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Autore: hanabi    09/11/2013    3 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Naysiak non capiva. 

Aveva giurato davanti a Kamoh e Lilia che avrebbe considerato Deyan come Liberatore, e che l’avrebbe protetto secondo il compito divino per cui era stata addestrata. Lui, da bravo kelith, l’aveva resa schiava e l’aveva sfruttata con la protervia tipica della sua razza, senza nessuna considerazione dell’alto onore di avere una guardia del corpo Xarani. Nonostante le infinite vessazioni subite, lei aveva mantenuto il patto con l’abnegazione tradizionale, salvandolo dal pericolo. E tuttavia adesso lui non si decideva a comportarsi come doveva, e continuava a rischiare la sua preziosa vita, in maniera intollerabile...

“Seriema, via!” lo pregò, sperando che fossero le parole giuste. Forse non comprendeva quel che voleva dirgli? “Ferita niente! Non importante! Seriema importante!” Stupido d’un diavolo bianco, se solo non fossi tornato indietro... “Andare, non paura. Piccola freccia kelith fatto poco, guarda...”

Si portò la mano alla schiena. Sentì l’asta che sporgeva dalla pelle, e prima che lo sgomento la fermasse l’afferrò. 

“No!” esclamò lui, vedendo cosa stava per fare.

Ma lei se la strappò ugualmente...

Rimase stupita dal poco dolore che aveva provato. Si guardò la mano insanguinata, e comprese immediatamente il perché: aveva sfilato solo l’asta, ma la punta le era rimasta conficcata dentro. 

“I dardi di balestra sono studiati per non lasciarsi estrarre così facilmente,” sibilò lui.

Lei respirò a fondo, per auscultarsi secondo un'esperienza che aveva fatto sin da piccola: sentiva la punta conficcata profondamente nel muscolo, che la tormentava a ogni movimento. 

Maledetti kelith, sempre a pensare a modi per rendere più cattive le loro armi vigliacche...

"Niente cosa importante di corpo dentro, ferita,” concluse, sperando che questo convincesse Deyan a muoversi. E fece per rialzarsi in piedi, ma ricadde sulle ginocchia con aria stupefatta. 

Le mie gambe...

"Lo immaginavo," mormorò lui. “La freccia era avvelenata." 

Lei sentì un brivido, a quella sentenza.

Quindi sto per morire?

Il presagio si era avverato. La tazza con cui aveva bevuto si era spezzata, quella mattina; ne aveva contemplato i cocci, e aveva sentito il vento di Luna di Fuoco soffiarle sul viso, sussurrandole che tutto stava per finire...

E io sono pronta. Respirò profondamente, mentre la sua anima si arrampicava su quella scala di luce dentro di lei. Lo sono sempre stata, dopo quell’eternità nel Feretro: cosa può farmi paura ormai?

“Io contenta fatto dovere di Xarani,” disse, con voce calma. “Ora Seriema andare al sicuro, prego.” 

“E tu?”

“Io qui. Presto nemici tornare.” Afferrò il proprio pugnale dalla lama imbrattata. “Io morte con armi... grande onore. E andare in Ta’Itza con famiglia, amici...” La voce le vacillò: “... sposo.” 

Pa’ekin, finalmente ti raggiungerò anch’io... ho aspettato questo momento per più di un millennio!

Il Liberatore la guardava, con un’intensità quasi dolorosa. 

“E io cosa dirò a Ran?”

La sua solita crudeltà... le ricordava la vita, proprio in faccia alla morte. 

“Randanai guerriero, capire dovere di guerriero.” Kamoh, Lilia, fate che sia veramente così! “Ora andare, prego. Addio...” Lo guardò, e si fece forza per pronunciare per l’ultima volta il suo nome maledetto: “... Deyanshir.”

Gli voltò le spalle e strisciò verso la propria spada. La prese e restò in ginocchio, tranquilla, ad aspettare la morte. 

Lui si raddrizzò, guardandosi intorno. 

“No,” mormorò. “Ci dev’essere un’altra soluzione.”

“Seriema!...”

“Zitta,” le sibilò lui. “E non muoverti: ogni tuo sforzo accelererà l’effetto del veleno nel tuo corpo. Non puoi quindi seguirmi con le tue gambe. Se ti abbandono qui, morirai. Se vado a cercare aiuto, non farò in tempo a salvarti. Se rimango qui, morirò con te.” Si rialzò il velo, agganciandolo al nasale della maschera. “Direi che non ho alternative.”

La raggiunse, l’afferrò e cerco di caricarsela in spalla.

Naysiak restò sbalordita da quell'audacia. Come tutti sapevano, la magia di Sayanna rendeva i corpi dei suoi abitanti non solo più forti di quelli dei kelith, ma anche più densi. Lei era una femmina, e di una razza minuta, ma anche così eguagliava o superava addirittura il peso di Deyan… 

E lui se ne rese subito conto, quando se la mise addosso. Ma non disse altro che un laconico: “Aiutami, cerca di bilanciarti sulla mia spalla.” 

Lei obbedì, e con discreto stupore si trovò sollevata da terra, con la testa contro la schiena di lui e un suo braccio intorno alle cosce.

“Questo non saggio!” protestò.

“Se fossi saggio, a quest’ora sarei sul trono di Shana... e tu ancora dentro a quel feretro.” Barcollò, sotto il suo peso. “E ora fa’ silenzio!”

Lei chiuse gli occhi, con vergogna. 

“Ya, Seriema.”

Lo sentì iniziare a camminare. I primi passi furono incerti, barcollanti: ma poi lui ritrovò il ritmo. 

Perché fa tutto questo? Ormai non gli sono più utile! 

Sapeva lo sforzo che stava facendo: lo sentiva nel tremito dei suoi muscoli, nel suo respiro sempre più affannoso, nel sudore che inzuppava i suoi abiti sotto al mantello. Si aspettava da un momento all’altro che stramazzasse al suolo, e lei addosso a lui. E allora forse avrebbe accettato l’inevitabilità delle cose, e si sarebbe deciso ad abbandonarla...

Ma lui resisteva, continuando ostinatamente la sua marcia. E lei se ne stupiva: non immaginava che sotto quell’aspetto fine e aristocratico il suo Liberatore nascondesse tanta forza. 

Credevo che tutti gli albini fossero vermi senza spina dorsale…

Doveva ammetterlo, sia pure a malincuore: Deyan era quanto di più detestabile, ma anche di più ammirevole ci potesse essere nel suo insignificante popolo. Differente in lei in ogni cosa, aveva tuttavia un punto in comune con il suo spirito,: ed era quella sorta di essenza guerriera alla quale lei sapeva di potersi affidare. 

Per questo, quando nel Feretro l'ho sentito, ero convinta che fosse un sayanni…

Sentì uno strano calore invaderle i piedi, ebbe la sensazione di sentirli sciogliersi e diventare enormi. Non era doloroso, ma provò sgomento. Era l’effetto del veleno? Stava già cominciando a ucciderla?

Note di strumenti esotici le giunsero alle orecchie, sempre più forti. Sentì il tintinnio dei campanelli augurali, brusio di conversazioni, odori di spezie sconosciute. Aprì appena gli occhi, vedendo solo un rutilante mondo di pietra chiara con figure avvolte in vesti multicolori... 

Il quartiere dei divertimenti dei kelith!...

Rabbrividì all’idea di trovarsi in quel luogo rigurgitante di peccati. Sentì la tensione che accompagnava il loro passaggio nelle vie: non era consueto vedere un kelith che trasportasse sulla spalla una schiava sayanni, ferita e insanguinata. La gente si faceva da parte, osservandoli curiosamente. 

E lei sentiva l’ostilità degli uomini… e la pressione dei loro sguardi. Alcuni avevano il gusto dello stupro, secondo le abitudini sudicie della loro razza: una femmina nemica ancora vergine da violare era un piacevole diversivo. Forse Deyan l’aveva portata via da una morte onorevole per poi farla finire a quel modo? 

Andiamo via, Liberatore, via da qui, ti prego!

Ma il suo respiro le indicava che ormai era arrivato anche lui al limite delle sue forze. Lo sentì fermarsi, per poi cadere in ginocchio. L’urto mosse la freccia nella sua schiena, e Naysiak si irrigidì ingoiando il lamento che aveva nel petto... si lasciò scivolare a terra, guardò i propri piedi: erano assolutamente normali. Ma non riusciva più a muoverli.

Non sono più in grado di combattere.

Alzò la testa a guardare il Liberatore, che ansimava per riprendere fiato. Lui si guardò intorno, notando l’attenzione degli astanti: mercanti, prostitute, tagliaborse, ubriaconi, giocatori d’azzardo, mercenari...

Alcuni di loro li circondarono, e Naysiak mise la mano sull’elsa del pugnale.

Piuttosto che mi tocchino, mi uccido.

“No,” la fermò lui. 

Si alzò in piedi, si tolse il cappuccio, liberando i folti capelli incollati dal sudore, e abbassò anche il velo e la maschera, come per rivelare a tutti di essere un albino.

“Questa è la mia gente,” disse, “e io ho bisogno di loro.”

Un silenzio teso lo circondò, e Naysiak rabbrividì. 

Lui girò il suo rosso sguardo all’intorno, come per sfidare i suoi nemici a farsi avanti. Quindi abbassò gli occhi su di lei, e fece un pallido sorriso.

 “Ed ora vedremo se io e te ci siamo guadagnati la vita... o la morte.”











Pushpa stava spazzando la soglia del Tempio delle Divinità Duali, quando sentì il clamore di molta gente che s’avvicinava. Alzò la testa, stupito, e vide corrergli incontro una donna, con le vesti ancora macchiate dalla pittura con cui stava decorando una casa. 

“Kelith!...” gridava. “E si dirigono qui!...”

Pushpa lasciò cadere la scopa.

I pellebianca?!

A memoria d’uomo non era mai successo che osassero avvicinarsi tanto al luogo più sacro dei sayanni in esilio. Pushpa sperò di non dover assistere a un tentativo di sacrilegio, a cui sarebbe seguito un bagno di sangue...

Ma vide una figura dai capelli bianchi, in una veste da deserto macchiata, che guidava il gruppo di invasori camminando rapidamente davanti a tutti, con la maestà di un uomo che non avesse bisogno di guardarsi le spalle.

Deyan-shir?!

Era a testa scoperta in pieno giorno, una spavalderia pericolosa per lui; alle sue spalle un numeroso ed eterogeneo gruppo di kelith avanzava, con l’aria torva. Quattro di loro trasportavano un ferito su una barella, coperto da un mantello.

“Pushpa!” chiamò l’albino, con voce decisa, e alzò le mani vuote. “Calma la tua gente, non siamo qui con intenzioni ostili. Ho bisogno del tuo aiuto, e subito!” 

“Come osate contaminare il nostro tempio con i vostri feriti?” tuonò uno dei t’yr del Tempio. “Non ci sono più medici tra i kelith?!”

Deyan tolse il mantello dalla figura prona distesa sulla barella. “Lei non è kelith.”

Pushpa sentì le viscere farsi di ghiaccio. 

La Xarani!

Corse incontro al drappello, col cuore in gola, e si parò davanti a Deyan. “Che è successo?!”

“Qualcuno ha tentato di uccidermi,” rispose lui, quasi senza emozione. “Naysiak mi ha fatto da scudo. Una freccia l’ha colpita alla schiena, ed era avvelenata: se l’è strappata, ma la punta è rimasta nella carne.”

Pushpa si girò verso il suo accolito, grigio in volto.

“Presto! Apri la casa della Medicina! Fa’ accendere il tripode per la purificazione!” Si avvicinò alla barella, scostò le trecce della donna che vi era distesa e si chinò a guardarle il volto madido. “Xarani-nin de nai? De nai?...”

“Sen’t’yr,” mormorò appena lei. 

“Grazie agli dèi! È ancora cosciente!... Maku?”

“Shoi jan neme-i akeai...”

“Dice che non riesce più a muovere le gambe.” 

“È l’effetto del veleno.” Deyan indicò la ferita. “Come vedi, il sangue non coagula, e questo benché voi sayanni l’abbiate più denso del nostro. Ci sono molte sostanze con un effetto simile, ma solo una paralizzante: la saliva di una vipera a due code... quella che noi kelith chiamiamo naghrim.”

Gli occhi azzurri di Pushpa si spalancarono in un’espressione costernata. 

“Non conosco questo veleno!”

“Non mi sorprende, è troppo raro e costoso per essere usato come arma contro di voi." Un mormorio ostile si levò da parte dei sayanni presenti, ma Deyan non ci fece assolutamente caso. “Bisogna estrarre al più presto quella punta di freccia dalla sua schiena...”

“Jinna-nin mee’ha yanke’ii.”

Pushpa si impietrì.

“Che ha detto?” chiese Deyan.”

“Che... un guerriero sa quando una battaglia è perduta.”

Naysiak voltò la testa e guardò il t’yr con occhi imploranti. Mormorò appena qualcosa nella sua lingua.

“Dice che è tutto inutile, il veleno in lei è troppo forte.” La voce di Pushpa si incrinò. “Chiede di essere portata al tempio, di fronte alle statue di Kamoh e Lilia, e di essere lasciata a morire in pace...”

“Come si dice codarda nella sua lingua?”

Il respiro di lei si interruppe di colpo. 

“Codarda?!...” ripeté Pushpa, incredulo.

“Dov'è finito il coraggio di questa stupida femmina?” disse Deyan, la voce dura come una frustata. “Si proclama guerriera, ma si è arresa prima ancora di cominciare la battaglia. Forse la grande Xarani ha paura del dolore?”

Nemmeno da moribonda Naysiak poteva accettare quella provocazione. 

“Io paura di niente, t’shish!” ruggì, con un lampo di furia.

“Dimostramelo," ribatté lui, indifferente all'insulto. “Altrimenti muori. Vorrà dire che non valevi niente.”

Lei lo fissò come un animale feroce, ansimando. “Io… Xarani!”

“No,” fece lui, “sei solo una debole schiava piagnucolosa. Una vera Xarani si farebbe togliere quella punta di freccia, e lascerebbe che Pushpa usi tutte le sue arti per salvarla. E non oserebbe pronunciare parole di resa: invocherebbe piuttosto gli dèi, gli spiriti, qualunque entità possa aiutarla… ma resterebbe aggrappata alla vita per proteggere il suo signore!” 

Seguì un istante di bizzarro silenzio. 

Naysiak era rimasta colpita dalle parole di Deyan. Tremò, mentre una lieve sfumatura violacea invadeva le sue guance tatuate. E alla fine fece un lungo respiro tremante. 

“Perdono… Seriema. Io… vera Xarani.”

Deyan fece un pallido sorriso. “Allora non arrenderti,” la esortò, con voce di nuovo tranquilla. “E affronta la tua battaglia: non sarai sola a combatterla.”

Alzò gli occhi a Pushpa, che annuì e fece un cenno ai kelith che portavano la barella. 

“Presto, trasportatela dentro quella casa e dite al sayanni che incontrerete di prepararla per l’operazione.” Alzò le mani. “Kamoh e Lilia vi benedicano per ciò che avete fatto, dandovi fortuna!”

Non era mai successo che un t’yr benedicesse dei tradizionali nemici. I kelith si guardarono, sorpresi; poi si affrettarono a obbedire. 

“Sbrigati, Pushpa,” mormorò Deyan. “Ho perso fin troppo tempo ad arrivare qui. E fa’ attenzione a non ferirti a tua volta: il veleno potrebbe contaminare anche te.”

“Come lo combatterò?” gemette il t’yr, nervosamente. “Non so niente su di esso, sul suo effetto, mi occorrerebbe un medico esperto della tua gente, un saggio che conoscesse…”

“È il più forte antispasmodico della nostra medicina,” tagliò corto Deyan. “Ma da puro è mortale per noi kelith, e temo che sia altrettanto letale per voi sayanni. È acido, si ossida facilmente, e per questo quando viene adoperato nelle armi viene stabilizzato con una resina solubile, in modo che si accumuli nel sangue: per questo devi togliere alla svelta quella punta di freccia.”

Pushpa lo guardò, allibito. 

“Sei forse anche un medico?”

Una lieve esitazione. “Sono stato educato in molte arti, Pushpa.”

“Sai allora se esiste un antidoto?”

“No. Non l’abbiamo neanche cercato: l’azione del veleno in noi kelith è troppo rapida per darci il tempo di contrastarlo. Ma Naysiak ha una fisiologia diversa dalla nostra, ed è anche molto resistente...”

“Vuoi dire che dovrei affidarmi unicamente ai suoi poteri di sciamana?!”

Deyan scosse la testa. “Io non credo alla magia nel senso di voi sayanni. Ci dev’essere una spiegazione razionale per quei poteri, forse lei è istintivamente in grado di alterare…” 

Si interruppe, fissando il vuoto. Pushpa lo studiò, notando la sua intensa concentrazione.

“Dea Misericordiosa,” alitò alla fine. “Ma certo!”

“Cosa?”

“Forse si può tentare qualcosa. Sarebbe pericoloso, ma cos’abbiamo ormai da perdere?” Si gettò il mantello sulle spalle. “Mi servono alcune sostanze rare.”

“La mia farmacia è la migliore di Luna di Fuoco...”

“No.” Deyan si calcò il cappuccio sul capo. “Per questo genere di cose, la migliore è la mia.”

Si voltò di scatto e corse via.











La distanza non era poca, i soli flagellavano la polvere, la fatica e l’angoscia si facevano sentire: il passo di Deyan era meno rapido di quanto avesse voluto. 

Se solo avessi un corsiere del deserto!

Ma ogni tentativo di importare su Luna di Fuoco animali più grandi di un falco o di una lucertola era fallito. I predoni avevano a disposizione il più mirabolante sistema di trasporto sul mondo che potesse esistere... ma nel contempo, a casa loro, erano costretti a muoversi come in una società primitiva. 

E questo aiuta a mantenere la stabilità della nostra Comunità, gli aveva spiegato Kurmaji, con un sorriso saggio. Offre lavoro alla parte servile della nostra popolazione, fa in modo di canalizzare le energie dei predoni verso il più comodo, ricco, accogliente mondo lassù. Luna di Fuoco non ci permette di affezionarci troppo a queste polverose lande, e seleziona spietatamente solo i migliori tra i reietti, anche attraverso la fatica... come fa il deserto di Kelitha, che tanto tempo fa plasmò la stirpe imperiale.

Ma Deyan dubitava che i suoi augusti antenati avessero mai corso così tanto. 

No! La stanchezza genera la fatale distrazione, la mente rifiuta di restare concentrata, ma il vero adepto la domina con la forza e cancella ogni pensiero estraneo. 

Ignorò la sensazione della luce cruda sulla pelle, il sudore che lo intrideva, il dolore nelle gambe e nei polmoni. Gli sembrò di annullarsi nella volontà di un altro essere, e questo diede al suo corpo energie che non pensava nemmeno di possedere. 

Giunse finalmente alla sua casa e gridò ai servi di aprirgli. Gli spalancarono subito le porte, entrò come un turbine di sabbia, e quasi finì tra le braccia di Ran, che lo aspettava nel cortile. 

“Finalmente sei qui!” esclamò il sayanni, e si erse con aria formale, in un tintinnio di amuleti e gioielli. “Perdonami, amico mio, ma devo parlarti...”

“Dopo!” lo interruppe lui, e quasi lo scavalcò, lasciandolo esterrefatto.

Si infilò di corsa nel suo laboratorio, frugò tra le scansie bene ordinate, prese alcune minuscole fiale e le infilò in un’apposita borsa di cuoio rigido. Alla porta trovò Ibal, che gli porse senza una parola una tazza di acqua di palma, come se avesse previsto il suo bisogno: la vuotò in pochi sorsi, sentendosi subito meglio. L’eunuco annuì con aria d’intesa, e si fece da parte.

Deyan corse di nuovo fuori, e trovò Ran ad attenderlo, assolutamente sconcertato.

“Si può sapere cosa...”

“È la Dea che ti ha mandato, Ran: mi serve il tuo aiuto. Hanno tentato di uccidermi, Naysiak è rimasta ferita.”

I servi mormorarono, guardandosi tra di loro.

“Un vero peccato,” mormorò Saal, asciutto. “Ma il padrone sta bene...”

“Io sì, ma lei è stata avvelenata e io forse posso ancora aiutarla.” Alzò gli occhi a Ran, che era diventato pallidissimo. “L’ho lasciata da Pushpa, e sono stato abbastanza fortunato da uscire vivo dal quartiere sayanni... ma non credo che mi lascerebbero rientrarvi: sono un albino!”

Ran era un guerriero e non perse tempo in vane domande: si tolse il mantello e afferrò con mano salda la sua inseparabile lancia. 

“Tu ci rientrerai: va’ e non occuparti d’altro, al resto penserò io.”

Deyan annuì e si voltò, cominciando a correre. Ran lo seguì come un’ombra, con una velocità insospettabile per un uomo della sua stazza. Ad una svolta emise un fischio potente, e altri fischi risposero. 

Sta chiamando la Squadra per scortarmi.

I passi pesanti del suo amico divennero ben presto molti passi, ma Deyan non si voltò indietro: fissava solo la strada polverosa davanti a sé. Non diede retta alle grida di chi lo notava: ignorò ogni distrazione e si diresse a tutta velocità verso la Casa della Medicina. 

A memoria raggiunse la stanza dove Pushpa curava i suoi malati: era stata la sua prigione, la prima volta che Ran l’aveva portato su Luna di Fuoco. Ci arrivò totalmente esausto, e col cuore in gola…

Dea, fa’ che sia ancora in tempo!

Naysiak era prona, a torso nudo, sulla stuoia coperta da un telo che era stato pulito, ma ora era sporco di sangue. Gli strumenti di Pushpa erano immersi in un catino pieno di distillato pungente, che era diventato rosa: la punta della freccia era con essi. Il t’yr era chino sulla donna e premeva una ferita da taglio che arrivava in profondità: la tergeva con una pezzuola bollita ormai inzuppata. Deyan respirò di sollievo. 

Se il sangue scorre significa che è ancora viva.

Si tolse i guanti, prese la borsa di cuoio, estrasse una delle fiale e la diede a Pushpa.

“Una goccia in ciascuna narice.”

“Che cos’è?”

“Niente domande. Hai una lancetta cava?”

“Nella cassetta,” mormorò lui, girando Naysiak su un fianco per somministrarle il farmaco. Deyan vide i suoi seni da ragazzina che si levavano e abbassavano, rivelando il respiro rapido e stentato. Era pallidissima, ma non mostrava dolore o paura: i suoi occhi erano semiaperti, ma ancora vigili.

Sta combattendo, come le ho ordinato. 

“Devo darle dell’acqua?” chiese Pushpa, con voce incerta.

“No, la vomiterebbe. Niente per bocca, finché il veleno è ancora in circolazione.” Aprì la cassetta e cercò febbrilmente lo strumento che cercava: lo intinse nel contenuto di altre fiale. “Ora sta’ ferma.” Conficcò con destrezza la punta d’acciaio nel braccio della donna, che sussultò appena. 

“Che cosa le hai iniettato?”

“Ti ho detto niente domande, Pushpa. Hai polvere di radice Man?”

“Man? Man... Manya...” Il t’yr si concentrò. “Arbusto, fiori viola, stami lunghi, foglie opposte e divise?”

Un breve respiro per respingere l’impazienza. “Sì. Va messa sulla ferita, in abbondanza. Procurami anche del sale rosso, non diluito.”

Pushpa lo guardò, suo malgrado impressionato. 

“Sbrigati!” lo stimolò Deyan, quasi con un ruggito.

“Vado,” mormorò. Si alzò e andò a procurarsi i medicinali. 

Deyan restò solo con Naysiak. Sentì confusamente il clamore proveniente dall’esterno dell’edificio, ma lo accantonò e si concentrò su di lei. La vide ansimare, gli occhi socchiusi e pieni di lacrime: l’effetto dello stimolante. Posò due dita sotto il suo orecchio: il battito era molto rapido, per un sayanni che aveva il cuore più grande di un kelith. 

Ha perso troppo sangue... devo fermare l’emorragia.

Prese un panno pulito, lo immerse nel distillato e lo premette con forza contro la ferita. Lei fece una smorfia, ma non le sfuggì nemmeno un gemito.

“Non sprecare energie a nascondere il dolore,” le disse, con voce impersonale. 

“Io… non sente dolore… come civili kelith.”

“Ho visto torturare abbastanza sayanni per sapere che non è vero.” La pressione crebbe. “Respira. A bocca aperta. Non devi dimostrarmi niente. Non devi sfidarmi. Devi solo far entrare aria nei tuoi polmoni.”

Lei obbedì, cercando di respirare a fondo.

“Perché… fare tanto... per inutile schiava?”

“Questa inutile schiava mi ha salvato la vita.”

“Dovere...”

“Non mi importa. Sono un uomo d’onore, e non voglio debiti con nessuno... nemmeno con te.”

“Non debito. Lascia io andare in Ta’Itza...”

“Ti ho già detto che non hai il mio permesso di morire.”

“Perché?” chiese lei, con un filo di voce. “Seriema meglio... senza Xarani che odia, no?” Un respiro tremante. “Casa contenta. Niente più fastidio di barbara, niente parole cattive... niente dolore.” 

“Niente dolore,” annuì lui, e la sua voce si abbassò. “Quante volte l’ho pensato anch’io. Niente vergogna. Niente ricordi di quando ero un principe. Niente cicatrici da sopportare. Padre contento, madre viva, fratelli a dividersi in pace ciò che era stato mio. Ran ricco, come meritava, e senza il problema di avere un amico come me. Era facile, Naysiak... ma così tu non avresti avuto un Seriema.”

Gli occhi di lei si riempirono di lacrime. 

“E saresti ancora in quel feretro, prigioniera dell’oscurità... immobile in quell’eterna non-vita, ad aspettare fino alla fine del mondo. Se solo io mi fossi lasciato vincere dalla disperazione, come stai facendo tu adesso...” 

“Kainì, Seriema,” gemette lei, ad occhi chiusi. 

E la sua mano afferrò quella di Deyan.

Era un contatto ardito, contrario a tutte le usanze, e il primo, naturale impulso di Deyan fu respingerlo. Ma non lo fece. Era come se lei gli chiedesse di darle la sua forza…

La forza di un kelith, Naysiak?

Sorrise all’ironia della sorte e strinse quella mano, sentendola tremare. 

Pushpa arrivò di corsa, portando vasi di terracotta e rotoli di bende. Sorprese quella scena incredibile, e allibì. Ma non fece commenti: non c’era tempo di pensare alle convenzioni. Con una destrezza impareggiabile distribuì la polvere medicinale sulla ferita, e cominciò a fasciarla. Naysiak restò immobile nelle sue mani, come una bambola rotta. La guardò: i suoi occhi erano fissi in avanti, come se raccogliesse ogni stilla di energia. Ma i suoi tatuaggi sulle guance e sulle tempie risaltavano sempre più sinistramente: stava impallidendo a vista d’occhio. 

“Freddo,” mormorò, con voce roca.

Deyan cercò di massaggiarle le mani, le braccia, di riscaldarla. 

“Naysiak,” la chiamò, vedendole gli occhi che si velavano. “No, guardami! Rispondimi. Parlami.”

La testa le ricadde di lato, e lui si accorse di un filo di saliva che le colava sulla guancia. 

La paralisi sta arrivando troppo in alto... non riesce più a deglutire, tra poco soffocherà!

“Naysiak... no, non lasciarti andare!”

Ma era come vedere una candela che si spegnesse. Il suo corpo si copriva di un velo di sudore gelido, e non tremava nemmeno più. Pushpa se ne accorse, e automaticamente cominciò a mormorare l’antica preghiera, il canto di accompagnamento dei defunti. 

“Taci,” gli sibilò Deyan. “Non è ancora morta!”

“Manca poco ormai,” ribatté lui, con voce rotta. “Ed è mio dovere instradare la sua anima…”

“La sua anima è mia!”

Quel ruggito scosse Naysiak dal suo torpore. 

Lei lo guardò, con occhi imploranti: ormai la consapevolezza della morte era chiara sul suo volto slavato. Raccolse tutte le forze per emettere un sibilo roco.

“Seriema… shishi kan nee mo kaina… Xarani-nin mikka hainè… kan hainè…”

“Che dice?!”

“Ti prega… di non farla morire schiava,” tradusse Pushpa, in lacrime. “È nata libera, ti chiede di morire da libera. È il suo ultimo desiderio, davanti alla morte…”

“Dunque è questo che vuole?” 

Deyan mise la mano alla sua cintura, estrasse la chiave che non lasciava mai. 

“Sai cos’è?” Lei socchiuse gli occhi, ma lui la afferrò brutalmente per la mascella e gliela mise a un palmo dal naso. “Sai cos’è, Naysiak?...”

Pushpa rabbrividì.

Guarda, è la tua libertà. Se vivi. Ma se muori... morirai da schiava!”

“Deyan-shir!...” esclamò il t’yr, sconvolto.

Naysiak fissò la chiave, lottando per respirare. I suoi polmoni emisero un suono raschiante. 

“È qui, è qui per te,” la spronò lui. “Non arrenderti...”

Lei gemette, poi gli occhi le si rovesciarono. Un rantolo animale le salì dalla gola, la faccia si contrasse. 

“Kamoh, Lilia!” singhiozzò Pushpa, non sapendo più che fare...

Vide quell’altezzoso albino afferrare la testa della donna azzurra, chiuderle le narici con le dita e coprire la sua bocca con la propria. 











Ran era in ginocchio davanti alle statue delle Divinità, insieme ai suoi uomini torvi. Un silenzio pesante aveva preso il posto del clamore, e il quartiere sayanni intorno al tempio si era svuotato: tutti si erano chiusi in casa o nelle bettole, ad attendere l’esito degli eventi. La paura era percepibile nell’aria stessa, e Ran la inalava assieme all’odore di sudore, incensi e polvere silicea.

Fanno bene, ad avere paura. Se diventerò un vendicatore, farò impallidire il ricordo di Fahxen, che uccise di sua mano tutti i capi che gli erano ostili. 

Si stupiva del silenzio della sua anima: era come un animale appiattato tra i cespugli. Pregare gli dèi? Non gli riusciva, benché in apparenza fosse ciò che stava facendo. Attendeva, sospeso in un vuoto in cui ogni cosa sembrava senza senso: la sua vita… la vita di lei.

Xarani, ora ricordo il tuo ultimo sorriso... sapevi che sarebbe accaduto questo; e nonostante ciò sei andata ugualmente ad affrontare il tuo destino. Avrei dovuto fermarti?

Sapeva già la risposta. 

Nessun sayanni ha il diritto di sbarrare a un altro la via per la gloria.

Ma Deyan non era sayanni. E non era nemmeno un kelith come gli altri. 

L’ha portata da Pushpa, invece di abbandonarla come avrebbe fatto qualsiasi pellebianca… o ucciderla sul posto, come avrebbe fatto qualsiasi sayanni. Perché?

Qualcuno tra i suoi uomini aveva commentato che non si buttava via un tesoro di kontar qual’era quella schiava unica nel suo genere. Sayanni e kelith si sarebbero strozzati a vicenda pur di comprare una simile rarità… 

E Deyan avrebbe avuto un pensiero così meschino, lui che a sua volta è stato una rarità sul banco degli schiavi?

Ran sospirò, fissando torvamente i sorrisi ineffabili delle statue di Kamoh e Lilia.

Adesso tutto è nelle vostre mani, Divinità; e io sono qui che mercanteggio con voi, promettendo offerte e minacciando sacrilegi se mi volterete ancora le spalle: questo è ciò che il mio popolo chiama preghiera. E voi mi guardate dall’alto e ridete della mia stupidità…

Uno dei t’yr lo chiamò. 

Sospirò e si alzò, seguendolo in silenzio. L’uomo lo accompagnò alla casa della Medicina, e lì Ran si trovò faccia a faccia con un Pushpa stanchissimo, con le maniche della veste arrotolate.

Ma sorrideva, e Ran sentì il cuore esplodergli nel petto. 

“È salva,” mormorò il t’yr.

“Salva!” ripeté, con voce così tonante da far vibrare le pareti. 

Pushpa sbarrò gli occhi. “Non urlare!… Esulterai a tuo modo nella piazza, o in una bettola.”

“Siano ringraziati Kamoh e Lilia…”

“Mi fa piacere che ogni tanto ti ricordi di loro, dannato miscredente,” replicò il t’yr, con tono vagamente acido. Ma sorrise, vedendo la commozione di quel gigante davanti a lui. “Hai ragione comunque a ringraziarli: è stato un miracolo. Se fosse dipeso unicamente da me, sarei qui a chiederti i doni funebri per preparare il suo rogo. Ma al mio fianco avevo quel kelith bianco...” Pushpa emise un grosso sospiro. “Mi vergogno ad ammetterlo, ma è stato lui a salvarla, non io. A quanto pare sa di veleni più di chiunque io abbia mai conosciuto. Davvero competente... “ Corrugò le sopracciglia. “Forse anche troppo.”

“È un principe,” replicò Ran, non volendo rivelare la confidenza che Deyan gli aveva fatto riguardo al suo addestramento. “Sai com’è, i nobili kelith sono immersi negli intrighi. Gli avranno insegnato a difendersi dai cospiratori...”

“Forse.” Pushpa annuì, pensierosamente. “Comunque non avevo idea dei limiti a cui era disposto ad arrivare. All’ultimo istante, quando lei ormai stava morendo… lui le ha soffiato la vita in corpo.”

Ran allibì. Ha fatto questo per una schiava?!

“L’ha mantenuta in vita col proprio fiato, mentre io stesso non sapevo più che fare. In questo modo lei ha superato la crisi, dopodiché il veleno non ha avuto più potere: forse le medicine che lui le aveva iniettato hanno fatto effetto... forse quel suo potere di sciamana ha avuto finalmente il sopravvento. Lentamente è riuscita ad emergere dalla paralisi, finché non è stata fuori pericolo.” 

“Dèi del profondo,” mormorò Ran, impressionato. “E la ferita della freccia?”

Una scrollata di spalle. “Oh, quella è di poco conto: nessun organo vitale è rimasto trafitto. L’ho già ricucita, guarirà rapidamente. Non le resterà altro che un’altra cicatrice onorevole.”











Ran trovò Naysiak in una stanza pulitissima e odorosa di erbe medicinali. Riposava su un fianco, su una stuoia nuova coperta da teli freschi di bucato. Un braciere consumava resina aromatica, dando un profumo confortante all’aria pervasa da un sottile odore di sudore e sangue.

Si precipitò accanto a lei, gettandosi in ginocchio accanto al suo giaciglio.

“Xarani,” mormorò. E tese una mano tremante, quasi a sfiorare i tatuaggi sulla sua guancia...

“Non toccarla!”

Si voltò e vide una figura seduta a gambe incrociate accanto alla porta, con la tunica sporca e macchiata di sangue secco, i pantaloni sudici e strappati, i capelli chiari che gli cadevano sul volto pallido. Lo fissava con occhi simili a carboni ardenti nella penombra, la mano sul manico del pugnale in cintura.

“Deyan-shir,” mormorò. “Sono io…”

Lui esitò, poi allontanò la mano dal pugnale, quasi con uno sforzo.

“Perdonami, Ran. Sono molto stanco.”

Il sayanni tornò a guardare Naysiak. Le sue trecce mezze disfatte si spargevano sul guanciale, rivelando il volto su cui si leggevano ancora le tracce lasciate dall’ordalia: gli zigomi tirati, gli occhi gonfi e le occhiaie violette, le labbra secche e slavate. 

Ma tentò di sorridere, e fu come un raggio del sole azzurro.

“Randanai,” sussurrò.

Lui le prese una mano e la strinse, con occhi lucidi. “Salute, sorella. L’aldilà è già pieno di eroi, uno in più non avrebbe fatto la differenza. Ma qui non ne abbiamo… grazie di essere rimasta con noi.”

“Seriema... dato forza.” I suoi occhi tremarono. “Dato anima.”

E voltò la testa verso Deyan, con un’espressione grata che Ran non le aveva mai visto prima. 

Lui seguì quello sguardo, notando la fissità della stanchezza negli occhi irritati dell’amico. Qualche vescica gli si era formata sulla fronte e la pelle era scottata sotto la barba che stava crescendogli: era stata una prova durissima anche per lui. 

“Allora è vero, sei stato tu a salvarla…”

“Ho fatto tutto quel che ho potuto,” mormorò Deyan. “La Dea magnanima ha deciso che fosse sufficiente.” 

Cercò di rialzarsi, con un movimento pieno di fatica. Ran andò ad aiutarlo a rimettersi in piedi, e impulsivamente lo abbracciò. Solo un momento di rigidità gli ricordò che aveva a che fare con un nobile kelith, ma Deyan era così esausto che non si sottrasse a quel contatto.

“Grazie,” disse Ran, e si sentì bruciare gli occhi. “Grazie per non averla lasciata morire!”

“Avevo scelta?” 

Ran restò colpito dal suo tono tinto di amarezza: lo staccò da sé, per guardarlo in faccia. 

“Che vuoi dire?”

“Mi avresti perdonato, se non l’avessi fatto?”

“Ne avresti avuto il diritto.”

“E saresti rimasto mio amico?”

“Vuol dire che l’hai fatto per me, e non perché lei lo meritava?…” 

Deyan esitò. “L’ho fatto per noi, Ran. Per salvare… il nostro futuro.”

“Non capisco.”

Con un gesto stanco si liberò dalle sue mani. 

“Forse un giorno te lo spiegherò. Adesso resta con lei, devo parlare con Pushpa.”

E senza dir altro, si allontanò dalla stanza.

Ran stette a guardarlo. Poi sentì un fruscio: si voltò e vide Naysiak che cercava di alzarsi a sedere sulla stuoia. Accorse precipitosamente da lei e la prese per le spalle. 

“Che fai?!” le disse, con urgenza. “Sta’ giù, sei ferita!”

Lei lo guardò, con una luce angosciata negli occhi iniettati di sangue.

“Dove... andato?”

Ran provò pena a vederla così debole: la ridistese con cautela, ricoprendola. 

“Non preoccuparti per lui, non può succedergli nulla: la casa è circondata dai miei uomini, nessuno oserà sfiorarlo nemmeno con un dito.” 

Lei annuì lievemente e chiuse gli occhi, esausta. Ran si accomodò a gambe incrociate accanto al suo giaciglio, preparandosi a una lunga veglia: non gli importava che lei fosse la schiava di un altro, sarebbe rimasto al suo fianco, come un degno compagno sayanni.

Dopo alcuni istanti sentì il rumore di passi che si avvicinavano, e Pushpa apparve nella stanza, seguito da Deyan. Il t’yr indossava una veste pulita e recava una tavoletta e uno stilo. 

“Sono stato convocato da Shana-iban Unari Deyan-shir quale Giudice delle Contese,” disse, formalmente ma con un’evidente emozione; e poi tradusse: “Me’han Shana-iban Unari Deyanshir-kin yanaee nir Sha-ji Mi-nai ni t’yr n’hay.”

Gli occhi di Naysiak si aprirono, il suo respiro si fece affannoso. 

Ran si rese conto che qualcosa di importante stava per accadere. Guardò Deyan avvicinarsi, per poi posare un ginocchio accanto alla stuoia di Naysiak. Il kelith sospirò ed estrasse una chiave da una tasca della cintura. 

“È da tempo che volevo regalarti questa donna, Ran.”

“Regalarmi?!”

“Sì. È l’uso di noi kelith. So quanto l’ammiri: ho pensato che fosse il dono più bello che potessi farti. Cosa avresti fatto di lei poi avrebbe riguardato soltanto te: ma sapevo che in modo o nell’altro tu... saresti stato felice.”

Ran avvampò visibilmente, e Naysiak lo fissò sconcertata...

“Ma poi il destino ha voluto altrimenti, per cui sono qui a chiederti perdono: per tener fede al mio onore, devo defraudarti di questo mio dono. Non sarà dunque la tua schiava...” 

Infilò la chiave nel lucchetto del suo collare. 

“Ma nemmeno la mia.”

La serratura si aprì con uno scatto; Naysiak lo guardò con occhi pieni di lacrime.

“Uno Shanì ha una parola sola,” le disse Deyan, con triste dolcezza. “Ti avevo detto che saresti morta come schiava... o avresti vissuto come libera. E così sia: manterrò la mia promessa.” Alzò lo sguardo a Pushpa. “Prendi atto della mia volontà, come Giudice e testimone.”

“Dichiari dunque libera questa donna, e rinunci a ogni diritto su di lei?”

Il volto di Deyan si svuotò di ogni emozione. 

“Sì.”

Ran restò senza fiato. Il tempo si annullò e ricordò se stesso, rabbioso e disperato in piazza con un’ascia in mano, a spezzare un collare di bronzo senza nemmeno rendersi conto dell’enormità che stava facendo. 

Dichiaro libero questo schiavo, e rinuncio a ogni diritto su di lui!...

E tutto quel che era seguito, tutto il nuovo e intricato mondo di morti e successi, di ricchezza e dolore, di speranza e vendetta, tutta la storia cambiata e tutte le nuove e vecchie vite intrecciate erano state le conseguenze di quella semplice frase, ma così potente…

Pushpa tradusse, con voce piena d’emozione: “Deyanshir-kin ni yayie Naysiak-ji ni kaina shinai.”

Naysiak emise un gemito quasi straziato, e si coprì la faccia con le mani. “Gra... zie...” balbettò, tremando. “Kamoh u Lilia sh’nei ni, Seriema-ji...”

E si mise a singhiozzare, in un pianto irrefrenabile.

Ran si morse le labbra, in preda alla commozione. Si strusciò gli occhi a sua volta, guardò il kelith e gli tese la propria mano. “Deyan-shir,” mormorò, con gratitudine.

Si aspettava che la stringesse, nel gesto d’amicizia che gli concedeva... ma lui la prese e ci posò sopra le labbra. Era il gesto di un liberto, e Ran rabbrividì.

“Che fai?” gli chiese, sconcertato.

Gli occhi rossi di Deyan lampeggiarono sotto le ciglia candide, in uno sguardo dolce e amaro insieme. 

“Un kelith paga i suoi debiti, Ran. Sempre.”

Poi si alzò e se ne andò dalla stanza, senza voltarsi indietro.

Ran restò a guardarlo, poi si voltò verso Pushpa. E lo vide fissare qualcosa a terra.

“Deyan-shir ha lasciato la sua borsa,” mormorò il t’yr.

Ran seguì il suo sguardo e vide la sacchetta di cuoio sul pavimento. Trasalì, e si tastò frettolosamente alla cintura... 

Ma quella è la mia borsa! Come fa a trovarsi lì?!

La risposta lo agghiacciò. 

È stato Deyan. Quando l’ho abbracciato.

Era stato proprio lui a insegnargli quel trucco da ladro, notando quanto erano agili e precise le sue mani...

Sapeva cosa stavo per riportargli.







*







 

Non aveva mai camminato per più di cento passi senza fermarsi. Non aveva mai visto la luce del giorno se non attraverso grate, tende e veli. Non aveva mai visto il mondo al di fuori di un palazzo. Non aveva mai avuto fame o sete, né sentito il calore feroce dei due soli, e il gusto della polvere. 

Sono soltanto un candido fiore del giardino segreto…

Il vuoto intorno a lei l’atterriva, ma come un animale spaventato si trascinava ansimante lungo la pista rovente, tenendo in braccio il suo bambino che aveva coperto con tutto quel che poteva dargli. Singhiozzava senza lacrime, pensando al suo corpo quasi nudo esposto vergognosamente, ma chi c’era a guardarla? Forse i soldati di confine l’avrebbero notata, con i loro cannocchiali, ma non l’avrebbero raggiunta nemmeno per violarla, perché lei era ancora sul suolo di Shana, e nessuno avrebbe rischiato una guerra per una schiava.

Non aveva un nome. Le avevano marchiato un dodici sulla coscia, con un ferro rovente; ma poi era diventata un numero indistinto in uno stuolo di ragazze, per cui si erano limitati ad applicarle un orecchino inamovibile con una sigla e l’ideogramma di Itka, giusto per sapere la sua provenienza. 

Col bianco corpo che si riempiva di vesciche, e gli occhi accecati dalla luce senza requie, ricordò perché si trovava lì. 

Alcuni giorni prima Gamosh era entrato nella shanda come una tempesta, rovesciando preziose suppellettili e calando bastonate su schiave ed eunuchi al suo passaggio. Quando si era appena placato, Tasia gli era andata incontro, in uno di quei vestiti regali che solo lei aveva il diritto di indossare.

E Gamosh l’aveva guardata digrignando i denti. 

“Gli dèi maledicano tutto ciò che viene da Itka!...”

“Portate del vino forte per il nostro nobile signore,” aveva ordinato Tasia, impallidendo perché lei era di Itka. “E badate bene che sia vino di Shana!” Poi, premurosa, l’aveva accarezzato. “Cosa turba il mio signore?”

“I miei ambasciatori mi scrivono che Estsen si è offeso perché ti ho nominato Prima tra le Prime... e ha... deciso di ripulire la sua shanda dell’immondo sangue Shanì... ha detto proprio così. C’erano due figlie di Unari tra le sue donne: sai cos’ha fatto quel bastardo alle mie sorelle?!”

“Le ha uccise?”

Una smorfia. “Le ha fatte gettare nei pozzi degli schiavi comuni, quelli dove marciscono i peggiori criminali.”

Tutti avevano tremato di orrore.

“Quegli animali non hanno creduto alla loro buona ventura, vedendosi consegnare due bellissime albine di sangue reale. Le hanno stuprate a morte, e Estsen si è goduto lo spettacolo con calma, dopodiché se n’è tornato al palazzo. Le figlie di Unari sono rimaste lì: dicono che la foia degli schiavi fosse così implacabile che quei vermi si sono giocati ai dadi persino i loro cadaveri.”

Un gemito era salito da tutti gli astanti. 

Tasia aveva scosso la bianca chioma con un movimento altero della testa. 

“Che vendetta squallida,” aveva detto, spavaldamente. “Il signore di Itka sembra non poter vivere senza vergogna. In un modo o nell’altro, spinge le sue donne nelle mani di altri uomini.”

Molti erano trasaliti a quella frase. Ma Gamosh aveva guardato Tasia, ed era esploso in un’improvvisa risata.  

“Sì, mia cara! È proprio così. Vuole che tutti sputino nel suo letto, non ha proprio ritegno. Io non darei mai una schiava toccata da me a un criminale!”

Nel silenzio tutti avevano distolto lo sguardo da lui, per non ricordargli che il principe Deyan non aveva aspettato che gli fosse dato alcunché. 

Era arrivato il vino, e Gamosh l’aveva bevuto a grandi sorsate.

“Occorre però una risposta da parte di Shana,” aveva sibilato, con occhi torvi. “Un simile pubblico affronto non può essere tollerato in silenzio. Se Estsen vuol far pulizia nella sua shanda... a maggior ragione devo farla anch’io.”

E aveva guardato la sua bellissima Prima tra le Prima, con una ruga di dubbio tra le sopracciglia...

Tasia aveva sentito il pericolo, e si era affrettata a indicare un altro bersaglio a quell’ira: la giovane che aveva scorto tra le altre schiave. 

“Quella ragazza laggiù è la figlia Estsen-shir.”

La schiava aveva fissato Tasia con orrore, rammentando che era stata Prima tra le Prime anche a Itka... era ovvio che si ricordasse di lei, dato che a suo tempo l’aveva scelta per essere mandata a Shana!

Gamosh l’aveva guardata, digrignando i denti. “La figlia?!” Aveva scoperto i denti in un ghigno. “Ma bene!”

La ragazza aveva tremato, in preda al panico. 

“Pietà, padrone!” aveva mormorato, prostrandosi. “Questa schiava è innocente dei crimini del padre!...”

“Innocente?... Sei del sangue del mio peggior nemico, l’assassino delle mie sorelle! E io dovrei mettere una parte di me nel corpo di una creatura contaminata?” Gamosh aveva storto la bocca. “No, non ti voglio più rivedere. Ma non temere, non sono un barbaro come il tuo genitore: noi di Shana siamo infinitamente più civili dei cani di Itka. Per cui sarò magnanimo.” Un gesto agli eunuchi. “Cacciatela via dal palazzo, che sia rimandata immediatamente nel suo lurido paese.”

“No, possente signore!” aveva gridato lei, sconvolta. “Non mandarmi via... non posso lasciare il mio bambino!”

Tasia l’aveva guardata, con un sorriso amaro. 

“Sciocca,” aveva mormorato. "Hai condannato anche tuo figlio." 

Gamosh infatti aveva fatto un’espressione disgustata, guardando gli eunuchi accanto a sé. “Dice il vero, questa femmina? Io avrei fatto un figlio con questa schiava? Mescolato il sacro sangue di Shana... con quello di quel cane?!” Una scrollata di spalle. “Lo rinnego: cacciate via anche lui con lei.”

“Ma, nobile padrone...” Uno degli eunuchi aveva fatto coraggiosamente un passo avanti. “Questo servo invoca la tua clemenza. Il piccolo Janir è pur sempre un cadetto della casa reale di Shana... consegnarlo ai nemici del padrone non sarebbe altro che dar loro un’altra occasione di... profanazione!”

“È contaminato,” aveva replicato Gamosh. “Sbarazzatevene con la madre. Ho figli in abbondanza, e non mi preoccupo per il destino di un trascurabile cadetto.”

Tutti erano ammutoliti: non si aspettavano tanto cinismo da un uomo che a sua volta era stato cadetto.

Non c’era altro da dire, la volontà del principe era stata chiara, gli ordini incontrovertibili. La figlia e il nipotino di Estsen erano stati presi, scortati rapidamente verso un carro chiuso, sbarrati dentro; e senza neanche dar loro modo di salutare o raccogliere qualcosa, erano stati portati via dal palazzo.

Il viaggio era stato pieno di fracasso e di scossoni, scortato da uomini armati, un incubo oscuro dove ogni senso del tempo era smarrito, ogni riposo bandito: nella semioscurità di quella cigolante cabina la giovane donna aveva pensato con disperazione a tutte le sicurezze che aveva perduto, e a cosa avrebbe fatto suo padre a vedersela riconsegnare con il figlio di un uomo esecrato tra le braccia... 

Poteva fuggire? E dove? Una ragazza albina, ignorante del mondo, divisa da tutte le altre donne dalle caratteristiche che la rendevano così speciale, e senza protettori... era un fiore reciso, scartato da tutti i vasi e destinato ad avvizzire miseramente tra di essi.

Povero il mio piccolo, bellissimo Janir! 

Quando l’avevano portato via aveva pianto, com’era normale per i bambini della sua età. Poi, sfinito, si era addormentato. E quando avevano cambiato i corsieri che trainavano il carro, si era svegliato per arrampicarsi curioso a spiare dalla piccola grata, eccitato da quell’avventura inconsueta, un viaggio fuori dal palazzo. 

Poi, di colpo, il carro si era fermato. I soldati della guardia li avevano tirati fuori dalla cabina, in una notte piena di stelle. Avevano indicato loro delle luci in lontananza, dicendo che era il confine di Itka. E senza dir altro, se n’erano andati tornando indietro, abbandonandoli lì.

Nel mezzo del nulla. 

E allora la giovane aveva capito che Gamosh non aveva inteso affatto esser magnanimo. 

Ora, dopo quella marcia disperata nel deserto, si rendeva conto che non sarebbe sopravvissuta. E nemmeno il figlio: non lo sentiva più nemmeno lamentarsi, sotto il fagotto di tessuto. Le pesava tra le deboli braccia come un fardello floscio, le sue bianche braccine abbandonate. Cadde in ginocchio, stupendosi della sensazione di freddo che provava, guardò in avanti, il miraggio dipinto dai due soli, il confine con la sua vana promessa di salvezza: non ci sarebbe mai arrivata... 

Si alzò il vento, sollevando la polvere, e tutto divenne indistinto. Con un ultimo sforzo si piegò a proteggere il corpicino del bambino. 

Forse perse i sensi, ma poi qualcosa la risvegliò: un rumore strano, come di grandi zampe, e poi di passi fruscianti sulla sabbia. Qualcosa eclissò i due soli, dandole l’illusione di un’ombra. Alzò gli occhi semiaccecati. 

Due uomini avvolti in vesti color terra torreggiavano su di lei, il volto coperto dal velo, la cintura ornata d’argento e una falce di luna dipinta sulla fronte. 

Mani forti le strapparono dalle braccia il suo fardello. Lei emise un gemito.

“Janir...”

“È ancora vivo?” chiese uno  dei due.

“Forse.” Uno sguardo sulla donna. “Lei è spacciata, è inutile sprecare acqua: lasciamola qui.”

La giovane non ebbe nemmeno la forza di disperarsi, giacque inerte nella sabbia col corpo devastato, ma l’animo acceso dalla speranza per suo figlio.

“Chi... siete?”  domandò, con il suo ultimo sussurro. 

“El-Markas,” rispose l’altro uomo, chinandosi su di lei e guardandola con occhi violetti. “Muori in pace, sarai vendicata.”

  
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