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Autore: Beatrix Bonnie    27/10/2013    1 recensioni
-Seguito de Il torneo Trecolonie-
Edmund, ormai figlio adottivo del Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda, si lascia alle spalle il suo passato, per diventare Edmund McPride, un giovane ambizioso, bello e pieno di talento. Ma presto dovrà fare i conti con la realtà: l'uomo in cui ha riposto la sua fiducia si rivelerà essere un meschino arrivista, mentre il suo passato verrà a bussargli alla porta nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Un misterioso orologio d'oro con le lancette ferme, una setta di folli scienziati, un codice impossibile da decifrare...
Ma quando, tra il clima di terrore e le sconvolgenti rivelazioni sul suo passato, Edmund non riuscirà più a vedere la luce, nel suo orizzonte si staglierà l'unica cosa certa: l'amicizia di Mairead e Laughlin.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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EPILOGO






Edmund osservava la nebbia che decorava le colline come un diadema ancestrale, immaginando figure di cavalieri fantasma che si erigevano dalla foschia. Pareva un'uggiosa giornata di novembre, più che l'inizio dell'estate.
Lo scompartimento del treno era caldo e affollato, tanto che sui finestrini si era formata la condensa. Edmund non era sicuro che fosse permesso, ma aveva usato una magia per rendere lo scompartimento più grande, altrimenti in dieci non sarebbero riusciti a starci.
«Vi spedirò una copia della foto» garantì Dedalus, proprio in quel momento, mentre stava osservando la sua macchina fotografica. Mairead protestò: «Non ce ne sarà bisogno! Ci incontreremo almeno una volta quest'estate o no?»
«Ovvio!» intervenne Laughlin, sfoderando il suo miglior sorriso da latin lover. «C'è la mia festa per i diciassette anni, ad agosto.» Si alzò dal sedile entusiasta. «Sarà una figata pazzesca!»
«Io temo che ci incontreremo per cose più serie.» Dominique smorzò tutto l'entusiasmo del suo amico. Accennò con la testa al titolo di un articolo del Corriere del Mago che stava sfogliando. «Il Ministro della Magia britannico ha confermato che Voi-sapete-chi è tornato.» Calò uno strano silenzio nello scompartimento. Persino Lily smise di mettersi lo smalto.
«Be', ma noi lo sapevamo già, no?» domandò Bearach, senza riuscire ad afferrare cosa fosse cambiato.
Dominique scosse la testa. «Erano solo voci» spiegò. «Silente diceva fosse tornato, Captatio gli credeva, ma il governo britannico ha sempre negato tutto. Ora invece è certo.»
Mairead storse il naso. «Questo darà il via libera a leggi anti-inglesi» considerò con disappunto.
«Ci hanno già pensato.» Dominique sfogliò un altro paio di pagine, fino all'articolo che gli interessava. «Guarda, il Parlamento sta discutendo l'approvazione della legge sul Censimento dei Nati Inglesi.»
Mairead si fece prestare il giornale per leggere l'articolo: man mano che i suoi occhi scorrevano tra le righe, la sua espressione si faceva sempre più crucciata. «Vogliono registrare le nostre bacchette?» proruppe alla fine, indignata.
«Già» asserì Dominique. «Dovunque tu sia, qualsiasi magia tu faccia, il Ministero lo verrà a sapere.»
«È indecente!» esclamò Lily.
«È follia!» rincarò la dose Bearach.
«È anticostituzionale» decretò Faonteroy. E il tono definitivo che usò, servì a dimostrare quanto la proposta di legge fosse inaccettabile.
«Protestiamo» propose allora Dedalus, portando avanti un'idea che, per una volta, venne condivisa da tutti. «Un corteo, a Dubh Cliathan, per far capire che il FIE non ci sta.»
«Sì!» Mairead accettò con entusiasmo il suggerimento. «Arriviamo fin davanti al Palazzo del Parlamento e facciamo sentire la nostra voce, sostenendo l'anticostituzionalità della legge!»
La proposta piacque immediatamente a tutti. Già Dedalus si era lanciato in idee assurde per rendere grandioso e rumoroso il corteo, quando Mairead richiamò l'attenzione, esclamando: «Faonteroy!»
Il cugino nobile per poco non trasalì nell'essere chiamato in causa per organizzare manifestazioni sovversive.
«Tu terrai il discorso finale sulla Costituzione!» propose Mairead, con un sorriso entusiasta.
«Io?»
«Gli O'Brian non sono in Parlamento da generazioni?» lo stuzzicò la ragazza, sicura di far leva sui punti giusti. «Chi meglio di un O'Brian potrebbe farlo?»
Faonteroy gonfiò il petto pieno di orgoglio, cadendo in pieno nella trappola della cugina. Questi nobili erano tutti uguali, quando si trattava di difendere l'onore della propria famiglia: si lasciavano convincere facilmente.
«Allora è deciso!» Bearach batté le mani soddisfatto, come se stessero preparando un allegro pic-nick in campagna.
«Sì, sì, tutto grandioso» smorzò i toni Laughlin. «Però non dimenticatevi del mio compleanno.»
«Laugh!» esclamò Mairead esasperata, mentre gli altri sogghignavano.
«Ehi, Ed» intervenne allora Moira, visto che il ragazzo non aveva ancora aperto bocca. «Come farai con McPride?»
Prima che quello potesse rispondere, si fece avanti Laughlin: «Verrai a stare da noi, che domande!»
«No, grazie.» Nel declinare l'offerta, Edmund si sentì addosso gli occhi di tutti. Come spiegare che non voleva approfittare ulteriormente della disponibilità dei suoi amici? Sorrise imbarazzato. «Io tornerò in orfanotrofio» spiegò pacato.
«McPride non te lo permetterà mai» osservò Dominique, in tono serio.
Edmund non si fece smuovere. «Sono maggiorenne. Non può obbligarmi a stare a casa con lui.»
«Ma come la metti con i Babbani?» chiese Laughlin, che non aveva mai capito molto di quelle cose.
«Per il mondo Babbano sono ancora minorenne quindi ho tutto il diritto di tornare in orfanotrofio se il mio padre adottivo è morto» disse Edmund con semplicità.
«Morto?» gli fece eco Bearach, piuttosto perplesso: nessuno l'aveva avvertito che il Presidente della Repubblica fosse morto.
Edmund sfoderò il suo miglior sorriso lupesco ed estrasse dalla tasca quello che era un inconfondibile paipear ban, ovvero un foglio bianco sul quale i Babbani vedevano scritto il documento che volevi vedessero.
«Non hai fatto la coda all'Ufficio del Dipartimento dei Rapporti con i Babbani per ottenere quello» commentò Mairead con un tono di assoluta ovvietà.
Il sorriso di Edmund si allargò di un paio di molari, restando comunque incredibilmente naturale e affascinante. «No, ma non hai idea di quante cose possano mandare per posta delle solerti impiegate quando scoprono che sei il figlio adottivo del Presidente della Repubblica.»
E, appoggiandosi tranquillo allo schienale del sedile, pregustò lo sdegno di McPride, non appena questi avesse scoperto il suo piano, e la faccia incredula ed esasperata della signorina Quinn, la sua assistente sociale, quando l'avesse visto tornare all'orfanotrofio. Si prospettava un'estate interessante.

****



Un uomo dal naso aquilino, una donna vestita di nero e un uomo biondo che fumava il sigaro. Questi i suoi alleati.
L'odore del fumo non gli era mai piaciuto, forse perché gli ricordava sempre le lunghe pipe che si fumava suo padre. Aveva vaghi ricordi di Cassian Deamundi, decimo Conte di Con Cetchthach, non tanto perché fosse morto giovane, quanto perché aveva un'unica maschera che mostrava al mondo intero: quella del decoro, del rispetto e dell'onore. Non l'aveva mai visto deporre quella maschera per mostrare qualche incertezza, debolezza o dubbio. Forse non ne aveva mai avuti, forse era un uomo tutto d'un pezzo. O forse non era proprio umano.
Meccorin Deamundi, undicesimo Conte di Con Cetchthach, era invece pieno di dubbi. Oh, non dubitava affatto delle sue scelte, né della correttezza dei suoi ideali. Aveva un compito preciso da portare avanti, in quanto membro di spicco della comunità magica celtica, emblema della nobiltà e baluardo della difesa del sangue puro.
Eppure provava un senso indefinibile di ribrezzo nei confronti degli alleati che era stato costretto a scegliere. Possibile che fossero rimasti solo languidi arrivisti e pazzi assetati di sangue a difendere l'orgoglio dei celti? Dov'erano finiti la vera nobiltà, l'onore e la fierezza degli Irlandesi? Poteva davvero mettere la salvezza del sangue puro nelle mani di questi mentecatti?
Un tempo l'Irlanda era unita contro gli invasori, ora li accoglieva a piene mani.
Ribrezzo, gli faceva solo ribrezzo la società in cui era costretto a vivere.
«Conte Deamundi, non capisco il motivo di questa convocazione» fu l'inopportuna intromissione dell'uomo biondo che stava fumando il sigaro.
Meccorin ebbe l'impulso di spegnergli il sigaro in fronte, ma si trattenne: quell'idiota borioso di Giustinianus MacGaril era una pedina essenziale per i suoi piani. «Vi ho convocati, fratelli» mormorò invece, usando il suo miglior tono gentile. «Perché ho delle importanti missioni per tutti voi.»
«Qualsiasi cosa per la grandezza del sangue puro» snocciolò tranquillamente la donna in nero, come un mantra che avesse imparato a sfoderare nei momenti migliori.
Bastava affidare un compito, a quelle sciocche scimmiette ammaestrate, che si sentivano subito importanti. Mettersi nelle loro mani gli provocava orribili moti di ripugnanza e avrebbe senza dubbio fatto tutto da solo, se avesse potuto, ma non era quello il suo ruolo. Lui era la mente, e la mente non si sporca le mani.
«Fratello Giustinianus» interpellò l'uomo biondo. E nel dirlo pensò quanto fosse ridicolo quell'appellativo “fratello”: prima di tutto non erano affatto sullo stesso piano, perché lui era il Conte di Con Cetchthach e tutti gli altri erano sotto; in secondo luogo, la storia era piena di esempi di come l'amore fraterno fosse tutto tranne che amorevole.
Giustinianus MacGaril, tuttavia, era un uomo troppo pieno di sé, con un ego troppo ingombrante per poter prestare davvero attenzione a chi gli stava intorno. Era facilmente manovrabile: bastava solo lusingarlo quanto necessario.
«Cosa posso fare per la gloria dell'Irlanda?» domandò l'uomo, accondiscendente.
Il conte Deamundi si versò un calice di vino rosso, il suo unico vizio. Lo fece roteare e ne gustò il profumo, infine ci posò le labbra. «Mi è giunta notizia che vostro nipote abbia cominciato a frequentare delle amicizie...» Meccorin si interruppe e bevve un sorso. «Come dire? ...sconvenienti per il suo rango.»
«Sconvenienti?» fece eco MacGaril, fingendo di non capire.
Meccorin trattenne l'impulso di versargli il vino in faccia. Sorrise. «Traditori del proprio sangue, figli di Babbani, sasanachfuil» snocciolò, godendo della vista dell'altro che inorridiva. «Speravo di poter portare gli O'Brian dalla nostra parte.»
«Gli O'Brian sono un'antica famiglia: staranno sicuramente dalla nostra parte» intervenne l'uomo dal naso aquilino, convinto com'era che tutti i nobili dovessero per forza essere seguaci della loro causa, già solo per il fatto di essere nobili. Stupido ottuso. La nobiltà era una questione di carattere, non di blasoni attaccati alle pareti di un castello.
«Purtroppo non è così» fu costretto ad ammettere Meccorin, con un sorriso amaro. «Per quanto la mia famiglia e quella degli O'Brian siano legate da matrimoni dinastici, ultimamente si stanno allontanando dalla retta via, come pecorelle smarrite.»
Il Conte si concesse il lusso di una citazione evangelica, ma nutriva il serio dubbio che i suoi ospiti non fossero in grado di coglierne la raffinatezza. Rozzi. Lasciò che le sue labbra si increspassero in un sorriso forzato, prima di continuare: «Il rampollo degli O'Brian, a differenza di tuo figlio, è troppo giovane per proporre un matrimonio strategico con mia figlia Andalysia.» Meccorin era certo che quell'avido di MacGaril non si sarebbe lasciato sfuggire il messaggio implicito che aveva saggiamente nascosto tra le righe. Gli dispiaceva dare in sposa la sua piccola Andalysia, la sua stella di fuoco, a quel ritardato mentale di Belisar MacGaril, ma a ognuno era chiesto di portare le proprie croci.
«Cosa suggerite, allora?» domandò MacGaril che, alla sola ipotesi di accaparrarsi un tale favorevole matrimonio per il suo erede, si era fatto improvvisamente più interessato alla questione.
«Ospita il piccolo Faonteroy al tuo castello per le vacanze estive, in modo che possa essere sottoposto al tuo costante influsso.» Meccorin fissò negli occhi il suo interlocutore, per fargli capire ciò che era sottinteso a quell'ordine: controllalo e convincilo, se serve anche con la forza.
MacGaril annuì per far intendere che aveva capito.
«Fratello Scipio.» Meccorin si rivolse all'uomo dal naso aquilino, probabilmente dei suoi tre ospiti quello che lo ripugnava di più. Languido arrivista, capace solo di far da zerbino a chiunque potesse permettergli un avanzamento di grado, sociale o lavorativo che fosse. Al momento, il Conte aveva bisogno di quel viscido accaparratore, ma avrebbe fatto volentieri a meno di appoggiarsi a lui.
«Cosa posso fare per la nostra causa?» domandò Diablaiocht, untuoso come sempre.
Meccorin declinò una sola parola: «Autarchia.»
Intelligenti pauca, dicevano i latini, ma a giudicare dallo sguardo interrogativo di Diablaiocht, era necessario qualche chiarimento in più. Meccorin si concesse un sorriso. «Fratello Scipio, sfrutta la tua posizione più che puoi: quale Capo del Dipartimento Affari Esteri, sono sicuro tu possa far approvare dazi di dogana che proteggano la nostra produzione e ci rendano indipendenti da qualsiasi rapporto con altre nazioni.»
Diablaiocht parve bonariamente sorpreso. «Conte Deamundi, l'Irlanda non può sperare di giungere all'autarchia» gli spiegò tranquillo, come se volesse sorridere dei suoi tentativi di intervenire anche sul piano economico.
Meccorin batté il pugno sul tavolo con una tale violenza da far trasalire perfino gli occupanti dei dipinti appesi alle pareti. «Vuoi insinuare che noi fieri Irlandesi non abbiamo la forza di renderci indipendenti dal nemico straniero?» tuonò.
Calò il silenzio.
Meccorin sapeva di aver fatto leva sulla sua autorità, sulla stessa nobiltà che lo circondava, sul peso che ogni sua parola aveva nei confronti dei suoi inferiori. Ma lui era l'undicesimo Conte di Con Cetchthach e nessuno poteva permettersi di contraddirlo.
«Farò il possibile» acconsentì alla fine Diablaiocht, sottomesso.
«Servi bene la tua patria» recitò allora Meccorin, in tono nuovamente calmo. Si versò un altro goccio di vino e lo sorseggiò con tutta calma, decidendo lui quali ritmi dare alla conversazione. Solo quando si ritenne soddisfatto del silenzio riverente che gli riservarono, si rivolse alla sua ultima ospite. «Sorella Daireen.»
Quella si illuminò nell'attesa di sapere quale compito fosse riservato a lei.
«L'anziana Donna O'Marsy andrà finalmente in pensione quest'estate» annunciò loro Meccorin.
«La vice-capo del Dipartimento dell'Istruzione?» si informò Diablaiocht, costernato di non aver scoperto prima quella notizia sulla sua collega del Ministero.
«Proprio lei. E mi è stato assicurato che uno di noi potrà avere il suo posto» confermò Meccorin. Poi si voltò a guardare negli occhi Daireen Cumhacht. «Sarai tu.»
La donna parve sorpresa. «E il mio vecchio compito?»
«Lascialo perdere» rispose subito Meccorin, ponendo autorità nella sua voce. «Mi è stato garantito che presto Captatio verrà messo fuori gioco e allora tu, in qualità di vice-capo, sarai chiamata ad essere Preside ad interim.»
«E cosa volete che faccia?» domandò la Cumhacht, nascondendo a stento il suo furore.
Meccorin cercò di ignorare quell'affronto: nessuno doveva avere il diritto di contestare le sue decisioni. «Ho scelto te perché puoi contare sull'appoggio di tuo fratello che, se non ricordo male, insegna al Tinity: tu sarai così nella posizione migliore per poter influire sulle decisioni della scuola» spiegò, nel tentativo di farle capire l'importanza di quel compito. «Chiunque abbia il controllo della scuola, controlla le future generazioni di cittadini e può influenzare le loro menti.»
La donna annuì, ma non pareva per nulla soddisfatta.
Meccorin si appoggiò stancamente allo schienale della poltrona. «Siete congedati» dichiarò, facendo capire che lui era il capo. «Glan na fuil...»
«...tri bas na sasanachfuil» risposero i suoi tre ospiti in coro. Dopodiché si alzarono dal tavolo e con i soliti convenevoli lasciarono la stanza.
Mentre il Conte si avviava verso l'armadio dei liquori per riporre la bottiglia di vino rosso, notò con la coda dell'occhio che Daireen si era fermata ad osservare qualcosa nella vetrina alle sue spalle, come per prendere tempo. Trattenne uno sbuffo spazientito e si voltò verso di lei. «Sorella Daireen?»
Lei ignorò di colpo ciò che stava guardando e gli rivolse un sorriso finto tanto quanto la sua precedente distrazione. «Mi chiedevo, conte Meccorin, fin quando andrete avanti a proteggerla.» L'insinuazione della donna non scalfì minimamente il suo sorriso.
Mecorin non lasciò trapelare nessuna emozione, ma la vena sulla tempia destra cominciò a pulsare e minuscole rughe comparvero intorno agli occhi. Nessuno si era mai permesso di parlare in quel modo al conte Deamundi. Non c'era più rispetto per la nobiltà. Meccorin contrasse i pugni e poi li riaprì, ma alla fine prevalsero i suoi modi rispettosi. «Di chi stiamo parlando, sorella Daireen?»
La donna si fece d'improvviso mortalmente seria. «Di quella piccola, lurida sasanachfuil di Mairead Boenisolius.»
Meccorin si pietrificò.
«Prima mi ordinaste di ucciderla» continuò imperterrita Daireen. «Poi cambiaste idea, perché diceste che con il ritorno di Voi-sapete-chi avevamo altre preoccupazioni. Ora mi volete infiltrata nel Dipartimento per l'Istruzione, in modo da sostituire quel rammollito di Captatio, appena ce ne sarà modo.» Daireen si avvicinò di un passo, febbrile di follia. «Quando sarò Preside, avrò un'occasione d'oro per eliminarla. Lasciatemela uccidere!»
«No.» Meccorin rispose d'impulso, senza nemmeno rendersene conto. Ma poi raddrizzò il tiro. «Non sarai lì per quello: non puoi rischiare di mettere a repentaglio la tua missione principale.»
Daireen gli riservò un'occhiata lunga e penetrante. Sembrava sapere che non era l'unica motivazione di quel rifiuto, ma non poteva discutere gli ordini del Conte. Per quanto si chiamassero “fratelli” e “sorelle”, all'interno dell'EIF, era da sempre il conte Deamundi che aveva le redini del gioco. Lui dava gli ordini e gli altri eseguivano. «Come comandate, signor Conte» rispose infine, obbligata a cedere. «Ma ricordatevi che anche l'acqua più pura, quando viene contaminata dal fango, diventa imbevibile.» E con quelle parole, lasciò la stanza.
Meccorin, rimasto solo, si voltò a scrutare la notte che stendeva il suo manto sulla terra. In realtà, non sapeva nemmeno lui che cosa lo spingesse a proteggere la figlia di suo cugino.
È solo una bambina, si era detto, quando aveva ordinato l'assassinio della madre inglese. E i bambini non andavano toccati, si era sempre ripromesso. Molti altri non si facevano scrupoli nemmeno con degli infanti, ma lui aveva sette figli, li aveva visti nascere, e sapeva che i bambini erano inviolabili. D'altronde, lui non era un assassino: stava solo compiendo il suo dovere di protettore dell'Irlanda celtica. Ma poi la bambina Mairead era cresciuta e lui aveva effettivamente ordinato di eliminarla, perché si stava rivelando uno scomodo intralcio a molti piani dell'EIF. In fin dei conti, il suo sangue era per la metà inglese, eppure...
per l'altra metà era una O'Brian fatta e finita. Come lo era stata sua madre Evangeline, quand'era giovane. Come lo era adesso sua figlia Andalysia, l'unica Deamundi che avesse ereditato i capelli rossi e gli occhi verdi degli O'Brian.
C'era del carattere, in quella ragazza.
Il vero problema era che militava dalla parte sbagliata, come suo padre, e come sua nonna prima di loro. Se solo avesse aperto gli occhi e avesse visto la giustizia in quello che lui stava facendo! Stava ridando l'Irlanda agli Irlandesi!
Non piacevano nemmeno a lui i metodi che era costretto ad utilizzare, né le persone su cui doveva fare affidamento per portare a termine il proprio obiettivo, ma la meta era più importante del percorso. La meta era un'Irlanda libera.
Sospirò. Sorseggiando il suo vino, si voltò nuovamente verso la sala ma, alzando di poco gli occhi, si ritrovò addosso lo sguardo accusatore di sua madre. Lo scrutava dall'alto della sua cornice, ormai inattaccabile nella sua serenità di morte: da lassù, poteva rimproverarlo quanto voleva.
«Non guardarmi in quel modo, madre» le intimò Meccorin, come se ancora potesse incuterle paura. «Non sarò ricordato come il Deamundi che ha dovuto soccombere all'invasione britannica!» gridò, agitando verso di lei il calice che aveva in mano. Ma tutto quello che ottenne come risposta, fu il leggero incrinarsi delle labbra di lei in un sorriso di sufficienza.
Seguì un rumore di vetri infranti e il vino rosso che colava sulla tela del quadro, come macabre scie di sangue.

****



Avevano fallito e lui li aveva puniti, sia per dare l'esempio, sia per placare la sua ira. Ma ora che la rabbia era stata sfogata, un nuovo pensiero gli tartassava la mente: chi era l'altro ragazzo?
Era sempre stato convinto che McFarren avesse ucciso tutti gli esperimenti prima di scappare. Possibile che uno fosse sopravvissuto? Che McFarren l'avesse tenuto con sé?
Se era vero, il vecchio si era rivelato uno stupido. Pensava davvero di potergli sfuggire? Avrebbe cercato quel marmocchio dovunque, l'avrebbe stanato e allora sarebbe stato invincibile. Un'arma nelle sue mani, con capacità magiche straordinarie e nessuna coscienza, nessun pensiero, nessuna ribellione.
Doveva trovarlo. Doveva essere suo.
Lord Voldemort sorrise. Ogni cosa stava andando al posto giusto, finalmente.
Gli restava solo da recuperare la profezia e uccidere Potter una volta per tutte.
Allungò una mano per accarezzare il dorso del suo serpente, adagiato ai piedi della sua poltrona. «Presto polverizzeremo ogni nostro nemico, Nagini» promise. «Presto.»







Carissimi,
siamo giunti alla fine del quinto racconto. Spero che vi siate divertiti a leggere almeno quanto io mi sono divertita a scrivere. Grazie a tutti quelli che hanno seguito le avventure del Trinity, in particolare a Good Old Charlie Brown, Julia Weasley, Shan, ella18 e Vodia, che non hanno mai mancato di farmi sapere il loro parere.
Nell'epilogo avete potuto godere ancora una volta dei nostri ragazzi del FIE, uniti contro i pregiudizi del Governo. Spero che ognuno di loro, con le proprie peculiarità, vi stia a cuore, perché io sono affezionata a tutti.
Ho anche cercato di dare un po' di spazio ai "cattivi", e in particolare al mio adorato conte Deamundi. La famiglia Deamundi è un tassello importante nell'architettura della storia, per cui non voglio affatto che la loro psicologia risulti banale. Tanto più che mi piacciono un sacco!
Non ho una vera e propria immagine per questo capitolo, ma vi lascio le foto dei protagonisti dell'EIF (credo che visualizzarli aiuti a capire la loro personalità!):
QUI il conte Meccorin Deamundi; QUI Scipio Diablaiocht; QUI Giustinianus MacGaril; QUI Daireen Cumhacht; infine, QUI il sorrisetto adorabile che Evangeline Deamundi rivolge al figlio.

Infine, sì, cari miei, l'anno prossimo si prospettano un sacco di guai, con il ritorno ufficiale di Voldemor! Che cosa è stato progettato per mettere fuori gioco il preside Captatio? Come finirà con le leggi anti-inglesi? Cosa comporterà il ritorno di Voldemort? E come finirà con la storia della mela d'oro?
Le risposte a tutto questo e molto altro ancora, nel prossimo racconto, LA FUGA DEI CONTI, in pubblicazione a partire da domenica 8 dicembre!
Grazie a tutti, a presto!
Beatrix Bonnie

   
 
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