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Autore: hanabi    29/11/2013    2 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Ran non guardava più il grosso vaso di cristallo. Fissava quasi affascinato la freddezza di Deyan, che studiava il macabro reperto senza il minimo moto di disgusto, da degno nobile abituato a spettacoli atroci.

“Non è un taglio netto, si vede che è stato usato un coltello. Probabilmente prima è stato ucciso e poi decapitato.”

“Questa è roba da kelith,” sbottò Ran. “Noi non mettiamo le teste sotto spirito.”

“Chi l’ha portata?”  

“Uno che vaga sempre nel mercato, e che è rimasto muto dopo che gli hanno spaccato il cranio in una rissa.”

Deyan fece il suo classico sorrisetto kelith. “Capisco.”

“Non abbiamo trovato messaggi...”

“Il messaggio è proprio questo, Ran.” 

“Che vuoi dire?”

L’albino posò la sua pallida mano sul vaso, quasi accarezzandolo.

“Che la Fratellanza si è stancata di questa situazione, e ha deciso di sistemare la faccenda una volta per tutte.”

“Ah.” Ran corrugò le sopracciglia. “La Fratellanza.”

“Questo è un classico modo in cui l’alta criminalità kelith appiana certi problemi.”

“Quindi questa testa sarebbe una sorta di... offerta di pace?”

“Sì. Mi dicono che mi preferiscono vivo, e con me la Squadra Sacrilega. Altre... iniziative personali dei loro adepti non saranno tollerate.” Una scrollata di spalle. “Però, se le condizioni cambiassero, potrebbero mettere la mia testa in un vaso: quindi mi ammoniscono gentilmente affinché mi accontenti di questo regalo... e continui a renderli ricchi.”

“Tutti questi messaggi in una testa sottovetro,” mugugnò Ran, a cui il sottile gioco di allusioni dei kelith sembrava sempre incomprensibile. Guardò i lineamenti contratti del morto. “Questo dunque dovrebbe essere l’uomo che ha tentato di assassinarti...”

“Probabile. Anche se non capisco come ha fatto a coinvolgere dei sayanni.”

“Ho riconosciuto uno dei morti, era un amico di Shartip e come lui aveva il gusto delle... ehm, pratiche innominabili con le kelith.” Ingoiò il suo imbarazzo a pensare a quella indicibile perversione. “Facile per i tuoi nemici contattarlo in qualche lurido bordello, e comprarlo... e lui avrà comprato gli altri: erano tagliagole senza onore, per questo li avevo sbattuti fuori a calci.”

“Comunque i sayanni erano solo un diversivo: quest’assassino temeva la mia speciale guardia del corpo. E mentre lei era impegnata con loro, e io distratto, una freccia avvelenata mi avrebbe tolto di mezzo...”

“Disonorato figlio di disonorati,” ringhiò Ran: non poteva dimenticare che quella freccia si era quasi portata via la sua amica. Chiamò uno schiavo. “Toglimi di torno questa porcheria, buttala in qualche canale di scolo... anzi, no, aspetta: trattala con attenzione, perché deve rimanere tutta intera: voglio mostrarla alla Xarani, che veda che è stata vendicata.”

“Sì, padrone,” fece lo schiavo, pallido dall’orrore. 

Una volta uscito, Ran si rilassò: stava decisamente meglio senza quella faccia rincagnata davanti agli occhi. Deyan si sedette sul cuscino davanti a lui, col solito movimento elegante.

“Questo omaggio mi toglie qualche pensiero, in vista del mio viaggio a Shana.” Si accarezzò la cicatrice sulla guancia, intorno alla quale la barba bianca ormai ben definita non cresceva. “Ovviamente non intendo fidarmi di nessuno, e prenderò ugualmente le mie precauzioni. Ma  non credo che ci saranno altri attentati a disturbare le nostre attività... finché avremo successo.”

“Lo avremo,” dichiarò Ran, con convinzione. “Il mio colpo lo do per già realizzato. In quanto alla percentuale sui bottini dei piccoli gruppi, mi aspetto di veder già qualcosa in cassa; anche se i Marjaban hanno respinto la mia richiesta di farci una tariffa più accomodante.”

Un alzar di sopracciglia. “Davvero hai creduto che facessero favoritismi? Lo sai meglio di me che questo è contrario alle loro convinzioni.”

“Cordiali sanguisughe,” brontolò il sayanni. “Ah, a proposito dei pellenera...” Si alzò dal suo cuscino e andò alla sua cassapanca, e ne estrasse una tavoletta. “Mi hanno chiesto di darti questa.”

Deyan la prese e scorse gli ideogrammi. “È la registrazione della liberazione di Naysiak.” 

Ran tornò a sedersi, di buon umore. Ma il suo sorriso si spense, rendendosi conto dell’espressione vuota dell’amico. Non mostrava alcun sentimento, ma era proprio quello il segnale che qualcosa non andava; più volte l’aveva sorpreso a guardare verso gli angoli, o alle spalle, come se cercasse qualcuno che non c’era più...

“Ti dispiace averla liberata, vero?” 

Deyan alzò gli occhi di scatto, come se fosse stato sorpreso in un atto riprovevole.

“L’avrei persa comunque.”  

“Hai fatto la cosa giusta.”  

“No,” fu la secca risposta.

Ran lo fissò, colpito da quella veemenza. Deyan arrossì lievemente, e unì le mani in grembo con un sospiro.  

“Ma non importa,” mormorò, “devo saper trovare l’oro nella sabbia, come si dice al mio paese; e il lato positivo di questa situazione è che almeno non avremo più motivi di dissenso tra noi due.”

“Di che dissenso parli?” domandò Ran, perplesso. 

Gli occhi rossi si affissarono nei suoi, con aria severa. 

“E va bene, parliamo chiaro. Per tutto questo tempo io e te eravamo riusciti a superare le nostre differenze razziali: so bene che detesti le mie usanze, ma hai imparato a tollerarle... a patto che rimangano circoscritte tra la mia gente. Ma nella mia casa è entrata una sayanni come te; e questo ha cambiato tutto. Finché l’odiavi per via del suo alto titolo, ti andava bene che la trattassi secondo la mia legge; poi, quando hai cominciato ad ammirarla... la tua tolleranza verso i costumi del mio popolo ha cominciato a vacillare. Non sopportavi che fosse mia... soprattutto ricordando che io ero stato tuo!”

Ran chinò lo sguardo. È vero...

“Eri già pronto a umiliarmi per lei, ma quell’assassino ti ha preceduto. Si è interposta tra me e quella freccia, salvandomi la vita, e mi ha chiesto lei stessa di abbandonarla ai miei nemici e scappare; era logico, anche la legge me l’avrebbe consentito... ma tu cosa avresti fatto, sapendo che l’avevo lasciata morire senza far nulla?”

“Io... io...”

“Mi avresti disprezzato,” concluse Deyan, amaramente. “Avresti odiato me e la mia razza, sarebbe stata la fine della nostra amicizia, e a quel punto che senso avrebbe avuto tutto quel che abbiamo costruito insieme, la Squadra Sacrilega, il sogno di un nuovo popolo... la corsa al titolo di Khanshir?”  

Ran fissò il vuoto, rendendosi conto che l’amico aveva ragione. 

“Dèi del profondo,” mormorò. “Dunque è questo che ti ha spinto a salvarla?”

“Non è quel che tutti si aspettano da me, te compreso?” La nota sarcastica nella voce di Deyan era chiarissima. “Sono un albino, un essere razionale e senza cuore. I gesti spontanei e disinteressati sono una specialità tua: come testimonia una tavoletta come questa... col mio nome sopra.”

E la posò a terra, tra loro due. 

Ran la raccolse, contemplando a lungo quegli ideogrammi complicati.

“Sì, è vero,” mormorò. “Se tu mi avessi regalato la Xarani, io l’avrei liberata un istante dopo.”

“Avresti dunque gettato via il mio dono?”

Un’occhiata spavalda. “Ci sono schiavi così nobili da disonorare i loro padroni.” 

Deyan impallidì all’accusa sottintesa. 

“Questo forse vale per te.”

“Ah sì?... Vale anche e soprattutto per un principe. Quanto onore ha guadagnato Unari, quando ha venduto il suo erede al trono come un animale, dopo averlo fatto frustare di fronte a tutto il suo popolo?”

Gli occhi rossi si svuotarono di ogni vita. Ran si accorse di quell’immobilità mortale, e trasalì temendo di essersi spinto troppo oltre...

Il momento passò. 

“Non... voglio parlare di quest’argomento,” mormorò Deyan, con uno sforzo deliberato. 

“Mi dispiace,” fece Ran con un sospiro. “Ma è il mio senso di giustizia che si ribella. Non credere che abbia voluto ferirti a cuor leggero: sei mio amico, il tuo dolore è il mio dolore. Ma lo era anche... il suo dolore. Tu almeno avevi commesso un delitto, lei aveva già espiato il suo e non aveva colpe verso di te. Non meritava che tu le facessi pagare la tua stessa vergogna.”

Deyan chinò lo sguardo, fissandosi le mani strette in grembo. Poi le sue dita si rilassarono. 

“Ad ogni modo, è finita,” mormorò, quasi a se stesso.

Ran sospirò. Sì, è finita. Grazie a tutti gli dèi.

Si strofinò la bocca, e andò a prendersi da sé un’anfora sigillata, dimenticando di avere dei servi. Tornò da Deyan recando la propria tazza di terraglia, e una delicata ciotola di vetro rosso per il suo ospite. Li posò sul basso tavolino, e vedendo l’espressione vuota dell’amico tentò di mettergli una mano sulla spalla. Deyan gliela spostò con un gesto secco. 

Ran non insistette, ingoiò la propria amarezza e stappò l’anfora, versando il vino nelle ciotole. 

“Abbiamo entrambi commesso degli errori, Deyan-shir; ma siamo mortali, non dèi. Dimentichiamo le amarezze e guardiamo soltanto al futuro: questo forte vino di montagna ci aiuterà a farlo. Bevi, e che ci sia la pace nei nostri cuori.

Deyan fissò il liquido profumato, poi raccolse la ciotola e la portò alle labbra, vuotandola fino all’ultima goccia con l’avidità di quando cercava l’oblio. Il sayanni fece altrettanto, ed emise un sospiro di soddisfazione. Riempì ancora le ciotole, e piombò di nuovo sul suo rustico cuscino di cuoio. 

“Tutto è come doveva essere sin dall’inizio,” disse. “E tutto sommato il mondo si prospetta più eccitante, ora che ognuno di noi è libero di scegliersi la propria strada.”

“Davvero sei soddisfatto?” Deyan lo guardò, con un sorriso triste. “Una volta Naysiak era una schiava e tu un grande predone... avere la tua amicizia era un onore per lei. Adesso lei ha un rango superiore al tuo...”

Ran ridacchiò. “L’ha sempre avuto, anche quando aveva quel collare. Quando l’hai costretta a chiedermi scusa per aver attaccato briga con me, era in ginocchio nella polvere... ma mi sorrideva, forse perché sapeva che un giorno sarebbe toccato a me essere al suo posto.” 

“Ti sei inginocchiato davanti a lei?”

“Ho provato a fare anche questo,” ammise lui, senza alcun imbarazzo. “Anche perché è l’unico modo in cui quella piccoletta può guardarmi dall’alto. Le ho chiesto di venire con me su Sayanna, a rubare quelle perle rosse. Le ho detto che avrei aspettato finché non si fosse sentita perfettamente guarita; ho usato tutta la mia eloquenza, le ho fatto le proposte più vantaggiose; lei mi ha ascoltato con squisita cortesia, è stata gentilissima con me, ma poi... mi ha guardato con quei suoi occhi furbi, e mi ha detto un rotondo no.”

Deyan chinò lo sguardo.

“Non sentirti in colpa,” gli disse Ran, indovinando il suo pensiero. “È giusto così. Lei è una Prima Guardia delle Divinità, e io sono un volgare bandito. Adesso, se voglio la sua stima, me la devo conquistare con fatica, da guerriero a guerriero.” Vuotò la sua tazza e sorrise.  “E sai una cosa, Deyan-shir? Mi sta benissimo così.”











Quando Deyan si decise a tornare a casa, scortato da un drappello di predoni, notò un una volta di più che qualcosa era cambiato nel modo in cui la gente lo guardava per la strada. Era l’essere sacro di un popolo che aveva salvato e liberato l’essere sacro dell’altro, in una catena di miracoli ed eventi eroici senza precedenti. Era una storia così incredibile da sembrare una leggenda: i trovatori si erano messi all’opera sfornando canzoni, e nelle bettole e nei bordelli non si parlava d’altro. 

Tutti si erano chiesti cosa avrebbe fatto la Xarani, ora che era una donna libera: sarebbe tornata su Sayanna, dove forse si erano scordati di lei avendola data per morta più di un millennio prima? Sarebbe andata a vivere con la Squadra Sacrilega, o sarebbe rimasta col suo precedente padrone, così come lui era rimasto con Ran? O avrebbe preferito una vita completamente indipendente, forte dei propri straordinari poteri? 

Lei aveva preso tempo, chiedendo di trascorrere la sua convalescenza nel Tempio delle Divinità Duali, sotto le cure affettuose di Pushpa. Era una scelta che rifletteva la sua profonda educazione religiosa, ma anche il bisogno di un momento di pace e tranquillità per meditare su se stessa e sul proprio futuro.

Deyan non si era opposto: dopo averla formalmente liberata, non l’aveva più cercata né contattata, ritirandosi nella sua casa in un dignitoso silenzio. Aveva passato le prime giornate chiuso nella sua shanda a recuperare le forze perdute, curato e vezzeggiato dalle sue schiave. Quando ne era uscito aveva ripreso le sue usuali attività, ma come un uomo che dovesse guarire da una ferita; e i suoi domestici indovinavano il motivo. 

Un nobile era educato ad essere ferocemente possessivo verso le proprie donne; e benché Naysiak non fosse propriamente una donna nel senso kelith del termine, era evidente che Deyan la considerava sua. Saal non poteva che ricordare la scena che aveva sorpreso nella sala da pranzo: il padrone con le braccia attorno alla barbara, nuda fino alla cintola... non ne aveva parlato con nessuno, fedele alla consegna ricevuta, ma era contento che quella turbolenta schiava fosse andata via prima di creare altro scandalo; anche se avrebbe preferito una lucrosa vendita a quella liberazione senza profitto. 

Forse per togliersi del tutto quel pensiero, Deyan aveva deciso di restituire a Naysiak le sue cose, anche se di diritto appartenevano a lui. Era stato un gesto generoso da parte sua, dopo che aveva già perso così tanto liberandola; ma tutto sommato chi altri a parte un principe avrebbe potuto essere così magnanimo? Aveva rispettato i sentimenti religiosi dei sayanni e non si era avvicinato al loro luogo sacro; aveva mandato il proprio maggiordomo a capo di una squadra di servi con tre scrigni, due dei quali contenevano gli inestimabili reperti con cui Naysiak era stata sepolta nel Feretro. Lei  quasi non aveva potuto credere a quell’insperato regalo: si era commossa fino alle lacrime a rimirare le vestigia del suo glorioso passato, e il mantello di piume che ora poteva indossare a piacimento. Se l’era messo sulle spalle e aveva danzato davanti alle statue delle Divinità, tra il rullare dei tamburi sacri e un tintinnare di campane d’argento mosse dal vento; e forse solo in quel momento aveva capito di essere davvero libera...

E Deyan, chiuso nella sua casa, aveva stretto tra le mani l’antico scettro di Shana, ricordando come l’aveva rubato al padre: aveva assaporato la sensazione di riavere qualcosa che gli spettava di diritto. Poi aveva compreso che era stata lei a evocare in lui quel gradito pensiero: in qualche modo i loro spiriti si erano toccati ancora, e quella sensazione era stata come un dolce addio. Aveva riposto lo scettro, così come i suoi ricordi agrodolci di quella incredibile creatura che aveva incrociato la sua vita, e aveva considerato conclusa la misteriosa missione che qualche dio del passato gli aveva dato. 

Tutto come doveva essere, aveva detto Ran... e così era.

Fu quindi con discreta sorpresa che, una volta arrivato alla propria casa, vide molta confusione davanti ad essa: dei sayanni armati di torce, e Saal che sbarrava loro l’ingresso con l’aria di non saper più cosa fare. Si avvicinò, e il maggiordomo si accorse di lui: si inchinò profondamente, con evidente sollievo. Anche i sayanni si voltarono, e la figura più piccola tra loro gli si parò davanti. 

“Seriema!...”

Era proprio lei, la sua ex schiava. 

“Naysiak,” mormorò lui, rimirandola con stupore.

Sembrava scoppiare di salute, e la sua comunità era stata generosa con la nuova veggente: portava ancora il suo antico costume di guerriera, ma interamente rifatto in fini pelli chiare e morbide, artisticamente cucite. Indossava pendagli d’avorio alle orecchie, una gorgiera di perline al posto del vecchio collare, bracciali di cuoio lavorato, la piuma di Ran ben legata a una delle trecce neroblu, e un mantello legato su una spalla con una fibbia a forma di occhio sacro, che lasciava scoperto il braccio destro dipinto di disegni gialli. Aveva l’aspetto di una regina barbara, ben diverso da quando indossava soltanto un paio di stracci. 

“Gioia vedere Seriema in salute,” disse, portando una mano sul cuore nel saluto tradizionale.

“La notte ti sorrida,” rispose lui, freddamente.

Per un lungo istante si fronteggiarono, quasi come due avversari. Deyan non si aspettava quell’incontro, e non gradiva che fosse pubblico... si rendeva conto dell’attenzione di tutti gli astanti, e di altri curiosi che si stavano avvicinando: era troppo appetitoso il confronto tra quei due personaggi di spicco di Luna di Fuoco, dopo la loro separazione.

“Contenta tu qui,” disse lei, evidentemente seccata. “Saal-ji non fa entrare. Io chiedo perché, ma Saal-ji non parla, fa solo gesto di andare via.”

Deyan notò che la sua padronanza della lingua era assai migliorata: doveva essere opera di Pushpa. Diede una rapida occhiata al proprio maggiordomo, ed emise un lieve sospiro.

“Sta solo seguendo le usanze kelith,” le spiegò. “Salvo alcune particolari eccezioni, noi non rivolgiamo la parola alle donne estranee.”

“Io estranea?” chiese lei, stupita. 

“Non appartieni più alla mia casa.” 

Lei lo guardò, smarrita. 

“Ma io guarita. Mio posto qui, per proteggere Seriema. 

Saal ebbe un’espressione di sgomento e scosse la testa, dicendo silenziosamente: no, no!

Deyan non badò a lui. “Credevo che il tuo posto fosse in un tempio, Naysiak. Sei una guerriera sacra.”

“Sì, e guerriera sacra fatto giuramento. Tu accettato. Tu Seriema.” 

“Io ti ho liberato dal Feretro e tu mi hai salvato la vita: siamo pari. La tua esistenza di schiava è terminata: non hai più alcun impegno verso di me.”

Lei scosse la testa, come se lui non capisse. 

“Memoria di kelith non buona? Io giurato proteggere fino a ultimo mio giorno sotto i due soli. Xarani non gioca con parole.”

Deyan la fissò, perplesso. Ricordò Pushpa, quando aveva cercato di opporsi alla schiavitù di lei. 

Liberala, per amore di tutto ciò che è giusto e santo! Non ti costa niente, lei è comunque tua, ti ha appena giurato fedeltà, il suo vincolo è molto più forte di qualsiasi legge o catena umana...

“Vuol dire che intendi servirmi... anche se non sono più il tuo padrone?”

“Tu sempre Seriema, ni?... Prego, chiedo permesso di entrare: io portato mie cose,” e indicò un paio di sacchi. “Non armatura e mantello: cose sacre,” e alzò il palmo della mano con un gesto solenne. “Lasciati in Tempio, per servizio a Divinità.” Sorrise. “Ma gente dato armi e cose belle, Seriema non bisogno comprare cose per Naysiak, io adesso guerriera ricca!”

Lui quasi non poteva crederci. Aveva immaginato che lei avrebbe fatto qualunque cosa pur di non rivedere il perverso diavolo bianco che tanto l’aveva umiliata. Le aveva dato la libertà, ma anche una collezione di cicatrici sulla schiena, e ragioni di amarezza a sufficienza per odiarlo. Forse, dopo che si erano conosciuti meglio, avrebbero potuto non essere più ostili l’uno all’altra come in passato; ma mai si sarebbe aspettato che lei sarebbe tornata da lui, come se nulla fosse accaduto... 

“Padrone,” interloquì Saal, “questo servo fa rispettosamente notare che quel che chiede questa femmina è inammissibile.”

Naysiak lo guardò, incredula. “Perché?”

Saal non si rivolse a lei, ma rispose alla sua domanda guardando ostentatamente il suo padrone. 

“Una donna entra nella casa di un uomo solo se è sua: in casi eccezionali può visitare altre donne, col permesso del padrone, ma mai da sola: deve essere accompagnata da un eunuco. Questa donna non ha un padrone che le dia il permesso, né un eunuco che la accompagni; e questo, secondo le consuetudini kelith, darebbe al padrone di casa il diritto di reclamarla come sua proprietà una volta che avesse varcato la soglia.”

Lei restò a bocca aperta. “Ma io mio padrone!”

Deyan sospirò. 

“Saal ha ragione, Naysiak. Nella nostra società non esistono donne che appartengano a se stesse. Le nostre leggi non contemplano nemmeno un caso come il tuo.”

“Perché io sayanni. Legge di kelith non vale per sayanni, ni?”

“No,” fece lui. “Ma vale per me: io sono kelith, e tu sei una donna.”

“Io guerriero, come Randanai. Tu dimentica Naysiak come donna!” 

Deyan la fissò. Sì, con quel costume addosso poteva sembrare un ragazzo, ad occhi kelith. E anche da nuda c’era qualcosa di sbagliato in lei, quasi asessuato nella sua durezza. Ma ogni tentativo di non vederla come donna si scontrava con il ricordo di lei sorridente in quel vestito rosa, la polvere dorata che luccicava sulla pelle oleata, e quella cascata selvaggia di riccioli sulle spalle.

Cosa mi è venuto in mente di fare, quella sera...

“Quel che mi chiedi è impossibile,” disse, lievemente imbarazzato. 

“Tutto per colpa di leggi kelith stupide!” soffiò lei.

“Tengono insieme la nostra società da più di tre millenni,” ribatté lui, piccato. “Ti ho dato la libertà di non seguirle, ma non pensare di poterle discutere.”

Saal approvò con un cenno deciso della testa: come si permetteva quella barbara di criticare i costumi della civiltà?

Una luce risoluta entrò negli occhi di Naysiak: fece cenno ai sayanni con lei di lasciare i suoi sacchi lì accanto. 

“Se io non potere entrare, allora io protegge Seriema da fuori.” Con la punta del piede tracciò una croce a terra. “Questa, mia nuova casa! Io non muove da qui.”

E incrociò le braccia sul petto, come per significare che faceva sul serio. 

Deyan non ne aveva alcun dubbio: aveva già avuto prove a sufficienza della sua testardaggine. Si sarebbe davvero accampata come una mendicante lì, fuori dalla sua porta, al freddo della notte e al calore dei due soli di giorno, alla mercé delle tempeste di polvere, senza acqua o cibo al di là di quel che le avrebbero portato, in attesa che lui uscisse per seguirlo... non era certo la pazienza che le mancava, dopo aver trascorso più di un millennio in un feretro di pietra!

E ne sarebbero sortiti un mare di guai: con la comunità sayanni, con Ran... con la propria coscienza.

Sospirò, esasperato. “Mi stai mettendo in una posizione impossibile.”

“Io!” ribatté lei, pestando un piede a terra. “E tu?! Vuole sayanni andar via con disonore di giuramento rotto!”

“Non ti ho chiesto niente. Torna al tuo tempio... o trovati un’altra casa.”

“Questa, mia casa!” tuonò lei, indicando il portone.

“È una casa kelith. Se ci entri, ridiventi mia schiava.”

Lei si irrigidì, per un lungo istante. 

Poi chinò la testa, e mormorò: “Se questo prezzo per fare dovere, io pago.”

Che cosa?!

“Non starai parlando sul serio,” disse Deyan, incredulo. “Ti ho appena liberata!”

“Ya,” rispose lei, e il petto le si gonfiò in un sospiro. “Momento bello di tutta vita... tu sa bene cosa sente spirito che perde libertà, e poi uomo buono dare ancora.” 

Lui lottò per rimanere impassibile. Sì, lo so.

“Ma libertà inutile senza onore,” concluse lei in tono deciso. “Io Xarani, e onore prima di tutto.”

Guardò il portone. Gli occhi le luccicarono, ma si fece forza e avanzò verso di esso, in un silenzio carico di tensione. Sarebbe entrata, davanti a tutti quei testimoni, e Deyan avrebbe riavuto la sua schiava barbara...

Ci sono schiavi così nobili da disonorare i loro padroni.

“Fermati,” le disse. E vedendo che non lo faceva, soggiunse: ”Sono il tuo Seriema o no?... Ti ordino di fermarti!”

Lei si arrestò, a un passo dalla soglia. E si girò a guardarlo, con occhi disperati.

“Sei una femmina ostinata,” mormorò Deyan.

Un’occhiata di triste orgoglio. “Solo femmina ostinata vive dopo molto, molto tempo chiusa in pietra.”

Era vero, era sopravvissuta al supplizio più atroce che si potesse immaginare, aveva resistito al dolore, alla follia, aveva mantenuto una mente straordinariamente equilibrata nonostante tutto, aveva saputo superare tutte le sue disgrazie in virtù di una forza interiore che non aveva paragoni...

E io ho pensato di domare uno spirito così?

Deyan fece un pallido sorriso di resa.

“E sia,” sospirò, sapendo che in verità non aveva scelta. Si voltò verso Saal. “Siamo su Luna di Fuoco, non a Shana, e dobbiamo adattare le nostre tradizioni. In via del tutto eccezionale, questa donna ha il permesso di varcare la mia soglia. Potrebbe diventare mia, ma io non eserciterò il mio diritto su di lei. Pertanto resterà libera.”

Un mormorio salì dai presenti, a quella decisione senza precedenti.

“Libera?!” protestò Saal. 

“Tale è la mia volontà.”

“Ma è inaudito! Non esistono donne libere, solo uomini! La legge...”

Deyan gli lanciò un’occhiata di fuoco. “Tra le mura di casa mia io sono la legge!” 

Il maggiordomo impallidì e si piegò sotto quella sferzata.

“Perdono... nobile signore,” balbettò, spaventato dal passo falso che aveva fatto. “Naturalmente nessuno discute i sacri diritti domestici del padrone.” Cercò di ritrovare un contegno: “La... ehm, signora... andrà accolta come... Mastro Ran?” 

“Equiparala a un vassallo al mio servizio.”

“Vassallo?! Ma è una barb... è femmina!”

Un’alzata di sopracciglio. “Quindi avrà accesso anche alla shanda. Informa Ibal.” 

Saal si inchinò. “Sì, padrone,” alitò, sconvolto. 

Deyan si voltò di nuovo a guardare Naysiak, che lo fissava con occhi commossi. 

“Per venire incontro al tuo onore di sayanni, ho sacrificato parte del mio di kelith. Fa’ che ne valga la pena.”  

“Ya, Seriema!”

Lui finalmente si sciolse dalla sua impassibilità principesca, e sorrise.

“Bentornata a casa,” le disse, e scoprì di essere sincero.

Naysiak lanciò un grido di trionfo, che risuonò come il canto di un uccello. Poi raccolse i suoi sacchi, e senza aspettare altro si precipitò dentro, salutando i servi sbalorditi: Deyan poté sentire la sua allegra e rumorosa progressione da una stanza all’altra, finché non udì le proteste di Ibal, e l’acuto strillo di gioia della schiava Tre.  


















Era arrivata Akkai, la fine del Ciclo dei Soli. 

Era la ricorrenza più sacra di Kelitha, l’alba eliaca della stella Bianca, che marcava la fine del percorso apparente dei due soli tra le costellazioni: dopodiché sarebbe iniziato un nuovo ciclo. La tradizione prescriveva dieci giorni di festeggiamenti per tutti, tranne gli schiavi. E tutte le capitali dei principati kelith gareggiavano in splendore.

Gamosh aveva raccolto con piacere quella sfida. Poiché era tradizione che per quei giorni la classe dominante si mostrasse in mistica unione col proprio popolo, aveva assoldato il più grande architetto di Shana per costruirgli una piattaforma nella piazza, collegata direttamente al palazzo, da cui lui e la sua corte avrebbero potuto assistere ai festeggiamenti. Era un monumento di legni rari, ricchi baldacchini e tappeti di seta così splendenti da accecare sotto la luce del sole. Tutta la piazza era stata rimessa a nuovo, tutte le case intorno ridipinte, un intero quartiere era stato raso al suolo e ricostruito con vie larghe e caserme spaziose: armigeri erano dappertutto a controllare l’ordine pubblico, e nella stessa piazza era stato eretto un patibolo per il consueto spettacolo di sangue. Ladri e malfattori erano avvisati. 

Il principe si recava alla sua piattaforma nel tardo pomeriggio, trasportato dai più nobili dei suoi cortigiani su una lussuosa portantina. La vestizione era noiosa, ma ogni dettaglio del suo elaborato costume principesco era fatto per impressionare la folla: il suo corpo massiccio era avvolto in stoffe sontuose e il suo diadema svettava imponente. Il popolo taceva al suo apparire, e tutti si inginocchiavano come davanti a un dio vendicatore. Per un lungo momento Gamosh assaporava il piacere di vedere quella distesa di schiene piegate, godendosi il silenzio pieno di timore. 

Poi un funzionario anziano levava la sua voce esercitata, lievemente tremula e cantilenante.

“Sia lode eterna al principe Shana Iban-Unari Gamosh-shir, Unico Sovrano, Stella Polare, discendente da principi, di stirpe purissima, signore assoluto e padrone di Shana, Padre del suo popolo, grande condottiero ispirato dagli dèi, amato dagli antenati, temuto dai nemici, generosa mano divina sul nostro capo. Lunga vita al principe Gamosh-shir!”

“Lunga vita al principe Gamosh-shir!” ripeteva la folla, più volte.

A quel punto il principe agitava il suo scettro: non aveva l’antichità di quello rubato da Deyan, ma era ornato da diamanti di incomparabile splendore, e catturava la luce dei due soli al tramonto mandando riflessi multicolori. L’immensa campana del palazzo suonava, e la folla si rialzava, plaudente, mentre i festeggiamenti riprendevano: processioni, danze, lotte gladiatorie, sacrifici solenni, spettacoli di ogni genere. 

Anche quella sera il popolo di Shana ebbe la sua visione di magnificenza, levando lo sguardo su quella piattaforma che tante tasse era costata. Solo durante Akkai era tollerato che uomini comuni potessero fissare in volto gli albini, mentre in tutti gli altri giorni un’occhiata troppo lunga o troppo interessata sarebbe stata pagata con l’accecamento. I nobili erano a tutti gli effetti parte dello spettacolo: esseri speciali, inquietanti nel loro candore accuratamente ostentato, elegantissimi e adornati come figure sacre, floridi e rosei; nascondevano sotto le ricche stoffe corpi fragili come vetro, curati da stuoli di medici specializzati, e non molti di loro riuscivano ad arrivare all’età avanzata. Ma erano splendidi per come si muovevano, come parlavano, e persino per come mangiavano. Ogni loro atto era solenne e misurato, e le loro espressioni erano di sublime distacco: erano la Razza Sovrana, nata per governare. 

Gamosh si degnò di guardare lo spettacolo nella piazza: la gilda dei mercanti di schiavi aveva organizzato una gara di giocoleria, esponendo pezzi pregiati della propria merce. La gente era pronta a lanciare manate di fango sugli sconfitti: una volta avrebbe lanciato frutta marcia, ma anche quella era diventata troppo cara per sprecarla in quel modo. Il principe ne era contento: non avrebbe gradito ulteriori cattivi odori nell’aria. Nonostante gli incensieri che lo circondavano, gli arrivava ugualmente la puzza di tutta quella umanità: era sgradevole per un naso abituato alla vita di palazzo. Ma era anche eccitante, come quei certi odori che aveva colto durante le torture, e che erano così offensivi da risvegliare i suoi sensi... 

E quel pensiero lo rese consapevole della sua Prima tra le Prime.

Era stata portata dagli eunuchi su una graziosa portantina, e fatta accomodare sotto un lussuoso baldacchino sul gradino più basso, alla sua destra. Dalla veste luccicante spuntava solo una piccola testa graziosa, con la bocca vermiglia sotto la maschera tradizionale, sovrastata da un’acconciatura monumentale dei bianchi capelli. Sedeva eretta sul suo seggio, velata dalle tende che l’avevano chiusa in una scatola semitrasparente per proteggere la sua pelle delicata. 

Molti erano gli sguardi che osavano posarsi su di lei, e Gamosh provò piacere a sapere che nessuno avrebbe potuto conoscere davvero la sua bellezza. Era solo per lui, ed era perfetta. Si succhiò il labbro inferiore, chiedendosi perché allora dentro di sé provasse il desiderio di vederla brutalmente posseduta da uomini brutti e sporchi. E si sarebbe orchestrato quel piacere, se non fosse stato troppo pericoloso anche per un principe regnante... Tasia ormai era ufficialmente la sua Prima tra le Prime, non più una schiava qualsiasi; la rigida etichetta kelith la proteggeva. La propria moglie favorita doveva essere sacra e intoccabile: quando non lo era nulla poteva rimediare al disonore. Come Estsen ben sapeva. 

C’è un piacere nascosto anche nel desiderio insoddisfatto. 

Spostò lo sguardo sull’ambasciatore di Itka: non fingeva neanche di divertirsi. Sorseggiava vino ghiacciato da una coppa di cristallo, parlando con il figlio maggiore, e lanciava occhiate di disgusto al baldacchino della Prima tra le Prime, e di disprezzo per tutto il resto. Il figlio annuiva: era un elegante giovane dai lunghissimi capelli e dal viso paffuto, le mani soffici come bianchi cuscinetti e un adorabile doppio mento. Ricordava molto la languida figura di Bakar, i cui ritratti adornavano molte principesche magioni anche fuori da Shana: la sua statua commemorativa aveva sempre fiori freschi ad adornarla. 

Ho fatto la fortuna di Bakar, uccidendolo. Ho salvato la sua bellezza per sempre. 

La folla emise un oh! di stupore a vedere le evoluzioni di uno schiavo Abayanì che sembrava privo di ossa: si contorceva all’indietro fino a posare le mani a terra, e poi ancora di più, mettendo la testa tra le gambe. Gamosh sorrise con approvazione: nelle sue stanze del dolore ultimamente mancavano idee per nuovi supplizi, e quel contorsionista gliene aveva date di interessanti. Si degnò di lanciargli una moneta d’oro, e il padrone accorse a raccoglierla, baciandola e inchinandosi.

“Sei generoso, mio signore,” disse il suo ciambellano. 

“Quel ragazzo ha più spina dorsale di parecchi dei miei nobili.”

Un istante di silenzio, e poi, obbedienti, i cortigiani emisero un’educata risatina. 

“Tacete,” ordinò seccamente Gamosh, e loro lo fecero, come uccelli spaventati. “Voglio parlare con l’ambasciatore di Itka.” 

Il nobile si affrettò a riportare l’invito, e il gentiluomo fece cenno al figlio di rimanere al suo posto. Poi si avvicinò al seggio principesco, in un’ostentazione di buone maniere. 

“Mi inchino di fronte alla tua magnificenza, nobile principe,” disse, in tono annoiato. “Magnifica festa.”

“Certamente aspiravi a trascorrerla nel tuo ben più confortevole paese.”

“Sono a Shana da molti cicli dei soli ormai: è quasi una seconda patria per me.”

Un sorriso. “Bada, nobile Chabei: gli ambasciatori non devono mai affezionarsi troppo al paese che li ospita.”

“È vero,” annuì il diplomatico, con un’altera alzata di sopracciglia che sembrava smentire quel pericolo. “Ma ormai qui tante cose mi ricordano Itka...”

E lanciò un’occhiata allusiva al baldacchino della Prima tra le Prime. 

Come osa, quest’insetto vestito di seta?!

Gamosh stava per ordinare alle guardie di gettarlo di sotto, e al diavolo le conseguenze...  

“Il mio signore mi concede graziosamente il permesso di salutare il suo distinto ospite?”

La dolce voce di Tasia lo colse di sorpresa. Non si aspettava quell’ardire da parte di una donna, ma quella era una Prima tra le Prime, e anche già esperta nel ruolo e perfettamente a suo agio anche fuori dalla shanda.

Notò il rossore sul volto rigido dell’ambasciatore. Trovava offensivo che l’ex prima moglie del suo principe gli rivolgesse la parola? Era un buon motivo per consentire a quel dialogo. 

“Non solo hai il mio permesso, signora. Ti invito a farlo.”

Tasia fece un gesto verso gli eunuchi. Costoro aprirono le cortine di velo in modo che lei potesse guardare direttamente l’uomo che le stava di fronte. 

“La tua presenza ci onora, nobile Itka iban-Lanni Chabei-shir.”

L’ambasciatore chinò lo sguardo, incerto sul da farsi; poi si rese conto che stava umiliandosi davanti a una donna che non avrebbe dovuto nemmeno vivere... e la fissò con lo stesso sdegno che avrebbe avuto Estsen, di cui era il fratello cadetto.

“Anche per me è un onore rivedere una signora così famosa.” 

La scelta del verbo era pericolosa, ma Tasia non la raccolse e chinò il capo, facendo tintinnare gli ornamenti sulla sua regale acconciatura.

“Non sono che l’umile recipiente della gloria di altri.” 

“E in te la gloria di Shana risplende... con duplice forza.”

Tutti sentirono perfettamente il veleno dietro a quell’apparente complimento. Poteva riferirsi all’altro principe di Shana che l’aveva avuta, prima di diventare la sposa di Gamosh?

Lei parò anche quel colpo, sorridendo soave. “Dici il giusto, nobile signore. Il mio principe è come i due soli nel cielo.” Voltò la testa verso il tramonto. “Meravigliosi... e mortali per chi osa sfidare la loro luce.”

Chabei era sin troppo pratico del gioco, per non accorgersi della minaccia sottintesa in quelle poetiche parole; ma decise di inoltrarne un’altra a sua volta. 

“È vero, mia signora. I due soli sono mortali, come ha scoperto disgraziatamente una parente del principe Estsen-shir, il quale ha giurato che mai più accadranno simili incidenti.”

“Un giusto proposito,” fece lei in tono neutro. 

Fece un gesto ai suoi eunuchi, e di nuovo la cortina di velo calò davanti a lei, significando che il colloquio era finito. 

“È triste perdere un parente,” sospirò Gamosh, e schioccò le dita per richiedere la sua pipa da spezia. “Anche se è una trascurabile femmina. Del resto è un dolore che noi di Shana conosciamo già molto bene.”

Chabei abbassò il tono di voce. “Il mio principe non vorrebbe che altri lo provassero: la violenza diffonderebbe questa conoscenza tra molta più gente di quanto non sia necessario...”

“Violenza?” chiese Gamosh, alzando le sopracciglia.

“Il mio principe vorrebbe sapere perché tante truppe si stanno ammassando al confine.”

Un sorrisetto ironico. “Vuol saperlo da me? Non bastano le sue spie?”

“Non abbiamo spie,” protestò Chabei. 

“Allora i miei soldati sono stati troppo zelanti, con quei tuoi connazionali che hanno deviato dalla Grande Strada per seguirli?”

L’ambasciatore si oscurò. “Erano solo semplici mercanti, e i soldati li hanno gettati vivi in un nido di insetti mangiatori di carne! Adesso i loro compagni hanno paura a varcare il confine, e i nostri commerci ne stanno risentendo...”

“Risentono di più per il dazio che avete messo sulle merci di Shana.” Gamosh guardò la sua pipa cesellata. “Una stupida ripicca, che danneggia più voi che noi. Suggerisco al mio nobile vicino di trovarsi ministri delle finanze un po’ più abili, e di mandare quelli che ha a girare le macine.”

Un’occhiata altera. “Un nobile non gira le macine, mio signore... non almeno al mio paese.”

La musica risuonava allegra, e alcuni acrobati si arrampicavano su una struttura di pali che era stata eretta nella piazza: ma il principe aveva occhi solo per il nobile di fronte a sé.

Ora basta, stupido pavone.

“Parli con tanta leggerezza del sacrificio che ha fatto Unari-shir in omaggio al tuo principe... ma forse sono emozioni che non si possono descrivere, solo provare.” Il suo sguardo si fissò con intenzione sul giovane dai lunghi capelli, che si faceva ammirare dal popolo. “È con l’esempio che devo insegnarti ad aver rispetto della memoria di mio padre?”

Chabei impallidì vistosamente. “Nobile principe...” 

Gamosh fece un gesto, chiamando il capitano dei pretoriani. “Arrestate il figlio dell’ambasciatore. Procedete con discrezione, non disturbate la festa. Conducete quel ragazzo a palazzo in un quartiere degno della sua nobiltà, e confinatelo lì. Nessuna comunicazione con l’esterno.”

Chabei era rimasto assolutamente sconvolto. 

“Non potete toccarlo!” esclamò, impietrito. 

“Voi di Itka avete toccato l’erede al trono di Shana,” sibilò Gamosh. “E l’avete trattato molto peggio di quanto io farò con tuo figlio. Non darmi lezioni su quel che posso e non posso fare nel mio paese, Chabei-shir. Io non sono mio padre!”

L’ambasciatore diede un’occhiata alle guardie scintillanti, che senza clamore stavano accompagnando il giovane verso la scalinata della piattaforma. Strinse i pugni per trattenere il proprio sdegno.

“Se gli accadrà qualcosa di male, sarà la guerra...”

“È ancora da vedere quale dei nostri due principati avrebbe più da perdere, in uno scontro armato.”

Chabei lottò per non perdere il controllo, e tentò un tono conciliante. 

“Tutto ciò è frutto di un equivoco, nobile principe. Itka... non ha mai misconosciuto il grande gesto di riconciliazione fatto da Unari-shir.”

“Non lo meritavate,” ribattè Gamosh, seccamente. “Dovevate rendere grazie a Shana per il suo eroismo, invece avete continuato a comportarvi in maniera ostile, come se il mio principato dovesse sentirsi in perenne debito con voi. Ma quel debito è stato pagato, e più volte, e la vostra arroganza sta portando la mia pazienza al limite.”

“Se il nobile Gamosh-shir ha delle questioni con il mio principe, esistono delle procedure da seguire. L’arbitrato dell’Augusto Consorzio...”

Per il quale io sarei indegno del trono.

“Per quale vicenda dovrei richiedere un arbitrato? Voi di Itka avete libertà di fare ciò che vi aggrada nel vostro paese; anche uccidere le mie sorelle, se mio padre è stato tanto folle da cedervele con regolare contratto. Non ho levato alcuna protesta, perché la legge è legge. Ma  la stessa cosa vale per voi: sono un principe regnante e legittimo, e non accetto le vostre ingerenze nei miei affari, specie quelli privati. Dillo pure al tuo signore, quando lo vedrai. E cerca di convincerlo a ingoiare il suo dannato orgoglio!”

La faccia di Chabei era quasi verdognola. “Nobile principe... e mio figlio?”

“Resterà gradito ospite nel mio palazzo,” sorrise ferocemente Gamosh. “E tu non ti opporrai né ti sognerai di protestare con l’Augusto Consorzio per questo, altrimenti lo tratterò come è stato trattato il precedente erede di Shana... e tu sai cosa gli è stato fatto, perché hai voluto assistere a tutte le fasi del supplizio!”

Chabei sbarrò gli occhi. “Mio figlio però non... ha commesso sacrilegio!”

“Lui no, ma suo padre potrebbe.” Gamosh si chinò verso di lui. “Se continuasse a complottare contro di me. Se continuasse a essere insolente con me. Però, finché si comporterà con i dovuti modi, suo figlio sarà trattato con tutti gli onori, e sicuramente imparerà ad apprezzare la lussuosa vita di Shana: forse in futuro potrà anche sostituirlo come ambasciatore presso di noi.”

Quando sarà diventato una mia creatura.

Chabei si inchinò, e la voce gli tremò. "Ti prego, nobile principe, mi sia permesso almeno di salutarlo...”

“No. Partirai per Itka stanotte stessa. E adesso ritirati: devi prepararti al tuo viaggio.”

Lo congedò con un gesto della mano e si rilassò tra i cuscini, guardando la piazza con soddisfazione. 

Avrei dovuto farlo prima: e al diavolo la diplomazia! Tanto non avrò mai la stima degli altri principi. Mi considereranno sempre un intruso. 

Ormai i soli erano tramontati, accendendo di fantasmagorici colori l’orizzonte, e tingendo di magnifiche tonalità pastello i tetti delle molte case di Shana. Uno stormo di uccelli bianchi si mosse stridendo verso il canale meridionale, danzando nel cielo. 

Anche se sono nato cadetto, sono il padrone di tutto questo: non ho motivo di esser soddisfatto di me?

Guardò nella piazza, dove molte torce colorate erano state accese. Aveva voglia di distrarsi, dopo quel colloquio: raccolse una manciata di monete e le gettò agli schiavi che si esibivano. Tutti si precipitarono a raccoglierle, tranne uno: un giovane dall’aspetto esotico, che continuò imperterrito il suo numero, volteggiando tra la struttura di pali come se la gravità per lui non esistesse. 

Gamosh si soffermò a guardarlo, incuriosito da quell’apparente mancanza di avidità. 

Era chiaramente uno straniero: bianco di pelle e col volto velato da una barba bionda, portava una particolare fascia di stoffa colorata di traverso su una spalla e poi legata in vita, e un paio di calzoni in pelle aderenti in maniera quasi invereconda. I suoi muscoli guizzavano come creature vive mentre si fermava in una perfetta verticale, in equilibrio su una stanga, e poi si slanciava in un salto mortale ricadendo su un’altra stanga. 

Niente male.

La folla lo applaudì con ammirazione. Uno degli altri acrobati, un Kayumi dalla pelle scura, balzò a sfidarlo e si arrampicò sulla struttura per tirarlo giù: cercò di afferrarlo per il collare, ma il giovane barbuto si torse con un avvitamento e gli tirò una ginocchiata sul mento, facendogli mollare la presa. Il Kayumi cadde rovinosamente a terra, e la gente scoppiò in una gran risata. Il vincitore si appollaiò trionfalmente sulla stanga, raccogliendo gli applausi; poi si lasciò cadere a terra con un salto acrobatico.

Gamosh approvò con un sorriso, e fece un cenno al capitano delle sue guardie. L’uomo gettò ai piedi del giovane un sacchettino tintinnante, la ricompensa per quell’esibizione.

Ma lo schiavo non fece alcun movimento per raccoglierla: la ignorò e rimase fermo, a testa alta, con un atteggiamento tutt'altro che dimesso. La gente ammutolì intorno a lui. 

E Gamosh rabbrividì.

Perché ho l’impressione di aver già visto questo straniero?

Un uomo nel ricco costume di un mercante di Niisa si precipitò in avanti e si inchinò profondamente verso la piattaforma, raccogliendo il sacchetto e baciandolo più volte.

“Inchinati!” soffiò allo schiavo. “Il principe ti guarda!...” Si girò intorno, con aria di scusa. “Perdonatelo, miei signori: è cieco...”

La gente mormorò dallo stupore, mentre lo schiavo si inchinava con grazia, levando poi quei suoi occhi neri, fissi nel vuoto.

“Un acrobata cieco?” borbottò Gamosh. “Questa sì che è una rarità.”

“Bel ragazzo,” cinguettò un nobile effeminato. “Mi manca proprio, uno schiavo del nord...”

“Con quei capelli biondi, non può venire che da Oranda,” disse il ciambellano.

“No,” lo corresse uno dei margravi più anziani. “È uno Chandì: ne porta il costume. E non vi consiglio di comprarlo: le vedete, quelle cicatrici da fuoco sulle sue palpebre?”

“Che significano?”

“Che è stato accecato con un ferro rovente davanti agli occhi, prima di essere marchiato in viso come schiavo. È il trattamento che a Chanda si usa con i pirati.”

“Oh,” fece il nobile, con una smorfia delusa. 

“Un pirata,” sogghignò Gamosh, e si alzò dal suo trono. 

Immediatamente tutti i presenti tacquero e si inchinarono, mentre il principe saliva sulla sua monumentale portantina per andare a godersi il meritato riposo a palazzo. 

Non appena i portatori si mossero, gli eunuchi scostarono i veli del baldacchino di Tasia e tesero le loro mani per aiutarla a rialzarsi; ma lei disdegnò ogni contatto servile e si eresse da sola, con un movimento pieno di grazia. Prima di salire a sua volta sulla propria portantina, rivolse da dietro la maschera un’ultima occhiata alla piazza. 

Nessuno naturalmente osò alzare lo sguardo verso di lei: gli unici occhi che incontrò furono quelli dello schiavo cieco.

E quegli occhi sembrarono fissarla fin nell’anima.

  
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