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Autore: martaparrilla    05/01/2014    8 recensioni
"Non voglio più che mi odi per quello che stai provando. Non voglio più che guardi i miei occhi senza sapere che mi sveglio presto solo per guardarti uscire di casa e prender il tuo cornetto al bar. Che mi piace l'odore dei tuoi capelli. Mi piace il calore della tua mano. E se devi impazzire, voglio che impazzisca con me, non per me".
Una Emma e Regina in una città senza nome, si scontrano come solo loro sanno fare. Ben presto capiscono che il loro odio cela qualcosa di più grande. Ma Regina questo già lo sapeva. Gli occhi di quella bionda erano terribilmente somiglianti a qualcuno che aveva perso e questo la incuriosiva. Emma dal canto suo non riusciva a spiegarsi i brividi che sentiva quando la vedeva.
Regina ed Emma racconteranno sensazioni e sentimenti in prima persona, alternandosi tra i vari capitoli. Non dubitate della mia sanità mentale quando leggerete le stesse frasi in capitoli diversi, il motivo è semplice: una volta sarà Emma a parlare (o ascoltare), una volta Regina.
Riusciranno insieme a superare i traumi passati?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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2. REGINA

So di essere considerata una donna fredda, cinica e senza cuore, lo so perfettamente. E il mio più divertente passatempo, oltre a rendere la vita impossibile agli altri inquilini del palazzo è cercare di attirare l'attenzione di Emma, l'unica che riesce a tenermi testa in quel posto. L'unica con un po' di spina dorsale che mi venga a dire che le mie lamentele sono pressochè esagerate la maggior parte delle volte. Ma adoro quando si arrabbia.

E' arrivata nel palazzo solo cinque mesi prima, con un grosso zaino e un giubbino in pelle rosso. Occhi blu, capelli dorati. Una visione celestiale. Io so da tempo ormai che le donne non mi sono indifferenti ma lei...lei riesce a farmi sussultare solo fissandomi o insultandomi.

Ma ho un'arma in mano: non lo do a vedere. Sono in grado di sostenere il più feroce dei confronti perché mai avrei detto o fatto notare che avessi un debole per la biondina. Tanto che lei sembra non ricambiare, né per me né per le altre donne. Un punto a suo sfavore.

Mi guardo un'ultima volta allo specchio prima di spruzzare due gocce di profumo e uscire di casa. Sbatto rumorosamente la porta e scendo i tre piani di scale che mi separano dall'atrio a piedi, con la borsa sulla spalla, nella quale avevo infilato le chiavi. Percorro il lungo corridoio che costeggia l'ascensore e sento già la gente mormorare in lontananza. Ho il mio discorso pronto e sto varcando la soglia, pronta a cercarla con lo sguardo, quando trovo un ostacolo al mio passaggio. Abbasso il viso: un braccio aveva toccato il mio addome e...riconosco al volo quella camicia.

E' lei. Abbassa il braccio prima di guardarmi. Io incrocio le mie al petto.

«La regina degli inferi si è degnata di presentarsi».

Odio quando mi chiamano così! Lo odio profondamente. Ci sono una miriade di modi con cui possono definirmi: vecchia strega, Mortisia Addams, o anche Mercoledì, Malefica in nero, Voldemort, anche Jane (amatissimi Volturi, creaturine adorabili i vampiri). Ma odio che il mio nome venga usato per quella stupida frase.

Prendo a respirare più rapidamente quando mi accorgo che si è fermata a fissarmi. E' partita dai piedi per poi arrivare alla mia scollatura. Perché mi guarda? Da quando quella donna ha interesse a guardarmi in quel modo?

«Ha perso la parola? Il gatto le ha mangiato la lingua?».

La sua voce, oltremodo affascinante, mi da il colpo di grazia sentita a quella distanza troppo ravvicinata, senza orecchie e occhi estranei che ci guardano, come siamo solito fare alle riunioni settimanali.

Sento le orecchie fischiare.

Non riesco più a restare ferma. La rigidità con cui tenevo le braccia al petto scompare, e gli occhi iniziano a bruciare: lacrime. Non li stacco dai suoi, occhi che mi ricordavano qualcuno. E lei sembra non volere cedere con lo sguardo. Fa un passo verso di me. Voglio rimanere ferma ma il mio corpo no. Torno indietro e prima che lei possa dire altro, mi volto velocemente, facendo ticchettare le scarpe sul pavimento. Porto le mani tra i capelli, cercando di ripetermi di stare calma. Faccio le scale a una velocità che non credevo di potere raggiungere e con le mani ancora tremanti raggiungo il mio piano, la mia porta, la mia casa.

La porta sbatte di nuovo. Quello sguardo, il tono della voce mentre si prendeva gioco di me. Gli occhi erano uguali ai suoi.

Che diavolo mi è successo? Perché il cuore aveva fatto un tonfo per poi cominciare a battere all'impazzata? Mi sfilo le scarpe all'ingresso e cammino sul pavimento gelido di marmo fino ad arrivare alla cucina. Prendo il boccale dell'acqua e ne verso un bicchiere.

Le mani continuano a tremare e i brividi si sono spostati a tutto il corpo. Una lacrima scende sulla guancia. La asciugo.

Campanello.

Qualcuno ha suonato il campanello.

Non mi muovo nemmeno di mezzo centimetro. Aspetto in religioso silenzio che l'intruso se ne vada.

Nessuno può vedermi in quello stato. Il campanello continua a suonare e una voce inizia a pronunciare alcune parole.

«Regina sono Emma, so che è in casa, ho sentito la sua porta sbattere, volevo sapere se si sentiva bene, mi sembrava sconvolta poco fa, non volevo offenderla».

Altro squillo di campanello. Mi ha seguita? Perché? Quando mai qualcuno mi ha seguita per assicurarsi che stessi bene? E la sua voce? Può essere così bella da farmi rimanere ferma quasi in apnea solo per ascoltarla?

«Regina?» ha parlato di nuovo «sarò costretta a chiamare il portiere e farmi dare le chiavi per aprire».

E' pazza? Non voglio che mi vedano così.

«Voglio solo sapere se va tutto bene».

Se avessi aperto a quella donna mi avrebbe vista pallida, col trucco sbavato e in preda a un attacco di panico. Decisamente impensabile.

Così, preso coraggio, mi dirigo a passi lenti verso la porta. Noto le mie scarpe. Giusto, sono anche senza scarpe. Prendo fiato.

«Sto bene, stia tranquilla. Era solo» devo inventarmi qualcosa «solo...avevo dimenticato il fornello acceso e credevo che fosse andata a fuoco la casa. Sa che incredibile riunione avrebbero indetto contro di me?» ho fatto una battuta? Mi avvicino allo spioncino e guardo dentro. Sembra voglia trattenere una risata mettendosi una mano alla bocca.

«Sicura che stia bene?» dice di nuovo, prendendomi alla sprovvista. Mi sposto come se me l'avesse urlato in faccia, come se quella frase avesse un'onda d'urto e mi accascio con la schiena contro il portoncino.

«Si sto benissimo. Grazie per aver disdetto la riunione comunque» grazie per esserti preoccupata per me, avrei voluto aggiungere.

«Può andare ora, sto bene, devo.... solo ripulire tutto».

Che scusa idiota che avevo scelto, non mi avrebbe mai creduto. Nessuna risposta. Deve essere andata via.

Aspetto li ferma qualche minuto.

Accasciata sul pavimento, inizio a pensare. Mi stringo le ginocchia al petto, cercando di limitare i brividi di freddo. Nessuno mai ha avuto questo effetto su di me.

Mai. Ho sempre sostenuto i loro sguardi, le loro richieste, i loro schiaffi morali. Ma soprattutto per tutte provavo sempre e solo un'enorme attrazione fisica, non mi importava quello che pensavano di me, a me importava il sesso e basta. Chi è lei per farmi una cosa simile? Sospiro poggiando la fronte sulle ginocchia.

Qualche minuto dopo, qualcuno bussa alla mia porta. Di nuovo.

«Chi è» urlo spaventata! Interrompono bruscamente il mio flusso di pensieri. La sua voce torna ad allietare i miei timpani.

«Regina, mi scusi, sono di nuovo io. Le sto lasciando una cosa qui di fronte alla porta, immagino non voglia vedere nessuno ma ecco la appoggio qui».

Ma che diavolo vuole?

«Ora vado via. Arrivederci».

Sento dei passi che veloci salgono le scale. Forse è andata via davvero. Mi alzo lenta e guardo nello spioncino della porta.

Non posso vedere quello che mi ha lasciato, è troppo vicino alla porta. Oppure non mi ha lasciato nulla. Può anche avermi ingannata, in tante e tanti l'avevano fatto con me.

Metto la mano sulla maniglia e la abbasso piano, sbirciando e assicurandomi che non ci sia nessuno. Scruto le scale che scendono e che salgono prima di fermarmi sul dono che mi ha fatto Emma.

Mi chino a raccoglierlo.

E' un barattolo di nutella.

Le mie labbra, involontariamente, si incurvano in un sorriso. Prendo il barattolo e il biglietto che c'è sopra. Lo apro.

-Di solito le lacrime passano con questa. Oppure aiutano a trovare le forze per pulire una cucina disastrata-.

Chiudo la porta rileggendo il bigliettino, senza guardare dove metto i piedi...e infatti mi ritrovo le scarpe che ho lasciato li qualche momento prima e per poco non cado a terra come un salame. Fortunatamente la maniglia della porta mi aiuta a evitare la tragedia, aggrappandomi ad essa.

Mi sta comprando con della nutella? Mi sento troppo triste e combattuta per cercare doppi sensi nel suo gesto. Raggiungo la cucina e, seduta al tavolo e armata di cucchiaino, decido di seguire diligente il consiglio del bigliettino.

Quel pianto improvviso, quel muro che sembra sia crollato mi hanno terrorizzata, mi sento senza difese con lei di fronte. E sono certa che se l'avessi rivista avrei avuto la stessa reazione.

Le settimane successive ho evitato di trovare scuse banali per organizzare la riunione e vederla. Non voglio vederla, non ancora. Non voglio crollare di nuovo. Non so nemmeno chi sia.

Eppure...so che la mattina, quasi tutte le mattine, esce alle 8 di casa, portandosi dietro la sua macchina fotografica appesa al collo.

La osservavo, quando potevo, dalla finestra. Il giubbino in pelle rossa non mancava mai. I capelli li portava sciolti la maggior parte delle volte, ma saltuariamente li legava con la coda. I jeans erano immancabili, così come il cornetto nel bar di fronte al palazzo. Lo metteva nella bustina e lo porta via. Non sorrideva spesso... e non portava mai il rossetto, o almeno non si vedeva dalla finestra di casa mia. A volte rientrava per pranzo, altre, non prima delle 6 del pomeriggio. Non sapevo dove andasse, ma quando rientrava era più allegra. Magari faceva foto a dei bambini, o...non saprei. Non mi aveva dato nessun indizio. Ah si, non si portava mai l'ombrello, nemmeno quando pioveva. E una volta era completamente fradicia, con i capelli gocciolanti, preoccupata solo che la sua reflex non avesse danni.

Passano i giorni. La mia casa in campagna è diventata una fabbrica di marmellata di mele. Devo cercare un modo per distrarmi e quello è l'unico.

Il fine settimana non usciva al mattino e io rimanevo a guardare dallo spioncino della porta sperando di vederla passare. Un giorno, mentre ritoccavo per l'ultima volta il rossetto di fronte allo specchio all'ingresso, sentii la sua voce fuori dalla mia porta. Suonò al campanello nella casa di fronte. Aveva una busta in ogni mano, come di generi alimentari. Una canotta nera addosso. Solo quella. E i jeans ovviamente. Non poteva andare in giro in mutande, anche se....vista la perfezione delle sue braccia (muscolose, ma non troppo, sufficienti per far attirare l'attenzione), potevo solo immaginare cosa celasse sotto i jeans. Smisi di spiarla. Per tre secondi. Il tempo di vederla passare le due buste all'inquilina di fronte, avvolta da una coperta e sicuramente raffreddata. Era anche gentile. Cosa le mancava? A parte la simpatia nei miei confronti, ovvio.

Quello della nutella è stato un gesto istintivo, che ha fatto solo perché mi aveva vista quasi in lacrime (Dio solo sa quanta vergogna ho provato). Salutata la mia vicina di pianerottolo rimane un attimo ferma e si volta verso la mia porta. Il mio respiro si blocca. Fa un passo nella mia direzione, solo uno.

Nulla.

Si ferma.

Scuote la testa, e sale correndo per le scale.

Ok Regina, rilassati. La donna che ti sta togliendo il sonno ha quasi bussato a casa tua. Per fare che cosa? Per chiedermi che cosa? Se sono viva? Se sto bene? E se avessi aperto la porta in quell'istante mi avrebbe parlato?

Dannazione Regina! Dovevi aver più prontezza di spirito, iniziativa! Non posso continuare così, devo per forza andare da lei. Devo ringraziarla. Devo...tentare un approccio, di qualunque genere, anche per chiederle un po' di zucchero (ok no, forse questo era esagerato).

Il giorno dopo, armata della mia migliore marmellata di mele, percorro le due rampe di scale che mi separano dal suo appartamento. Cinque minuti di fronte alla porta, poi mi faccio coraggio e suono.

  
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