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Autore: Graine    20/12/2013    2 recensioni
Un crimine è stato commesso, ma il colpevole non ha espiato la propria colpa. Quando la giustizia si dimostra incapace di punire, la vendetta si rivela l’unica alternativa e una Figlia del Tempo sceglierà di infrangere le regole non scritte che avrebbe dovuto rispettare.
Questo racconto ha partecipato al contest Opere d'Arte in Frasi indetto da Jo_gio17 sul forum di EFP, classificandosi quinto.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I Figli del Tempo'
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Come spesso mi capita per i miei racconti, c'è una canzone o un brano musicale che me li ispira. In questo caso, il brano che ho usato (questo: https://www.youtube.com/watch?v=_y4SKLSZfXw ) ha un ruolo attivo nella storia, per questo mi farebbe piacere lo ascoltaste durante la lettura.





 
Il più efficace dei vendicatori
 
 
Le fiamme erano ovunque, rosse e abbaglianti.
Il calore era tale che sentiva la pelle scottare, mentre gli occhi pizzicavano per il fumo che lo aggrediva stringendogli la gola e i polmoni. Tossiva e il suo petto si alzava in cerca di un’aria che non trovava.
Si era svegliato per caso, un suono vago – carezzevole – che sulle prime era convinto di aver sognato, gli era giunto all’orecchio e quando aveva aperto gli occhi, l’odore di bruciato aveva allarmato i suoi sensi. Si era precipitato fuori dalla camera da letto e affacciandosi dalle scale aveva scorto il fuoco che, al piano di sotto, aggrediva i mobili del salotto e si affrettava verso i primi gradini. Corso in stanza, aveva scoperto che la linea telefonica era saltata e la batteria del cellulare era scarica, benché appena poche ore prima risultasse piena.
Disperato ma ancora lucido – arrabbiato, la furia incondizionata di chi si rifiutava di morire –, si era allora diretto alla finestra, pronto a saltare, ma quando aveva tentato di aprirla, quella era rimasta chiusa. Confuso, aveva passato l’indice e il medio sui cardini che, nella penombra, apparivano insolitamente scuri. Portandosi le dita al viso, aveva capito che la striscia di polvere marroncina sui polpastrelli era ruggine.
Rapido, era tornato allora alla porta, ma aprendola aveva trovato parte del corridoio invaso già dalle fiamme, il suono del loro lento sfrigolio mentre divoravano la moquette. Era stato in quel momento che il panico lo aveva colpito con violenza improvvisa; l’istante in cui aveva compreso che ogni via di fuga da quell’inferno gli era preclusa.
Le mani tra i capelli e la gola che cominciava a pizzicargli per le lente volute di fumo che si protendevano verso di lui, il suono vago che lo aveva svegliato poco prima gli aveva carezzato nuovamente l’udito, stavolta più nitido e vicino. Voltatosi di scatto, aveva scorto un’ombra accanto alla finestra, mentre le note dolci e acute di un violino parevano prendersi gioco di lui.
«Chi sei?».
La domanda si era fatta strada fuori dalle sue labbra in mezzo a pigri colpi di tosse, primo segno delle spire del fumo che cominciavano a stringersi intorno al suo collo; eppure esse erano lente, troppo per la rapidità con cui il fuoco aveva, invece, ghermito il secondo piano.
L’ombra non aveva risposto; in compenso, il violino che stava suonando, con una nota più acuta e quasi stridula rispetto alle altre, sembrò farlo per lei. Nello stesso istante, le fiamme gli erano giunte di colpo alle spalle e con rovente violenza lo avevano spinto al centro della stanza, lasciandogli sulla schiena scottature stranamente leggere.
Dal pavimento scricchiolante per il calore e grazie al riverbero del fuoco, aveva così distinto meglio la figura che suonava nell’oscurità e, in mezzo a quel caldo, la sorpresa lo aveva fatto trasalire di gelido terrore.
«Eve?».
La ragazza – le stesse morbide onde di capelli neri che le carezzavano i fianchi, la stessa pelle color caramello, la medesima espressione assorta e concentrata e quella fascia rossa che era solita indossare sulla chioma corvina stavolta arrotolata intorno al polso della mano con cui reggeva l’archetto, mentre lui tentava di convincersi che non poteva essere lei – aveva così aperto gli occhi, fissandolo con le iridi scure piene di scherno e disprezzo. «Non sei il primo a scambiarmi per mia sorella», aveva risposto. «Dopotutto, siamo sempre state parecchio simili».
«Tua sorella? Cosa...», era stato il suo balbettio confuso, ma poi aveva rammentato. «Mi ricordo… Mi ricordo di te! Al processo!».
«Già», aveva replicato lei, con sguardo tagliente d’ira trattenuta. «Il processo».
«Perché sei qui? Che cosa vuoi da me?», le aveva domandato tossendo.
«Giustizia», era stata la risposta, mentre le note si facevano più basse e inquietanti, quasi ipnotiche; come il lento incedere di un serpente che tentava di ammaliare la propria preda prima di colpire. Voltandosi preoccupato verso la porta e il fuoco, si era accorto che le fiamme – alte e tante, troppe, incandescenti – stavano immobili sulla soglia, bruciando silenziose e senza avanzare. In attesa.
«Giustizia per una sorella assassinata», aveva intanto continuato la ragazza. «Giustizia per la sorella che tu mi hai portato via».
Lui era così tornato a fissarla. «Allora sei nel posto sbagliato: non l’ho uccisa io, tua sorella! Sono stato scagionato!».
«Il tribunale ti ha scagionato, non io».
«Ti prego», l’aveva allora supplicata. «Non possiamo parlarne dopo essere usciti di qui? Sta bruciando tutto, moriremo entrambi se non ce ne andremo!».
E a quelle parole, per la prima volta, la musica del violino si era fermata: la ragazza aveva cessato di suonare. Fissandolo con biasimo e disgusto, come lo compatisse per qualcosa, una lieve risata aveva scosso il suo petto. «Non lo hai ancora capito, vero? Tu non uscirai mai di qui». L’attimo dopo aveva risollevato il violino e ripreso a eseguire la melodia; di nuovo delle note alte e le fiamme che indugiavano sulla soglia avevano invaso la stanza.
Il suo impulso era stato quello di arretrare mentre le vedeva avanzare, rosse e affamate, a spazzare via la tenue penombra, ma ogni movimento da lui compiuto si era rivelato innaturalmente lento, come se qualcosa lo trattenesse, e adesso, steso a pancia in giù su quel pavimento troppo caldo,  il terrore aveva ormai il totale controllo di lui.
Le fiamme erano ovunque, rosse e abbaglianti.
Il calore era tale che sentiva la pelle scottare, mentre gli occhi pizzicavano per il fumo che lo aggrediva stringendogli la gola e i polmoni. Tossiva e il suo petto si alzava in cerca di un’aria che non trovava.
Il fuoco serpeggiava lungo le pareti, si inarcava sul soffitto. Alcune di quelle infernali lingue rosse gli strisciarono sui piedi e proseguirono lungo le sue gambe, divorando in pochi attimi la stoffa del pigiama e ustionandogli la pelle, mentre il dolore lo faceva urlare. Un’altra nota acuta, seguita subito da altre più basse, e le fiamme smisero di avanzare, bruciandolo fin dov’erano giunte con lentezza insopportabile.
«È così che urlava Eve?», domandò allora la ragazza, rabbia gelida e lucida mentre bagliori rossi si riflettevano nelle sue iridi scure. «Anche lei ti ha supplicato di smettere, prima di morire?».
«Sì!», rispose allora lui, tra il fumo, il fuoco e il dolore. «Sì!», ripeté. «È vero, sono stato io, l’ho uccisa! Mi dispiace! Mi dispiace!». Piangeva di sofferenza e disperazione e le lacrime che gli riempivano gli occhi evaporavano nel momento in cui scendevano lungo le guance sporche di fuliggine, lasciando solchi chiari a inframmezzare quello strato di cenere nera.
La ragazza chiuse allora le palpebre, incapace di tollerare oltre la vista di quell’essere indegno di pietà alcuna. «No, invece», ribatté. «Non è vero».
La melodia del violino proseguì rapida, il susseguirsi delle sue note che si rincorrevano nell’aria rarefatta dal calore. La ragazza ondeggiava la testa assecondandone il ritmo e il fuoco le ballava intorno, rispondendo a suoi comandi e bruciando le gambe dell’uomo lentamente e fino all’osso. Ormai privo della forza di urlare ancora, esausto per la paura e il dolore, il viso schiacciato sul parquet bollente, guardò le fiamme volteggiargli intorno e circondarlo in cerchi sempre più stretti, come in una letale danza di fate.
Quando finalmente il legno cedette e il pavimento sotto di lui crollò, l’ultima cosa che i suoi occhi distinsero, un istante prima che diventassero vitrei, fu il sorriso estatico della ragazza che continuava a suonare.
 
*****
 
«Che cosa abbiamo qui?», domandò il detective Paul Miller, reprimendo uno sbadiglio. La telefonata lo aveva svegliato nel cuore della notte e sebbene in un’altra circostanza avrebbe certo maledetto in ogni lingua a lui nota il malcapitato agente che aveva spezzato il suo sonno, stavolta si era vestito senza proferire verbo non appena aveva sentito il nome della vittima.
Marco Lopez, il suo collega, gli andò incontro nel vialetto per fargli il punto della situazione. «Chuck Martin è morto nell’incendio scoppiato in casa sua, approssimativamente tra le due e mezza e le tre di stanotte», disse. «I vicini hanno chiamato i pompieri dopo essere stati svegliati dalle urla. Dicono siano durate per parecchi minuti».
«C’è la possibilità ci fosse qualcuno con lui? Che l’incendio sia servito a coprire un omicidio?».
«Finora non sembrano esserci prove che lo indichino, ma dalle condizioni della casa, personalmente credo che anche ce ne fossero non le troveremmo».
Miller aggrottò la fronte. «Che intendi dire?», domandò.
«Il fuoco ha distrutto ogni cosa, più di quanto non avvenga di solito. Il legno, i muri, gli infissi, perfino i cardini e quel che resta dell’impianto elettrico, è come se l’intero edificio fosse… marcio», spiegò Lopez. «Ogni cosa presenta segni di usura e ruggine e questo gli ha consentito di bruciare più in fretta».
«Martin era un docente universitario, guadagnava bene, è impossibile che casa sua fosse in simili condizioni».
«Non lo era, infatti. Sembra avesse ristrutturato tutto appena quattro mesi fa».
Prima che il detective Miller potesse ribattere ulteriormente, si avvicinò loro Miguel Rodriguez, comandante dei vigili del fuoco.
«Non ci sono segni di dolo», annunciò levandosi il casco e mettendoselo sotto braccio. «L’incendio è partito da un cortocircuito in salotto. L’impianto elettrico è un disastro, non si è nemmeno attivato il dispositivo antincendio».
«Marco mi ha detto che lo stesso vale per il resto della casa, eppure era stata ristrutturata di  recente. Hai mai visto qualcosa di simile?».
«In quindici anni di questo lavoro? Mai».
Lopez colpì il gomito del collega con un gesto della mano e col mento indicò un punto alle sue spalle. «Quella non è Debra Williams?», chiese poi.
Rodriguez guardò anche lui insieme ai detective. «Chi sarebbe?».
«Sua sorella era una studentessa di Martin», rispose Miller. «Il bastardo l’ha uccisa circa sei mesi fa – dodici coltellate – e poi ha ripulito la scena del crimine con la candeggina. Non avevamo prove per incastrarlo e l’ha fatta franca».
«Credi c’entri qualcosa?», gli domandò allora il comandante dei pompieri. Lo conosceva bene e, come Lopez, riconosceva il sospetto nello sguardo dell’amico, quando lo vedeva. «Non può essere stata lei, Paul, l’incendio è accidentale. Non ci sono dubbi a riguardo», aggiunse poi.
«È comunque strano si trovi qui la notte in cui l’assassino di sua sorella muore in un incendio, non credi?», rispose quello. «Vado a parlarle».
Debra teneva le braccia incrociate e lo sguardo fisso su ciò che restava della casa. Quando il detective le si avvicinò in mezzo alla folla di curiosi del vicinato, la ragazza parlò prima ancora che lui aprisse bocca. «A volte il tempo scorre più veloce di quanto non sembri, non è vero?», disse.
Miller la fissò sorpreso per alcuni istanti: aveva trovato interessante quella particolare scelta di termini, considerate le strane condizioni dell’abitazione di Chuck Martin. «Sai forse qualcosa?», le chiese quindi, senza molti preamboli.
«Io? Oh, nulla, detective. Pensavo solo ad alta voce», rispose lei.
«Come mai sei qui alle quattro del mattino?», le chiese ancora Miller.
Debra continuava a fissare le macerie nere della casa. «Passavo per caso», replicò semplicemente. Poi un mezzo sorriso soddisfatto le increspò le labbra e finalmente spostò le iridi scure su di lui. «Per conto mio, credo che il tempo sia il più efficace dei vendicatori, non trova anche lei?».
 
 
 
FINE






Angolo autrice:
Salve a tutti e Buon QuasiNatale!
Q
uesto racconto partecipa al contest Opere d'Arte in Frasi indetto da Jo_gio17 sul forum di EFP ( http://freeforumzone.leonardo.it/d/10706114/Contest-Opere-d-Arte-in-Frasi/discussione.aspx ) ed è nato, anche, grazie a questo stesso contest, che prevedeva di scegliere un dipinto fra quelli proposti dall'ideatrice e trarne ispirazione per una storia. Io ho scelto Danza di fate, di Kush ( http://www.settemuse.it/pittori_scultori_europei/kush/vladimir_kush_012_fiery_dance.jpg ) che a mio parere è stupendo.
Sono due settimane minimo che aspetto di postare questo povero racconto, ma per via di un esame ho trovato il tempo solo adesso (meravigliose vacanze *-*). La OS presenta un tema che ho già trattato in precedenza. Dei Figli del Tempo – figure di mia invenzione per le caratteristiche che ho attribuito loro – ho parlato nella storia Lo Spartito del Tempo (qui il link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=894517&i=1 ), con personaggi diversi, ovviamente, ma chi sono e quali capacità possiedono è già spiegato lì, per questo non ho voluto specificare nulla in questa storia. L’idea era quella di un episodio che avesse un inizio e una fine, senza troppi preamboli. Mi sento però emozionata perché questi due racconti andranno a formare la mia prima serie *-*
Del brano musicale che mi ha ispirata ho già accennato all'inizio e se siete arrivati fin qui avrete ormai anche capito il ruolo che ha ai fini della trama.
Oggi sono di poche parole (approfittatene! xD) ma è anche vero che non ho molto da dire su questa storia - a parte che spero vi piaccia! -, si spiega abbastanza da sé. Mi sono divertita a dare vita alle fiamme, a renderle quasi umane.
Per il resto, buon Natale a tutti, anche se in anticipo, e un bacio!

Graine
   
 
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