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Autore: Jade Lee    20/10/2013    2 recensioni
Alieni a Londra, viaggi nel tempo, gite nello spazio...
Nulla di nuovo o di strano per il Dottore.
Cosa ne pensa a proposito il Dottor Watson, però?
Dopo la morte di Sherlock Holmes, tanto, nulla pare più avere senso, per lui.
" [...] Certo che sei davvero strano...-
A quel punto, John salta in piedi come una molla, sollevando le braccia al cielo in un gesto esasperato.
- IO? Io sono quello strano, secondo te? - sbotta, al limite della sopportazione.
- Non mi credi, però mi ascolti. Vuoi delle risposte e potresti estorcermele puntandomi addosso quella pistola - il Dottore accenna col capo in direzione dell’arma abbandonata tra i cuscini del divano - eppure preferisci parlarmi. Sì, per gli standard di un normale essere umano sei piuttosto strano, John Watson -"
Genere: Avventura, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Cercate di capirmi e non odiatemi, sono in terribile astinenza da Sherlock e Doctor Who. Non riesco ad impedire alla mia mente di fare certi viaggi mentali e sì, la mia crudeltà intrinseca mi spinge a condividerli con voi...
Questa storia nasce dal profondissimo quesito esistenziale ""Cosa succederebbe se, dopo la finta morte di Sherlock, John incontrasse il Dottore?"
Beh, scopriamolo assieme u.u

Ovviamente i personaggi non mi appartengono *restituisce controvoglia i due dottori*  e non scrivo a scopo di lucro... Altrimenti me ne starei spiaggiata alle Hawaii e non tra le nebbie di Torino...

BUONA LETTURA!



Follow Doctor's Orders


John Hamish Watson è un dottore.

Da due anni e otto mesi la vita del Dottor Watson si è trasformata in quella di un preciso meccanismo ad orologio: la sveglia suona puntuale alle sei e trenta; John, attendendo con gli occhi puntati al soffitto che il molesto suono prenda a spandersi per la stanza, rimpiange amaramente i tempi in cui poteva trascorrere anche solo poche ore a dormire senza che alcun incubo gli straziasse il cervello.
Alle sei e quaranta John apre l’acqua della doccia miscelata adeguatamente e si infila sotto il getto tiepido, lavandosi via dalla pelle frammenti della notte senza sonno e vecchi ricordi incrostati.
La frugale colazione consumata alle sette e l’arrivo alla clinica alle otto concludono la sua mattinata tipo.
Tra un paziente con l’influenza e una vecchietta coi reumatismi pronta a mostrargli la fotografia dell’amato nipote, si fa mezzogiorno, scorre la pausa pranzo e riprendono le visite, fino a sera.

Il Dottor Watson è un buon medico e un brav’uomo. Ha sempre una parola d’incoraggiamento e un sorriso per tutti. Non perde mai la pazienza e mantiene i suoi nervi d’acciaio anche durante le situazioni più critiche.
Il Dottor Watson non guarda mai nessuno direttamente negli occhi.

Ha paura che qualcuno possa accorgersi di quanto è spezzato.

Sono le diciannove e trenta del 15 Ottobre. John si sta infilando la giacca, dopo aver riposto con cura il camice all’appendiabiti situato a sinistra dell’ingresso del suo studio. Raccatta qualche cartella clinica dalla scrivania prima di uscire, giusto per assicurarsi di avere qualcosa da fare una volta tornato a casa.
Il silenzio, alcune volte, si insinua prepotente nelle sue ossa lasciandolo senza fiato e al freddo, nonostante il caminetto scoppiettante a poca distanza dalla sua poltrona.
Una sensazione pungente e gelida, amplificata il quindicesimo giorno di ogni mese.

Il 15 è il giorno in cui John, armato di fiori e profonda tristezza, marcia col suo passo cadenzato sul vialetto di ghiaia che si snoda lungo il cimitero che accoglie la tomba di Sherlock Holmes.
Quella sobria lapide nera dinnanzi alla quale il medico, ex soldato, si ferma completamente soverchiato dalle emozioni.

Ci sono stati giorni in cui John si è sentito devastato, come se una creatura nera e malvagia gli stesse strappando la carne dal petto a viva forza.

Ci sono stati giorni in cui John si è sentito infuriato, così tanto dal ritrovarsi a dover resistere alla tentazione di prendere a calci l’elegante lapide marmorea e gridare al cielo tutta la sua frustrazione.

Ci sono stati giorni in John si è sentito impotente, in costante crisi e sull’orlo della più cupa disperazione.

Poi è arrivato il momento in cui John ha smesso di provare emozioni. Si è semplicemente ritrovato vuoto, intento a stringere tra le dita frammenti di sé che non è più stato in grado di ricomporre.
Sherlock è stato un salto nel vuoto così bello! John si è lanciato nella sua nuova vita piena di crimini efferati e corse nella notte senza paracadute, perché vivere con l’unico consulente investigativo al mondo  è come volare e sentire il vento che sferza il volto, cullati da una sensazione di onnipotenza talmente grandiosa da stordire... Finché c’è stato l’urto.
Il corpo disarticolato del grande detective sul marciapiede, in una pozza di sangue cremisi sbocciata sotto di lui come un fiore del male.
Il cuore di John che si sgretola come vetro, lì affianco.
E poi il nulla.

O peggio, la quotidianità.

John non è un credente.
 Come potrebbe esserlo, dopo aver visto così tante persone pronte ad immolarsi per un qualche Dio? Dopo che un invasato s’è fatto esplodere vicino a metà del suo plotone in nome di chissà che visione deviata della sua religione?
Davanti alla tomba di Sherlock, John non prega. Spiccica qualche parola imbarazzata a mezza voce, cercando sempre di non essere troppo noioso. Si passa le dita tra i capelli, tenta di nascondere gli occhi lucidi e il tremito della mano. Dovrebbe farsene una ragione, dovrebbe sul serio, ma non ci riesce. Il legame è ancora troppo forte. Non è ancora pronto a seppellire i ricordi; loro, però, sono già intenti a seppellire lui sotto strati e strati di dolore.

**

Il 221b di Baker Street non è poi cambiato così tanto. John è molto più ordinato del suo vecchio coinquilino e ciò consente di affermare che salotto e cucina siano davvero pulite e accoglienti. Gli oggetti personali di Sherlock Holmes sono ancora tutti lì: libri, carte, studi per monografie. Il teschio sulla mensola del camino.
Le attrezzature scientifiche, invece, sono state inscatolate da Lestrade - il dottore non ne aveva avuto la forza - e portate in un magazzino del St. Bart’s, custodite in attesa del miracolo tanto chiesto e atteso da John. Sherlock non avrebbe mai neppure lontanamente acconsentito a venderle o donarle, quindi John si è limitato ad allontanarle da lui, per non ferirsi troppo coi ricordi.

La camera da letto del detective è rimasta inviolata ed è tutt’ora chiusa a doppia mandata.
La chiave è infilata nell’orbita sinistra del teschio.

John Watson è rimasto lì, tra quelle mura, a difendere come un ultimo baluardo i ricordi della sua precedente esistenza.

Non ha più voluto un coinquilino. Nessuno potrebbe reggere il confronto.
Ha rinunciato a molte spese extra ed è stato agevolato da Mrs. Hudson, che gli ha praticamente dimezzato l’affitto pur di tenerselo vicino.
Nulla potrà portarlo via da Baker Street.

**

Ciò che ti lascia indelebilmente addosso un addestramento di stampo militare è un continuo e sensibile stato di allerta. In guerra, una distrazione può essere fatale. Un movimento non individuato con la coda dell’occhio può garantirti un biglietto di sola andata per l’altro mondo.
Da quando è uscito dall’ambulatorio, John ha la spiacevole sensazione di essere seguito. E la cosa, anziché spaventarlo o turbarlo, gli mette addosso una strana sensazione di vitalità.

Un’ombra è sulle sue tracce e scivola silenziosa e non vista dietro di lui, favorita dall’ora tarda e dal maltempo di Londra. John però sa che è lì. La percepisce. A meno che non stia diventando completamente pazzo, altro fattore che non si sentirebbe di escludere a priori.

Accelerando il passo, si infila nel sottopassaggio che conduce alla metro, attento a non scivolare sui gradini bagnati di pioggia. La Tube pare un’ottima idea al suo cervello carico d’adrenalina: un eventuale inseguitore difficilmente lo colpirebbe in pubblico. Non lo sfiora più il pensiero che possa trattarsi solo di una sua fantasia, si sente così bene!
Il vagone è semivuoto e lui ne approfitta per sedersi vicino alla porta e scrutare tutti i presenti. Non è in grado di dedurre la professione dell’uomo di mezza età col cappello grigio, la zona da cui proviene il ragazzo con le cuffie dell’Ipod infilate nelle orecchie o la situazione famigliare della donna di fianco a lui. Certo, quest’ultima è circondata da un profumo così vanigliato da fargli storcere il naso per il disappunto, ma questo non è un vero e proprio dato di fatto. Però non importa. Quando la voce femminile registrata annuncia l’arrivo a Baker Street, John si lancia fuori dalla stazione senza neppure attendere il corso delle scale mobili.

Una volta all’esterno, viene investito da grosse gocce di pioggia che cadono dai nuvoloni grigi che hanno coperto la città nel pomeriggio. Respira pesantemente, con la sensazione di essere braccato che piano piano viene trascinata via e sciolta dall’acqua.
Dio, quanto è stato stupido! Davvero ha potuto pensare di essere al centro di un inseguimento? Che qualcuno lo stesse tenendo d’occhio? E’ così grande in lui il bisogno di rivivere certe sensazioni?
Si posa la mano sulla fronte in un gesto sconsolato. Un idiota. Sherlock aveva ragione. Un patetico idiota senza ombrello esposto alle intemperie di Londra e occhieggiato per qualche istante dagli ultimi e frettolosi passanti della sera.

Finché una mano non si posa sulla sua spalla e il dottore si trova a guardare negli occhi una ragazza dai lunghi capelli scuri e gli occhi chiari sbarrati dal terrore.

**

- Va meglio? - domanda John, sedendosi sulla sua poltrona  senza perdere di vista la giovane rannicchiata sul suo divano. Le ha messo una coperta sulle spalle e le ha preparato una tazza di te. I capelli scuri, al riparo ormai da più di mezz’ora, stanno iniziando ad asciugarsi in morbide onde mentre gli occhi saettano curiosi qua e là, seguendo la mobilia e gli oggetti del salotto.

- Sì. Va meglio. - conferma lei, abbozzando un mezzo sorriso dietro alla tazza di te che stringe tra le lunghe dita arrossate dalla ripresa della circolazione dopo l’esposizione al freddo esterno. - Mi spiace di averla seguita, ma non sapevo a chi altri rivolgermi. -

- Non importa - s’affretta a precisare John, sprofondando nello schienale morbido. Non ci capisce onestamente nulla della situazione generale. Una ragazzina che lo segue dal suo studio fino a casa, asserendo di non avere altri, è una di quelle particolari evenienze che succedevano solo quando la vita a Baker Street ruotava ancora attorno al più giovane degli Holmes. - Spiegami solo il motivo per cui l’hai fatto. Come ti chiami? -
A dire il vero, gli pare pure un po’ assurdo, considerati gli ultimi due anni e ormai quasi nove mesi della sua vita, dove nulla è intervenuto a lacerare la sua monotona esistenza ripetitiva e noiosa.
La cosa ancora più strana, però, è il come tutto sia stato spazzato via di fronte a questo evento che sembra così incredibile. Il suo periodo vuoto è improvvisamente scomparso, come se non fosse mai esistito, rimpiazzato da riflessioni rapidissime e concatenate sul da farsi.

La ragazzina si rigira la tazza tra le mani, assorta in chissà quale pensiero, prima di puntare quegli occhi incredibilmente chiari sul dottor Watson e rispondere alle sue domande.
- Mi chiamo Sherry. E non so darle una spiegazione. Sono qui da sola, mi sono persa. Non sono del posto e non ho idea di come tornare a casa. L’ho vista uscire dall’ambulatorio e mi ha ispirato subito fiducia, così l’ho seguita fino a qui. Può aiutarmi, dottore? -

Ok, di male in peggio. Il tutto perde senso ad ogni ulteriore parola e John si ritrova a guardarla con sguardo seriamente perplesso. Si schiarisce la voce, pronto a lanciarsi in mille ulteriori domande, ma il campanello si mette improvvisamente a trillare con insistenza, facendolo sobbalzare sulla sedia e voltare in direzione della porta. Ma che diavolo succede, oggi?

Segue il rumore di passi sulle scale. La Signora Hudson deve aver aperto. I gradini vengono saltati due a due dai piedi di un uomo. Un uomo che, una volta affacciatosi alla porta, John Watson può dire di non aver mai visto in vita sua.

**

- Salve, sono John Smith! Direttore dell’Istituto Medico per Adolescenti di Londra, molto piacere! -
Il tesserino che John Smith sventola con un gran sorriso allegro davanti al naso di John Watson - oh, che confusione, lo stesso nome! - non convince affatto il medico. Non conosce nessun istituto medico per adolescenti e soprattutto non ha idea di come quel tipo sappia di Sherry. E’ stato vittima di un inseguimento a catena?
Fatto sta che i minuti successivi all’entrata in scena del misterioso individuo passano rapidi come millesimi di secondo.

Sherry scatta in piedi con un urlo, mandando in frantumi la tazza ai suoi piedi. Il fuoco del caminetto lancia una luce particolare sulla sua pelle candida e sugli zigomi pronunciati che...

No, un attimo.

John Watson vede la scena al rallentatore, colto da un sempre più intenso senso di puro sgomento.

Capelli neri mossi, occhi di cristallo, lineamenti affilati. Sherry.

Ma una cosa del genere non è possibile, non è neppure vagamente concepibile!

Mentre Watson se ne sta lì, immobile nel suo stato di shock, John Smith balza in avanti puntando una specie di torcia contro la ragazza. Per quanto stordito dallo scorrere degli eventi, John Watson non rimane di certo indifferente di fronte alla scena: per quanto ne sa, lo sconosciuto sta minacciando una ragazzina innocente.
Il volto disteso e il modo di porsi scanzonato dell’individuo, inoltre, rimandano al medico l’immagine ghignante di Moriarty, il maledetto bastardo che ha causato la morte del suo migliore amico.

Questa è la molla che lo fa scattare in direzione dell’intruso, troppo occupato a puntare Sherry per accorgersi di lui. Gli arriva a fianco e gli torce il braccio con forza, facendolo gridare e perdere la presa sullo strumento.
Sherry ne approfitta per infilare la porta e schizzare via, rapida come il vento. Nuovamente inghiottita dalla nebbia londinese.
John Watson è un uomo paziente, sì, ma anche la sua immensa pazienza ha dei limiti.
Schiacciato da emozioni che non è più abituato a provare, colpisce con un pugno lo sconosciuto, che si accascia al suolo con un gemito.

Accidenti a lui.

**

John infila la chiave nella serratura al secondo tentativo. La mano gli trema ancora; se per lo sforzo del pungo o la sofferenza del riaprire la porta della camera di Sherlock, questo non lo sa dire.
Lo sconosciuto riverso nel suo salotto potrebbe riprendere conoscenza a breve e lui non ha intenzione di ritrovarsi contro un potenziale nemico sveglio e a piede libero in casa. E sì, le persone normali non avranno nemici e arcinemici, ok, questo John lo concede. Però la normalità, tra quelle pareti, sembra essere davvero relativa e con limiti tutti suoi.

Sa che Sherlock rubacchiava regolarmente negli uffici della polizia e sta cercando un paio di manette, da utilizzare per precauzione nei confronti dell’intruso.
Sa dove trovarle, procede sicuro e rapido. Le afferra senza toccare altro, senza spostare né guardare nulla, poi si richiude la porta alle spalle. Lascia la chiave infilata nella serratura e assicura il polso del tipo alla gamba del divano - ok, non un granché come mossa, deve ammetterlo, ma non ha altro modo. Poi recupera dal cassetto della scrivania la sua pistola e attende.

Un gemito, poi due. Così il fantomatico John Smith si risveglia, domandandosi a voce alta che accidenti gli è successo. Si mette a sedere e in quel momento s’accorge d’essere ammanettato, nella stanza con un tipo armato ma apparentemente non pericoloso. Perché, in effetti, il volto scavato di John Watson non trasmette terrore a Smith. Solo un senso di profonda e completa tristezza. Una solitudine che anche lui conosce molto bene.

- Chi sei? Che diavolo ci fai a casa mia? E chi è la ragazzina? - John Watson scatta in piedi, esasperato da quella giornata che pare solo uno dei suoi tanti brutti sogni. Cammina davanti al suo prigioniero in modo nervoso, zoppicando lievemente.

- Mi chiamo John Smith e... -

John interrompe immediatamente lo sconosciuto con un brusco cenno della mano.
- John Smith, credi che io sia un idiota? Voglio sapere la verità, smettila di girarci attorno! Chi sei davvero? -

Il tipo sospira, sollevando le mani verso John in segno di resa. Le manette tintinnano lievemente in risposta al movimento.
- E va bene! Io sono il Dottore. Sono qui per aiutare, sul serio. Non ho cattive intenzioni. -

- Il Dottore cosa? Qual è il tuo nome? -

- Il Dottore e basta. -

John si massaggia una tempia, confuso
- Sei entrato in casa mia, sotto falsa identità, minacciando una giovane indifesa con una specie di... - lancia un’occhiata veloce all’oggetto caduto dalla mano del Dottore, che non ha voluto toccare - incrocio tra una penna e una torcia... -

- Ehi! E’ un cacciavite! - protesta l’altro, interrompendolo e ricevendo in cambio uno sguardo perplesso.

- Un cacciavite? Minacci la gente con un cacciavite? - Scuote la testa, è tutto così nonsense che non capisce più cosa vuole maggiormente: ridere o prendere a craniate il Dottore fino a perdere/fargli perdere i sensi. - E sentiamo, in che modo saresti qui per aiutare, Dottore? -

Il Dottore si apre in un sorriso e l’inquietudine di John aumenta a livelli esponenziali.

Adesso sì che ai augura sinceramente che questo non sia un altro degli arcinemici di Sherlock.

**

- Fammi capire: stai dicendo che la ragazzina in realtà è una specie di... alieno in grado di leggere i miei ricordi per sfruttarli a suo favore. Ha assunto una forma che mi risultasse famigliare per approfittare della mia ospitalità e per consumarmi fino al midollo. Giusto? -

- Giusto! - conferma il Dottore, annuendo soddisfatto in direzione di John.

- Certo. E quand’è che l’Enterprise atterrerà davanti al 221b e Spock verrà a prendere il caffè da me? Sono davvero curioso di saperlo, Dottore! Non vorrei trovarmi impreparato...-

Il Dottore non ha idea di chi sia questo amico alieno di John - Spock? Mai sentito... - però dal tono scettico capisce che l’altro non crede ad una sola parola del suo racconto. Ah, Umani! Perché devono opporre sempre così tanta resistenza di fronte alle meravigliose bellezze dell’Universo?

- I Laruth provengono da un pianeta spazzato da potentissime correnti d’aria fredda lontanissimo dalla Terra. Molto spesso inviano capsule con un esploratore in direzione di luoghi che paiono più ospitali. Per integrarsi, adocchiano una persona sola e cercano tra la scia di ricordi che si lascia appresso una forma che possano utilizzare per ricevere cortesia e attenzione. Ma questa forma è solo un’illusione: una volta al sicuro, essa svanisce e loro si prendono direttamente il corpo del padrone di casa. Quindi, caro... - lì il Dottore si accorge di non aver idea di come si chiami il suo interlocutore.

- John... - completa semplicemente il sempre più perplesso dottor Watson - John Watson -

- John - ripete l’altro, soddisfatto - Puoi davvero ringraziarmi per averti salvato la vita! -
E poi lo guarda, con quegli occhi così compiaciuti e il sorriso stampato sulle labbra sottili, in attesa.

John batte le palpebre un paio di volte in rapida successione, stupito.
- Prego? -

- Come prego? Dovrebbe essere un grazie! -

- Dovrei ringraziarti? E per cosa? Per essermi penetrato in casa e avermi riempito di sciocchezze? -

- Per averti salvato! Dico, non ci senti? Certo che sei davvero strano...-

A quel punto, John salta in piedi come una molla, sollevando le braccia al cielo in un gesto esasperato.
- IO? Io sono quello strano, secondo te? - sbotta, al limite della sopportazione.

- Non mi credi, però mi ascolti. Vuoi delle risposte e potresti estorcermele puntandomi addosso quella pistola - il Dottore accenna col capo in direzione dell’arma abbandonata tra i cuscini del divano - eppure preferisci parlarmi. Sì, per gli standard di un normale essere umano sei piuttosto strano, John Watson. -

John sospira, si avvicina alla finestra e guarda giù, in strada. La notte è scesa e ormai le persone che passeggiano sul marciapiede sono pochissime. Ha smesso di piovere.
Poi torna a rivolgere la sua attenzione al Dottore seduto per terra. Raggiunge il cacciavite abbandonato al suolo e lo afferra, porgendolo al legittimo proprietario dopo averlo studiato per qualche istante. Il Dottore lo prende e lo punta verso la piccola serratura delle manette, convinto che John gliel’abbia restituito apposta. E così, in effetti, è. Una volta libero, si alza in piedi con un balzo e poi si getta sul divano, sospirando soddisfatto.
- Allora, andiamo? - domanda poi, infilandosi il cacciavite nel taschino della giacca.

John lo guarda stralunato, ignorando la fitta al petto che gli provoca la vista dell’alta ed elegante siluette sdraiata scompostamente sul divano. La figura sbagliata, la voce sbagliata. La domanda, però, gli pare così terribilmente giusta ed invitante...

- Andiamo dove? - La sua voce trema leggermente.

- A caccia di alieni! Mi pare ovvio! - il Dottore balza in piedi con la stessa velocità con la quale s’è precedentemente sdraiato, indicando a John l’ingresso dell’appartamento. Poi s’avvia proprio in quella direzione a grandi passi.

John rimane immobile, nel bel mezzo del suo salotto, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Non può farsi coinvolgere di nuovo, non può davvero. E non importa quanto i più bei ricordi della sua vita siano legati ad un sociopatico incline alle avventure pericolose. Semplicemente non può.

Continua a crederlo sul serio, anche mentre s’infila il giubbotto e si annoda la sciarpa al collo.

Si allunga verso il divano, cercando di agguantare la pistola. Riesce appena a percepire la consistenza metallica sotto i polpastrelli quando una voce in mezzo alla porta lo fa sobbalzare.

- Niente armi, non le sopporto - annuncia il Dottore in tono solenne.

John lo guarda, annuisce e lo segue fuori.
 
   
 
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