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Autore: Dzoro    15/11/2013    2 recensioni
Gesù gli domandò: «Qual è il tuo nome?» 
Egli rispose: «Il mio nome è Legione, perché siamo molti». 
Cosa fareste se vi svegliaste una mattina senza ricordare nulla delle vostre ultime 24 ore? E se trovaste sulla vostra porta le foto di degli uomini che non avete mai visto, e la scritta "stanno per morire?" 
Per fan di: Death Note, Twin Peaks, Dylan Dog, Dario Argento, Una Notte da Leoni, Il Grande Lebowski, il rock psichedelico e la crostata di ciliegie.
 
Genere: Horror, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 1: Passaggio a Nord-Est

 

Giovedì 20 ottobre, 18:00

Questa storia inizia con me che corro nudo nella foresta. Non è una cosa faccio tutti i giorni, non per piacere perlomeno. Correvo perché sapevo che, se non avessi corso, l’uomo maiale mi avrebbe raggiunto. L’uomo maiale era enorme, grasso, peloso e nudo, e non vedeva l’ora di raggiungermi e farmi le feste, il che includeva probabilmente stupro e semembramento. L’uomo maiale non era una bella persona.

Il terreno sotto i miei piedi era una distesa di terriccio umido e fangoso, ricolmo di sassolini, aghi e rametti appuntiti, una gioia per le piante dei piedi. Ogni passo era un tripudio di punture e graffi, ma non potevo fermarmi. Non potevo fermarmi, ma non sapevo perché. Mi ero già dimenticato di cosa mi stava inseguendo. Poi lo sentì grugnire, ricordai, e ripresi a correre ancora più veloce.

La foresta iniziò a diradarsi. Mi trovai di nuovo nella radura in cui i due coniglietti prendevano il tè. Erano seduti ad un tavolino da giardino in ferro battuto verniciato di bianco, e sorbivano silenziosi da tazzine di ceramica rosa, impassibili nei loro completini neri. Sul tavolino si trovava una teiera più grossa di loro, nera, ricoperta da un groviglio di arabeschi bianchi. Accanto ad essa giacevano sparpagliati siringhe e sacchetti di polvere bianca.

“Vaffanculo conigli”, dissi, “con che coraggio vi bevete il tè con un uomo maiale peloso che mi insegue?” Ero francamente costernato. Il fatto di essere tornato per l’ennesima volta nella radura avrebbe dovuto scoraggiarmi, ma in quel momento l’ingiustificabile comportamento dei coniglietti era la cosa che mi infastidiva di più.

“Che vi vada una carota di traverso, roditori di merda! Traditori! Troditori!”

Non capivo come mai fossi così sicuro di essere già stato lì. Mi ricordavo dei conigli, ma il ricordo di quando li avevo visti la prima volta era un pensiero sfuocato come un filmato porno su internet a fine anni novanta. Improvvisamente successe una cosa inaspettata: le cose smisero di sembrarmi normali. Insomma, quante persone si trovano in mezzo ad una foresta inseguiti da un maiale stupratore, in compagnia di conigli con una passione per il te e la cocaina? Il pensiero mi fece ricordare un'altra cosa, che io di come ci ero finito in quella foresta non me lo ricordava per nulla. Tutti pensieri potenzialmente angoscianti, ma io riuscivo solo a pensare che quegli stronzi di coniglietti si stavano bevendo il te mentre io rischiavo la possibilità di fare cacca solida per il resto della mia vita. Sempre che il mio inseguitore mi avesse lasciato in vita. Troppo tardi in ogni caso, l’uomo maiale era arrivato. Lo sentivo ansimare alle mie spalle. Provai a muovere le gambe, ma c’era qualcosa che mi teneva fermo. Pensai che dovevano essere i rametti per terra. Fu allora che mandai tutto al diavolo, e mi sdraiai sulla superficie irregolare di muschio, legno e pietra sotto i miei piedi. Avevo sonno, ed ero stufo di correre. Sentì una mano che mi si appoggiava sulla spalla, e capii di essere spacciato. Iniziai ad urlare.

 

Mi alzai di scatto, facendo uscire dalla gola tutto il fiato che avevo nei polmoni. Era un urlo corposo, di quelli che salgono dolorosamente dalla trachea, graffiandola, come se stessi vomitando un gatto idrofobo. La ragazza delle pulizie urlò di rimando, cadendo all’indietro con il sedere per terra, e rincattucciandosi nell’angolo di moquette più lontano dal mio letto. Non mi accorsi subito che non ero più nella foresta, e che lei era in effetti la ragazza delle pulizie dell’albergo Girasole, quindi urlare più forte mi sembrò la cosa più naturale del mondo da fare. Anche lei continuò ad urlare, portandosi le mani davanti alla faccia, come per proteggersi dal gatto idrofobo che le stavo vomitando addosso. Urlammo insieme ancora qualche secondo, finché non iniziò a mancarmi il fiato, e iniziai a intuire l’intrinseca imbecillità di quello che stavo facendo. Quindi smisi. Lei credo sentisse ancora un po’ il bisogno di urlare, io la lasciai fare, fissandola con in faccia l’espressione da risveglio improvviso più comica e spaventosa della mia vita. La mia bocca si apriva e chiudeva come quella di un pesce rosso spastico, e il collo sembrava non riuscire a reggere il peso della testa. Mentre le urla della donna delle pulizie mi facevano una sessione di agopuntura con chiodi arrugginiti al cervello, iniziai a visualizzare con l’acquolina in bocca l’immagine di un'aspirina grossa come una torta di matrimonio. La ragazza emise un gemito, e sempre tenendo le sue mani davanti alla faccia, mi guardò con due occhioni dilatati e umidi. Alla fine gli unici suoni che rimasero, sospesi nel silenzio, furono il rumore dei nostri respiri affannati e, in sottofondo, lo scroscio dell’acqua da dietro la porta del bagno, che lasciava uscire nella penombra della mia camera d’albergo un filo di luce elettrica. Dopo ancora un attimo, le dissi:

“Mi hai spaventato.”

 

Aprii le persiane semichiuse e andai in bagno.

“Stamattina avevamo visto la porta chiusa, e dato che non hai riconsegnato le chiavi alla reception abbiamo pensato che stessi ancora dormendo. Poi ho visto che non uscivi più, e ho pensato che fossi uscito fuori con le chiavi, e allora sono venuta a mettere a posto…” si giustificava la ragazza, con voce rotta dal batticuore. La doccia stava andando ancora, non l’avevo spenta l’ultima volta che l’avevo usata. E quando cercai di ricordare quando fosse stata quest’ultima volta, il cervello mi si rivoltò contro, trafiggendomi le tempie con un emicrania grossa e appuntita come un paletto da tenda. Mi rassegnai a non ricordare. La chiusi, e notai sul fondo della doccia tracce di terriccio nero. Buttai un occhio indietro alla camera: non c’era traccia dei miei vestiti, non erano sulla sedia dove li accartocciavo di solito prima di andare a dormire. Iniziai a sperare di aver avuto il giorno prima la migliore notte di baldoria della mia vita, perché era l’unica cosa che avrebbe giustificato, e reso leggermente più accettabili la nausea e l’emicrania. Non ricordavo nulla. Buttai per terra le lenzuola in cui mi ero avvolto per evitare denunce di molestie da parte della ragazza (data la successione di avvenimenti degli ultimi minuti ne era in pieno diritto) e mi misi un asciugamano intorno alla vita. La differenza non era molta, ma c’è qualcosa di ridicolo nell’andare in giro con una toga fatta di lenzuoli se non sei in un film di John Belushi. Tornai dalla ragazza: era una tipa sui vent’anni, occhi carini, trucco eccessivo, vestita con una tuta color topo che sperai per lei indossasse solo sul lavoro.

“Scusa, ora mi metto dei vestiti veri. Puoi tornare tra mezz’oretta per le pulizie?” le feci, sperando, in barba a quello che avevo appena detto, che non tornasse mai più: Dio solo sapeva quanto volevo dormire.

“Ma stai bene?” Mi fece lei, dandomi subito del tu. Lo facevano tutti in quel paesino, se davi del lei ti guardavano come avrebbero guardato la regina d’Inghilterra, ed iniziavano a rivolgersi alternando il lei e, per qualche strano motivo, il voi.

“Solo un po’ di mal di testa. Magari scendo e mi compro un'aspirina.”

“La farmacia sarà chiusa a quest’ora.” Mi fece notare lei.

“Perché, è già ora di pranzo?”

“Di cena più che altro. Sono le sei passate.”

“Allora vado a cercare un accetta ed un ceppo, non credo di poter sopravvivere un attimo di più con la testa in queste condizioni. Dio!” mi stropicciai la tempia destra con l’attaccatura della mano, inondandomi la testa di un breve sollievo illusorio.

“Non capisco dove tu ti sia potuto ridurti così a Fondale.” Disse lei, lasciando trasparire da sotto il nervosismo un pallido sorriso, ed immaginandosi probabilmente tutta la notte di bagordi che io avrei voluto tanto ricordare.

“Vorrei tanto saperlo.” Le risposi, sedendomi sul letto. “Sto cercando di riordinare le idee, ma per ora tutto è sfuocato come…” mi vennero alla mente i pixel rosa di Jenna Jameson che si strusciavano contro quelli rosso scuro di Rocco Siffredi “Molto sfuocato. Quanto hai detto che sono rimasto qua dentro?”

Lei su prese una piccola pausa per pensare, poi disse:

“Penso tu sia tornato stanotte.”

“Cosa? Aspetta, che giorno è oggi?”

“Venti ottobre.”

Mi gettai sul comodino, dove trovai la sagoma scura e familiare del mio libretto per gli appunti. Lo aprii: le ultime note risalivano al diciannove. La mia calligrafia incerta aveva tracciato due singole lettere, h e p. Non scrivevo mai frasi troppo lunghe su quel libretto, in modo che se qualcuno ci avesse messo le mani addosso, non avrebbe capito che aveva a che fare con un detective privato. Non avevo mai pensato che quello stratagemma, che si appoggiava su quella che ritenevo essere una memoria infallibile, si sarebbe rivelato un arma a doppio taglio. Quelle due lettere avrebbero potuto significare qualsiasi cosa. In quel momento il mio cervello era un’utilitaria accartocciata contro un paracarro, ferma da giorni, alla quale improvvisamente riparte l’autoradio. Le lettere erano un indizio sul caso, questo era certo. Stavo seguendo un caso. Giovanna Carta. Stavo cercando Giovanna Carta. Scomparsa durante una festa in un ristorante in una zona isolata in provincia di Vicenza, il dieci ottobre. Il danaroso papà si era arreso all’ottusità della polizia, che insisteva che si trattasse di una fuga e non di un rapimento. Rivolgersi all’Agenzia era stato il passo successivo. Il capo mi aveva chiamato e mi aveva detto “Zeni, il caso è tuo”, con il tono di voce di un sergente di colore in un film dell’ispettore Callaghan. Il capo aveva un certo gusto per il melodrammatico. Il ricordo seguente era Fondale. Ero arrivato a Fondale, simbolo se non della dimenticanza di Dio, perlomeno di un certo suo senso dell’umorismo. Fondale era un buco incastrato in fondo alla valle più remota del Trentino. Il Trentino è la regione con meno autostima d’Italia, se ci arrivi in autostrada l’unica indicazione utile per raggiungere Trento è il cartello per il passo del Brennero, che porta in Austria. Come dire ti vuoi fermare in Trentino? Che stronzo. Eppure quel posto non era male, un animo più sensibile del mio l’avrebbe addirittura giudicato bello. Ma proprio non era possibile scacciare quella sensazione di trovarsi in un paese di frontiera, lontano dai MacDonald, i supermercati e i negozi di videogiochi, che nel mio immaginario personale erano i simboli dello sviluppo della civiltà occidentale.

Il posto era carino per passarci un fine settimana, ma a me erano bastate appena quarantott'ore ore per frullarmi le palle. Mi ero chiesto a più riprese come fosse possibile viverci.

L’inseguimento Giovanna Carta mi aveva portato a Fondale. Il resto l’ho già raccontato. L’albergo Girasole era l’unico nella zona, gestito dalla signora Gianna, un’ottuagenaria dallo splendido sorriso sdentato, gentilissima e sorda come un sasso. Ero diventato suo figlio dal momento in cui avevo afferrato il portachiavi a forma di ceppo con sopra intagliato il centodue della mia camera.

“Se ti torna in mente, dimmelo!” mi fece la ragazza, ridendo. Io la guardai perplesso, senza capire cosa intendesse.

“Il posto in cui sei stato a divertirti stanotte. Ci vado anch’io, devo passarci altri due mesi qui. A volte sono così annoiata che mi sembra di uscire di testa!”

“So di che parli.” Le risposi io, scrutando il libretto degli appunti, senza riuscire a ricordare altro. “Senti, non è che torni domani per le pulizie? Prometto che non mi metterò a urlare la prossima volta.”

Lei rise di nuovo, con quella nota greve che aveva l’accento di quelle parti.

“Okay, immagino tu abbia ancora bisogno di riposarti. Ciao!” Chiuse la porta dietro di se. Sul lato della porta che fino a quel momento era rimasto coperto contro la parete, c’erano due fogli attaccati con lo scotch. Due fotografie in bianco e nero, stampate su cartoncino da stampante. Erano i volti di due uomini, e iniziai a chiedermi se li conoscessi, anche se la sensazione era di non averli mai visti prima. Mi tornarono in mente i cartoni animati in cui gatto Silvestro prende una botta in testa, e non ricorda più nulla finché non glie ne danno un'altra. Fui tentato di sbatterla contro il muro in effetti, ma ritenni più utile andare a vedere di cosa si trattava. La prima foto era di un uomo sulla cinquantina, naso prominente, testa calva e rugosa. Sotto si trovava un nome stampato: Saverio Coletti. La seconda mostrava un uomo più giovane, più grasso, con la fronte coperta da una massa spettinata di capelli, e le labbra da dei folti baffi. Il suo nome era Francesco Nasolini. Su entrambi i fogli, scritte di traverso, si trovavano poche parole tracciate con una biro nera: stanno per morire. Le lettere erano tremolanti e incerte, ma non abbastanza da non farmi capire chi le avesse scritte. Era la mia calligrafia.

“Porco cane.” Mormorai io, capendo di aver davvero bisogno di un'aspirina.

 

All’elenco delle sorprese se ne aggiunsero ancora alcune. Prima di tutto, il mio iPhone mancava all’appello, insieme a dei jeans, una camicia, un maglione e i miei scarponi. Anche la bomboletta di spray anti aggressione era scomparsa nel nulla, in quel lungo buio che precedeva il mio risveglio. Indossai in fretta un altro paio di jeans, e uno dei maglioni rimastomi. Chiusi la porta dietro di me, incastrando tra quest’ultima e lo stipite un pezzetto di carta all’altezza della serratura, poi scesi le scale. La signora Gianna stava guardando un televisore appoggiato su un tavolino dietro il bancone della reception, un muretto di marmo e assi di legno laccato, dietro al quale si trovava la selva di chiavi di tutte le camere sfitte. Era sorvegliato da una legione di uccelli impagliati, che guardavano contemporaneamente ogni angolo della stanza, come un'icona bizantina. Lo schermo inondava il suo volto grinzoso di una luce bianca e baluginante, e conferiva alla sua espressione svanita un'aura quasi sacrale. Per strada era già buio, l’inverno era alle porte.

“Buonasera”.

“Giancarlo, buonasera!” Ovviamente non mi ero registrato alla reception con il mio vero nome, ma con uno dei molti pseudonimi che usavo per quelle occasioni. Che però era Fabrizio Scafoni.

“Buonasera Gianna! So che potrebbe essere una domanda difficile.” mentre parlavo, i miei occhi vagarono sulla fisionomia ancestrale della vecchia, sulle sue labbra serrate e sottili, evidenziate da un rossetto del secolo scorso, e sugli occhiali che ingrandivano all’inverosimile un paio di occhi azzurri e sbiaditi. Ebbi la sensazione che gran parte delle mie parole si sarebbero perse nel nulla. “Si ricorda quando sono passato di qui l’ultima volta?”

Lei sorrise, come se le avessi detto una galanteria.

“Oh, grazie!” fece, atteggiandosi con la vezzosità di una ragazzina che ha appena ricevuto un complimento. Io la guardai un attimo, strinsi i denti, e mi preparai a ripetere la domanda. Poi, la risposta arrivò, in ritardo come un motore avviatosi dopo molti tentativi:

“Ma certo, c’è solo lei in albergo! Si sente solo?” Aggiunse con malizia. “Non si preoccupi, presto avrà compagnia! Lo sa che sta mettendo giù un sacco di neve sulle cime? Presto arriveranno un sacco di sciatori, e apriremo anche la dependance!”

“Straordinario, signora Gianna” tagliai corto “quindi quando mi ha visto l’ultima volta?”

“Ma che domande, ieri pomeriggio! È passato qui davanti, me lo ricordo! Ho una memoria di ferro, ricordo ancora tutti i nomi delle montagne qua attorno.”

Il pomeriggio prima. Quindi nel bel mezzo di quella che avevo preso a chiamare come la zona di buio. A quando si fermavano i miei ricordi? Ricordavo di essere arrivato lì due giorni prima, di aver preso la camera, di aver iniziato ad indagare, ma poi nulla. Mi mancavano ventiquattro ore, forse di più.

Shock emotivo, trauma cranico, droga, medicinali assunti insieme a bevande alcoliche. La mia mente passò in rassegna tutti i motivi che potevano causare un’amnesia, e mi accorsi con sconforto che le possibilità erano infinite.

“Sta bene, Giancarlo?” mi chiese Gianna, turbata dalla mia evidente confusione. Dissi di sì, e immagino che questo la tranquillizzò.

“Era molto di fretta, non ho nemmeno fatto in tempo a salutarla quando se ne è andato. Cosa aveva da fare, ha trovato un cliente?” Mi stupì di come si ricordasse che Fabrizio Scafoni era un rappresentante di una ditta di aspirapolvere ad acqua. Le avevo promesso subito una dimostrazione il giorno prima della mia partenza, ossia abbastanza tardi per poter non mantenere la promessa.

“Sì, qualcosa.” Mentii velocemente, prima di domandare quello che mi interessava veramente.

“Quindi lei non si ricorda di quando sono tornato, stanotte?”

“Figlio mio, dormivo stanotte! Ma la porta dell’albergo era aperta, che qui ci fidiamo tutti di tutti! È un paese piccolo, so il nome di ogni abitante! Ho una memoria di ferro, gliel’ho mai detto? Pensi, ricordo il nome di ogni montagna…” mentre Gianna iniziava ad elencare tutti i nomi delle montagne dei dintorni, capì che in quell’albergo chiunque sarebbe potuto penetrare nella mia stanza e attaccare le foto. Perfino io, a giudicare dalla scritta sopra di esse.

“Beh, grazie allora.” Dissi ad alta voce, interrompendo le chiacchiere della vecchia.

“Di nulla, di nulla! Se esce si metta il suo giubbotto, che c’è un freddo…” interruppe la frase così, riposizionando la faccia sotto la luce intermittente della televisione. Io mi spostai poco distante, su uno dei tavolini del bar nella stanza attigua. Il Bar era chiuso, alla signora Gianna evidentemente non sembrava il caso di tenerlo aperto con un solo ospite nell’albergo. Dalle pareti di assi di legno mi fissavano foto in bianco e nero di sciatori e alpinisti, e una vecchia pubblicità del Fernet Branca. Mi sedetti, e accesi lo smartphone rimastomi, il mio amato Samsung, e andai subito su Google. Saverio Coletti. A quanto pare il mio nuovo amico era il proprietario di una vetreria in Brianza. Dopo qualche scarna pagina di social network, scorsi un articolo in cui si celebrava un appalto con un oligarca russo per la costruzione della sua villa, poi un altro in cui Coletti visitava un’università per parlare con gli studenti e svelandogli i segreti del mondo del lavoro. Nasolini invece compariva soltanto in una pagina di Facebook, ma la foto profilo non faceva capire se fosse lui o un omonimo. Preferii quindi tornare al sito della vetreria Coletti, e cercare un numero di telefono. Lo trovai.

Mentre il telefono squillava, mi chiesi quale sarebbe stata la mia prima domanda. Buongiorno, vorrei sapere se il signor Coletti è ancora vivo. No, perché qui sulla mia porta c’è un foglio che dice che sta per morire.

“Buongiorno, mi dica.” La voce acuta della segretaria dall’altro capo si introdusse di violenza nel flusso dei miei pensieri.

“Buongiorno, è possibile parlare con il signor Coletti?”

Fatto, era stato semplice.

“Il signor Coletti non è in ufficio, al momento non penso di poterlo raggiungere. Mi dice il suo nome?”

“Giancarlo Giannini, chiamo per conto del signor Rublovskij. Posso lasciarle il mio indirizzo e-mail?”

“Se vuole la posso richiamare.”

“Sarò all’estero nei prossimi giorni, sarebbe meglio se mi contattasse via mail.”

“Capisco, mi dica.”

Le dettai un indirizzo che avrei creato subito dopo la telefonata. Non potevo lasciare in giro il mio numero, e avevo regolato le impostazioni del telefono in modo che nessuno potesse risalirvi. Mi congedai dalla segretaria, e mentre rimettevo il Samsung in tasca, mi scoprii consolato dal fatto che non fosse morto nessuno. Ora sarei tornato in camera per farmi una solenne dormita. La testa non accennava a smettere di farmi male.

Salii le scale tenendomi ben aggrappato al corrimano, e sbadigliando sonoramente. Arrivai alla porta della camera, infilai le chiavi, e la spinsi in avanti. E contemporaneamente mi diedi cento volte dello stronzo, perché a cosa serve mettere il pezzettino di carta nella porta se poi non controlli che sia ancora lì? Era a terra.

Mentre mi chiedevo chi fosse stato, sentì un dolore lancinante prendermi al petto. Caddi sul pavimento, emettendo un urlo che subito si trasformò in un gorgoglio acuto. Non sentivo più il mio corpo, non riuscivo a muoverlo. La nausea invase la mia testa, mentre sentivo delle mani afferrare le mie caviglie, e la porta chiudersi alle mie spalle.

Immagino che nei minuti di semi-coscienza che seguirono successero diverse cose. Ricordo di aver vomitato, e di aver visto una scarpa ricoperta di una poltiglia giallastra, e di aver pensato “potevi lavartele prima di entrarmi in camera.” Poi ricordo un pugno in faccia, e finalmente il sonno che volevo tanto farmi.

 

Ero molto innervosito, perché nonostante sul tavolo ci fosse una zuccheriera enorme, io non avevo un cucchiaino per mescolare il mio tè.

“Datemi un cucchiaino, conigli di merda!” I conigli non sembrarono notare la mia rabbia, e continuavano a bere dalle loro tazzine.

“Mio caro,” mi disse uno di loro, “quello non è zucchero”.

“E quello che hai in mano non è tè”, continuò un altro. Io guardai nella mia tazza, e la scoprii piena di siringhe. La appoggiai sul tavolo, mentre i conigli continuavano a sorbire il tè in silenzio. La foresta era silenziosa, buia e fredda. Soprattutto fredda, non mi era rimasto più un solo vestito addosso.

“Scusate, non mi ero accorto di essere nudo”, mi giustificai imbarazzato ai miei ospiti.

“Oh, ma che ti scusi a fare, manco avessi una carota infilata nel naso!” Disse uno dei conigli, e scoppiammo tutti a ridere. Però io non l’avevo capita.

“Dove siamo?” Chiesi.

“Sei all’inferno, mio caro”, rispose subito uno dei conigli, e sulla sua faccia da roditore comparve una smorfia che io, in un qualche modo, capii essere un sorriso.

“L’inferno? Siete dei diavoli?”

“No, ma l’uomo maiale è un demone con gli attributi. Se capisci di cosa parlo.”

“Già, è una fortuna che ora non ci sia. Ma penso tornerà davvero presto e… beh, il resto lo sai. Sarà delizioso, da quand’è che non vediamo l’uomo maiale all’opera?”chiese un coniglio.

“Da almeno domenica scorsa. Ricordo quella circostanza con molto piacere, a proposito.” Rispose l’altro coniglio.

“Ehi, fermi, aspettate,” mi intromisi, per nulla contento del tono che la conversazione stava prendendo, “se sono all’inferno vuol dire che sono morto?”

Improvvisamente, venni attraversato da un moto di terrore.

“Morto, vivo, la differenza è poca. Ora però non sei all’inferno, sei in uno degli inferni possibili.”

“Ora sei nella camera 302. Ce ne sono altre, e ognuna con la sua specialità. Con il suo demone.”

Io ascoltai il discorso del coniglio, e mi chiesi se non stesse mentendo.

“Allora il diavolo esiste?” Chiesi.

“Se esiste? Amico, ne hai uno alle tue spalle.”

Io raggelai. Improvvisamente, non riuscii più a muovere il mio corpo. Ero bloccato, a guardare i conigli mentre bevevano il te. Sentivo solo il suo respiro, e i suoi grugniti, alle mie spalle.

 

Aprii gli occhi di scatto. Vedevo una luce accecante in mezzo ad uno spazio bianco ai miei piedi, e uno spazio verde sopra la mia testa. Era moquette. Chi è l’idiota che metterebbe della moquette sul soffitto?

Oh.

Ero a testa in giù. Sentivo delle cinghie tenermi ferme le gambe e le braccia, e sotto la schiena delle molle di ferro. Qualcuno mi aveva appena colpito con un Taser, legato alla rete del letto con delle cinghie di cuoio e mi aveva annodato intorno ai testicoli un laccio di gomma. Davanti a me si trovavano due uomini, uno in giacca, uno con la camicia rimboccata sui gomiti, guanti di gomma e un coltello a serramanico aperto in mano. Entrambi avevano il volto coperto da maschere di cuoio nere, una specie di versione sadomaso di un lottatore di wrestling messicano.

“Buongiorno” mi disse quello con la giacca.

“Ciao” gli risposi io, leccandomi del sangue secco dal labbro. Mi ricordai del pugno.

“Sai chi siamo?”

“Così su due piedi, due imbecilli. Potevate bendarmi invece che coprirvi la faccia.”

I due si guardarono tra di loro. Quello in camicia spostò lo sguardo su di me, e mi mollò un calcio in mezzo alla pancia, mozzandomi il fiato.

“Abbiamo legato un laccio emostatico intorno alle tue palle. Sai cosa significa? “

“Ditemelo.” Mugolai io, stringendo i denti.

“Dicci dov’è la ragazza. L’hai portata con te?”

“E’ nell’armadio, prima mensola a destra.”

Quello in camicia si chinò su di me. Appoggiò la punta del coltello sul mio petto, e la fece scivolare fino dentro al mio naso. La sentii rotare dentro alla narice.

“Cosa preferisci che ti tagliamo per primo? Le palle o l’uccello?”

Ci pensai un attimo. Ero abbastanza sicuro che un pene non potesse più funzionare senza i testicoli attaccati. D’altro canto, non ne potevo avere la conferma. Quindi risposi:

“Le palle.”

I due si guardarono di nuovo tra loro per qualche secondo. Io dissi:

“Beh, se mi dite che risposta vi aspettavate…”

Il taser mi aveva così stordito che controllavo appena le mie parole. Se i due si fossero spogliati e si fossero messi a limonarmi davanti mi sarei limitato a guardarli con un sorriso ebete, troppo intontito per una reazione. Ma avevo paura, avevo paura di morire senza sapere nemmeno il motivo, in un albergo a Fondale. La signora Gianna probabilmente ci avrebbe messo giorni prima di capire che non stavo dormendo.

“Zitto, puttana.” Quello con la camicia mi mollò uno schiaffo. La pelle bruciò sotto la gomma del guanto, ma visto quanto era successo fino a quel momento non lo potei certo giudicare un peggioramento della situazione.

“ Hai tre secondi. Uno.” Sentì la lama strisciare lungo il mio petto. Mi avevano aperto la camicia, non me ne ero ancora accorto. Ero talmente partito che mi dava più fastidio che un uomo mi avesse spogliato nel sonno, piuttosto che lo stesso stesse per asportarmi una delle parti del corpo alle quali ero più affezionato.

“La domanda era dov’è la ragazza, giusto?” tentai di domandare.

“Due.”

Qualcuno bussò alla porta.

“Signor Giancarlo!” fece la voce chioccia della signora Gianna da dietro la porta. I due uomini si immobilizzarono.

“Dille di andarsene.” Mi sibilò contro quello con la camicia. Io sospirai.

“Mi dica.” Gridai.

“Va tutto bene? Ho sentito un rumore strano!” si riferiva probabilmente a me che gorgogliavo come un tacchino quando il taser mi aveva colpito.

“Tutto bene. Sono legato ad un letto con due uomini che vogliono asportarmi i testicoli. Stiamo facendo conversazione.” Il mio aguzzino sussultò, e mi cacciò il coltello in gola. Lo fermò un attimo prima di tagliare. Sentì il bisogno irrefrenabile di farmelo addosso, ma il pensiero che mi sarebbe tutto finito in faccia fu sufficiente per bloccarmi.

“Che cazzo fai?” disse, prima che Gianna rispondesse:

“Ho capito, bene! Buona notte.” Sentimmo i suoi passi, accompagnati dalla costernazione generale, allontanarsi.

“Continua.” Mi intimò quello con la giacca.

Poi, sentii una musica. Era un valzer, che mi era più facile associare ad una sala d’attesa di un dentista che ad un compositore. La musica era ovattata e lontana. Quello con la camicia si voltò verso il compagno, dandomi le spalle.

“È il tuo, no?”

Vidi quello con la giacca frugarsi in tasca. Tirò fuori un cellulare, e rispose.

“Sì. Sì. No, nessun problema. Ascolta… eh? Davvero? Ma noi… no. Sì. Sì, hai ragione. Non hai paura che… no, vero. Meglio di no. Quindi basta? E poi? Sì. Non preoccuparti, grazie per il consiglio. Allora va bene.” Riattaccò. “Andiamocene.” Disse.

“Eh? Tutto qui?” disse quello con la camicia, e mi aveva tolto le parole di bocca.

“Ti spiego per strada. Ora muoviamoci, non c’è più tempo.” Si diressero entrambi verso la porta. Quello con la camicia chiuse la lama del coltello, e se lo infilò in tasca.

“È il tuo giorno fortunato, Giancarlo.” Mi disse prima di uscire dalla porta, dopo aver spento la luce. La porta si chiuse. Mi domandai che fare. Forse aspettare un attimo e poi urlare come un matto sarebbe stata una buona idea. Stavo per iniziare, quando la porta si riaprì. Era uno dei due, con in mano qualcosa. Quando sentii il cervello che si scagliava contro il mio setto nasale, e l’intestino annodarsi intorno allo stomaco, capii che si trattava di nuovo del taser. Persi di nuovo i sensi.

   
 
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