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Autore: Water_wolf    20/12/2013    4 recensioni
{Percy/Annabeth | Percy/Nico | Annabeth/Luke | Beckendorf/Silena | Beckendorf/Bianca | Lievi Accenni Percy/Luke | Lieve OOC per alcuni personaggi | No Gods&Demigods | Mini Long}
1780. America. Rivoluzione americana.
Percy Jackson è un nobile a capo di una cittadina e un campo di cotone, isola felice nella guerra, seguito dal fedele Nico Di Angelo. Finché non arriva il soldato inglese Luke Castellan, che non esiterà un giorno a mettere mano alla frusta.
♣♣♣
«Voi siete un folle, signore!» urlò al di sopra del fischio del vento. [...] Percy rise forte. «Be’, ti dirò un segreto: solo i folli conoscono cos’è la vera gioia!» gridò di rimando. «E chiamami per nome, piccola, come fanno tutti!» aggiunse dopo. [...] «A me pare che i folli conoscano i migliori modi per trovare la morte, signor Percy!» replicò la ragazzina, che si stringeva convulsamente all’uomo.
♣♣♣
«Ne avete la volontà…» si umettò le labbra, soppesando le parole. «Ne avete abbastanza da offrire la vostra carne alla frusta, Perseus Jackson?»
♣♣♣
«Avete sempre avuto questa naturale inclinazione al suicidio?» domandò Annabeth.
Genere: Azione, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autumn Leaves

Parte Prima


Percy camminava con falcate lunghe e vivaci verso la stalla, fischiettando un motivetto allegro e salutando con un cenno del capo chi si toglieva il capello e chi faceva una lieve riverenza al suo passaggio. La rugiada gli bagnava gli stivali di cuoio scuro e resistente, alti fino al ginocchio, e faceva rilucere gli speroni d’argento. Si allargò un po’ il colletto, uno di quei simboli dei nobiluomini che più gli andava stretto.
Il padre di Percy, Poseidone, aveva fondato in una pianura nascosta tra due colline la sua tenuta, che si era allargata fino a diventare un’intera cittadina e la sua famiglia ne dirigeva l’amministrazione e l’organizzazione. Jackson Hill era una piccola isola di pace in quel tempo di guerra, tant’è che nemmeno Percy era corso alla chiamata delle armi per rimanere lì a godersi il bel tempo e a controllare il lavoro nei campi di cotone.
In effetti, il ventiduenne era poco più che un ragazzo e la maturità non era sempre stata la sua caratteristica principale. Era abbastanza grande per gestire i bisogni di Jackson Hill dopo la morte dei genitori e potersi concedere qualunque donna della città – ma questo lui lo attribuiva alla sua spiccata bellezza e al suo innato charme-, eppure, non così tanto da non alzare mai il gomito nella taverna gestita da Chris Rodriguez e sua moglie Clarisse La Rue, per poi essere riportato alla sua villa dal suo protetto Nico Di Angelo.
Il suo vero nome era Perseus; tutti, però, lo chiamavano Percy da quanto era poco più di una pulce impertinente e il soprannome gli si era incollato addosso. Persino i neri che lavoravano nella piantagione lo chiamavano così, ma a Percy non dispiaceva.
Non era quel tipo d’uomo che si curava costantemente della sua immagine né un rigido capo che faceva schioccare la frusta sulle schiene dei suoi sottoposti. In fondo, a che sarebbe servito?
Percy scrollò le spalle, distese i muscoli e aprì il chiavistello che teneva chiuso il cancello della stalla. La luce del giorno illuminò quel luogo completamente all’oscurità, se non fosse per qualche buco sul tetto da cui filtravano i raggi del Sole, che scoprivano soffi di polvere a volteggiare in aria.
Percy fece abituare gli occhi al buio, poi si diresse a passo sicuro verso la terza cella a destra, come quasi ogni giorno. Si udì uno scalpiccio di zoccoli e un lungo muso nero fece capolino. Lo stallone emise uno sbuffo, nitrì piano e scrollò la criniera.
«Ehi, Blackjack, come andiamo?» salutò, accarezzando vigorosamente il faccione del cavallo.
Percy si frugò nelle tasche del pantaloni, in quelle della giacca e del panciotto, ritrovandosi in mano un paio di zollette di zucchero.
«Che ne dici di qualche dolcetto per colazione?» chiese, piazzando il palmo aperto sotto il muso di Blackjack.
Lo stallone lo annusò, tirò indietro il labbro e accettò gli zuccherini, facendogli il solletico mentre mangiava. Percy prese la cavezza, appesa a un gancio sulla porta della cella, e la passò sulla testa del cavallo. Con due dita, lo condusse fuori dalla stalla e il Sole gli ferì gli occhi chiari.
Li chiuse per qualche secondo, senza smettere di camminare; quando li riaprì, la luce era oscurata dall’ombra di una persona. Percy la riconobbe e sorrise.
«Ti sei svegliato presto, questa mattina. C’è qualche cosa che vuoi dirmi?» domandò, mentre passava di mano la cavezza al compagno e ritornava dentro.
Nico Di Angelo si agitò sulla sella del suo destriero.
«Potrei aver semplicemente avuto voglia di fare una passeggiata, non credi?» replicò, il tono più acido in netta contrapposizione con quello da conversazione di Percy.
Il più grande rise, riemergendo con i finimenti dalla stalla. Pose una coperta sul dorso di Blackjack, issò la sella americana e fece scorrere una cinghia sotto la sua pancia.
«Nico, quand’è stata l’ultima volta che hai avuto voglia di fare una passeggiata nel primo mattino?» fece Percy, riavviandosi i folti capelli neri mentre un raggio di Sole faceva sembrare i suoi occhi un placido oceano.
Controllò la lunghezza delle staffe, tirandosi su e prendendo le briglie in una sola mano.
«Non ricordo esattamente quando, appunto per questo vorrei costruire un nuovo ricordo e schiarirmi la memoria» rispose l’altro, arrampicandosi sugli specchi.
Percy lo squadrò, pensando che se anche avesse un altro aspetto sarebbe stato una frana nel mentire. Pelle chiara di chi sta poco al sole, una zazzera mora indomabile e occhi talmente scuri che ci si poteva confondere tra iride e cristallino.
Nico Di Angelo e sua sorella, Bianca, erano rimasti orfani molto giovani e lui li aveva accolti nella sua famiglia senza indugio, facendo del ragazzo quasi un fratello adottivo o uno scudiero, se fossero vissuti qualche secolo prima.
«Anche un’oca sa mentire meglio di te» dichiarò, dando un colpetto nei fianchi di Blackjack, spronandolo al trotto.
Nico rimase un minuto a riflettere in groppa del suo cavallo baio, prima di realizzare: «Le oche non sanno mentire!» e, immediatamente dopo: «Quindi nemmeno io… »
Corse dietro a Percy, scuotendo la testa.
Gli si affiancò, notando come il suo benefattore stesse trattenendo una risata. Bloccava la schiena, puntava gli occhi davanti a sé e assumeva un’espressione simile a chi stava soffocando.
Nico mandò all’aria ogni suo ulteriore sforzo, commentando: «Per l’amor di Dio, potresti scegliere metafore un po’ più argute?»
Percy decise di resistere ancora, giusto dieci secondi, o nove, otto, sette… Scoppiò a ridere, aggrappandosi al collo di Blackjack e facendo pressione con le cosce per non essere disarcionato.
Nico roteò gli occhi, adeguandosi all’andatura del cavallo. Percy si tirò su, si pulì l’angolo dell’occhio destro da una lacrima e recuperò un po’ di contegno. L’erba era un’immensa distesa color smeraldo davanti i suoi occhi, interrotta dalla terra lavorata dagli uomini, per la maggior parte di colore, alle sue dipendenze.
I campi di cotone, pensò, attraversato da una fitta di malinconia mente vi si avvicinava, il sudore che permette a noi bianchi ogni agio.
Nico, intanto, gli stava parlando, ma quando si rese conto di non essere ascoltato alzò la voce per richiamarlo.
«Mh? Che c’è?» farfugliò, guardandosi attorno.
«Non sei proprio tagliato per questo ruolo, Percy. Apri le orecchie, ogni tanto» lo riprese.
«Sembri una vecchia comare, Nico» si difese lui, raddrizzando le spalle. «Scommetto che mi stavi spiegando come mai hai così tanta voglia di passeggiare.»
Nico strinse la presa sulle briglie. «Di che altro dovrei parlarti, di grazia?»
«Ti va una camomilla?» cambiò repentinamente discorso l’altro. «Hai più fiele in corpo che uno di quei serpentacci del deserto messicano.»
Il giovane chiuse gli occhi, inspirò ed espirò con calma e replicò, ammorbidendo il tono più che poté: «È una tua naturale inclinazione irritarmi, Percy, non posso farci nulla.»
Il moro rise, spronò la cavalcatura al galoppo e incalzò: «Quale migliore rimedio che una sfida a chi è più veloce?»
La sua voce si perse nel vento. Cambiò direzione, scendendo bruscamente dalla via sulla collina che costeggiava i campi di cotone, entrandovi. Non ci fu bisogno di dare un altro colpo di sproni a Blackjack per fargli aumentare l’andatura a una velocità folle.
Sentì vagamente Nico protestare dietro di lui e il rombo degli zoccoli che lo inseguivano a rotta di collo. Sfrecciò davanti a un gruppo di uomini neri chinati a raccogliere il cotone, e quelli lo salutarono levando i cappelli di paglia in aria, stupidi ed eccitati insieme. Percy rispose loro con grido all’indiana, alzandosi per un momento sulle staffe.
Il vento gli tirò indietro i capelli e gli invase i vestiti, spingendolo indietro, ma lui si appiattì sulla sella e ritrovò stabilità. Il suo battito si confuse con quello furioso del destriero, che volava sulla terra e che con gli zoccoli sembrava preannunciare un temporale.
Una ragazzina, poco avanti a lui, si mise in mezzo alla strada e si sbracciò. Percy si voltò e sorrise nel vedere una furia raggiungerlo al galoppo serrato. Riportò gli occhi sulla strada davanti a lui, si sporse di lato dalla sella e afferrò la bambina per il colletto dei vestiti sporchi e la issò dietro di lui. Quella strillò di spavento, stringendo le piccole mani al petto di Percy.
«Voi siete un folle, signore!» urlò al di sopra del fischio del vento.
Aveva la “erre moscia” così pronunciata che la parola si arrotolava tutta e la ragazzina sembrava mangiarsela.
Percy rise forte. «Be’, ti dirò un segreto: solo i folli conoscono cos’è la vera gioia!» gridò di rimando. «E chiamami per nome, piccola, come fanno tutti!» aggiunse dopo.
Incitò Blackjack, che spiccò un salto e sorvolò un terrapieno. L’atterraggio scosse Percy nelle ossa, facendogli provare un brivido di adrenalina.
«A me pare che i folli conoscano i migliori modi per trovare la morte, signor Percy!» replicò la ragazzina, che si stringeva convulsamente all’uomo.
Percy stava per ribattere, ma uno strattone improvviso rischiò di farlo cadere a terra. Blackjack nitrì, si alzò sulle zampe posteriori e si riabbassò, sbuffando furiosamente.
«Credo…» ansò Nico; deglutì, si portò indietro i capelli neri, che gli erano finiti davanti agli occhi, e riprese: «… credo che serva a te una camomilla.»
Percy gli sorrise, uno strano bagliore negli occhi, gli porse la mano e ansimò: «Hai vinto… che ti basti questo…»
Nico gliela strinse senza troppa convinzione, lasciandola ricadere lungo il fianco. Percy tese una mano alla ragazzina, facendola scendere. Questa lo fissò, tremando un po’ sulle gambe, assunse un cipiglio deciso e si allontanò senza salutare, scomparendo dietro una cresta riccia color fango. Nico sbuffò, non approvando; il suo destriero schiumava.
Percy scese dalla sella, facendo sollevare la polvere dalla terra battuta. L’altro giovane lo imitò, e insieme imboccarono la strada sterrata che aggirava la collina - su cui era posizionata centralmente la villa Jackson- e da cui si sboccava nella cittadina. Rimasero in silenzio, ascoltando i fringuelli cantare e lasciando che il Sole scaldasse loro la schiena.
Solo quando arrivarono nei pressi delle case, Percy chiese: «Di cosa volevi parlarmi?»
Nico fece una smorfia, si sistemò i vestiti e buttò fuori tutto d’un colpo: «Degli Inglesi sono in zona.»
Percy si fermò di colpo, strattonando Blackjack, il quale nitrì la sua disapprovazione.
«Inglesi? Qui?» sibilò, ancora incapace di assimilare il fatto.
Suo malgrado, lo vide annuire più volte.
«Qualche settimana fa, ti era arrivata una lettera che li menzionava. Se tu leggessi la posta, sapresti come agire strategicamente invece che andare allo sbaraglio.»
Pronunciò l’ultima frase in tono di accusa e rimprovero, come se fosse colpa sua se degli Inglesi si stessero aggirando nella California del Sud, battendo le aree vicine a Jackson Hill, la sua isola felice.
Bastardi figli di cagna, inveì silenziosamente, serrando le labbra.
Uno strillo improvviso lo fece voltare. Riconobbe la ragazzina che aveva portato in groppa, i suoi capelli scuri arruffati e gli abiti laceri. Ma, subito dopo, vide il suo aggressore, che la teneva per la collottola come un cucciolo e la guardava con disgusto.
Sentì la bile in bocca e gli salì un insulto alle labbra. Avvertì Nico farsi di piombo al suo fianco. La piccola nera gridava e scalciava, provò persino a mordere, e allora l’uomo che la teneva le diede un ceffone talmente forte che lei finì a terra. Percy si riscosse. Trattenne l’odio, la rabbia e l’istinto che gli gridava di strozzarlo, provando quasi un dolore fisico.
«Ehi» esordì, e tutti coloro che erano in strada puntarono lo sguardo su di loro. O su di lui.
Percy chiuse gli occhi, imponendosi la calma. Alto e allenato, capelli biondi e occhi azzurri, una cicatrice che gli correva in diagonale su una guancia, giubba rossa.
Percy domò le belve che aveva nel cuore e riprese: «A cosa dobbiamo la visita di un inglese?» Lo disse con così tanta enfasi che sembrò un coltello che volava nella sua direzione. «Volete per caso suicidarvi?»
Sentì gli occhi di Nico e di tutti gli abitanti come spilli puntati su di lui, che, però, ne aveva solo per quell’estraneo. L’inglese gli sorrise, gelido.
«Avrei piacere di ricordarvi che siete ancora una nostra colonia. Immagino voi siate Perseus Jackson, giusto?»
«Avete un messaggio per me da parte della Corona?» quasi scherzò Percy.
«Non proprio direttamente dal nostro palazzo regale» precisò, si sfilò una lettera dalla cintura di cuoio e la mostrò.
Percy temette di soffocare, così deglutì e si avvicinò con passo marziale all’inglese. Fece per prendere la missiva, ma lo sconosciuto ritrasse la mano e indicò con un cenno del capo la ragazzina ai suoi piedi. Sembrava sull’orlo delle lacrime, eppure, nonostante ciò, non voleva piangere di fronte a tutti.
L’inglese mostrò a Percy un orologio da tasca in argento, le lancette che segnavano lo scorrere dei minuti e dei secondi in movimento. Il moro si rese conto che quell’oggetto apparteneva a suo padre, che lo aveva passato a lui in eredità e che la ragazza doveva averglielo sottratto durante la cavalcata.
«L’ho colta in flagrante mentre rubava» dichiarò. «Non so quale legge sia in vigore qui per i ladri, ma per applicarla serve il colpevole, perciò…»
Percy sfoggiò il più falso sorriso conciliante della sua intera esistenza.
«Oh, non l’ha affatto rubato» replicò, una voce così dolce che sembrava miele. «Me l’ha solo riportato indietro, non è vero, piccola?»
La ragazzina annuì con decisione.
Brava, si complimentò, guardandola negli occhi.
L’inglese sembrava stupito.
«Avevo perso questo caro orologio, una settimana fa, dopo una passeggiata. È un tesoro di famiglia molto prezioso, ho detto a chiunque di cercare e rivolgersi direttamente a me se l’avesse trovato. Non ha trasgredito alcuna legge, anzi, ha eseguito alla lettera le mie istruzioni.» Si frugò in tasca, trovò una moneta da niente e la lanciò alla ragazzina. «Va’ a comprarti un tozzo di pane.»
L’inglese sembrava restio a lasciarla andare, ma la bambina non aspettò che mettesse in dubbio le parole di Percy.
Quando gli passò accanto, mormorò: «Grazie, signor Percy.»
Il moro richiese con un altro falso sorriso la lettera. La srotolò, rompendo il sigillo in ceralacca rosso, e saltò le prime cinque righe di titoli. Si fermò a rileggere la parte centrale tre volte, prima di arrotolarla e ridarla indietro. Sentì un improvviso calore alle orecchie e temette che il petto gli scoppiasse.
«Volete dare voi l’annuncio?» chiese l’inglese, sogghignando.
Percy scosse la testa, socchiudendo gli occhi a fessura. Strinse i pugni.
«Il mio nome è Luke Castellan» esclamò, dopo essersi schiarito la gola. «e il Comando Inglese revoca i poteri conferiti a Perseus Jackson a tempo indeterminato, consegnandoli al sottoscritto. È in corso un’ispezione dei metodi utilizzati nelle piantagioni di cotone. Se valuterò l’organizzazione impeccabile, me ne andrò presto. Altrimenti, eserciterò la mia autorità in modo che questo avvenga.»
Gli rispose un borbottio confuso, poi allarmato e infine di protesta. Percy fissò gli occhi sulla cicatrice che sfregiava il volto di quel Castellan e l’istinto animale gli suggerì con voce melliflua di saltargli al collo e tagliargli la gola. Si crogiolò in quella fantasia, sentendo il sapore acre del sangue sul palato.
Nico gli pose una mano sulla spalla, riscuotendolo. Fecero spazio, lasciando passare davanti a loro un altro inglese vestito di rosso con due cavalli. Luke Castellan montò su quello grigio, mentre il suo compagno sull’altro color caramello. Lo ringraziò, chiamandolo Ethan.
Il biondo si avvicinò a Percy, in modo che solo lui potesse sentire quello che gli diceva.
«Sappiate che non mi sono bevuto una sola parola di ciò che avete detto. Se vi rivedrò simpatizzare con uno di quei musi neri, dovrete imparare a temere anche voi la frusta. Spero che il mio soggiorno a Jackson Hill possa essere duraturo: adoro il clima che c’è qui in autunno, molta meno pioggia che a Londra.» Si scostò da lui, tese l’orologio e lo lasciò ricadere sul palmo aperto di Percy.
«Arrivederci» si congedò, alzando una mano e facendo fare dietro-front al cavallo.
Nico strinse la spalla di Percy con forza, mentre lui giurava che avrebbe fatto qualunque cosa pur di ostacolare i piani dell’inglese.
 
 
Percy si bloccò, smettendo di tagliare la carne e masticare la patata al forno che aveva in bocca. Si concentrò su Talia, all’altro capo del tavolo. I corti capelli neri erano ripresi con due mollette, la camicetta a fiorellini azzurri era di una tonalità più chiara rispetto agli occhi, di un intenso blu elettrico. La fissò e si scontrò con uno sguardo duro, deciso, che avrebbe raso al suolo ogni ostacolo davanti a sé.
Nico tossicchiò e mormorò piano: «Non potete dire così, Talia.»
«Posso eccome, invece» s’infervorò lei. «Le donne chiacchierano, danno pareri e opinioni a tutti, oltre a lavorare. Io sono una donna fino a prova contraria, perciò, posso commentare in tutta libertà e pensare che Percy dovrebbe fargliela pagare, a quell’inglese.»
Bianca si portò una forchettata di piselli alla bocca, toccando con un piede la gamba dell’amica che aveva invitato a cena. Nico, intanto, era arrossito violentemente e aveva trovato un improvviso interesse nel cibo.
Percy riprese a masticare, ancora incredulo. Talia, forse la donna più intransigente e mascolina di Jackson Hill, pronta a contestare ogni sua decisione, che dava l’approvazione proprio al suo istinto omicida. Decise che quella sera avrebbe ringraziato Dio per quella benedizione.
«Sarebbe imprudente agire così, su due piedi» riprese le fila del discorso Bianca, poggiando con delicatezza le posate sul tovagliolo. «Se fossi in Percy e volessi far valere la mia autorità, organizzerei un piano. Un’offensiva che ponga subito fine alla guerra.»
«Anche tu!» gemette Nico, battendo un pugno sul tavolo e facendo tintinnare i calici di vetro. «Ti prego, ti prego dimmi che è solo un consiglio.»
Bianca Di Angelo non rispose e riprese a mangiare con garbo.
Il fratello si lasciò sfuggire un lamento. Talia nascose un sorriso bevendo un sorso d’acqua. Percy mandò giù a fatica il boccone successivo.
«Davvero ha il potere di spadroneggiare in quel modo, questo come si chiama… Luke Castellan?» domandò Talia per la quarta volta quella sera.
Percy annuì di malavoglia, ormai riusciva a fare solo così.
Se avesse aperto bocca, probabilmente non sarebbero uscite parole moderate. Si chiese come avesse fatto a mantenere il controllo davanti all’inglese.
Talia fece una smorfia, infilzò una patata e, prima di infilarsela in bocca, commentò: «Bah, forse è solo un pregiudizio su quelle spalle d’aragosta, ma penso che abbia proprio l’atteggiamento di un carnefice. Freddo, calcolatore… un lupo solitario che ha tanta, tanta fame.»
Nico borbottò qualcosa di incomprensibile. Bianca lanciò un’occhiata significativa a Talia, che si trattenne dal risponderle con un’alzata di spalle. Percy spezzò un pezzo di pane e se lo portò alla bocca, pensando che aveva un buon fucile da usare contro i lupi, in soggiorno.
 
 
Percy decise che né Luke Castellan né nessun altro avrebbe modificato le sue abitudini. Si svegliò presto o forse non si svegliò affatto, visto che aveva passato l’intera notte a rigirarsi nel letto, quando inquietanti sogni su grossi lupi grigi e foreste di sangue lo avevano abbandonato.
Preparò Blackjack, non prima di avergli dato un paio di zollette di zucchero, e montò. Non andò direttamente  ai campi di cotone, ma scese a fare un giro per la cittadina. A intervalli regolari, sui lampioni, erano affissi dei manifesti che comunicavano le nuove disposizioni.
Ne prese uno tra le mani e lesse la parola “coprifuoco”. Coprifuoco?
Non c’era mai stato un coprifuoco a Jackson Hill. Accartocciò il foglio e lo lasciò cadere a terra, dove il suo cavallo lo calpestò. Sentì l’impellente bisogno di bere qualcosa di forte.
Oltrepassò la farmacia Lee Fletcher and Michael Yew, la vetrina che esponeva boccette di vetro di varie dimensioni, e imboccò la via che deviava verso destra, diretto alla taverna di Rodriguez. Non aveva molta voglia di vedere Clarisse, sua moglie, ma era lì che vendevano il miglior alcol.
Fu fermato da una voce ben conosciuta. Guardò in basso, trovandosi davanti una giovane donna dai capelli biondi, coperti da un fazzoletto a cui sfuggivano riccioli ribelli. Il suo sguardo era penetrante e inchiodò Percy al primo istante. Teneva una cesta intrecciata sotto il braccio destro, attenta a non sporcare la gonna dalle tinte pastello con la terra che era ancora attaccata alle verdure.
«Buongiorno, Annabeth» la salutò, abbassando lievemente il capo.
«Dubito che lo sia» replicò lei, cambiando la mano con cui teneva il cesto pieno di ortaggi.
Puntò i suoi occhi grigi su di lui e lo informò, in un tono misto di noncuranza e lieve preoccupazione: «Luke è già ai campi.»
Il moro strinse le mani sulle briglie.
«Perché lo chiamate per nome?» domandò, sistemandosi meglio sulla sella. «È un inglese.»
Annabeth sembrò sul punto di ridere di lui e di quella repentina risposta che non aveva nulla a che fare con l’intromissione nelle sue proprietà.
«Perché se lo chiamassi col nome di famiglia tutti si girerebbero a guardarmi e non potrei liberarmi dei pettegolezzi sul nostro conto.»
Lasciò a Percy il tempo di metabolizzare che la gente parlasse di loro, prima di continuare, la voce ridotta a un sussurro: «E poi, non credo che essere  un inglese sia un crimine. Non tutti sono uguali. Le etichette sono per ciò che conosciamo bene, e di lui non si sa niente.»
«A parte che mi ha sollevato dai miei incarichi e starà mandando a male il mio cotone» ringhiò piano Percy, voltando il viso nella direzione delle sue terre.
«Non andateci» esordì Annabeth. «Non fatelo.»
«Trovate un’argomentazione ragionevole e potrei darvi ascolto» concesse Percy, brontolando.
«In primis, dovrete spiegare il motivo di una passeggiata in quella zona, e Luke non crederà a quello che dite. In secundis, vi ritrovereste morto prima della prossima alba» replicò la donna, severa, con l’atteggiamento di una persona che è pronta a sfruttare tutto ciò che ha studiato per evitare un’azione stupida.
«Non sarete voi a seppellire né a vedere il mio cadavere» ribatté Percy, per nulla impressionato.
«Non è per questo che non vi voglio morto» lo sguardo di Annabeth vacillò. «È che non vorrei trovarmi a piangere la vostra perdita.»
Percy avvertì qualcosa di caldo riempirgli il petto.
«Piangereste la mia morte?» chiese, curioso.
La donna non rispose. «Non andate» ribadì, riprendendo le sue faccende.
Peccato, pensò Percy, che dovrò deludere le aspettative di una fanciulla come lei.
 
 
Percy si vide correre incontro Tyson, un suo lontano cugino che lavorava come sovraintende lì ai campi di cotone, anche se passava la maggior parte del tempo nella fucina di Charles Beckendorf, l’unico luogo in cui riusciva ad essere davvero utile. Percy scese da cavallo, consegnandogli le briglie del suo destriero e chiedendogli spiegazioni con lo sguardo.
Tyson si grattò la testa cespugliosa, si avvicinò al parente come un gattino e sussurrò con una vocetta da bambino: «Lui è qui, signor Percy.»
«Lo so, Tyson, potevo immaginarlo» confermò, condiscendente.
Avanzò di qualche passo, ma il ragazzone lo fermò.
«Non capite, signor Percy, lui è qui per mangiarci tutti!» continuò a bassa voce, come se temesse che Luke Castellan potesse sentirlo.
Percy sapeva che Tyson non era intelligente né ragionava come gli altri, per questo gli dava del voi come un qualunque cittadino, ma quel terrore puro gli sembrava eccessivo. Bofonchiò un “andrò a controllare di persona” e si allontanò a passo svelto, determinato a fronteggiare l’inglese.
Tyson si affrettò a trovare un albero a cui legare Blackjack e a rincorrere Percy. Il moro sentiva già da lontano la voce dello straniero sbraitare contro i suoi lavoratori e si basò su quella per trovarlo. La giubba rossa sembrava un focolare acceso nel giorno, così come i neri erano il carbone che attizzavano il fuoco della furia dell’inglese.
Percy si raccomandò di controllarsi, di non oltrepassare il limite di non ritorno, di ripetersi di rimanere calmo, e ci riuscì molto bene mentre la distanza tra lui e Luke Castellan diminuiva sempre più, finché il suo compagno srotolò la frusta che teneva al fianco.
Tyson emise un singulto a quella vista, come l’“ich” di paura di un topolino. Ethan minacciò con l’arma un massiccio uomo dalla carnagione scura, ma quello non mostrava la sua paura – sempre che ne avesse avuta-, e lasciò che la frusta gli si arrotolasse sull’avambraccio.
Percy si schiarì la gola, interrompendo la punizione.
Luke Castellan era rigido nella sua uniforme e domandò: «A cosa dobbiamo l’onore della vostra visita, signor Jackson?»
«Sono solito augurare una buona giornata di lavoro a tutti, mi sarebbe dispiaciuto perdere questa abitudine» rispose, tranquillo.
«Spero voi non vi stiate prendendo gioco di me e, se anche fosse, oggi non sarà un lieto giorno lavorativo per questo qui» disse l’inglese, ammiccando all’uomo col braccio intrappolato nella frusta.
Percy finse sorpresa e stupore per mascherare l’astio nella sua voce.
«E per quale motivo, posso sapere?»
«Perché» iniziò Luke Castellan, duro, «è necessario mantenere la disciplina nei campi, e un negro che sputa ai piedi di un superiore mina il rispetto che tutti gli altri devono portarmi. Dalle nostre parti, un’insubordinazione del genere merita trenta frustate.»
«Trenta frustate?» Percy soffocò una risatina isterica. «Questo non è un campo militare. Con una punizione come questa, perderà due braccia forti per almeno una settimana. Non vi converrebbe.»
«Oh, delle spalle robuste come quelle ne reggerebbero anche cinquanta, non mi preoccupa un po’ meno forza lavoro» replicò l’inglese, asciutto. Scrutò Percy attentamente, prima di aggiungere: «Credo che voi abbiate qualcosa in contrario, o sbaglio?»
Il moro si ripeté la risposta negativa dentro di sé, ma quello che gli uscì fu: «No, non sbagliate affatto.»
«Signor Percy…» squittì Tyson, però Percy lo bloccò bruscamente con una mano, avvicinandosi invece all’inglese.
Era più basso di qualche centimetro e il fatto lo irritò.
«Non avete l’autorità per opporvi ai miei metodi. Mi serve un esempio per dimostrare a tutti questi schiavi chi comanda» sibilò Luke Castellan, e Percy seppe che quella frase era solo l’inizio di un’aspra discussione.
«Ne ho la volontà» ribatté, «e vi consiglio caldamente di non infliggere alcuna punizione ai miei lavoratori.»
Il biondo sogghignò. «Ne avete la volontà…» si umettò le labbra, soppesando le parole. «Ne avete abbastanza da offrire la vostra carne alla frusta, Perseus Jackson?»
Percy fissò gli occhi dentro quelli azzurri dell’inglese, che avevano assunto una strana sfumatura dorata. Sapeva che stava firmando la sua condanna, ne era pienamente consapevole. Il sangue gli pompava forte nelle arterie assieme all’adrenalina, e gli si ingrossò una vena sulla fronte. Pensò vagamente alla sfuriata che gli avrebbe fatto Nico o alla disapprovazione di Talia e Bianca.
Sfoggiò un sorrisetto strafottente.
«Certamente.»
Luke Castellan si illuminò, si voltò verso Ethan e i neri e gridò: «Spargete la voce che l’esecuzione è pubblica! Gli altri, che montino il palo!»

 

Angolino dell'autrice
Buonasera a tutti quelli che bazzicano su questo fandom!
Bando alle ciance, ho pensato a questa storia come a una one-shot, ma più andavo avanti più diventava lunga e ho pensato che qualcuno si sarebbe sparato per la lunghezza tutta in una voltà, così ho diviso in due o tre parti.
Zio Rick ha reso l'idea degli Dèi nuova, fresca e urban, io la riporto indietro di qualche secolo^^
Jackson Hill fantasia portami via non esiste. I personaggi sono quelli della prima serie, perché non ho ancora né iniziato né finito la seconda, quindi... non fucilatemi, a Natale recupererò xD
Credo che alcuni di loro, come Luke e Tyson, siano OOC e questo non mi piace per niente, ma c'est la vie. Per il primo, pensate al Luke controllato da Crono, così si spiega quanto sia stronzo. L'Ethan di cui si parla è Ethan Nakamura, il figlio di Eris a cui manca un occhio.
Non so cosa si possa vedere delle coppie da questa prima parte, ma nel prossimo capitolo si vedrà una pillola molto Percabeth.

Sono andata a cercarmi alcuni espressioni dell'epoca, come "spalle d'aragosta", che è un appellativo dispregiativo per gli iglese che, portando un'uniforme rossa, venivano associati a delle aragoste. Sempre gli inglesi, infliggevano punizioni con la frusta nell'esercito.
Ora, visto tutta questa questione intestina, perché ci si occupa dei neri? Lo scopriremo nelle prossime puntate *sigla*
Sia Percy che Annabeth hanno opinioni diverse sui pregiudizi, il primo perché è una zolleta di zucchero, la seconda perché è troppo intelligente per crederci senza prove - dopotutto, sa il latino, quindi ha studiato, al contrario di molte donne all'epoca.
Meglio se metto fine a questo "angolino", se qualcuno vuole chiedermi qualcosa, non esiti! Non sono né sexy né dolce come Percy, ma quasi :3
Un bacio

Water_wolf
 
 

 
 
 
  
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