rabbrividì.

È vero, si muore anche qua. Si muore nelle risse e nei duelli; si muore per le ferite, per i troppi bagordi, per le malattie, per la durezza di questo clima selvaggio; si muore perché non si è buoni a nulla e dopo la schiavitù c’è solo l’abbandono nella desolazione, per eliminare bocche inutili da sfamare. Luna di Fuoco non è un paradiso, è soltanto un rifugio. Gli animali condotti qui s’ammalano misteriosamente, e muoiono; nascono pochi bambini, come se la natura non volesse che ci moltiplicassimo troppo quassù...

Represse la tristezza e inalberò un sorriso.

“Avrete tempo di pensare ai prossimi guadagni, e a come ottenerli. Intanto il nostro contabile, Sermek il kelith, è già pronto a distribuire il premio. Siate educati con lui: ci ha lavorato tutta la notte ed è molto stanco... e ricordate che è qui perché ha aperto la pancia a un mercante troppo insistente.”

Non è vero, ma così eviteranno di prenderlo per il collo per avere i loro soldi. 

Si voltò, mentre i predoni si alzavano contenti e cominciavano a parlare animatamente tra di loro. Sicuramente la loro eccitazione avrebbe fatto il giro di tutta Luna di Fuoco, aumentando la popolarità della Squadra Sacrilega. La notizia che persino Ran si sarebbe buttato a fare nuovi colpi sarebbe suonata come uno schiaffo agli altri grandi capi, che si sentivano tali solo quando mandavano gli altri a rischiare la pelle. 

Come già fanno i capi là sul mondo: e allora dov’è la differenza? 

Camminò verso il suo alloggio, notando come i suoi uomini lo guardavano: c’era ammirazione, nei loro sguardi, e rispetto. Ricordò quando da ragazzino gli dicevano che non avrebbe mai combinato nulla di buono, e il pensiero gli diede il buonumore. Forse molti saggi avrebbero questionato sul fatto che creare un gruppo disciplinato di tagliaborse fosse un’impresa meritevole, ma ognuno doveva cercare l’eccellenza dove poteva... 

Non mi sono mai sentito tanto completo come in questo momento. 

Gli offrirono delle focacce calde, cotte sulla pietra: se ne mise una in bocca, ne prese un’altra e scostò la tenda del suo alloggio: non c’erano porte, in onore della pura tradizione sayanni che faceva di una casa uno spazio comune.

“Xarani!”

Gli rispose il silenzio. 

Entrò nella grande stanza. Non c’era nessuno. Cercò con lo sguardo il proprio giaciglio in mezzo agli altri: era in ordine, con le pellicce rimesse a posto. Su di esse era stata posata una statuetta, scolpita in una pietra tenera. 

Ran si avvicinò a raccoglierla, guardandola con improvvisa malinconia. Rappresentava la Coppia Divina: i due dèi erano spalla a spalla e si tenevano per mano...

Il suo pollice sfiorò la figura di Lilia.

Xarani.

La ricordò come l’aveva vista quel mattino, dopo essersi svegliato tutto indolenzito: aveva dimenticato cosa volesse dire dormire direttamente a terra, sulla sua vecchia coperta. Aveva aperto gli occhi e l’aveva scorta seduta accanto a sé, con una delle sue pellicce stretta al corpo nudo, le braccia atletiche che risaltavano contro il pelo dorato dell’animale, la schiena seminascosta dalla massa dei capelli. Si era girata verso di lui e gli aveva sorriso con gratitudine.

“Kamoh u Lilia sh’nei ni, Randanai.”

Lui non aveva saputo come risponderle: forse per la prima volta in vita sua, gli erano mancate le parole...

Gli altri sayanni vergini avevano sbuffato, destandosi a loro volta e sbadigliando; lei si era girata a benedire anche loro. Sembrava felice, nonostante la compagnia non fosse certo delle più elevate: era finalmente tra la sua gente, e si godeva quella sensazione come se fosse stata l'ultima della sua vita. 

Erano arrivate le vecchie kelith, che sembravano non dormire mai: avevano portato il solito pentolone di zuppa calda con cui i sayanni iniziavano la loro giornata. Avevano notato la donna in mezzo agli uomini, ma vedendo che aveva il collare da schiava non l’avevano servita. Lei le aveva guardate andar via con aria incerta; quindi si era rivolta a Ran e con vergogna gli aveva confessato di aver tanta fame, ma di non aver assolutamente nulla di proprio con cui pagare...

Ran si era sentito bruciare dentro, colto da una pena indicibile. In quel momento avrebbe voluto essere Khanshir solo per depredare tutti i palazzi dei kelith e tutti i templi di Sayanna, e mettere ogni ricchezza del mondo ai suoi piedi, affinché lei non dovesse mai più sentirsi così umiliata!

Più svelti di lui erano stati però gli altri sayanni, che avevano tutti offerto la propria ciotola di zuppa a quell’essere sacro, sperando che lei la toccasse; e Naysiak si era trovata all'improvviso circondata da tazze fumanti. Aveva sorriso, facendo l’antico gesto di ringraziamento, e aveva mangiato una cucchiaiata da ogni ciotola, come in un rito di condivisione. Era stato un momento di intensa emozione: anche predoni induriti si erano commossi, e Ran aveva sentito quel caldo senso d’unione tribale che era tra le gioie più dolci della sua razza, e che nessun kelith individualista era in grado di comprendere.

Con lei non siamo stati più reietti. Non ci siamo più sentiti cacciati dal nostro paese, nemici del nostro popolo, maledetti dai nostri dèi. Ci siamo sentiti a casa, anche qui, e lei non era una guerriera sacra, né una vile schiava, ma soltanto una di noi... la compagna che ogni sayanni vorrebbe al proprio fianco.

Che lui avrebbe voluto al proprio fianco. 

Ran sospirò, riconoscendo quel pensiero. 

Devo fare qualcosa. Non sopporto più questo senso di vergogna che ho dentro di me: vergogna per le cose che ho fatto... e per quelle che non ho avuto il coraggio di fare!

Posò la focaccia sul davanzale e aprì la sua vecchia cassapanca. Ne estrasse un oggetto 

Mi spiace, amico mio. So cosa vorrebbe dire per te se ti restituissi questo triste ricordo. Mi ero ripromesso di non mostrartelo mai, perché so quanto dolore ti ha provocato, e so che fai di tutto per dimenticarlo. Ma anche se mi odierai per questo, è arrivato il momento di farti render conto di quel che stai facendo... di farti ricordare quel che hai provato tu, quando hai portato questo!

Era un collare di bronzo, dalla saldatura spezzata. 












Deyan avanzò nelle strade polverose del quartiere kelith, coperto dalla testa ai piedi. Di lui si vedevano solo gli occhi dietro la maschera che li proteggeva dai raggi solari, ma bastava quella a farlo riconoscere: era appartenuta a uno dei suoi antenati di mezzo millennio prima, scolpita magistralmente in un solo cristallo Ankay dall’ottica perfetta, ed era stato il primo oggetto che aveva rubato. Gli sfaccendati lo notavano e distoglievano subito lo sguardo, con quella sorta di timore reverenziale a cui lui era abituato. 

Passò per la zona dei divertimenti e proseguì oltre, là dove le case si trasformavano via via in baracche sempre più povere e isolate, e la desolazione infilava le proprie dita polverose tra le strade dei predoni più derelitti, quelli ormai a un passo dal fallimento. I due soli frustavano il paesaggio disegnando duplici ombre nette, e un silenzio inquietante gravava nell’aria immobile. 

Si diresse verso un mucchio di pietre, un rozzo arco coperto da una vecchia stuoia: era l’ingresso di una casa interrata, niente più che un squallido buco sottoterra. Seduto accanto alla stuoia c’era un rottame umano dai lunghi capelli, così chiari da sembrare un albino: ma erano giallastri, come la pelle che una vecchia tunica lasciava scoperta tra uno squarcio mal cucito e l’altro. 

L’uomo alzò la testa verso il nuovo venuto, strizzando gli occhi come un uccello notturno. 

“Benvenuto, nobile signore.” Ebbe un tremito.  “Hai portato da bere?”

Deyan scostò il mantello ed estrasse un piccolo otre da cinque misure.

L’uomo si precipitò ad afferrarlo, come se da esso dipendesse la sua vita. Strappò lo zipolo e si versò a canna il liquido in gola: solo dopo parecchie sorsate sembrò calmarsi. 

“Ah, il nymaa, il piscio degli dèi!” sospirò, voluttuosamente.

Era una definizione fin troppo generosa per il più vile dei liquori kelith. Quell’uomo ormai viveva solo di quella sostanza, com’era inevitabile per coloro che se ne intossicavano, e Deyan vedeva chiaramente che non gli restava molto da vivere: era magro come uno scheletro, con la bocca quasi completamente sdentata, gli occhi gonfi e sporgenti, le mani tremanti. 

“Parlami ancora di Chanda,” gli disse, e si accosciò a terra, davanti a lui. Preferiva restare lì fuori, piuttosto che entrare nel buco maleodorante che era la tana di quel derelitto. 

“Non ho più molto da dirti,” disse l’uomo, tracannando un’altra sorsata. “TI ho già raccontato tutto. Noi siamo il popolo del nord, delle piane nevose e delle estati brevi. Qualche bastardo dice che... siamo più simili ai sayanni che ai kelith, ma non è vero: diventiamo azzurri solo quando le tempeste ci sorprendono tra i ghiacci, e moriamo fissando il cielo più bianco dell’inguine di un’albina...” Una risatina. “Sì, Deyan-shir, io, un uomo comune, l’ho visto. E per questo anch’io, come te, sono stato marchiato come schiavo... e mandato a remare sulle galere del mio principe, possano i suoi lombi avvizzire e il suo nome sparire nell’oblio.”

Deyan aveva già sentito quella storia, ma non interruppe il flusso di parole. 

“Noi Chandì siamo una razza antica, la più antica di Kelitha: persino Shana è venuta dopo di noi. Siamo di alta statura, coi capelli che mostrano la nostra ascendenza dal sole giallo; i nostri occhi sono dell’oro che nel nostro paese non vediamo mai, perché la nostra terra è povera. Abbiamo poche donne, che sono molto belle da fanciulle, ma poi diventano dure e scabre come i nostri alberi. Siamo divisi in clan che si distinguono da una fusciacca che portiamo sulla veste: uno Chandì rimane nudo, piuttosto di lasciarsi togliere la keima. Le nostre case sono in legno, e la shanda è una sorta di torre separata, circondata da un alto muro, perché un buon Chandì brama tutte le femmine, anche quelle degli altri... e in questo siamo piuttosto simili, non è vero, nobile signore?” Rise, sarcasticamente. “Che altro vuoi sapere?”

“Dicono che vi piacciano le musiche tristi. Insegnami un’altra canzone del tuo paese.”

L’uomo si schiarì la gola, sputò e cominciò a cantare con voce roca ma ben intonata:

Siamo i figli dell’Arca, il seme del sole

ma abbiamo perduto il paradiso.

Siamo i figli dell’Arca, il seme del sole

ma nostro padre ci volta le spalle.

Siamo i figli dell’Arca, il seme del sole

e la morte non ci fa paura...

Deyan ascoltava con attenzione. Il canto faceva riferimento all’Arca leggendaria... che però, come aveva scoperto, era esistita veramente.

Davvero siamo stati generati da esseri provenienti da altri mondi?

Nella cultura kelith non era quasi rimasta traccia di quel vascello divino: solo nelle ballate, nelle favole e in qualche antica pittura, dove si vedeva un palazzo tra le nuvole, dal quale gli déi spargevano semi sulla terra. Non c’era poi quasi menzione del suo ritorno: nell’osservatorio astronomico del palazzo in rovina di Mahajana i sapienti avevano registrato il passaggio di uno strano astro, diverso da ogni cometa; ma quell’oggetto inconsueto era sparito dagli orizzonti di Kelitha, e solo i navigatori dell’oceano l’avevano rivisto, con racconti che erano sembrati inverosimili: una luce immobile sul cielo di Sayanna. Si era sperato che fosse il castigo celeste per quegli insopportabili barbari che infestavano l’altra parte del mondo... 

E per una di loro lo è stato davvero.

Il pensiero di Naysiak fermò la sua mente: gli sembrò di sentirsi addosso il suo sguardo vigile. 

Attento, Seriema...

Detestava quelle intrusioni nel suo spirito, ma sentì i propri sensi obbedire all'esortazione. Guardò l’uomo che cantava, concentrandosi su di lui e non sulle sue parole. E notò che i suoi occhi cisposi si spostavano, guardando di sottecchi a destra e a sinistra. 

Cosa sta cercando? 

L’uomo continuava a cantare. Però con voce più forte, adesso: e stringeva l’otre ormai quasi vuoto. Deyan sentì un lievissimo rumore alle sue spalle: si voltò, ma non vide nessuno. 

Sono in pericolo?

I suoi occhi dietro la maschera perlustrarono la scena, poi tornarono ad affissarsi sul Chandì.

“Perché hai paura?” gli chiese.

L’uomo tacque. Poi la sua bocca sdentata si allargò in un triste sorriso. 

“Perché dei sayanni stanno arrivando qui.”

Il Chandì indicò verso la sua sinistra e la sua destra. Deyan gettò uno sguardo verso le altre baracche, e stavolta vide degli uomini azzurri uscire dagli angoli, con le vesti succinte e i corpi massicci e polverosi. 

Rabbrividì. Un’imboscata?

“Credevo di esser stato abbastanza generoso, con te.”

“Non sei sempre con me, nobile signore." Il suo sorriso si mutò in una smorfia. "Lo sai cosa si prova, quando si resta senza nymaa?... Si impazzisce, e si fa qualunque cosa per un sorso di giallo liquore! In vita mia ho fatto ben di peggio che raccontare... che un certo nobile sarebbe prima o poi tornato da me. Ti hanno tenuto d’occhio... e io ho dato loro il tempo di arrivare.” Una scrollata di spalle. “Niente di personale.”

Una calma mortale scese nell’animo di Deyan. 

Dovevo aspettarmelo... dovevo essere più prudente. 

Si alzò lentamente, preparando le proprie armi sotto il mantello. 

“Mi ucciderai?” chiese il Chandì, con voce lamentosa. 

“La tua vita è un inferno, perché mai dovrei essere misericordioso con te?”

Osservò freddamente i nemici che lo circondavano.

Sayanni, armati fino ai denti. Ran saprebbe identificarli, io non li conosco: probabilmente sono uomini di Saraji che non hanno trovato posto nella nostra squadra, e vogliono vendicarsi. Sarebbe meglio evitare lo scontro, ma non è saggio pensare che mi lascino libera la via per rientrare nel quartiere dei kelith. Potrei fuggire verso la desolazione, ma mi inseguirebbero, e non ho acqua per spingermi nelle profondità.

Guardò il Chandì, evidentemente ubriaco.

Quest’uomo mi è completamente inutile. Non ha le forze neppure per scappare. Non ho modo di avvertire Ran: nessuno sa che sono venuto qui.

Un sorriso amaro gli salì sulle labbra.

Ho commesso un errore... o forse ho voluto commetterlo? 

Qualcosa di simile alla disperazione gli salì nell’animo... ma tutti i pensieri si infransero contro una barriera immateriale in lui: gli sembrò che un’entità gelida e oscura l’abbracciasse, cancellando ogni emozione. 

Dea Misericordiosa, dolce è la tua vicinanza. 

Attese i suoi nemici, senza paura.

“E la tua cagna da guardia, kelith bianco?” esordì uno dei sayanni, guardandolo con disgusto. “Ci hanno mandato a tagliarle la gola, ma visto che non c’è taglieremo la tua.”

"Forse gli altri, ma tu no."

Deyan alzò il braccio e il suo lanciadardi scattò quasi istantaneamente. Il sayanni fu colto alla sprovvista: il quadrello d’acciaio gli si conficcò nella gola. Emise un verso strozzato e si portò le mani al collo, con gli occhi sbarrati, cercando di strapparsi il dardo... ci riuscì, ma un fiotto pulsante di sangue schizzò di fronte a lui e gli salì alla bocca, soffocandolo.

“Jirian!” gridò uno dei suoi compagni, e accorse da lui, in tempo per sorreggerlo prima che cadesse. Lo guardò boccheggiare, rendendosi conto della gravità della ferita. Non perse tempo: estrasse dalla cintura il pugnale e glielo affondò con precisione nel cuore.

Uomini risoluti, pensò Deyan con un brivido. Se aveva sperato di guadagnarsi del tempo, era stato deluso. 

“Uccidere a distanza è da vili,” mormorò il sayanni, lasciando andare il cadavere.

“Anche andare in tanti contro uno,” replicò Deyan, mettendo mano al suo coltello. “Adesso avete un uomo in meno, ma siete sempre troppi per considerarvi dei sayanni coraggiosi.”

“Ci dividiamo la vergogna di doverti toccare, non la gloria per un’uccisione!”

“Vi dividerete anche il bando dei Marjaban.”

“Sì, se qualcuno andrà a raccontare come sarai morto...”

Deyan lanciò uno sguardo al Chandì: era con quella vuota moneta che si era comprato un momento di paradiso?

Ma io in che cosa sarei diverso da lui? 

Si abbassò il velo scoprendo il viso, e i sayanni videro che sorrideva...

Partì all’attacco, prendendo alla sprovvista gli avversari che mai si sarebbero aspettati tanto da un kelith. Si piegò fulmineamente e la sua mano armata tracciò un arco basso sulla gamba dell’uomo più vicino: sentì l’acciaio che mordeva la carne e l’urlo del nemico.

Cento battiti del suo cuore, e il veleno comincerà a fare effetto...

Piroettò per recuperare una posizione difensiva e intanto con l’altra mano estrasse un pugnale da lancio, scagliandolo contro un altro sayanni che gli correva incontro con la spada sguainata. L’uomo alzò il bracciale d’acciaio, intercettando il pugnale e deviandolo. Deyan non si fermò un istante, fece per estrarne un’altro, saltando di lato; ma anche i suoi avversari erano agili. Uno gli si tuffò ai piedi proprio mentre atterrava: cercò di evitarlo con una contorsione acrobatica, si lasciò cadere col pugnale puntato in basso, per colpire comunque il suo avversario: lo raggiunse nella schiena, ma sulla vasta scapola: l’urto quasi gli fece perdere la presa sull’arma. 

Dannazione!...

Non poteva sprecare tempo con ferite leggere, i sayanni avevano una resistenza straordinaria e il veleno era ormai esaurito. Conficcò il pugnale da lancio che teneva in mano nel collo del nemico, sperando di ucciderlo; ma nello stesso tempo si sentì afferrare per una gamba, e una forza sovrumana lo sollevò letteralmente per aria...

Sono troppi!

Sbattè violentemente con le spalle a terra, e l’urto gli fece ronzare le orecchie. Per un attimo perse il controllo sul proprio corpo, e quando lo recuperò qualcosa di pesante lo inchiodò nella polvere: era lo stivale di uno dei sayanni, puntato sul suo petto. L’uomo aveva i denti scoperti in un ghigno crudele.

“Ti schiaccerò come un insetto, dannato testabianca...”

Un urlo acuto, modulato e penetrante, squarciò l’aria secca come un colpo di spada. 

"Ai-ni-ri-ri-ri-ri-ri-ri Naiai-ai-ai-ai-aiii!"

I sayanni si irrigidirono quasi istantaneamente, come se quel suono li avesse paralizzati. E dal tetto di una baracca una figuretta bruna e azzurra balzò nel vuoto, con un salto quasi impossibile; atterrò nella polvere con una capriola acrobatica, si rimise in piedi con lo stesso slancio e corse velocissima verso Deyan.

“Seriema! Scappa!...” 

Naysiak!  








Deyan vide i sayanni scuotersi dall’effetto di quell’urlo, e voltarsi tutti ad affrontare la piccola donna che si gettava verso di loro, con un grido di guerra. Lei attaccò a testa bassa il primo guerriero che le si parò davanti, in un mulinar di spada e pugnale, ma non lo uccise: gli consentì di contrattaccare, e si spostò abilmente di lato. Deyan capì che stava cercando deliberatamente di allontanare i sayanni da lui. 

Vuol darmi l’occasione per mettermi al sicuro!

Si rimise velocemente in piedi, approfittando di quella diversione per allontanarsi e trovare rifugio nel labirinto di baracche. Prima di svoltare l’angolo intercettò il suo sguardo, la vide fargli un cenno d’assenso; poi lei lanciò un altro urlo di battaglia e colpì: un ventaglio di sangue si disegnò nell’aria, seguito da un ruggito di dolore...

Quei tagliagole non sono al suo livello.

Corse via, ma il suo passo pian piano rallentò, come se le gambe gli fossero diventate di piombo. 

Ma loro sono tanti, e lei è da sola. La sto abbandonando ai miei nemici.

E cosa c’era di strano in questo? Nella logica kelith era naturale sacrificare uno schiavo per salvarsi la vita. Poteva essere una perdita dolorosa, ma era sempre meglio che farsi uccidere...

Non devo sprecare l’occasione che mi sta dando.

Continuò a camminare, ma si artigliò il petto con una mano, scoprendo di faticare a respirare. Nella sua mente viveva il combattimento di lei, vedeva le facce distorte dall’ira dei suoi avversari, che lei provocava a bella posta per attirarli contro di sé. Sentiva la sua fatica, il dolore dei muscoli della schiena ancora ferita, ma anche la gioia perché da qualche parte lassù qualcuno avrebbe accolto la sua anima ancora intatta... 

Deyan si fermò, sentendo il cuore battergli forte nelle tempie. 

Devo andare via... lasciarla al suo destino. 

Ma intanto che faceva quel pensiero, caricava già un altro dardo nella sua balestra da braccio. Poi prese tutti i pugnali da lancio che gli rimanevano, e tornò indietro di corsa, verso il rumore della battaglia. 

Sono un pazzo! Tutto per una schiava...

No. Per Naysiak.

Svoltò l’ultimo angolo, col cuore in gola; in tempo per vedere quattro sayanni calare fendenti su una figura quasi invisibile tra di loro, combattendo tutti insieme. Senza un solo pensiero scaricò il suo dardo sulla testa di uno di loro: lo colpì in pieno nella nuca, uccidendolo. Gli altri si girarono verso di lui, stupiti da quell’intrusione...

“No!” gridò Naysiak, guardandolo quasi con orrore."Non qui!... Seriema via, via, via!" 

Lanciò un urlo carico di frustrazione e rabbia, e partì al contrattacco come una furia. Solo allora Deyan si rese conto della sua tattica.

Non voleva uccidere i suoi compatrioti! Combatteva per distrarli, non per eliminarli...

Ma la presenza di Deyan cambiava tutto: ogni uomo in armi era un pericolo per lui. E lei non ebbe più esitazioni: una testa volò via dalle spalle, un mucchio di visceri uscì da un addome squarciato, due occhi si strabuzzarono quando lei conficcò il pugnale sotto il mento di un enorme guerriero. 

Vista la malparata, gli altri arretrarono, incerti. Lei ringhiò come un animale, raccolse per i capelli la testa che aveva appena tagliato e la lanciò contro di loro come un proiettile, urlando maledizioni nella sua lingua...

Era troppo: i sopravvissuti scapparono. 

Deyan si avvicinò a lei, vedendola cadere in ginocchio nella polvere, col fiato grosso. Era ferita? O era tutto sangue altrui quello che la ricopriva? 

“Naysiak...”

“Indietro,” ansimò lei, conficcando a terra la spada e fissando il vuoto. E quando lui fece un altro passo si voltò a guardarlo, con occhi fiammeggianti. “Scappa, shki kelith!...”

Deyan si irrigidì. “Non darmi ordini...”

“Stupido!” ruggì lei, facendolo trasalire. 

Cosa ha osato dirmi, questa schiava?!

“Perché Seriema tornato? Perché non ascolta?!” I suoi occhi scattarono in tutte le direzioni. “Presto! Via! Qui non posto buono...”

Un rumore secco, come uno schiocco. I sensi addestrati di Deyan lo riconobbero istantaneamente.

Una balestra!

Ma da quale direzione? Non ne aveva idea!

Gli automatismi di una vita fecero afflosciare i suoi muscoli per lasciarsi cadere, ma sapeva che ormai era troppo tardi. Sentì il sibilo del dardo che fendeva l’aria, attese l’impatto inevitabile...

Si trovò di colpo rovesciato a terra, con così tanto impeto da strappargli il fiato dai polmoni.

Naysiak?!

Gli era saltata addosso, veloce come un fulmine; e lui non aveva immaginato che una femmina potesse essere così pesante. Lo schiacciava a terra, rendendogli difficile persino respirare... 

Per un istante nessuno dei due si mosse. Poi lei alzò appena la testa.

“Perdono... per toccare,” mormorò al suo orecchio.

“Cosa...”

“Nemico kelith. Uomo. Odore forte.” Una lunga pausa, e il suo corpo si rilassò. “Andato via.”

Anche Deyan si lasciò andare, fissando il cielo giallastro.

Un kelith!... 

Dunque l’attentato era stato organizzato da lui, e i sayanni dovevano servire unicamente come diversivo. Era un piano complesso, tortuoso, tipico della Fratellanza: Nafur per loro era scappato, ma qualcuno al corrente dei suoi affari doveva aver pensato di prendersi la preda che si era lasciato alle spalle...

La mia guerra segreta non è ancora finita, pensò acidamente. 

“Ora, Seriema... andare a casa.” La voce di Naysiak era sottile, implorante. “Al sicuro. Io prego.”

“Alzati, voglio che mi accompagni.”

“No.” La sentì tremare. “Seriema andare... da solo.” 

Fu solo in quel momento che si rese conto che lei gli aveva fatto da scudo. La afferrò e la rovesciò sul fianco, e vide la freccia conficcata nella sua schiena, poco sopra la cintura.  


  
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