Serie TV > Once Upon a Time
Segui la storia  |       
Autore: Charlotte McGonagall    01/01/2014    3 recensioni
La Fata Turchina sa di avere grandi responsabilità e che questo le impone il distacco da ogni genere di sentimento; ma come si comporterà nel momento in cui, suo malgrado, si innamora? Quale sarà la cosa giusta da fare?
Archie/Fata Turchina
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Archibald Hopper/Grillo Parlante, Madre Superiora/Fata Turchina
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Nda: ecco, finalmente, il secondo capitolo! Spero vi piacerà. In ogni caso, come sempre, sarò comunque lieta di avere il vostro parere. Anche stavolta, il capitolo non è betato, quindi mi scuso per eventuali errori di battitura e vi prego di indicarmeli (ovviamente l'ho riletto più volte, ma il rischio di lasciarseli sfuggire è sempre in agguato!). Questo secondo capitolo è stato scritto dal punto di vista di Archie, il che all'inizio mi ha causato non poche difficoltà. Ho scoperto che caratterizzarlo non è così facile come credevo. Spero di non essere andata OOC.
Comunque ci sarà anche un terzo capitolo, che dovrebbe essere l'ultimo.
Da questo momento, la storia diventa una what if? in quanto gli sviluppi della 3x10 e della 3x11 mi impedivano di usare questo plot bunny che avevo plottato da un po'. Inizialmente avrebbe dovuto essere una storia a parte, ma l'ho integrato alla trama di questa ff.
Il capitolo è dedicato a Manu, che voleva tanto questo sequel!

Step one: you say, 'we need to talk'
He walks, you say, 'sit down it's just a talk'
He smiles politely back at you
You stare politely right on through
Some sort of window to your right
As he goes left and you stay right
Between the lines of fear and blame
You begin to wonder why you came

Where did I go wrong? I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life
[The fray, How to save a life]

La sala da pranzo - seppur piccola e modesta - evocava un senso di cura e calore familiare. Per un momento, quasi mi sembrò di essere tornato nella Foresta Incantata, all'epoca in cui vivevo nella bottega di Geppetto, assieme a lui e Pinocchio. Quello era stato probabilmente il periodo più felice della mia vita: sentivo di aver pagato il mio debito, di aver compiuto il mio dovere, di avere trovato in Geppetto e Pinocchio la famiglia amorevole che non avevo mai avuto. Mi ero illuso di essermi finalmente meritato un lieto fine. Tuttavia, ancora prima di essere scagliato, il sortilegio di Regina aveva sconvolto le nostre vite, portando alla luce la fragilità del mio piccolo mondo: Geppetto non mi aveva mai perdonato e le sue parole dure avevano riaperto le ferite del mio passato. In verità, ero stato uno stolto a credere che avrebbe mai potuto perdonare ciò che avevo fatto ai suoi genitori. Io avevo distrutto la sua famiglia, era già incredibile che mi tenesse ancora con sé.

Paradossalmente, con me la maledizioni non era stata crudele: Archie Hopper era una persona benvoluta, con un lavoro che amava e, soprattutto, nonostante tutti i dubbi, i pentimenti e le insicurezze, lui non era un assassino.
Recuperare la memoria era stato devastante. Ero di nuovo me stesso, ma avevo sperimentato un'altra vita, una vita libera da quell'opprimente senso di colpa, che ora gravava ancora più pesante su di me.
Avevo cercato di distrarmi, dedicandomi al lavoro e cercando in ogni modo di rendermi utile, ma - appena restavo solo - ero torturato dai ricordi.
Turchina era l'unica persona con la quale ne avevo parlato. Lei mi ascoltava, sembrava capirmi, non mi giudicava, aveva sempre una parola gentile e io facevo la medesima cosa con lei.
La osservai con la coda dell'occhio. Era seduta accanto a me, ma avevamo evitato di guardarci per tutta la serata e riuscivamo a stento a rivolgerci la parola. Fortunatamente, Geppetto era troppo allegro per notare la nostra ostilità reciproca; sarebbe stato ingiusto se i nostri problemi avessero rovinato la serata che aveva organizzato con tanta cura.
Da quando aveva ritrovato Pinocchio, aveva promesso di invitarci entrambi a cena e ora aveva mantenuto la parola.
Padre e figlio erano il ritratto della felicità e - benché anch'io gioissi per il loro lieto fine - ero consapevole di non esserne parte. Ora loro erano davvero una famiglia, mentre io ero rimasto solo. La verità era che Geppetto non aveva più bisogno di me; nessuno aveva davvero bisogno di me, nemmeno la donna che amavo, la donna che - per alcuni, folli, meravigliosi minuti - avevo creduto ricambiasse i miei sentimenti.
Era la prima volta da quando mi aveva rifiutato che mi trovavo così vicino a lei e questo riusciva solo ad aumentare la mia sofferenza. Per giorni avevo cercato di superare l'accaduto, ma rincontrarla aveva reso evidente che avevo fallito.

*

Uscimmo insieme dall'appartamento e io stavo per avviarmi rapidamente verso casa quando la sentii chiamare il mio nome.
Mi voltai e la guardai con più rabbia di quanta avrei voluto. Fui felice di vedere che aveva abbassato lo sguardo.
"Archie, mi dispiace, davvero," disse, visibilmente imbarazzata. "Non intendevo ferirti, volevo che lo sapessi. Mi piacerebbe ricominciare, dimenticare l'accaduto e magari... rimanere amici".
"Forse dovevi pensarci prima di illudermi," risposi seccamente.
"Lo so e mi dispiace. È stato un mio errore, ma credevo che saremmo morti e...".
"E hai pensato che avresti anche potuto usarmi, tanto non avrei mai saputo che non provavi niente per me," sbottai. Lei mi guardava come se non mi riconoscesse. Forse credeva che sarei stato gentile e accomodante mentre cercava di giustificarsi? Che avrebbe potuto sistemare le cose con due parole gentili? La rabbia non era un sentimento che manifestavo spesso, non era nella mia natura, ma questo non significava che non potessi essere furioso con lei.
La osservavo - la postura rigida e la mantella blu che si confondeva nel buio della sera - e sentivo di odiarla tanto quanto la amavo.
"Questo non è vero: se non provassi nulla non ti avrei mai baciato e ora non sarei qui a cercare di sistemare le cose". Il tono di Turchina era così ferito che la mia rabbia si placò in parte. Strinsi con forza il manico dell'ombrello.
"Dunque provi qualcosa per me?", chiesi, con voce più calma.
"In un certo senso".
"Avere da te una risposta chiara sarebbe chiedere troppo?", dissi, questa volta con più freddezza.
Lei esitò un istante.
"Io ti voglio bene, Archie, ma tra di noi non funzionerebbe. Finiremmo per essere infelici".
"Come puoi dirlo?", ribattei.
"Te l'ho detto: sono una fata," rispose, la voce carica di una cupa stanchezza. "Le fate non sono capaci di vero amore, non è nella nostra natura. Ho conosciuto fate che sono fuggite con un umano e non è mai finita bene. Ti renderei solo infelice".
"Mi hai spezzato il cuore: sono già infelice," protestai. "Qui non siamo più nella Foresta Incantata; il vero amore non nasce dal nulla, non è un attributo predestinato, il vero amore si può creare, va costruito con impegno, giorno per giorno, è qualcosa per cui lottare. E io voglio lottare per te. Non voglio rinunciare senza aver provato".
"Non è così semplice," sospirò. Per un attimo mi sembrò che la sua voce stesse per incrinarsi per la commozione, ma il suo viso si ricompose immediatamente. "Tu non avresti nulla da perdere, ma io sì; per stare con te dovrei diventare completamente umana. Essere una fata è la mia vita, è tutto quello che ho".
"Non è così," dissi, cercando di trattenere le emozioni contrastanti che provavo, "hai me".
Lei abbassò lo sguardo e non rispose.
"Ma non sono abbastanza, vero?," sospirai, più deluso che arrabbiato.
"Non metto in dubbio la purezza dei tuoi sentimenti, ma non siamo destinati a stare insieme," rispose, in tono neutro.
Mentre il dolore si affievoliva, il risentimento prese nuovamente il sopravvento.
"È la magia, vero? Sei come Regina e Tremotino, in fondo. Non sapete rinunciare alla magia, è come una droga per voi," sibilai.
A quelle parole, Turchina sgranò gli occhi e - per la prima volta quella sera - vidi la collera sul suo volto.
"Non paragonarmi a loro e non paragonare la mia magia alla magia oscura. Tu non sai niente di magia e non sai niente di me!", esclamò, il volto irrigidito dalla rabbia.
"Già, me ne sono accorto," commentai, in tono amareggiato.
"Sai, avevi ragione: sei proprio un egoista," continuò, pronunciando l'ultima parola con astio. "E sei anche ipocrita. Ti atteggi a coscienza, ma sei ancora lo stesso codardo che ho incontrato tanti anni fa. Rimani lo stesso bambino troppo cresciuto che aspetta che io rimetta ordine nella sua vita. È ora che tu diventi adulto, Jiminy!".
Detto questo, si allontanò. I tacchi bassi delle scarpe di vernice che battevano con forza sul marciapiede.

*

Quella notte riuscii a stento a dormire. Ero esausto e allo stesso tempo in uno stato di agitazione. Non riuscivo a smettere di ripensare all'accaduto. Ero ancora furioso con lei, ma continuavo a considerare la tristezza che ero riuscito a cogliere nella sua voce, a quell'accenno di commozione che aveva cercato di nascondere. Soprattutto, ero pentito di averla paragonata a Regina e Tremotino; avevo parlato senza riflettere e non avevo pensato a quanto l'avrei ferita; e, a dire la verità, dovevo ammettere che in quel momento l'idea di ferirla non mi dispiaceva.
Inoltre, su una cosa aveva ragione: ero stato egoista; dopotutto, lei non era certo obbligata a stare con me e io non avevo il diritto di pretendere nulla da lei. Lei mi aveva salvato da me stesso ed era stata l'unica a preoccuparsi davvero per me da quando il sortilegio era stato spezzato.
Era stata sempre gentile e premurosa, in un modo che contrastava con l'atteggiamento freddo e distaccato che aveva avuto dopo il bacio; che aveva con quasi chiunque altro, a dire il vero.
Quella donna per me era un mistero. Era altruista e generosa, ma era anche rigida e distante. Solo quella notte realizzai quanto rari fossero i suoi veri sorrisi. Sorrideva spesso, in realtà, ma raramente anche i suoi occhi si illuminavano. Tuttavia, quando lo facevano, il suo diventava il più bello e dolce dei sorrisi.

La sognai, in quella lunga notte: la vedevo tornare al suo aspetto originario e spiccare il volo, mentre io la chiamavo e cercavo invano di raggiungerla. D'un tratto, mentre la vedevo allontanarsi sempre di più, gli alberi attorno a me si fecero improvvisamente più alti e il cielo più lontano. Fu quando, invece di correre, iniziai a saltare, che capii che mi ero ritrasformato in un grillo.
Mi svegliai madido di sudore e mi fissai a lungo le mani tremanti e le gambe, come per accertarmi di essere completamente umano.

*

La mattina successiva, ero esausto e avevo un terribile mal di testa.
Lanciai un'occhiata a Pongo, che, come sempre, preferiva il mio letto alla sua cuccia.
"Immagino tu sia quanto di più vicino ad una fidanzata riuscirò mai a trovare," sospirai all'indirizzo del cane. Lui mi fissò per un momento poi mi leccò l'orecchio.
"Lo prendo come un sì," dissi, prima di scendere dal letto.

Dopo una tazza di caffè bollente e un'aspirina, mi sentivo meglio, ma il mio tumulto interiore non era cessato. Mentre camminavo per le strade di Storybrooke con Pongo al guinzaglio, durante la nostra passeggiata mattutina, continuavo a rimuginare sul litigio della sera precedente.
Sei ancora lo stesso codardo che ho incontrato tanti anni fa. Rimani lo stesso bambino troppo cresciuto che aspetta che io rimetta ordine nella sua vita. È ora che tu diventi adulto, Jiminy!
Pensava davvero quello che mi aveva detto? Perché l'ombra del mio passato continuava a perseguitarmi? Aveva persino usato il nome Jiminy, anche se sapeva che preferivo essere chiamato Archie. Quel nome non faceva che richiamare ricordi sgradevoli.

"Archie?".
Nel vedere l'oggetto dei miei pensieri sotto casa mia, quasi credetti di soffrire di allucinazioni. Invece, Turchina mi stava davvero venendo incontro a pochi passi dal palazzo in cui si trovava il mio appartamento.
Sospirai e la raggiunsi. Mi stavo mentalmente preparando ad un nuovo scontro, quando vidi il suo viso: teso e pallido, gli occhi arrossati e lucidi. Non l'avevo mai vista in uno stato simile.
"Posso rubarti un minuto?".
"Entra," le risposi semplicemente, invitandola con un gesto a seguirmi.
"Non è necessario," protestò, "sarò breve".
"Io invece penso che lo sia," ribattei, guardandola negli occhi.

Dopo diverse proteste e dopo averle assicurato che quel giorno non avevo pazienti da ricevere, riuscii a farla accomodare sul divano e a portarle una tazza di tè. Io mi sedetti sulla poltrona con una seconda tazza.
Forse era solo una mia suggestione, ma mi sembrò che le sue mani tremassero leggermente.
La invitai a parlare.
"Volevo chiederti scusa," disse, "ancora una volta... per tutto... soprattutto per ciò che ho detto ieri sera: erano cose che non pensavo davvero e me ne sono pentita immediatamente. E voglio dirti ancora una volta che mi dispiace per il dolore che ti ho causato. Ti prego di credermi quando dico che non ho mai avuto la minima intenzione di ferirti".
"Lo so," dissi ed era vero: avevo sempre saputo che non voleva ferirmi, ma provare rancore era molto più semplice.
Dopotutto, l'unico mistero di quella donna che - fino alla sera precedente - mi era parsa così impenetrabile era che non vi era alcun mistero, infondo. Era sempre stata sincera. Il quadro di insieme mi era improvvisamente più chiaro e ora capivo quel contrasto tra rigore e dolcezza che mi aveva sempre stupito. Pensai alla sua lunga vita: secoli dedicati alla causa in cui credeva, ad aiutare gli altri, secoli trascorsi ad esaudire i desideri altrui senza che nessuno le chiedesse mai cosa desiderasse per sé. Immaginai tutto: la dedizione completa alla sua vocazione; il peso della responsabilità e del potere; il prezzo della magia, come lo avrebbe definito Tremotino.
Quello della sua esistenza doveva essere un equilibrio molto fragile. Ero stato uno sciocco a non capirlo prima, troppo impegnato a pensare ai miei sentimenti per ragionare lucidamente.
"So che non sono l'unico a soffrire," aggiunsi. "So che stai solo cercando di fare la cosa giusta, come sempre".
Alle mie parole, il suo viso si distese, come se fosse stata liberata da un peso.
"Grazie," sussurrò.
"Vuoi parlarne?", chiesi.
Lei increspò le labbra.
"Di cosa?".
"Di come ti senti," risposi, "del motivo per cui hai pianto prima di venire qui".
Lei sgranò gli occhi.
"Si nota così tanto?".
Io annuii.
Lei sospirò e bevve un sorso di tè.
"Lei quale pensa che sia il motivo, dottore?", mi chiese, con tono lievemente ironico.
"Penso," esordii, "che tu stia vivendo una lotta interiore. Pensi che cedere ai sentimenti sia sbagliato, ma non puoi negare quello che provi, anche se ti senti in colpa. Hai dei canoni morali molto rigidi e non vuoi infrangerli, anche se questo ti provoca dolore. Freud direbbe che il tuo superego è in conflitto con le tue pulsioni; oppure possiamo dire che stai sperimentando la discrepanza tra sé reale e sé imperativo. In ogni caso, a lungo andare, questo conflitto può farti molto più male di quello che immagini. Io... sono preoccupato per te".
Lei abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.
"Allora, ho ragione?", chiesi.
"Il punto è," disse lei, quasi in un sussurro, "che finirò per farmi male in ogni caso, tanto vale che faccia ciò che è giusto e cerchi di andare avanti".
"Sei davvero certa che non potremmo essere felici, quindi?", chiesi.
Lei non rispose.
"Vorrei poterti convincere a darmi una possibilità," continuai. "Non c'è bisogno di farlo sapere. Possiamo provare a stare insieme in segreto, senza rendere la cosa troppo seria... Possiamo fare con calma e vedere se...".
"Mi stai chiedendo di aggirare le stesse regole che devo far rispettare? Archie, non posso credere che tu lo stia suggerendo!", esclamò lei, visibilmente indignata.
"Perdonami," dissi. "Stavo solo cercando di trovare una soluzione. Se non vuoi infrangere le tue regole, potresti cambiarle?".
"Non è possibile," rispose, fissandomi come se avessi appena detto la cosa più assurda che avesse mai sentito.
"Non hai l'autorità per cambiarle?", chiesi, stupito.
"Certo che sì, ma queste regole esistono per una ragione!", ribatté lei. "Magia e sentimenti non vanno d'accordo".
"Perché no?".
Lei mi fissò come un'insegnante delusa dalla risposta di un alunno.
"Perché i sentimenti alterano il giudizio! Per amore, si è disposti a fare di tutto e, per una fata, il concetto di tutto è molto più ampio di quello di una persona comune. Avere dei legami significa anche avere la tentazione di usare la magia per i propri cari, quindi per scopi personali, mentre la nostra magia deve essere a servizio degli altri," spiegò.
"Fare del bene anche alla propria famiglia è così diverso da farlo nei confronti degli altri?", dissi, cercando un'argomentazione che mi permettesse di portare l'esito della discussione a mio favore.
"Non si tratta semplicemente di fare del bene," rispose immediatamente lei, come se si fosse preparata quel discorso da tempo e non aspettasse altro che ripeterlo. "Tremotino ha fatto esiliare un intero regno per ritrovare suo figlio. Si può dire che abbia cercato di fare il bene di Baelfire, ma ha causato immenso dolore per raggiungere i suoi scopi. Ora immagina una fata con una famiglia umana. Noi siamo immortali e immuni a tutte le vostre malattie. Non credi che sarebbe tentata di risparmiare ai suoi figli ogni dolore? Che impedirebbe al suo consorte di invecchiare? Che li preserverebbe ad ogni costo dall'unica cosa che non siamo autorizzate a fermare: la morte naturale? È triste, ma ogni creatura deve morire al momento giusto. La magia può anche giocare con le leggi della natura, ma ci sono cose che dovrebbero rimanere inalterate".
Parlava con tono appassionato, che rendeva lampante quanto fermamente credesse in quello che diceva. Dovetti ammettere che aveva ragione, ma provai ugualmente a giocare la mia ultima carta.
"Io non ti chiederei mai l'immortalità".
"Lo so," rispose, "ma questo non cambia nulla. Come credi che sarebbe per me vederti invecchiare e morire, mentre io avrei davanti l'eternità? Come sarebbe vivere guardando i miei discendenti morire generazione dopo generazione?".
La sua voce era carica di emozione e io ne fui commosso.
"Dici davvero?", le chiesi.
"Ho già pianto la tua morte una volta, Archie," disse. "Se mai staremo insieme sarà da umani, da mortali, come è giusto che sia".
Sospirai, sentendo le lacrime affiorarmi agli occhi.
"La decisione è tua, dunque," dissi.
"Sai che ho già deciso," ribatté lei, con una sfumatura di amarezza nella voce.
Mi strinsi la radice del naso tra il pollice e l'indice, cercando di placare il mal di testa che aveva ripreso a tormentarmi.
"Lo so," risposi infine, la voce rotta, "ma continuerò a sperare che un giorno cambierai idea e, fino a quel giorno, ti aspetterò".
"No, non lo farai," mi rimproverò lei, "incontrerai una donna, la sposerai e avrai dei figli, come deve essere".
"No," ribattei, "mai".
Malgrado i miei sforzi per trattenere il pianto, una lacrima mi solcò la guancia. "Odio vederti piangere," sussurrò lei.
"Sono un debole, mi dispiace," dissi, pieno di vergogna, asciugandomi gli occhi col dorso della mano.
"Non lo sei, Archie; e non scusarti," protestò lei. Vi fu una pausa. "È solo che odio avere il potere di farti piangere".
Non sapendo cosa rispondere, feci per portare le tazze in cucina, ma, appena mi alzai, la mia testa divenne improvvisamente pesante e, per alcuni istanti, non riuscii a vedere nulla. Udii un suono di ceramica infranta e capii che avevo lasciato cadere la tazza. Le mie gambe cedettero e mi appoggiai al bracciolo della poltrona, per poi ricadere pesantemente su di essa, col respiro affannoso e un dolore pulsante alle tempie.
Sentii Turchina chiamare il mio nome con voce sempre più alta.
Riaprii appena gli occhi e la vidi china accanto alla poltrona.
"Archie? Ti senti male? Cosa ti è successo?".
"Solo un capogiro," risposi, cercando di raddrizzarmi. "Devo essermi alzato troppo velocemente".
Lei appoggiò la mano sulla mia fronte e io rabbrividii.
"Hai le mani gelide," mi lamentai, cercando di sottrarmi al suo tocco.
"No, sei tu che hai la febbre," ribatté lei. "Avresti dovuto dirmi che non ti sentivi bene".
"Avevo solo mal di testa," protestai.
"È meglio che ti lasci riposare," disse lei, rialzandosi.
"Ed è meglio che io pulisca questo disastro," sospirai, accennando ai cocci sparsi sul pavimento.
"No," mi rimproverò lei, "non se ne parla! Penserò io a riordinare, tu devi metterti a letto immediatamente!".

Ogni protesta da parte mia fu inutile e non ebbi altra scelta se non trasferirmi dallo studio alla camera da letto, indossare il pigiama e lasciarmi scivolare sotto le coperte; non che la cosa mi dispiacesse.
La testa continuava a girarmi lievemente, tremavo e avevo la nausea.
A quanto pare, non avevo già abbastanza problemi senza l'influenza - pensai, mentre mi tiravo la coperta fino al mento.
Turchina bussò alla porta ed entrò porgendomi un bicchiere d'acqua.

Fu subito evidente che si era autonominata mia infermiera.
Tentai di protestare, ma Turchina non era il tipo che accetta un no come risposta, e io smisi presto di contrastare il suo zelo, da un lato perché mi sentivo sempre più stanco e, dall'altro, perché era pur sempre una scusa per ricevere le sue attenzioni. Era ironico che fossi così felice di averla accanto, ora, mentre quella stessa mattina non desideravo altro che restarle lontano.

In non più di un quarto d'ora, Turchina mi aveva misurato la temperatura e procurato una coperta più pesante, aveva perquisito la casa in cerca di ogni medicina di cui avessi potuto necessitare e si era offerta di prepararmi il pranzo e di portare fuori Pongo.
Per una donna che voleva che la dimenticassi, non mi stava certo rendendo le cose facili. Perché doveva essere così dolce e gentile? Perché - dalla conversazione di poco prima - non riuscivo più a provare il minimo risentimento nei suoi confronti? Perché, benché mi avesse rifiutato, riusciva a farmi innamorare sempre più di lei?

Chiusi gli occhi e, mentre mi abbandonavo alla stanchezza, sentii nuovamente la sua mano sulla mia fronte.

*

Quando mi svegliai, due mani stavano stringendo la mia.
Le luci erano forti, troppo forti,
Mentre i miei occhi si adattavano alla luce, riuscii a mettere a fuoco la sagoma di Turchina accanto al mio letto e le nostre mani intrecciate sulla coperta bianca. Il mio letto, però, non aveva alcuna coperta bianca.
In quel momento, notai l'odore pungente del disinfettante e vidi l'ago di una flebo nel mio braccio.
Perché ero in una stanza di ospedale?

Nda: Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Innanzitutto, auguro buon 2014 a tutti voi lettori attraverso questa ff che è contemporaneamente la prima del 2014 e l'ultima del 2013.
Ora alcune annotazioni:
- quando Archie parla di contrasto tra sé reale e sé imperativo, fa riferimento alla teoria della discrepanza del sé di Higgins. Sì, preparare gli esami di psicologia e scrivere ff contemporaneamente può avere i suoi vantaggi;
- Nel caso non fosse chiaro, in questa ff Archie vive nello stesso appartamento in cui si trova lo studio. Nel telefilm non ci è mai stato mostrato se viva davvero lì o altrove, ma dal momento che diversi personaggi lo hanno trovato nello studio anche a tarda sera, ho immaginato che vivesse lì.
- La canzone che ho citato all'apertura del capitolo, mi ha accompagnato durante la sua stesura. Se vi va, vi consiglio di ascoltarla integralmente, anche perché è stupenda. Il resto della mia colonna sonora durante la stesura di questa storia ha incluso anche Clarity di Zedd e diverse canzoni degli Evanescence;
- il principale responsabile del secondo dialogo tra Archie e Turchina è stato l'angst assoluto della seconda serie di Doctor Who. Ero quasi stata tentata di inserire la frase "Tu puoi stare con me per tutta la tua vita, ma io non posso stare con te per tutta la mia". I fan di Doctor Who capiranno...

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Once Upon a Time / Vai alla pagina dell'autore: Charlotte McGonagall