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Autore: Dicembre    19/05/2008    11 recensioni
Inghilterra, 1347.
Di ritorno dalla battaglia di Crécy, un gruppo di sette mercenari è costretto a chiedere ospitalità ed aiuto a Lord Thurlow, noto per le sue abilità mediche. Qui si conoscono il Nero, capo dei mercenari, e Lord Aaron. Gravati da un passato che vorrebbero diverso, i due uomini s'avvicinano l'uno all'altro senza esserne consapevoli. Ne nasce un amore disperato che però non può sbocciare, nonostante Maria sia dalla loro parte. Un tradimento e una conseguente maledizione li poterà lontani, ma loro si ricorreranno nel tempo, fino ad approdare ai giorni nostri, dove però la maledizione non è ancora stata sconfitta. E' Lucifero infatti, a garantirne la validità, bramoso di avere nel suo regno l'anima di Aaron, un prescelto di Dio. Ma nulla avrebbe avuto inizio se non fosse esistita la gelosia di un mortale. E nulla avrebbe fine se la Madonna e Lucifero fossero davvero così diversi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo




Anno del Signore 1348



La luce che filtrava dalla finestra feriva i tuoi occhi, troppo intensa per la tua malattia, troppo accecante per vedere la realtà: non sarebbe tornato e lo sapevi.

Lo sapevi sin dalla notte di un mese fa quando, dopo aver messo da parte educazione, morale e religione, avevate consumato il vostro peccato, lasciando che l’alba pulisse le vostre anime. Te l’aveva detto e non gli avevi creduto.

Chissà perché…

Forse non gli avevi creduto perché avevi voluto leggere, nelle sue parole, qualcosa che non c’era, forse e più probabilmente, perché speravi che mentisse.

Ma lui non ha mai mentito, è stato sciocco pensare iniziasse a farlo quella notte.

E’ buffo perché ora che ti manca come e più di prima, ricordi quella notte e la maledici; disconosci tutto, quello che è stato e ciò che eri, piangendo e rinnegandolo, perché t’ha ingannato.

Ha tessuto la sua tela, ha imparato a prendersi gioco di ciò che eri e poi se n’è andato. Dannato essere d’infima estrazione, bellissimo, come ti hanno detto essere il diavolo.



C’è una voce, da qualche parte in te, che continua a ripeterti che ciò che avete condiviso deve, per forza di cose, avere una qualche valenza, non solo per te, ma anche per lui.

Ma non credi più alle favole. Se da piccolo eri un sognatore, hai imparato presto che niente è come ti raccontava la buona e vecchia Dalia. Niente è come vorresti, e lui neanche oggi, verrà.

Ormai sai che non ce la fai più, i medici bisbigliano, hai visto i volti terrei della servitù, ma tu già sapevi che per il tuo male non c’era cura perché il tuo corpo è troppo debole, e perché il tuo cuore ti ha già lasciato.



Ti chiedi se sia sbagliato amare così tanto un uomo che non si ricorda il tuo nome e che non viene al tuo capezzale ad esaudire il tuo ultimo e sciocco desiderio: vederlo. Vedere le linee del suo viso, armoniche e così perfette da sembrare dipinte, i suoi occhi neri che così tante volte hai incontrato e rifiutato. Ma non perché non lo volessi, no. Perché pensavi che tutto quello che eri e sapevi, avesse un senso, che peccare di fronte a dio e agli uomini, fosse qualcosa che tu non potessi fare.

Non tu, sempre cosparso di luce e inondato di gloria…

Sorridi, se solo gli altri sapessero quello che tu sai, del tuo dolore e della tua redenzione fra le sue braccia. Perché lui ti ha curato, ti ha perdonato e t’ha fatto rinascere. E ora ti lascia morire, solo, senza metafore, senza addii, ma nel più asettico dei modi: nel tuo letto, fra lenzuola gelate che ti affanni ad annusare nella speranza che ci sia ancora qualcosa di lui.

Perché non è lì con te?




Sono passati diversi giorni da quando hai inviato Cleto, il vostro falco. Non è possibile che il vostro compagno vi abbia tradito e non abbia consegnato il messaggio, non è credibile che abbia smarrito la strada. Il falco è testardo come il padrone - a questo pensiero non puoi che sorridere - avrebbe cercato il suo signore ovunque, l’avrebbe trovato e avrebbe fatto il suo dovere: gli avrebbe comunicato di tornare.

C’è quindi un’unica spiegazione alla sua assenza: deliberatamente ha deciso di ignorarti, come già aveva detto. Deliberatamente, s’è scrollato di dosso quella notte, le sue parole, e ti ha lasciato solo nel tuo letto di morte.

Maria ti era apparsa, in questa stessa stanza, bella come ti è impossibile descrivere, di una dolcezza che ti ha commosso, e ti aveva parlato. Ti ha tenuto le mani nelle sue e ti ha accudito, nelle notti d’inverno, anche se solamente una volta s’è mostrata a te.

Maria … che t’ha permesso d’amarlo più del suo Signore, più di te stesso e che ha capito che nulla tu toglievi a lei, a te o a Dio, perché ciò che avevi, volevi solo donarlo: questo è ciò che ti aveva insegnato il Padre, e così facevi.

Maria che forse avrà sentito i suoi baci, le tue promesse e che ora si sta apprestando a portarti nella sua dimora, lasciando qui chi non ti vuole e non arriva, chi ti ha avuto e t’ha lasciato.



Si appresta la sera, la luce che filtra dalle finestre è più tenue, ma ti ferisce gli occhi comunque, che stillano lacrime. Sarà per la malattia, pensi tu.

Ancora poche ore, e te ne andrai, ancora poche ore, ma sai che ormai lui non verrà. Lo vuoi vedere, lo vuoi maledire e ridirgli che non amerai mai niente e nessun altro come ami lui. Lo vuoi uccidere con le tue mani e pregarlo di abbracciarti. Lo vuoi anche solo accarezzare, con questi tuoi sensi che ti stanno abbandonando, ottusi dalla peste.

Lo vuoi con te, a proteggerti, dalla morte che ti fa paura e dalla solitudine alla quale non scapperai, né qui, né in Cielo, ma che, se lui non c’è, è la tua sola compagna.

Non sarà Cleto a riportartelo, non sarà il tuo pianto a commuoverlo, perché ti ha dimenticato e nell’ora della tua morte, lui è volontariamente lontano da te.

Non ti piangerà, non sentirà la nostalgia che ti ha invaso il cuore, insieme alla consapevolezza di non essere niente.

E di morire solo.

 

*

 

Capitolo Uno

 - La Locanda della Volpe Reale -






Anno del Signore 1347



L’acqua che scendeva dai cieli era intrisa di un intenso odore salmastro, nonostante quelle terre fossero piuttosto lontane dal mare. Nella vallata verde, che quasi sembrava essere una bacinella fra i pendii della Cornovaglia, un gruppo di uomini a cavallo avanzava faticosamente, coprendosi come potevano con i loro mantelli. Gli zoccoli faticavano ad alzarsi dal terreno dopo ogni passo. Il peso del cavallo e del suo cavaliere li faceva affondare nel terreno reso fangoso dall’acqua e ormai anche le bestie, per quanto devote, iniziavano a mostrare segni d’impazienza.

“Dobbiamo trovare riparo, manca poco al calar del sole” disse uno degli uomini in fondo al gruppo.

“Sei fortunato a vederlo il sole da queste parti Cencio” ne seguì una breve risata, ma i cavalli non si fermarono.

Allora dopo poco l’uomo che era stato chiamato Cencio riprese “Sole o non sole, giuro che alla prima baracca che vedo mi fermo e ci passo la notte, magari con una birra ed una bella donna”

Fu di nuovo l’uomo che prima aveva risposto a parlare “Certo, Cencio, e magari vicino ad una fontanella dove zampilla vino e dove l’oste ti copre d’oro al solo sentire il tuo nome”
”Del resto siamo famosi eroi…” La frase suscitò qualche risata nel gruppo
”Hai propria l’aria in testa, Cencio! Non siamo eroi, e di certo non siamo famosi”

“Parla per te, Luppo” disse Cencio stringendosi nelle spalle. Stava per continuare quando fu interrotto dall’uomo ammantato di nero che guidava il gruppo, anche lui col viso coperto dall’ombra del cappuccio. “Oltre quella collina” indicò con un brevissimo cenno della mano “c’è una locanda, ci passeremo la notte”

“Visto Cencio, sei stato accontentato, non dici niente?”

Cencio diede un comando al proprio cavallo che allungò il passo, raggiungendo il fianco del suo interlocutore “Riflettevo, Luppo” disse una volta arrivato vicino all’amico “certo che gli Inglesi hanno un bel coraggio a chiamare quel rilievo una collina, sembra la cunetta che separava casa mia da quella di mia nonna”

Luppolo scoppiò in una grossa risata, ma poi finse riserbo “Non ti fare sentire Cencio, potresti offendere l’orgoglio di un’intera nazione e sai che il capo è molto sensibile sull’argomento”
”Sarà anche molto sensibile, però quella cosa lì non è di certo una collina…”

“Sai come sono quest’isolani” scrollò le spalle Luppolo “tutti strani” aggiunse picchiettandosi la testa con un dito.



Nei pressi della locanda, il gruppo accelerò il passo, desideroso di trovare finalmente riparo. La casa dove arrivarono era molto grande, dalle finestre usciva un leggero fumo di condensa e si potevano udire, sin da fuori, le voci dei suoi occupanti.

Cencio scese di fretta del cavallo ed entrò. Il locale era pieno di gente, forestieri probabilmente, che come i cavalieri, cercavano riparo dalla pioggia scrosciante. Un buonissimo odore di stufato aleggiava per tutta la sala, Cencio non poteva chiedere di meglio.

Un ometto paffuto gli si avvicinò:

“Benvenuto, signore, alla locanda della Volpe Reale, posso esservi d’aiuto?”

“Avremmo bisogno di un buon pasto e di riparo per la notte. Io e i miei compagni siamo stremati dal lungo viaggio e dal tempo. Avremmo anche bisogno di un po’ di biada per i nostri animali”
”Certo certo” rispose solerte l’oste “vi mando subito il mio ragazzo a prendersi cura dei cavalli...”. E così dicendo fece un cenno della mano ad un ragazzetto rosso tutt’ossa che, rapido, si alzò dal posto in cui sedeva e s’avvicinò a Cencio. “Signore” disse inchinandosi “perdonate se forse vi sembro insolente, ma è un arco lungo quello che portate in spalla?”

Cencio che aveva dimenticato da tempo di portare legato alla schiena il suo arco lungo, fu sorpreso della domanda “oh sì “rispose dopo un attimo “è la mia seconda pelle e quasi dimenticavo di averla addosso!”

“Ma allora dovete essere di ritorno da Crécy!” a queste parole molti nella locanda si girarono a guardare il nuovo arrivato. Alcuni annuirono, altri bisbigliarono parole d’ammirazione.

“Siamo stati a Crécy, sì, ma ti potrò raccontare tutto quando mi sarò scaldato, e con me i miei compagni. Forza, occupati dei loro cavalli e poi, se ti fa piacere, vieni a sederti alla nostra tavola”

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Da quelle parti era così raro che succedesse qualcosa che non poteva credere di avere incontrato guerrieri di ritorno da Crécy.

“Ehi, Cencio” Luppolo richiamò l’attenzione del compagno “invitare il marmocchio al nostro tavolo non farà molto piacere agli altri”
”Oh beh, è giusto distrarsi un po’, gli altri dovrebbero imparare a vivere più sereni”

“Sereni…A me pare che vivano piuttosto sereni. Sei tu che sei esagitato! Ma ora andiamo a sederci, così lo stufato ti chiuderà quella bocca prima che dica cose troppo insensate”

“Tanto con lo stufato arriva la birra, ci penserà lei ad incoraggiare la parlantina del nostro giovane, non che questo sia necessario, sia chiaro.”. La persona che aveva parlato era appena entrata nella sala.

Dopo essersi tolto il cappuccio inzuppato, guardò tutt’intorno a sé con occhi vigili. Guardia era noto per non abbassare mai l’attenzione e da qui il soprannome. Ogni luogo che visitava, ogni posto in cui si trovava, veniva studiato, controllato e memorizzato da quegl’occhi azzurri e piccoli ai quali pareva non sfuggire mai un particolare. La sua attenzione per il pericolo lo avevano reso un membro insostituibile del gruppo che contava su questo in molte situazioni. Del resto l’istinto gli aveva più volte dato ragione e questa sua abitudine – o forse chiamarla attitudine le renderebbe più giustizia – ormai gli era diventata naturale.

Dopo essersi guardato tutt’intorno, Guardia andò a sedersi al tavolo “Se Guardia ci dà l’ok, allora mi siedo anch’io”
”Rimarrai secco prima o poi, se t’affidi ai sensi di un altro per scovare il pericolo” ma ormai Guardia era così abituato al suo ruolo che trovava piacevole la fiducia che gli altri avevano di lui.

Dopo che Guardia, Luppolo e Cencio si erano seduti al loro tavolo, entrarono nella locanda altri tre cavalieri che raggiunsero i compagni liberandosi dei mantelli zuppi.

“E il Nero dov’è?” chiese Cencio

“Dai cavalli ancora, vuole assicurarsi che stiano bene. Dopo il viaggio e carichi com’erano, non mi stupirei se fossero sfiancati.”.

“Si vede che Nero è il capo” sorrise Cencio “io sono corso al riparo dal freddo, lui si preoccupa anche dei suoi animali”

“Tu sei un marmocchio, Cencio, questa è la differenza, e lui è un grand’uomo” all’affermazione di Luppolo, gli altri annuirono.

“A chi vi state riferendo?” ad aver parlato era il ragazzetto che aveva mostrato la stalla ai cavalieri “A quello che parlava coi cavalli?”

“Parla di più ai cavalli che agli uomini, questo è certo, di sicuro non dice mai una parola di troppo” Disse Luppolo, enfatizzando le sue parole con un gesto “ Ma ogni cosa che dice ha sempre senso, è come se lui capisse subito la situazione e sapesse come muoversi… Non so come faccia, sembra sempre un passo avanti a tutti”

“Questo lo dici perché hai le gambe corte” ironizzò Cencio causando delle grasse risate da parte dei compagni.

“Ma se sono più alto di te di una spanna!” disse Luppolo che anche lui, a malapena, riusciva a trattenere le risa “Te la taglierò quella lingua, prima o poi, lo sai…”

“Comunque ragazzo” disse un altro dei cavalieri seduti al tavolo “quello che ha detto Luppo è vero, se da grande vorrai andare in guerra o unirti a dei mercenari, trova un capo come il Nero, che non fa mia scelte azzardate, che non rischia mai la vita dei suoi uomini più della sua. E che ti rispetti…” le parole di Forgia furono interrotte dall’oste che portò al tavolo le birre.

“Ecco a voi. Lo stufato arriverà tra poco…e tu, Jake, non dar troppo fastidio” il ragazzo annuì ma rimase fermo sulla sua sedia, desideroso di ascoltare le storie che quegli uomini avevano da raccontare.

Nero finalmente entrò nella locanda. Si scostò il cappuccio dal viso e ne apparve un uomo sulla trentina, con occhi neri incredibilmente profondi. Jake lo guardò a lungo, con la bocca leggermente aperta, lui era l’uomo di cui gli altri avevano parlato con così tanto trasporto. Questi si avvicinò al tavolo senza dire niente, sorridendo con dei perfetti denti bianchi.

“Voi dovete essere il Nero” disse Jake mettendosi sull’attenti ed inchinandosi.

“Così pare che gli altri mi chiamino, sì” disse lui, sedendosi alla tavola.

“Dovete di certo avere un nome proprio. Sono troppo impertinente nel chiedervelo?”

“Tutti abbiamo dei nomi propri, Jake. Noi però abbiamo lasciato il nostro molto tempo fa. Nessuno ormai lo usa più” gli spiegò Cencio. Jake fu tentato di chiederne il motivo, ma i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dal volto di quell’uomo, per cui tacque. Oltre alla sua bellezza, quello che rapì Jake fu il carisma di un uomo che aveva solo mosso due passi all’interno di una locanda fumosa, ma che sembrava circondato da un’aura di sicurezza e forza.

Il Nero, però, non badò al ragazzino scrutatore, la sua attenzione era stata catturata da altro.

“Forgia, ti senti bene? Hai una pessima cera”

Forgia annuì e non rispose subito, trasse un grosso respiro prima “Sì, dev’essere stata la pioggia a stancarmi più del dovuto. Una notte di sonno al coperto e la pancia piena di sicuro mi rimetteranno in piedi”

“E la ferita sulla spalla come va?”

Forgia fece un gesto vago con la mano, come per scacciare i dubbi “Guarisce, meglio di ieri comunque”
Nero fece cadere la questione, nonostante i cerchi sotto gli occhi di Forgia e le labbra incredibilmente pallide lo preoccupassero.

“Eccovi signori, lo speciale stufato della casa” disse l’oste portando in tavola le ciotole e il pane.

Lo stufato si rivelò essere davvero delizioso, le cipolle all’interno erano croccanti e la carne ricca. Il pane raffermo, poi, inzuppato nel brodo, fu apprezzato particolarmente da Cencio che se ne fece portare una doppia razione.

Solo Forgia non mangiò molto

“Non hai appetito? Posso mangiarmi anche il tuo?” Chiese Cencio che senza aspettare risposta si sporse a prendere la ciotola del proprio compagno.

“Hai proprio l’aria nella testa” lo rimproverò Luppolo “mangia il tuo e lascia che gli altri mangino come vogliono. Anche se Forgia non ingurgita le pietanze come fai tu, non vuol dire che abbia meno fame di te”
Ripreso come un bambino, Cencio si strinse nelle le spalle e lasciò la ciotola all’amico

“Certo che dovrai smetterla di trattarmi come un bambino”
”La smetterò quando finirai di esserlo, Cencio.”.

Ma Forgia, nonostante le parole di Luppolo, non toccò più un boccone, Era diventato rosso in viso e sudava.

“Tu non stai bene”

“No, è che mi sento soffocare qua dentro” disse alzandosi “Esco e prendo un po’ d’aria”, ma appena in piedi, l’uomo cadde a terra, pesantemente. Aveva il respiro affannoso e la pelle ustionante.

“Ha la febbre altissima” disse Guardia toccandolo. Nero slacciò la casacca del compagno e gli scoprì la spalla.

“Gangrena!”. La ferita che Forgia aveva sulla spalla era nera e gonfia, tutt’intorno al taglio che non s’era rimarginato, c’era un pus verdastro misto a sangue.

“C’è un medico qui?” Chiese Nero all’oste che era accorso a vedere cosa fosse successo.

“No mi spiace, è un gruppo di poche case su di un crocevia, nessun medico nei paraggi”

“Maledizione, perché non ci ha avvertiti?” chiese Cencio

“Datemi un po’ d’acqua fresca” bisbigliò il malato a terra.

Jake corse a prenderla “Eccovela signore” disse porgendola a Nero che la diede da bere al compagno, mentre cercava una soluzione che sapeva non esserci.

“La malattia è già entrata nel sangue” disse l’oste “non c’è niente da fare”

A queste parole gli occhi di Nero diventarono, se possibile ancora più scuri e l’oste fece un passo indietro, intimorito.

“Mio marito ha ragione” comparve da dietro una donna grassa, probabilmente sulla cinquantina “ne conosco di ferite così, e non si guarisce. Ma se volete avere una speranza, potete andare al castello dei Thurlow”

Nero guardò la donna impaziente che continuasse “E’ a circa tre ore, forse due se il cavallo è al galoppo, da qui. Ci vivono il vecchio Lord e suo figlio, Aaron Thurlow. Si dice che lui abbia doti mediche fuori dl comune”

“Ragazzo, sellami il cavallo e procurami delle corde”
Jake rimase interdetto “corde?” ma lo sguardo del Nero non gli permise di fare ulteriori domande e si dileguò a fare il suo dovere.

Gli altri invece, non ebbero bisogno di fare alcuna domanda. Se questo castello distava 2 ore di galoppo, il cavallo del Nero per quanto possente, si sarebbe sfinito a portare due uomini sul dorso. Dopo gli ultimi giorni in cui il riposo era stato poco e la marcia lunga e dopo che era neanche da un’ora che stava riposando i muscoli, avrebbe rischiato di non portare il suo cavaliere a destinazione. Legando invece Forgia al suo cavallo, si sarebbe anche velocizzato il passo. Jake tornò subito con le corde, mentre Nero e Luppolo alzavano Forgia da terra.

“Grazie per la vostra ospitalità e per l’informazione". Disse Nero prima di uscire, lasciando due monete d’oro sul bancone.

L’oste non poteva credere ai propri occhi e inchinandosi più del dovuto, ricambiò i ringraziamenti.

“Andate tutti?” Chiese Jake stupito, quando vide che tutti stavano slegando i propri cavalli “ma non è necessario…”
”Non si lascia mai un compagno solo, ragazzo” gli insegnò Guardia “specialmente un fratello” e così dicendo passò la mano sull’elsa della sua spada “si è uniti nel pericolo della guerra, ma la notte può riservare uguali e spiacevoli eventi” Jake allargò gli occhi e annuì serio in volto.

“Indicatemi la strada!"

A rispondere fu la donna che aveva indicato il castello dei Thurlow come unica soluzione, che era uscita dalla locanda con una torcia in mano.

“E’ una torcia moresca, non si spegnerà con l’acqua. La tenga il primo del gruppo, eviterà agli altri di perdersi. Oggi è notte di luna nuova.” Nero prese le torcia in mano e fece un cenno di ringraziamento “Andate dritto per di qua” continuò la donna indicando la strada che costeggiava un fianco della locanda “Seguite la strada e non l’abbandonate. Attraversate il bosco ai margini della valle. Ai limiti dei bosco girate verso Nord. Il castello vi comparirà molto prima che lo raggiungiate perché è su di un’altura e da uno dei torrioni brilla sempre un fuoco. Sarete in grado di vederlo anche di notte”

“Che Dio vi benedica signora, a buon rendere” e così dicendo, Nero incitò il proprio cavallo e quello di Forgia a partire, e gli altri fecero lo stesso. Non aveva ancora smesso di piovere, e in quella notte senza luna, le gocce di pioggia sembravano più taglienti sul il volto dei cavalieri. Il lumicino portato dal Nero scomparve presto, in lontananza, e la moglie dell’oste rientrò nella sua locanda, chiedendosi se quel cavaliere ce l’avrebbe fatta.




 

  
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