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Autore: Erodiade    21/10/2013    11 recensioni
Aveva sempre quella sensazione, con lui – la sensazione che provasse gusto a svelarsi pian piano, come un enigma irrisolvibile.
Un pomeriggio d'estate, un sogno, un'illusione.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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La luce sbagliata
 



 
“Oh, avevo qualche scrupolo. Misi a tacere la coscienza con parole vuote. Era tutto per il bene superiore, e qualunque danno sarebbe stato ripagato cento volte in vantaggi per i maghi. Sapevo, nel profondo del cuore, chi era Gellert Grindelwald? Credo di sì, ma chiusi gli occhi. Se i nostri piani fossero andati in porto, tutti i miei sogni sarebbero diventati realtà.”
Harry Potter e i Doni della Morte





 
Il gelo gli riempiva le ossa, ma Godric’s Hollow serbava ancora il profumo dell’estate. Il caldo sfumava piano, giorno dopo giorno, come i rivoli vermigli del tramonto che erano scivolati sul collo di Ariana.
(C’era stato qualcosa di sbagliato in un rosso così acceso sul volto di una ragazzina.)
Allo stesso modo le sue dita avevano percorso il collo di Gellert, tempo prima, scorrendo verso il petto, ma la luce non era stata sbagliata, allora, ancora bianca e dorata e simile all’alba, niente rosso intenso come sangue – tutta un’illusione, perché le maledizioni sono solo luce, non sangue.
Ed era stata la luce ad ucciderla. Niente sangue.


 
(C’è una pergamena strappata a casa di Bathilda Bath, su una scrivania ripulita in fretta e furia dei libri e degli appunti che la occupavano. C’è una pergamena dimenticata a casa di Bathilda, perché il precedente ospite della camera se n’è andato d’urgenza, fuggito, anche lui col gelo nelle ossa, e ha portato via tutte le altre lettere.)
 


Una manciata di terra nel pugno e Gellert la disperdeva piano, osservandola cadere più per la gravità che per una brezza inesistente. “Qui, pochi metri sotto di noi, riposano le ceneri di Ignotus Peverell. Ci pensi, Albus?”

Possedeva uno strano modo di cadere in contemplazione, alle volte, quasi un misto di solennità e fervore, la voce un sussurro emozionato che Albus si sentiva vibrare nel petto. Era uno stato d’animo che gli faceva scomparire il sorriso dalle labbra, tuttavia così spontaneo da intensificare la sua luce.
Ma Gellert non è tutto luce e sorrisi, giusto? Quando parla dei vecchi compagni di Durmstrang come di soldati e discepoli, o mostra un’avversione cocente nei confronti di leggi che altri ragazzi neppure conoscono...
Era una delle tante contraddizioni che lo affascinavano di lui.

Un ginocchio poggiato al suolo, Gellert massaggiava il terriccio tra le dita e lo lasciava scivolare via, simile a sabbia. Una volta alzatosi, la sua veste leggera sarebbe stata sporca – suolo sacro, avrebbe commentato come un vanto – ed entrambi si sarebbero allontanati con gli abiti fruscianti, una zolla di terra smossa l’unico segno della loro presenza.

“È per questo che sei venuto al villaggio” attestò Albus con un’occhiata da sopra le lenti, accomodandosi sull’erba con scioltezza. Si trattava di un sospetto confermato sin da quando l’amico aveva iniziato a parlargli dei Doni. “Naturalmente Godric’s Hollow propone innumerevoli svaghi a chi ama la campagna, gli aneddoti sui Boccini, le leggendarie gesta di Godric Gryffindor… e le capre” aggiunse, come ripensandoci. Guardò il cielo con una buffa espressione assorta. “Molte capre, da queste parti.”

L’amico, gli occhi ancora fissi all’incisione illeggibile sulla pietra, si lasciò sfuggire un cenno divertito. “Tutte supposizioni e nessuna verità. Potrei essere venuto qui per tenere compagnia alla mia cara, premurosa e affatto impicciona zietta…”

“Uhm!”

“… oppure per conoscere un certo giovane dalla mente brillante e donargli nuove speranze per il futuro. Nulla accade per caso.”

Albus si chinò appena per risistemarsi gli occhiali sulla punta del naso e nascondere la fitta d’imbarazzo che lo coglieva sempre davanti ad uscite simili. Una fitta per niente sgradevole, in realtà. Sapeva che Gellert lo lusingava perché voleva coinvolgerlo nei suoi progetti, come sapeva che non gli mentiva. Oh, sì: ciò che lo imbarazzava e lo riempiva di compiacimento era che Gellert Grindelwald pensasse realmente a lui come ad un giovane dalla mente brillante. “Se mi credessi davvero intelligente non cercheresti di blandirmi,” replicò, calcando sull’ultima parola, “soprattutto non con così poco!”

L’altro liberò una risata breve ma piena, delle sue, e finalmente lasciò perdere quella manciata di terreno che stringeva, gettandola al suolo con noncuranza. All’improvviso divenne serio e annuì. “I professori mi colmavano di complimenti, in istituto, eppure nessuno di loro si mosse per scagionarmi dalle accuse del Preside quando mi volle espellere. Certo non dipende dalle parole che si usano, piuttosto da chi le pronuncia. Complimenti… Io ne ho uditi di frequente, ma pochi possono affermare di esserne stati oggetto da parte mia.”

Parlando si era disteso in una posizione più comoda, e le loro spalle si sfioravano – un contatto tiepido, rassicurante. Albus non si scostò neppure quando Gellert avvicinò le dita alle sue. Il primo giorno che si erano incontrati, mai avrebbe pensato che quel tedesco dall’aria distante e i modi marziali si potesse rivelare così spontaneo, che gli potesse essere così affine. Gellert, una volta rotto il ghiaccio, era dotato di un’abile parlantina, vagamente irrigidita dall’accento; amava essere ascoltato e avere qualcuno con cui confrontarsi.

Albus schiuse la bocca ed esitò. Il suo sguardo si allontanò dall’altro, guizzando in avanti.

“Chiedi, non aver timore. Senza punti interrogativi i maghi non sarebbero giunti molto lontano.” Non lo stava osservando, ma conosceva il viso di Gellert in quel momento – occhi che si assottigliano in un sorriso con accenni di gengive e fossette agli angoli, capelli mossi baciati dal sole, oro su oro.

L’inglese sospirò. Da una parte temeva d’apparire inopportuno, dall’altra che l’amico avesse lanciato l’allusione al fine di stimolare la sua curiosità. “Non mi piace risultare indiscreto.”

Gellert emise un verso scettico. Albus staccò un filo d’erba dal suolo, prendendo ad intrecciarlo con fare innocente, e continuò: “Abbiamo parlato di me, dei saggi di qualche illustre sconosciuto, delle mie ricerche sul sangue di drago e di molteplici questioni famigliari alquanto tediose. Ma non abbiamo mai parlato del motivo per cui fosti espulso.”

“Ah…” mormorò Gellert, il sorriso che si allungava e gli occhi che si assottigliavano ancor più, fornendo al volto una luce arguta, in parte maliziosa. “Abbiamo parlato del mistero dei Doni, però, l’unica cosa di me che al momento conti – un’ossessione.” E un po’ della luce si spense risucchiata dall’ombra, lo sguardo che correva da Albus alla lapide e poi ancora ad Albus.

“Non mi hai spiegato tutto” puntualizzò il ragazzo senza fargliene una colpa – era, comunque, molto curioso di svelare i misteri attorno a Gellert. Qualcosa gli suggerì che sì, era caduto in trappola, andando a parare esattamente dove Gellert voleva: aveva sempre quella sensazione, con lui – la sensazione che provasse gusto a svelarsi pian piano, come un enigma irrisolvibile.

“A Durmstrang hanno paraocchi e pastoie, Albus, ecco la verità” giunse la risposta, più simile ad una dichiarazione dolente. Detta da altri sarebbe sembrata affettata, ma dalle sue labbra suonava giusta e veritiera come una confessione. Appariva deluso, non sprezzante né altezzoso. “Studiavo sortilegi – non i più nobili, ahimé, ma gli arcani sono tanto avvincenti dove l’ombra è più cupa…”

“Arti Oscure” mormorò Albus, d’un tratto impensierito. La Magia Nera a Hogwarts era proibita, anche se lui stesso aveva approfondito la materia consultando i testi nel reparto apposito. Durmstrang, d’altra parte, faceva del suo insegnamento motivo di vanto; il giovane aveva immaginato che, per essere espulso, Gellert dovesse aver commesso un’effrazione molto grave.

“Arti Oscure tra le più potenti” ripeté l’amico con forza, gli occhi puntati al suo viso come per sfidarlo a replicare.

Albus avrebbe adorato ribattere, ma fu troppo colpito da quel po’ di delusione che, dai professori e compagni del vecchio istituto, si estese anche a lui. Solamente con Aberforth gli capitava di sentirsi tanto a disagio – non capisci, lo accusava lo sguardo del fratello talvolta, e possibile che tu non capisca?gli chiedeva ora quello di Gellert. “Naturalmente,” aggiunse, perché Albus non si considerava una persona limitata, “la magia in sé non ha colpa. Ciò che hai detto riguardo ai complimenti si può dire anche delle Arti Oscure: dipende da chi le usa... dallo scopo di chi le utilizza.”

Gellert assentì col capo e Albus si rilassò, potendo bearsi di nuovo della sua stima. “Esatto” confermò con passione. “Non fui espulso solo per questo, comunque: erano le mie idee a non piacere ai professori… La magia ha tali e tanti risvolti, talmente tante possibilità, che proibirne una branca è illogico come il desiderio di sbarrare la strada all’oceano con un argine. Dipende sempre tutto dallo scopo: cosa c’è da temere da uno scopo benigno? Ma a Durmstrang non l’hanno capito, sebbene io abbia provato a spiegarmi e ad impormi…” Una smorfia divertita. “Forse con qualche fattura più del necessario.”

Fu l’amico allora a sorridere, scambiandola per una battuta. Si sentiva quasi intenerito di fronte a quelle parole pregne d’idealismo. “Stai semplificando una questione che andrebbe studiata più a fondo, e non hai neppure risposto alla mia domanda. Le Arti Oscure sono vaste, non vedo perché doversene servire… Per la ricerca dei Doni e il potere, Gellert?”

“Il potere!” esclamò Gellert Grindelwald, quasi sputandolo, con un’aggressività che colse Albus impreparato. Era affascinante, così, e molto: le gote arrossate e gli occhi scintillanti, fieri. “Cosa importa del potere fine a se stesso? Mi credi un tiranno?” Il tono stesso suggeriva l’idiozia dell’ipotesi.

Sbalordito, Albus replicò che no, non lo credeva tale – Gellert era ambizioso, ma troppo sognatore per divenire un despota. La vivacità intellettuale gli appariva distante anni luce dalla strada sterrata che i dittatori si aprivano a colpi di maledizioni.

“Ciò che vorrei… ciò che mi piacerebbe…” Non lo aveva mai visto esitare a tal punto. Il giovane tedesco si sollevò, inginocchiandosi davanti al suo volto, così che i loro sguardi potessero incrociarsi liberamente. “Ma qui, caro Albus, devi promettere di ascoltarmi con la massima serietà, perché ciò che ti svelerò è un segreto.”

Pronunciò il termine ‘segreto’ come un amante che donasse un bacio: un legame intimo e vincolante tra due persone, un sussurro a fior di labbra. Il paragone diede ad Albus una scarica di brividi nonostante il caldo, il rame dei suoi capelli che si mischiava al biondo lucente da tanto erano vicini. Era già successo che stessero a contatto – Gellert usava posargli il capo in grembo durante le loro conversazioni, e spesso lo aveva toccato, abbracciato, una notte persino lo aveva baciato, e quasi tremava al ricordo.
Si sentiva già unito a lui da un giuramento; annuire per permettergli di continuare fu solo la conseguenza di una dimostrazione di fiducia tanto irresistibile. Gellert non era – non poteva essere – un ragazzo che si confidasse con facilità. Rappresentava una sfida giorno per giorno, e giorno per giorno Albus se ne sentiva più attratto, tra spavento, eccitazione e commozione, perché due anime come le loro difficilmente avevano la fortuna di trovarsi insieme nello stesso secolo – questo, ancora, era stato Gellert a mormorarglielo, prima di rubargli quel bacio notturno.

“Ti ho già spiegato che noi maghi ci nascondiamo ingiustamente, quasi vergognandoci della magia alla quale dovremmo portare rispetto, permettendo ai Babbani di conquistare tutto con le loro industrie piene di fumi nocivi e le loro macchine di sterminio. E tu ti sei mostrato d’accordo.”

“Non proprio” lo corresse. Solo una o due volte prima di allora avevano trattato l’argomento. Albus meglio di chiunque altro sapeva che l’ignoranza Babbana nei confronti della magia potesse portare a conseguenze terribili, e i discorsi dell’amico erano colmi di un sentimento tale da fargli salire le lacrime agli occhi. D’altra parte, lo Statuto di Segretezza non era qualcosa con cui poter scherzare: senza, non immaginava altro che anarchia. Gellert l’aveva inquietato parlando di ‘dominio’ sui Babbani, un lato estremista che non era riuscito a conciliare con le sue prospettive gloriose e progressiste.

Allora il giovane accostò la fronte alla sua e lo scrutò come se conoscesse con esattezza le sue repliche inespresse. “Non tiranni, Albus, ma guide: è di ciò che i Babbani hanno bisogno.”

“Quante repubbliche non sono altro che dittature?” chiese Albus con una certa titubanza. Le idee dell’amico lo facevano sognare, ma quando vi rifletteva in solitudine gli capitava di provare senso di colpa e timore.

“Pensaci!” incalzò Gellert ardente. Gli prese una mano tra le sue, come per invitarlo a seguire il ragionamento senza farsi bloccare dai pregiudizi, e Albus ve la lasciò inerte, appagato dal contatto ma senza osare ricambiare la stretta – quasi che, facendolo, potesse fornire implicito appoggio ad idee che non sosteneva. “Noi maghi siamo i detentori della magia, dunque abbiamo il diritto di governare. Non dico d’imporre ai Babbani la nostra cultura: loro hanno abilità e tradizioni proprie, è giusto che le mantengano e le coltivino. Non desidero una politica che schiacci le persone, ma che doni loro l’opportunità di essere felici. Pensa a quante malattie per loro incurabili noi potremmo guarire! Pensa alla fine delle battaglie, della fame e del malcontento. Saremmo i salvatori attorno ai quali si riunirebbero, non più i mostri da condannare al rogo o i diversi da evitare. Cancelleremmo le loro credenze sbagliate e riorganizzeremmo le loro esistenze, perfezioneremmo la loro discendenza eliminando le patologie genetiche e puniremmo la devianza sociale con l’esilio. Nessuna bambina rischierebbe di essere dileggiata e traumatizzata a causa di quello che è – né una bambina strega né una Babbana, perché convivremmo consapevoli gli uni degli altri, e proibiremmo loro di ferire i nostri figli. La segretezza non porta ad altro che vergogna e confusione. Il potere, nelle mani giuste, è il metro del Bene; nelle mani giuste, i Doni della Morte saranno il riscatto per tutti noi.”

Albus, che pochi attimi prima contemplava l’amico con biasimo malcelato, si trasfigurò in viso man mano. Qualcosa nel discorso l’aveva turbato, finanche colpito, ma il suo cervello stava ancora elaborando le informazioni e lui non poté rispondere subito.
Saremmo i salvatori attorno ai quali si riunirebbero, non più i mostri da condannare al rogo o i diversi da evitare. “Non dispotismo, ma sviluppo. Guide, hai detto?” chiese, improvvisamente serio come mai lo era stato in vita sua. E giunse alla conclusione che cambiò radicalmente ciò in cui aveva creduto: “Guidarli non perché vogliamo schiacciarli, ma perché…”

“Guidarli per il loro bene e verso il Bene” ripeté Gellert. Strinse più forte la mano di Albus portandosela fin quasi alle labbra, così diverso da Elphias con le sue carezze impacciate. Albus era imbarazzato ed agitato in egual misura; il solo pensiero che presto sarebbe dovuto rientrare in casa sotto lo sguardo pungente di Aberforth lo colmava di un senso d’ingiustizia colpevole, come se un dio inclemente intendesse strapparlo all’uomo geniale con cui stava condividendo quell’estate solo per piombarlo nel regno monotono del dovere.

“Tu sei la persona adatta” proseguì Gellert, e nei suoi occhi c’erano tutti gli oceani del mondo, c’erano terre d'arcani e respiro di vita e odore di conoscenza, una magia dal cuore pulsante, fatta di slanci verso l’infinito che da solo avrebbe potuto unicamente sognare da lontano. “Oh, Albus, ti parrà sciocco, ci conosciamo da così poco, ma sento che tra noi esiste un’affinità d’intelletti. Tu mi capisci e non hai idea di quanto questo mi consoli; credevo d’essere destinato alla solitudine, le persone mi appaiono così piccole a volte… So che è arrogante da parte mia, ma non essere severo nel giudicarmi. Eradestino che c’incontrassimo e io sono qui per convincerti: ho bisogno di te per quello che voglio costruire.” Sorrise cercando d’infondere modestia alle parole, conscio dell’impeto con cui aveva parlato e senza neppure un briciolo di vergogna. “Non troverò un altro Albus Silente in nessuna parte del globo” aggiunse per scherzo. “Se vuoi, noi due ce ne andiamo anche adesso, anche subito.”

Albus rimase a fissarlo per una piccola eternità. Non era la prima volta che gli parlava in quel modo, ma era la prima volta che si sentiva in procinto di cedere – perché era sempre stato orgoglioso della sua capacità critica e mettere in dubbio le parole altrui gli veniva naturale.
Eppure adesso l’urgenza nella sua voce gli martellava nel petto insieme al cuore – non puoi andare via, c’è Ariana a cui badare e Abe deve proseguire negli studi, è una follia – una follia è rinchiuderti qui dentro senza poter vivere, una follia è sprecarti, quelli come te si contano sulle dita di una mano, hai sentito cos’ha detto – ha bisogno di me, vuole me, non è una frivola infatuazione per lui, desidera me accanto a sé! Cosa non potremmo fare, insieme?

“Subito.” La voce uscì roca e, dimentico che avrebbero potuto vederli e che le azioni portano sempre a conseguenze, Albus Silente fece ciò che desiderava fare da settimane: immerse le mani nei ricci biondi di Gellert Grindelwald e catturò le sue labbra con le proprie.
Gellert emise una risata soffocata prima di rispondere al bacio con altrettanto entusiasmo, lì, nel camposanto illuminato dal sole.


 
Gellert,
la tua idea che la dominazione magica è PER IL BENE STESSO DEI BABBANI… credo che questo sia il punto cruciale. Certo, ci è stato dato un potere e certo, questo potere ci dà il diritto di governare, ma ci dà anche delle responsabilità sui governati. Dobbiamo porre l’accento su questo punto, sarà la pietra angolare sulla quale costruiremo. Là dove incontreremo opposizioni, come certo accadrà, questa dev’essere la base di tutte le nostre controargomentazioni. Noi prendiamo il controllo PER IL BENE SUPERIORE. E da ciò discende che dove incontriamo resistenza, dobbiamo usare solo la forza necessaria e non di più. (Questo è stato il tuo errore a Durmstrang! Ma non me ne dolgo, perché se non fossi stato espulso non ci saremmo mai incontrati.)
Albus


 
Al funerale si era presentato fissando dritto davanti a sé, e forse Abe l’aveva scambiata per arroganza, anche se Albus stava solo cercando di sopportare le conseguenze senza doversi chiamare codardo in aggiunta al resto. Ricordava il rosso sul collo di Ariana, il sole che spariva oltre le imposte e lui che fissavail vuoto il vuoto il vuoto, e una volta calata la bara salutò il pugno del fratello come un vecchio amico – liberatorio, doloroso schianto di ossa spezzate, ma sempre meno crudele di un bacio rubato e di un corpo freddo rivestito di pizzi.

 

Impronte invisibili sulla curva delle natiche, le ciglia a sfiorare la guancia come in una carezza e le labbra dischiuse, il languore di due corpi abbracciati –
“Ma quale libertà avranno se decideremo per loro?”
“La libertà di essere felici senza il fardello del dubbio morale e della scelta. Milioni di esseri felici tranne noi, Albus.”
“Tranne noi?”
“Tranne noi, gli unici depositari della conoscenza del bene e del male… perché una volta svelati i misteri della Morte, solo noi avremo conferma che lo scopo dell’esistenza non esiste.”
Suono di risa affettuose. “Che assurdità. È l’esistenza, lo scopo dell’esistenza.”
“Sarai sempre un così inguaribile ottimista?”
– e separarsi prima dell’alba, la testa piena di sogni e la pelle umida di baci, un altro giorno ancora prima del tramonto, immersi in un eterno presente.

 

(C’è una pergamena strappata a casa di Bathilda Bath e lui se la rigira tra le dita pieno di disgusto. Si riesce a mentire bene quando si crede davvero nella bugia, e la verità è che Gellert non gli ha mai realmente mentito – ha fatto tutto da solo.)
 
           



Note: il discorso sugli ‘unici depositari della conoscenza del bene e del male’ (l’ultimo pezzo in corsivo, insomma) è ripreso da I fratelli Karamazov di F. Dostoevskij – mi riferisco al racconto del Grande Inquisitore riportato da Ivan.
Questa one shot non vuole risultare pretenziosa per via dei temi, e se risulta pretenziosa è colpa dei personaggi, dei discorsi che penso abbiano tra loro. Sì, è colpa dei personaggi. Ovvio, no?

 
   
 
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