CAPITOLO
UNDICI – RADICI
ALIENE
“Una
lacrima sospesa
che non voleva scendere,
un sorriso a denti stretti, questo prima di te,
prima di te…”
(Prima di
te, E.
Ramazzotti)
“Credevo…
credevo di averne viste tante, di cose
sconvolgenti, ma questa… questa le supera tutte”
esordì Owen, appoggiandosi con
le braccia al tavolo davanti a lui. Era sconvolto, parecchio sconvolto,
e
pallido. Erano tutti pallidi e sconvolti e Tosh aveva ancora il viso
bagnato di
lacrime.
Jack
circondò Ianto per i fianchi con un braccio e
lo accompagnò al divano facendolo sedere e accomodandosi poi
accanto a lui. Il
più giovane appoggiò la testa sul petto
dell’altro, mentre il Capitano prendeva
ad accarezzargli i capelli sulla fronte nel tentativo di farlo calmare.
“Tranquillo,
sta’ tranquillo. È tutto ok adesso” gli
sussurrò, poggiandogli un bacio tra i capelli.
Tutta
la base sprofondò nel più totale silenzio,
nessuno osava fiatare. Solo il ronzio dei computer e degli altri
macchinari
rompeva quella tranquillità.
Finalmente,
dopo qualche minuto, Ianto sembrò
essersi calmato, aveva smesso di piangere e singhiozzare e anche gli
altri
avevano recuperato un po’ di colore.
Gwen
raggiunse i due fidanzati e si sedette accanto
a loro. Poco dopo si avvicinarono anche Owen e Tosh. Volevano dire
qualcosa a
Ianto, rassicurarlo, confortarlo, ma non trovavano parole. Che cosa si
poteva
dire in quei casi? Mi dispiace? Ti
capisco? Sì, certo, come no. A quanti era capitato
di venire violentati dal
proprio padre?
“Mi…
mi dispiace, ragazzi” proferì Ianto,
improvvisamente, senza guardare nessuno, rimanendo sempre abbracciato a
Jack.
“Non volevo… non volevo che assisteste a quella
scena”.
“Oh
no!” esclamò Tosh. “Non è
certo colpa tua…” fece
per dire qualcos’altro, ma alla fine rimase a boccheggiare
come un pesce fuor
d’acqua. Aveva paura di dire qualcosa di troppo o di
sbagliato.
“Ianto?”
lo chiamò Gwen dolcemente, prendendogli una
mano. “Che cos’hai fatto dopo? Lo hai detto a
qualcuno? Lo hai denunciato?”
sapeva che con quelle domande avrebbe potuto risvegliare altri ricordi
brutti
nella mente dell’amico, eppure aveva bisogno di sapere,
doveva sapere come si
erano risolte le cose infine, come aveva fatto il ragazzo a superare
tutto
quello. E anche gli altri volevano saperlo.
Ianto
scosse il capo lentamente. “No, non l’ho detto
a nessuno” sussurrò. “Non l’ho
denunciato, non ne avevo il coraggio. E poi…
anche se l’avessi fatto, lui avrebbe… avrebbe
negato tutto e nessuno mi avrebbe
creduto. Non godevo di buona fama e avrebbero pensato che mi fossi
inventato
tutto”.
Gli
altri si guardarono tra di loro con espressioni
sconvolte.
“E
allora che cos’hai fatto?” insisté Owen,
riportando lo sguardo sull’amico.
Ianto
deglutì prima di ricominciare a raccontare. Si
vedeva benissimo che tentava di non piangere. “Sono andato
via di casa. Dopo
quella sera mi sono alzato all’alba, ho preso la valigia e
sono uscito senza
dire niente a mio padre. Bobby, il ragazzo con la bandana che avete
visto,
aveva una specie di rifugio in una casa abbandonata. Lui viveva
lì, dopo che i
suoi l’hanno cacciato e ogni tanto ci ritrovavamo insieme ad
altri, anche più
grandi. Sono stato lì per alcuni mesi”. Fece una
pausa, come per cercare di
ricordare quella vita che sembrava appartenere a una persona totalmente
diversa
e non a quel ragazzo pacato che conoscevano tutti. “Stavo
male, tutte le notti
avevo degli incubi… tremendi. Però non volevo
parlarne con nessuno, neanche con
Ray che era il mio migliore amico… mi vergognavo troppo.
C’era
la droga, però… c’era solo
quella. Mi ha aiutato, nell’unico modo in cui la droga poteva
aiutarmi:
confondendomi il cervello e i ricordi. Quasi tutte le sere qualcuno
veniva con
della roba nascosta nei pantaloni. Coca, marijuana, hashish,
eroina… e alla
fine ero talmente fatto che non mi ricordavo neanche il mio nome.
Solo che
poi me ne pentivo perché
sapevo che mi stavo facendo male. Allora cercavo di vomitarla. Poi
però stavo
di nuovo male e ne prendevo ancora. Era un tunnel senza via
d’uscita, non
riuscivo più a controllarlo.
Una sera
ci eravamo fatti tutti
quanti, alla grande… io mi ero addormentato tra le braccia
di Ray, non ricordo
perché, e la mattina dopo l’ho ritrovato accanto a
me freddo e morto. Era andato
in overdose, credo.
Betsy
era rimasta sconvolta, lei era
sempre stata innamorata di Ray, e si era spaventata. Aveva paura che
succedesse
anche a lei. Così aveva deciso di smettere e aveva convinto
anche me. Io
all’inizio non volevo… desideravo solo morire,
come Ray. Almeno quella situazione sarebbe finita. Però lei
era stata
testarda”.
Jack
alzò lo sguardo verso il soffitto ringraziando
mentalmente Betsy.
Ianto
continuò, nessuno osava interromperlo. “Era
stato difficile, molto difficile. Stavamo per ricascarci, arrenderci.
Però,
alla fine, ci siamo riusciti. Abbiamo mollato la droga, le rapine nei
negozi e
anche la compagnia di Bobby. Volevamo rifarci una nuova vita.
Così,
quando eravamo abbastanza
puliti, lei decise di andarsene da Londra, non le piaceva
più stare lì, e io mi
trovai un lavoretto per poter vivere decentemente per conto mio.
Però
avevo ancora il ricordo di quello
che mi aveva fatto mio padre e gli incubi mi tormentavano”.
“Come
hai fatto a superarlo?” gli chiese Gwen.
“Lisa”
rispose Ianto. “L’ho conosciuta un giorno,
per caso. Le raccontai tutto, tutto quanto. Mi ha aiutato lei, mi ha
regalato i
momenti più belli della mia vita. Così sono
riuscito a non pensarci più. E mi
ha fatto entrare a Torchwood”.
Gwen,
Owen e Tosh lo guardarono dispiaciuti. Jack lo
strinse più forte a sé.
“E
tuo padre? Hai saputo più niente di lui?” chiese
Tosh.
Ianto
scosse il capo. “Non l’ho più cercato e
nemmeno lui l’ha fatto. Un paio di anni fa è
morto, solo come un cane”,
l’ultima frase la disse in tono duro, pieno di odio e
disprezzo, un tono che i
suoi compagni non l’avevano mai sentito usare.
“Posso
chiederti quanti anni avevi quando… sì,
quando è successo?”
“Diciassette”.
Gli
altri spalancarono gli occhi.
Sei anni… erano passati solo sei anni da tutta quella
vicenda.
Ad
un tratto Ianto si staccò dall’abbraccio di Jack
e, senza guardare nessuno, bofonchiò un: “Scusate,
devo andare in bagno” e si
alzò allontanandosi velocemente, forse per non dover
rispondere ad altre
domande, forse per non vedere più le facce sconvolte e piene
di pena dei suoi
amici o per non dover più sentire il cuore di Jack battere
fortissimo nel petto
e tutto il suo corpo che tremava di rabbia, dolore o chissà
cosa.
“Ragazzi!”
esclamò Owen ad un tratto, alzandosi.
“Non so come abbia fatto Ianto, ma io probabilmente mi sarei
già ucciso. Cazzo!
Non ha nemmeno usato il preservativo e Dio solo sa come abbia fatto a
non
prendersi l’HIV con tutti quegli aghi”.
“Io
credo che non mi sarei nemmeno rialzata da quel
pavimento”, aggiunse Tosh.
Anche
Gwen si alzò, dando le spalle agli amici. “Non
credevo… non credevo che gli potesse essere capitata una
cosa del genere. Non
credevo che a qualcuno che conosco possa essere successo qualcosa del
genere”.
Owen
le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla.
La ragazza gliela accarezzò voltando il capo nella sua
direzione.
“Jack!”
esclamò Toshiko. “Tu… tu che cosa ne
pensi?”
Il
capitano inarcò le sopracciglia.
“Tu
lo sapevi?” aggiunse Gwen, aspettandosi una risposta
affermativa.
L’interpellato
esitò un attimo prima di rispondere,
fissando gli amici come se non li vedesse. Poi scosse il capo in un
cenno di
diniego.
“No.
Non me lo ha mai raccontato”.
Nessuno
però, dalla sua espressione, riusciva a
capire che cosa provasse.
Ianto,
nascosto dietro una porta, li guardava e li
ascoltava. Non pensava che nella sua vita gli sarebbe capitato di
rivivere
quell’episodio che ormai aveva accantonato in un angolo
remoto dei suoi ricordi
e tantomeno si sarebbe potuto immaginare che anche i suoi amici,
nonché i suoi
colleghi di lavoro potessero venire a scoprirlo, persino vederlo. E la
cosa non
gli piaceva per niente. Non tanto per il fatto che ciò li
aveva lasciati
sconvolti, ma più perché ora sapeva che le cose
sarebbero cambiate, ora lo
avrebbero guardato con occhi diversi, forse trattato in modo diverso.
Era come
un terribile segreto che ora era venuto fuori, di fronte agli occhi di
tutti. E
faceva male pure a lui, di nuovo quel dolore, quella sofferenza che
pensava di aver
spento erano ritornati in lui, forti. Persino quella corazza di
distaccata
gentilezza e serenità sentiva che stava per cedere.
Che cosa sarebbe successo poi? Quanto ciò lo avrebbe
danneggiato? Perché era
sicuro che lo avrebbe danneggiato, profondamente. Già ora
sentiva una crepa
dentro di sé.
Lanciò
un’occhiata a Jack… Jack, la sua ancora dopo
Lisa. Lui avrebbe potuto aiutarlo nel caso fosse ricascato di nuovo in
quel
baratro? E che cosa aveva provato lui vedendo quella scena? Era rimasto
sconvolto come gli altri? Forse per lui, che aveva vissuto tanti
secoli,
viaggiato in mondi diversi, visto cose aldilà del mondo,
questo non era niente.
Torchwood
si era messo di nuovo all’opera.
Se c’era qualcosa che avevano imparato da tutte le esperienze
che avevano avuto
era non lasciarsi abbattere né distrarre da niente. Avevano
un lavoro, un
compito importante da svolgere e non potevano distrarsi, dovevano
tenere gli
occhi puntati solo su quello e tutto il resto, i fatti personali, le
emozioni,
persino i sentimenti in taluni casi dovevano essere lasciati fuori.
Anche se non sempre era facile.
Tosh
si era messa di nuovo ai suoi computer, a
digitare bottoni, fissare lo schermo attraverso i suoi occhiali da
vista,
concentrata come sempre, Owen stava nel suo studio personale, a pulire
i suoi
attrezzi da lavoro e Gwen era seduta sul divano a guardare il
cellulare,
probabilmente scambiandosi messaggi con Rhys.
Jack, come al solito, era rinchiuso nel suo ufficio.
Tutto
come al solito, apparentemente. Eppure era
diverso. L’aria che si respirava e l’atmosfera
erano diversi. C’erano ansia,
inquietudine, la tensione si poteva tagliare con un coltello. E tutto
giaceva
nel silenzio, un silenzio spaventoso, si poteva quasi dire. Di solito
Owen
parlava ad alta voce quando faceva qualcosa, si faceva domande da solo
e poi si
rispondeva, faceva battute, scherzava, prendeva in giro. E Tosh correva
sempre
di qua e di là per la stanza cercando oggetti, carte,
matite. Nemmeno Gwen
stava mai zitta, rispondeva alle prese in giro di Owen, scambiava
quattro
parole con Toshiko.
Adesso, invece no. Sembrava che avessero perso tutti quanti
l’uso della parola.
E non sembravano molto concentrati sul lavoro, sembrava essere solo un
buon
modo per distrarsi, tutto qui.
Ianto
si sedette sulle scale, dove nessuno lo
avrebbe notato. Almeno sperava. Avrebbe tanto voluto avere qualcosa da
fare per
distrarsi, per non pensare… e poi… e poi sentiva
tanto la necessità di un
abbraccio, un abbraccio forte, sicuro, che gli dicesse che tutto
sarebbe andato
bene.
Forse Jack… guardò nella direzione del suo
ufficio. Ma non aveva così tanta
voglia di andare da lui, non con quello stato d’animo.
Non
dovette starci a rimuginare molto. Fu Jack a
venire da lui. O meglio, spalancò la porta
dell’ufficio, facendogli fare un
balzo sul posto, e si appoggiò con le mani sulla ringhiera
guardando in basso,
dove stava Toshiko.
“Tosh!”
la chiamò. “Hai individuato segnali
alieni?”
“No,
è tutto piatto” rispose lei col suo solito tono
vivace. “La macchina fotografica è
immobile”.
Jack
allora si voltò in direzione di Ianto e lo
guardò con i suoi penetranti occhi chiari, come a volerlo
sondare fin dentro
l’anima. Poi gli regalò uno dei suoi soliti
sorrisi sghembi per i quali Ianto
impazziva sempre. Ma non in quel caso, il che faceva capire quanto a
terra
fosse il suo stato d’animo. E non solo quello.
“Mi
prepari uno dei tuoi caffè?” gli chiese col tono
più gentile possibile.
“Certo”,
fece l’altro, contento di avere finalmente
qualcosa da fare.
Scese
giù rapidamente e si posizionò alla
macchinetta del caffè, sentendosi gli sguardi degli altri
addosso, ma fece
finta di niente.
Rimase
a osservare come il caffè bollente e fumante
scendeva nella tazza. Aveva un colore stupendo secondo lui, quel
marrone
chiaro, quasi caramello. Per non parlare poi dell’odore:
tiepido, inebriante…
rassicurante.
Rassicurante.
Rassicurante.
Come
le braccia di Jack.
Pensa
alle braccia di Jack, Ianto, pensa alle braccia di Jack.
Si imponeva di pensare. Ma era tutto vano.
Le
sue grida, gli insulti di suo padre, il suo cazzo
dentro di lui, il dolore, le lacrime… tutto gli
tornò di nuovo fuori in un
colpo solo.
Allora respirò profondamente e cercò di
concentrarsi sulle voci degli altri che
ora avevano preso a discutere di qualcosa. Ma non funzionò
nemmeno quello, la
voce di suo padre che gli urlava “Finocchio di
merda” continuava ad
echeggiargli nelle orecchie.
“Tu
che ne pensi, Ianto?” sentì chiedere la voce di
Gwen, ma sembrava provenire da molto lontano.
“Ianto?” ripeté quando questi non
rispose. Il ragazzo era rimasto a fissare un punto imprecisato di
fronte a sé,
il respiro leggermente accelerato.
“Ianto”.
Si
sentì sfiorare una spalla e per poco non balzò in
aria. Voltandosi, incontrò gli occhi di Jack che lo
guardavano preoccupati.
“Stai bene?” gli chiese questi.
Ianto
annuì leggermente cercando di tornare a
concentrarsi su quello che stava succedendo attorno.
“Ci
stavamo chiedendo che potere potesse avere
l’oggetto alieno, se è pericoloso. Tu cosa ne
pensi?”
“Non
lo so”, sussurrò il ragazzo, senza guardare
nessuno dei compagni.
Allora
Jack riprese in mano la situazione assumendo
l’atteggiamento da Capitano e ordinò a tutti di
mettersi al lavoro e provare ad
analizzare la macchina fotografica. Infine disse a Ianto di venire nel
suo
ufficio. Quando questi entrò, chiuse la porta dietro di
sé con uno sguardo
parecchio afflitto.
“Che
cosa vuoi?”
“Voglio
che parliamo”, rispose il Capitano in tono
perentorio, sedendosi dietro la sua scrivania.
“E
di cosa?”
“Di
mele e banane”.
Solo
allora il ragazzo alzò lo sguardo verso il
compagno per guardarlo confuso.
“Voglio
che parliamo di quello che ti è successo”.
Ianto
si avvicinò a lui e si sedette sulla
scrivania. “Perché?”
“Perché
tu non l’hai affatto superato, hai solo
cercato di non pensarci. Devi parlarne con qualcuno”.
“Non
voglio”.
In
quel momento gli ricordava tanto un bambino
capriccioso e a Jack veniva un po’ da ridere. Si
alzò dalla sedia e poggiò le
mani sui fianchi del ragazzo. “Perché non
l’hai detto a tua sorella? Ti avrebbe
aiutato”.
L’altro
sospirò. “Perché…
perché non volevo, lei
aveva la sua vita e non poteva preoccuparsi di me. E poi ci vedevamo
poco,
non…”. Una lacrima gli scese lungo la guancia e il
Capitano si affrettò ad
asciugarla col pollice. Stava per aggiungere qualcosa, quando
all’improvviso
venne interrotto dall’urlo di Tosh.
I
due si precipitarono immediatamente fuori dalla
porta e quello che videro li lasciò paralizzati per qualche
secondo: l’intera
base era stata ricoperta di una strana pianta rampicante e piena di
spine, come
quelle delle rose, solo molto, molto più grosse e appuntite.
Era andata ad
annodarsi attorno alle ringhiere, alle scale e agli oggetti.
Gwen era schiacciata in un angolo, gli occhi pieni di paura puntati
contro
quelle strane radici, mentre di Owen non c’era traccia. Tosh
invece era stata
catturata dalla pianta che le si era attorcigliata su un piede. La
ragazza cercava
di districarsi, tenendosi con le mani avvinghiata alle gambe della
sedia.
Jack
corse subito ad aiutarla, seguito da Ianto.
“Dammi
la mano, Tosh!” le gridò il Capitano. La
ragazza afferrò la sua mano e cercò di tirare
fuori il piede, ma più lei tirava
più quella pianta si stringeva attorno a lei e ora le era
già arrivata a metà
coscia.
Allora Ianto tirò fuori la sua pistola e, tolta la sicura,
la puntò contro la
radice che teneva imprigionata l’amica e sparò
qualche colpo. Quella si
ritrasse subito e Tosh ne approfittò per spostarsi. Ma
immediatamente un’altra
radice spuntò da quella che Ianto aveva colpito.
“Andiamo
via da qui!”
“Owen,
dove sei?”
“Quaggiù!”
La
testa di Owen spuntò da sopra le radici e la si
vide spostarsi verso l’uscita. Si fermò
però a dare una mano a Gwen. Quando
tutti e cinque si furono ritrovati insieme, si diressero subito
all’uscita richiudendo
la ruota dietro di sé. Non si fermarono finché
non uscirono in strada.
“Che
diamine era quello?” chiese Owen, fermandosi in
mezzo alla strada per riprendere fiato.
“Non
lo so. Ma credo sia uscito dalla macchina
fotografica”, rispose Gwen.
“Dove
andiamo adesso? Il Nucleo è inaccessibile”.
“Possiamo
andare nel mio appartamento”, propose
Ianto. “E li decidiamo che fare”.
In
poco tempo i membri del Torchwood raggiunsero
l’appartamento di Ianto e lui li fece accomodare attorno al
tavolo, offrendo da
bere. Voleva tenersi occupato per non pensare.
“Allora,
che facciamo?” chiese Gwen. “Qualcuno sa
cos’è quella maledetta roba?”
“Ho
dei libri di botanica, se a qualcuno va di dare
un’occhiata”, propose Ianto in tono ironico.
“Non
credo si parli di piante rampicanti aliene”,
rispose Tosh. “Ma secondo voi sono anche carnivore”.
“Non
ne ho idea e preferisco non saperlo”.
“Dobbiamo
trovare un modo per liberarcene”, sbottò
Owen, fissando intensamente il suo bicchiere.
“Tu
che proponi?” fece Gwen.
“Il
fuoco!”
Tutti
gli sguardi si spostarono su Jack. Ianto fermò
il suo andare avanti e indietro per la cucina.
“Come,
scusa?”
“Di
solito le piante si distruggono con il fuoco,
specialmente quelle rampicanti. Insomma, non possiamo certo estirparla
dal
terreno”, spiegò lui.
“Ma
non possiamo bruciare il Nucleo”, fece notare
Ianto.
“Riflettiamo:
quella pianta è cresciuta dopo che tre
di noi l’hanno toccata e sono stati catapultati nei loro
ricordi peggiori.
Probabilmente si nutre della paura o del dolore che abbiamo provato in
quei
momenti, non solo dei nostri, ma anche di quelli che abbiamo provato
vedendo i
ricordi degli altri”. Il suo sguardo si spostò su
Ianto. “E finché noi avremo
in mene quei ricordi, quella pianta crescerà
ancora”.
“Ne
sei sicuro?”
“Sì”.
Calò
qualche attimo di silenzio in cui ciascuno
rimase immerso nelle proprie elucubrazioni.
“Io
non… io non riesco a smettere di pensare a
quello che ho visto”, concluse Gwen, evitando lo sguardo
degli altri.
“Nemmeno
io”, aggiunse Tosh.
“Dovete
svuotare la mente, chiudetela. Non pensate a
niente”.
Ianto
chiuse gli occhi e provò a fare come Jack
aveva detto, ma gli riusciva difficile.
“Come
facciamo a ucciderla?”
“Ho
un piano”.
Jack,
Gwen, Owen, Ianto e Tosh tornarono di nuovo
alla base, armati di lanciafiamme e qualche estintore. Parcheggiarono
il Suv al
solito posto e si diressero decisi alla baia.
“Allora,
siete pronti?” chiese Jack voltandosi verso
i suoi amici. Loro annuirono. Dopotutto, non si poteva fare molto
altro.
“Ianto?”
chiamò il Capitano, avvicinandosi al più
giovane. “Sei sicuro? Puoi anche restare fuori”.
“No,
vengo con voi”.
“Guarda
che…”.
“Lo
so, Jack. Ma voglio venire con voi”.
Era
contento che Jack si preoccupasse per lui, ma
non era un bambino e doveva affrontare le sue paure, soprattutto
questa. Una
volta per tutte.
“Mi
raccomando, niente paura e niente ripensamenti.
E speriamo che funzioni”.
Fecero
girare la porta del Nucleo e si accorsero che
i rampicanti erano ormai arrivati quasi all’uscita. Jack
afferrò il
lanciafiamme e lanciò un getto di fiamme contro le radici.
Lasciarono che
bruciasse un po’, poi Owen spense le fiamme spruzzandoci
sopra la schiuma bianca
dell’estintore. A quanto pareva il piano funzionava
perché le radici si stavano
ritraendo e non ricrescevano più.
Intanto, Gwen, Tosh e Ianto cercavano di tagliare la pianta per creare
più
spazio e permettere il passaggio.
A
un tratto, però, Gwen, che era rimasta indietro,
venne afferrata da una radice che le si attorcigliò attorno
al braccio.
Ma rimase bloccata lì sul posto; le immagini che aveva visto
nei ricordi di
Owen e Ianto le tornarono alla mente prepotenti. L’odio di
Owen verso una madre
che non sopportava nemmeno la vista del figlio e il dolore e le lacrime
di
Ianto, ferito dal suo stesso padre. Sentì le lacrime
affiorarle sul bordo degli
occhi.
Improvvisamente,
come era apparso, tutto scomparve e
la sua mente tornò di nuovo al presnete.
“Tutto
bene?” le chiese Ianto che, con il coltello,
l’aveva liberata dalla pianta aliena.
Lei
annuì e continuò col lavoro.
Allora era vero che si nutrivano del loro
dolore.
In
poco tempo riuscirono a disintegrare tutte le
radici, giungendo fino alla loro radice, ovvero la macchina fotografica
di
quella mattina. Decisero di bruciare anche quella, tanto per non
correre più
rischi.
Non erano riusciti ad evitare però che il fuoco rovinasse
qualcosa, anche se
non c’erano stati danni troppo elevati.
Purtroppo,
però, quella maledetta pianta aveva
lasciato ovunque una sostanza violacea e appiccicaticcia e
così dovettero
passare gran parte del tempo e lavarla via.
“Direi
che per oggi abbiamo fatto un buon lavoro”,
concluse Gwen quando ebbero finito.
“In
fondo non è stata così pericolosa. Forse non era
nemmeno carnivora”.
“No,
le piace semplicemente afferrare le persone”.
“Ho
tanta voglia di tornare a casa a mangiarmi un
bel piatto di pasta e farmi massaggiare i piedi da Rhys”,
esalò Gwen,
buttandosi sul divano.
“Beata
te che hai qualcuno da cui tornare”, disse
Tosh.
“Lo
avrai anche tu, non ti preoccupare”.
Ianto,
nel frattempo, si era allontanato dagli altri
per raggiungere Jack nel suo ufficio. Il Capitano si stava infilando il
cappotto.
“Torniamo
a casa?” gli chiese. Il ragazzo annuì con
aria stanca.
Quando
Jack tornò in camera trovò Ianto seduto a
gambe incrociate sul letto e lo sguardo perso nel vuoto con gli occhi
che
fissavano un punto indefinito delle lenzuola bianche.
Gli si sedette accanto, cercando di fare il più piano
possibile, e gli prese
una mano.
“Come
stai?”
“Bene”,
rispose l’altro anche se non sembrava molto
convinto.
“A
me puoi dire la verità?”
“Stavo
solo pensando…”. Ianto tirò un sospiro
e
puntò gli occhi azzurri in quelli chiari di Jack.
“A quello che ti ha fatto tuo
padre?” chiese il Capitano.
“Anche”.
“Era
a questo che si riferiva Lisa quando ha detto
che io non sapevo cosa ti avesse fatto tuo padre?” Era
già da un po’ che se lo
domandava, aveva continuato a rimuginarci da quella volta che Lisa era
tornata
dal mondo parallelo ma non era riuscito a farsi un’idea.
Sapeva che il padre di
Ianto non era stato un grande esempio di padre e che più di
una volta aveva
maltrattato il figlio, ma non avrebbe mai immaginato che lo avesse
anche
violentato. Di solito non si intrometteva negli affari degli altri, non
lo
interessava e non lo riguardava, però adesso si trattava di
Ianto, del suo
ragazzo, e aveva il diritto di sapere che cosa lo turbava, i suoi
segreti più
dolorosi.
“Sì”,
rispose il ragazzo debolmente. “Avrei dovuto
dirtelo, ma…”.
“Ehi,
ehi!” cercò di calmarlo l’uomo.
“Sta’
tranquillo. Non è certo una cosa facile da dire, lo so e io
non pretendo che mi
racconti tutti i dettagli. Però dovresti parlarne con
qualcuno, almeno con tua
sorella”.
Ianto,
a quelle parole, girò lo sguardo facendo
intendere che non gli andava di affrontare quel discorso.
“Se
tuo padre fosse vivo ti accompagnerei alla
polizia per denunciarlo e lui la pagherebbe. E tua sorella ha il
diritto di
saperlo”.
“Non
lo so, Jack”.
“Non
serve a niente fare finta che non sia successo”,
questa volta la voce del Capitano si era fatta più dura.
“Tu hai solo messo da
parte questo ricordo in un angolo del cervello e hai cercato di non
pensarci,
ma non funziona così”.
“E
che vorresti fare? Mandarmi da uno
strizzacervelli?” sbottò il ragazzo, allora, in
tono provocatorio.
“Non
ti manderò da nessuna parte se tu non lo vuoi. Puoi
parlarne con me, se vuoi, quando te la sentirai. Ho visto le medicine
che tieni
in bagno”.
Ianto
voltò improvvisamente il capo verso Jack e lo
guardò leggermente sbigottito.
“Le
prendo quando non riesco a dormire. Se dormo da
solo ho gli incubi e, credimi, sono terribili. A volte cerco di restare
sveglio
per non farli”.
Il
Capitano gli mostrò un sorriso dolce per
rassicurarlo. “Ci sono io qui con te ora e non dovrai
più dormire da solo. E se
avrai paura potrai stringerti a me”. L’ultima frase
la disse in un tono che
fece scoppiare a ridere il povero Ianto che alla fine buttò
le braccia attorno
al collo di Jack che lo strinse in un forte abbraccio.
“Che
ne dici se andiamo a dormire?” gli sussurrò
all’orecchio.
“Ok”.
Quando
si infilarono
sotto le coperte, Ianto poggiò la testa sulla spalla di Jack
usandola come
cuscino e con una mano prese ad accarezzargli il petto, mentre il Capitano lo strinse a
sé, poggiandogli una
mano sulla schiena.
E quella fu la prima notte, da quando vivevano insieme, in cui non
fecero
sesso. Semplicemente si addormentarono, ascoltando il rumore della
pioggia che
già da un paio d’ore aveva preso a battere sui
tetti delle case.
MILLY’S
SPACE
Hola,
chicos!!
Ammetto
che non sono pienamente soddisfatta di questo
capitolo, ma le critiche preferisco lasciarle a voi. Spero recensirete
in
tanti.
Che
altro posso dirvi? Volevo aggiornare prima ma
purtroppo ho trascorso un periodo infernale e non ci sono riuscita.
Spero che,
ora che le vacanze stanno arrivando, troverò più
tempo. Intanto vi auguro un
buonissimo Natale, nel caso non riuscissimo a sentirci prima.
Un
bacione,
Milly.
P.S.
e non scordatevi di fare una capatina alla mia
pagina facebook.
Bacioni.
AMAYAFOX91:
eh
sì, hai azzeccato il punto due, vediamo ora se hai azzeccato
anche con il primo
^^ grazie mille per i complimenti, è importante per me
rimanere in linea con i
personaggi perché detesto quando sono troppo OOC. Spero di
risentirti, un
bacione. M.
HELLOSWAG:
eh!
Scusa per il ritardo, ma ho avuto tantissimi impegni. Spero ti sia
piaciuto
anche questo capitolo. Grazie mille per i complimenti. Pensavo di aver
un po’
esagerato con la storia della violenza e della droga, ma la tua
recensione
positiva mi ha fatto cambiare idea. Grazie ancora. Un abbraccio, Milly.