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Autore: Water_wolf    11/01/2014    4 recensioni
{Percy/Annabeth | Percy/Nico | Annabeth/Luke | Beckendorf/Silena | Beckendorf/Bianca | Lievi Accenni Percy/Luke | Lieve OOC per alcuni personaggi | No Gods&Demigods | Mini Long}
1780. America. Rivoluzione americana.
Percy Jackson è un nobile a capo di una cittadina e un campo di cotone, isola felice nella guerra, seguito dal fedele Nico Di Angelo. Finché non arriva il soldato inglese Luke Castellan, che non esiterà un giorno a mettere mano alla frusta.
♣♣♣
«Voi siete un folle, signore!» urlò al di sopra del fischio del vento. [...] Percy rise forte. «Be’, ti dirò un segreto: solo i folli conoscono cos’è la vera gioia!» gridò di rimando. «E chiamami per nome, piccola, come fanno tutti!» aggiunse dopo. [...] «A me pare che i folli conoscano i migliori modi per trovare la morte, signor Percy!» replicò la ragazzina, che si stringeva convulsamente all’uomo.
♣♣♣
«Ne avete la volontà…» si umettò le labbra, soppesando le parole. «Ne avete abbastanza da offrire la vostra carne alla frusta, Perseus Jackson?»
♣♣♣
«Avete sempre avuto questa naturale inclinazione al suicidio?» domandò Annabeth.
Genere: Azione, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte Terza
 
Annabeth si sentì invadere la bocca da un elemento estraneo, accompagnato dal sapore rugginoso del sangue. La lingua di Luke Castellan si mosse leggermente, accarezzando la sua, e la donna si lasciò trascinare dall’istinto, seguendo quello che le suggeriva il corpo. A tentoni, trovò il petto dell’inglese e si staccò con la forza dal bacio.
Cercò di inspirare quanta più aria possibile, il fiato che le usciva in sibili dalla bocca aperta, la presenza dell’uomo dentro di sé ancora forte. La schiena la inviava dei brividi, che le facevano tremare le mani; le ricordavano dei ragni che si arrampicavano sulla sua spina dorsale. Odiava i ragni.
Deglutì a vuoto, alzò gli occhi su Luke Castellan e raccolse tutta la forza che possedeva per mormorare: «Ho finito. C-credo che dobbiate andarvene.»
Era troppo scossa per riuscire a interpretare le emozioni che si susseguirono sul volto dell’uomo. Quando sentì il campanello del negozio tintinnare, segno che l’inglese se n’era andato, riuscì a regolarizzare il respiro.
La sua mente non era capace di elaborare il fatto. Continuava a sentire le sensazioni che il bacio le aveva dato, le analizzava in tutte le sfumature, arrivando all’unica conclusione che le era piaciuto. Le era piaciuto molto.
 
 
Trascorse un intero giorno, prima che Nico uscisse dalla sua stanza e decidesse di vedere Percy. Erano passate poche ore dall’alba e non si udiva un suono nella casa. Il giovane faceva scricchiolare le assi del pavimento, ma così piano che sembrava un fantasma. Esitò sulla porta, la mano che non sapeva se appoggiarsi sul pomello oppure meno.
Si morse l’interno della guancia, poi, senza ulteriori indugi, aprì ed entrò di slancio. Era sicuro che se avesse preso più tempo, non avrebbe più avuto il coraggio per farlo. Percy era steso sul suo letto, il viso che affondava in un cuscino, un fievole raggio di luce aveva trovato la strada tra le tende e illuminava il suo dorso. Le bende che gli cingevano la schiena erano striate di rosso, gli ultimi residui del pus sulla base dalla spina dorsale le sporcavano di un colore giallastro.
Nico represse un conato di vomito, si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò. C’era una sedia, accanto al letto, ma la ignorò. La testa gli diceva di non guardare ulteriormente quella scena, ma lo sguardo aveva altre idee, e fuggiva di continuo dal volto di Percy alla sua schiena.
Se avesse potuto, si sarebbe fatto carico del dolore che il moro provava e gli avrebbe alleviato la sofferenza. Incrociò le braccia, fece avanti indietro per la camera, incapace di stare fermo.
Nel tempo che rimase lì, divenne maniaco delle sue ciglia. Erano lunghe e scure, così sottili, esili, diverse dalla forza e dal coraggio che dimostrava l’uomo che le portava. Osservando quel corpo, una sensazione scivolò nel suo petto, si impossessò del suo cuore e della sua mente. Vendetta. Voleva vendetta per ciò che avevano fatto alla persona che amava di più al mondo.
Uscì dalla stanza, rientrò nella sua e si cambiò, rigido nelle sue riflessioni. Scese le scale, attento a non fare il minimo rumore, silenzioso come un’ombra, e si diresse in soggiorno.
Percy teneva un bel fucile Pennsylvania in una teca sopra la credenza, regalo di maggiore età di suo padre. Con un po’ di fatica, si arrampicò sul mobile e si impossessò del fucile. Aprì le ante più basse e trovò polvere da sparo, contenuta in un corno d’argento, e una sacca di pallottole. Si legò tutto alla cintura, richiuse con cura la teca, senza lasciare traccia del suo passaggio, e abbandonò la villa.
Luke Castellan, il bastardo inglese, viveva fuori dalla città con il suo compagno. A cavallo non era una grande distanza, l’avrebbe raggiunto entro mezzogiorno. Nessuno sarebbe intervenuto a distruggere la sua fantasia di vendetta, nessuno gli avrebbe impedito di far pagare col sangue quel debito.
 
 
Percy girò la testa e aprì gli occhi. Lasciò vagare lo sguardo per la camera, riconoscendo la disposizione dell’arredamento e i mobili. Si accorse della morbida consistenza delle lenzuola sotto il suo petto. Si sentiva la testa svuotata da ogni pensiero, incredibilmente leggera.
«Ben svegliato.»
Percy alzò gli occhi, incrociando la figura di Annabeth, seduta su una sedia vicino alla finestra. Doveva avere un’espressione davvero stralunata, perché la bionda gli spiegò cos’era accaduto senza il bisogno che glielo chiedesse.
«Avete voglia di mangiare qualcosa?» domandò. «È da giorni che non mettete nulla sotto i denti.»
Percy annuì, ancora per metà nel mondo dei sogni. Il profumo stuzzicante del pane appena sfornato gli invase le narici, accompagnato da quello più forte e intenso del caffè, mitigato dal latte. Il suo stomaco brontolò. Si fece aiutare da Annabeh per sistemarsi su un fianco, in modo da potersi servire più comodamente.
«Fate piano» si raccomandò Annabeth.
Percy quasi non la sentì. Erano quasi quarantottore che non mangiava, l’idea di potersi finalmente riempire lo stomaco sembrava ancora un miraggio. Il caffè gli ridiede subito un po’ di energia, risvegliandolo completamente.
Fece del suo meglio per non avventarsi sul cibo come una leonessa su un’antilope, per non dare una brutta impressione, ma Annabeth sembrava essere da un’altra parte con la testa. Si chiese se qualcosa l’avesse turbata, però, pensò che fosse tutto legato alla stanchezza. Si ripromise ringraziarla adeguatamente.
La porta si spalancò all’improvviso. Bianca aveva l’aria stravolta di chi ha passato la notte in bianco, i capelli raccolti in una treccia appena abbozzata e la mano ancora sul pomello; aveva occhi solo per la bionda.
«Annabeth!» gemette.
«C’è qualche problema?» domandò Percy.
Non l’aveva mai vista così, gli occhi verdi sembravano completamente terrorizzati, il vetro di una cattedrale che sta per infrangersi. La donna sembrò accorgersi solo in quel momento di lui.
«Nulla» mentì. «Potresti venire fuori?» si rivolse ad Annabeth, che annuì e si alzò, affrettandosi.
Percy attese. Anche un imbecille – e lui non era un imbecille– si sarebbe accorto che qualcosa non andava, ma da fuori provenivano solo grida attutite e suoni indistinti. Cercò di riflettere sulla questione, gli occhi fissi sul fondo della tazza dove prima c’era il caffè.
Ripercorse col pensiero il racconto di Annabeth e si accorse di un dettaglio che prima gli era sfuggito. Dov’era Nico in tutta questa storia? Perché non l’aveva ancora visto?
Quando Annabeth tornò in camera, più tesa e con un falso sorriso rassicurante stampato in volto, non aspettò un secondo a porle la domanda.
«Nico?»
La bionda tentennò, mancando il piatto del pane al primo colpo. Lo afferrò in fretta, così come la tazza.
«È ancora chiuso nella sua stanza» rispose.
Percy assottigliò lo sguardo.
«Come mai Bianca era così scossa?»
Annabeth scrollò le spalle, avvicinandosi alla porta.
«Si era confidata con Beckendorf, prima che se ne andasse, e aveva paura che lui avesse potuto fraintendere.» Mise mano al pomello. «Cose da donne, non vi preoccupate.» Uscì.
Percy provò a credere alla spiegazione della donna, ma non ci riuscì. Per quanta fiducia riponesse in entrambe, dubitava che Bianca si preoccupasse così solo per una questione di poco conto. Si guardò intorno e decise che, se proprio doveva restare in quelle quattro mura, sarebbe venuto a capo del mistero.
Si immedesimò in Nico, pensò con la sua stessa testa. Era arrabbiato, decisamente frustrato e probabilmente sarebbe scoppiato di lì a poco. Fin lì, non c’era da discutere. Nico non aveva un brutto carattere, alle volte, però, era piuttosto irascibile e rancoroso.
Se fosse stato in lui, avrebbe incolpato se stesso e chi gli aveva procurato tanto odio, cioè lui e Luke Castellan. Ma se non l’aveva voluto vedere, allora avrebbe rivolto la sua rabbia verso l’inglese. L’ultimo passo del percorso di Nico lo lasciò spiazzato. Era da pazzi, assolutamente folli, andare direttamente e volontariamente dal soldato.
«Non puoi farti ammazzare…» mormorò.
No, l’avrebbe fermato. Già, era più facile a dirsi che a farsi. Cosa sperava di fare lui, ferito e senza appoggio? Nessuna persona sana di mente l’avrebbe lasciato andare. Lo farò da solo, decise.
«Lo farò da solo» ripeté, e quelle parole gli sembrarono più una condanna che una scelta.
Quando si raddrizzò, mettendo i piedi a terra, gli salì un conato di vomito. Si prese la testa tra le mani, aspettò che la nausea cessasse, mentre la sua saliva filava dalle sue labbra al pavimento. Decise che si sarebbe alzato tutto d’un colpo, in modo da non potersi fermare a riflettere sul dolore.
Con uno slancio ammirevole, scattò in piedi, prima che la vista gli diventasse rossa per un momento e lui andasse a sbattere con la faccia contro il muro. Imprecò tra i denti, massaggiandosi il naso e reggendosi alla parete per non cadere. Masticò insulti su insulti, maledicendo chi per primo gli passava per la mente, cercando così di distogliere l’attenzione dal dolore.
Poteva percepire perfettamente i lembi della pelle tirare, le piccole croste appena formate staccarsi e il sangue appiccicargli le bende. Ma non demorse. Arrivò fino in fondo al corridoio, prese fiato prima di scendere le scale e pregò che qualcuno lassù lo aiutasse.
Quando scese l’ultimo gradino, il petto gli si gonfiò d’orgoglio. Poi, pensò a tutto quello che ancora doveva fare e si sentì mancare. Ricordò per chi lo stava facendo, e allora cancellò definitivamente il pensiero di ritirarsi. Per Nico, avrebbe fatto questo e altro.
Aprì la porta e fu investito dalla frizzante aria mattutina. Si voltò indietro, prima di varcare la soglia, e salutò Annabeth con un cenno della mano. La donna rispose sorridendo, avviandosi verso il soggiorno.
Percy sgusciò fuori giusto prima che la sentisse gridare: «PERSEUS JACKSON, CHE COSA DIAMINE STATE FACENDO ALZATO?»
Scappa, pensò Percy, e cercò di affrettare il passo.
Udì il portone spalancarsi e non richiudersi, oltre che le urla e i richiami di Annabeth alle sue spalle. Non poteva farsi fermare così, sarebbe stata la fine di tutto, e non aveva nemmeno raggiunto la stalle. Sarebbe stato un fallimento epico.
Animo, si disse; e gambe in spalla!, aggiunse con stizza.
Quando il profilo dell’edificio in legno gli comparve davanti, si sentì invadere da una forza nuova. E Annabeth lo acciuffò per i pantaloni. Percy rischiò di cadere, oltre che procurarsi un dolore atroce alla schiena.
«Voi siete uno sconsiderato, privo di senno e una testa…» ingoiò il “ di cazzo” e completò: « d’alghe!»
Percy dimenticò per un attimo il dolore e corrugò le sopracciglia. «Alghe?»
«Sì» sbottò Annabeth, esasperata. «È la prima cosa a cui ho pensato!»
«Come possono esservi venute in mente le alghe in questo momento?» domandò Percy, sempre più perplesso.
«Non lo so!» esplose, diventando rossa come un peperone, «Forse perché le mie dita sono incastrate nei vostri pantaloni e vi sto toccando il sedere!»
Il moro fece una faccia stupita, si guardò il didietro e notò che la donna diceva la verità. Soffocò una risata, con scarsi risultati.
«Non ridete!» ordinò Annabeth, assumendo un tono ancora più scuro, diventando color melanzana.
«Perché, quando ci siete voi di mezzo, ci si ritrova sempre in queste situazioni?» sospirò, rivolgendosi a nessuno in particolare.
Percy le liberò le dita, sorridendo al cambiamento di colore del viso della donna, e mosse un passo verso la stalla. Sperava che la bionda si dimenticasse perché era lì, ma era solo un vano desiderio. Infatti, sorse subito la questione sul motivo per cui si era alzato.
La risposta “devo salvare Nico”, non le sembrò sufficiente. Elencò, con la maestria di un professore o di un avvocato, più ragioni di quelle che Percy sarebbe riuscito a pensare in dieci anni di riflessione, con una velocità e una foga che gli fecero dubitare dell’immagine che aveva sempre avuto di lei. Era arrivata al duecentesimo consiglio – se aveva contato correttamente–, quando la troncò.
«Mi rincresce molto, ma non riuscirete a farmi cambiare idea. Potrei farmi ammazzare così, ma mi ucciderei con le mie stesse mani, se Nico non tornasse a casa.»
Annabeth lo fissò intensamente, le mani incrociate sui fianchi, e lui impresse in quello scambio di sguardi tutti i sentimenti che lo animavano. La donna sospirò, si voltò indietro e camminò verso la villa.
Lo stomaco di Percy si contorse in una morsa dolorosa. Non pensava l’avrebbe lasciato andare così, come se non fosse nessuno di importante, dopo tutto quello che era successo in quei giorni.
Sbrigati, prima che cambi idea, si disse, ordinandosi di andare avanti. La schiena gli inviava fitte di dolore acuto per ogni passo, rendendogli difficile camminare. In che condizioni avrebbe affrontato Luke Castellan?
Aprì il chiavistello che teneva chiuso il cancello della stalla, si orientò al buio e trovò il ricovero di Blackjack. Lo prese per la cavezza e lo condusse fuori, sfruttando la forza del cavallo per sorreggersi. Percy rientrò, consapevole che il prossimo passo sarebbe stato difficile e doloroso.
Sollevare la sella e i finimenti, in circostanze normali, non gli avrebbe richiesto che poca energia, ma con la schiena in quello stato, sospettava che lo sforzo avrebbe potuto ucciderlo. Non si tirò indietro, né contemplò la dolce idea di sottrarsi a quelle torture autoinflitte.
Prese un grosso respiro, si sistemò la sella sugli avambracci e la sollevò dal sostegno. Il suo peso lo schiacciò e, per un pericoloso momento, temette di cadere e di non riuscire più a rialzarsi. Recuperò l’equilibrio e mosse i primi due barcollanti passi verso l’esterno. I muscoli della braccia sembravano volergli bucare la pelle, le vene erano così sporgenti da assomigliare a cicatrici mal richiuse.
Quando posò la sella sul dorso di Blackjack, si abbandonò contro il suo fianco, inalando a fatica l’ossigeno. Il sangue che colava gli faceva formicolare la pelle. Poi, sentì qualcosa di fresco e sottile sistemarsi sulle sue spalle. Alzò lo sguardo e vide che Annabeth era lì, che era tornata per lui, o forse non se n’era mai andata veramente. Gli stava infilando una camicia pulita.
«Perché siete qui?» domandò.
Annabeth gli fece scorrere una manica sul braccio. «Perché siete mio amico» rispose. «E perché non voglio che mandiate all’aria tutto il mio lavoro.» Infilò l’altro braccio. «Altre domande stupide?»
Percy era troppo occupato a sorridere per far ancora caso al dolore. Annabeth condusse fuori dalla stalla una giumenta pezzata e la sellò, facendo scorrere con la maestria dell’abitudine le cinghie sotto la sua pancia. Percy la osservò rapito, imbambolato in fianco al suo cavallo.
La donna alzò un sopracciglio.
«Avete bisogno di aiuto?» chiese.
«Uh?» Il moro si riscosse all’improvviso. «No, faccio da solo.»
Per dimostrare che non gli serviva una mano, infilò il piede sinistro in una staffa e montò, sbuffando per lo sforzo. Annabeth era impacciata dalla gonna, ma riuscì a salire al secondo tentativo.
Si avvicinò a Percy e domandò: «Dove siamo diretti?»
«Seguitemi» replicò lui, dando un colpo di speroni a Blackjack.
Partì al galoppo, perché gli scossoni del trotto e il dover assecondare quell’andatura del cavallo erano più dolorosi. Passò per la via principale di Jackson Hill, strappò un volantino, dove erano indicate le nuove disposizioni, e lo tenne alzato sopra la testa.Al suo passaggio, la gente usciva di casa e applaudiva, fischiava e lo guardava stupita.
Sentì Talia, dietro di sé, gridare: «Il signore di questa città è tornato! A morte l’inglese, a morte la paura!»
Percy attraversò il campi di cotone, facendo levare il capo ai neri. Il seguace di Luke Castellan, Ethan, tentò di farsi ascoltare a suon di frusta, ma dovette scansarsi per non farsi investire dai cavalli ed essere calpestato dagli zoccoli. Finì nel fango.
Oltrepassata l’area coltivata, si stagliò una pianura vasta e verdeggiante. Percy avrebbe spronato Blackjack, se questo non gli avrebbe causato delle fitte. Quando una era più forte delle altre, o se il dolore costante si faceva insopportabile, si sforzava di pensare a Nico.
Ma, per quanto si focalizzasse su di lui, i suoi pensieri fuggivano a Luke Castellan.
Aveva instaurato con l’inglese una guerra personale, un conflitto che non riguardava solo la sua città. Era il nemico delle ballate medioevali, quello che l’eroe doveva sconfiggere, ma senza il quale avrebbe perso una parte importante di sé. Possedeva la bellezza folgorante del ghiaccio e la sua letalità. Nel suo sorriso schietto, vedeva un sfida. Gli piacevano le sfide.
Sentiva di comprenderlo, di potersi sovrapporre a lui, seppur con qualche differenza. E quando capiva così profondamente il suo nemico, sentiva di amarlo.
Fu Annabeth a distoglierlo dalle sue riflessioni, indicando un grosso capannone di legno, un lato coperto da un drappo rosso; poco distante da essa, notò lo stallone baio di Nico. Fecero rallentare le cavalcature, avvicinandosi lentamente.
«Come vi sentite?» si informò Annabeth, sottovoce. Percy percepì una certa dose di ansia, che la donna nascondeva abilmente.
«Bene» mentì, raddrizzando la schiena.
Annabeth avrebbe voluto ribattere, se non fosse che il suono di vetri che vanno in frantumi la interruppe. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, prima di affrettarsi a raggiungere il capannone. Lasciarono i cavalli slegati, così da non perdere tempo a liberarli, nel caso avessero dovuto fuggire repentinamente – fatto, peraltro, molto probabile.
Annabeth si accostò a destra della porta, contò fino a tre e aprì, facendo entrare Percy. Luke Castellan era accanto alla finestra, Nico che gli puntava contro il fucile, dalla cui canna era appena uscito il proiettile che aveva frantumato il vetro. Entrambi si voltarono verso di lui.
L’inglese assunse un’espressione tra la rabbia e la sorpresa. Il più giovane gli scoccò un’occhiataccia.
«Tu» sibilò il soldato, abbandonando la cortesia. «Non hai nemmeno il coraggio di affrontarmi, preferisci sguinzagliarmi contro il tuo cagnolino.»
«Nessuno mi dice cosa fare» ringhiò piano Nico.
«Allora, devo questa tentata esecuzione solo alla tua stupidità» sputò Luke Castellan.
Partì un colpo che avrebbe centrato la sua testa, se non si fosse scansato in tempo. Si chinò, rotolò a terra e recuperò la pistola che, prima, Nico l’aveva costretto a buttare. Gliela puntò al collo, portò indietro il cane.
«I cani che non ascoltano il padrone devono essere eliminati.»
«Non provateci» ruggì Percy, avanzando nell’unica grande stanza.
«Oppure?» rise Luke Castellan. «Il mio compito, qui, è di portare ordine. Chi si oppone e chi ne è la causa avrà la strada spianata per l’Inferno.»
«Bastardo» sibilò il moro tra i denti.
«Fermatevi!» gridò Annabeth, entrando.
L’inglese ebbe uno spasmo, la sua mano tremò e si abbassò di qualche centimetro.
«Voi…»
«Statene fuori, Annabeth, non voglio che vi facciate del male» replicò Percy, mettendole un braccio davanti al grembo, in un gesto di protezione.
Lei lo scostò, ponendosi al suo fianco.
«Fate come vi dice» rincarò Luke Castellan.
Annabeth lo ignorò, guardandolo fiera negli occhi. Percy si domandò se tra i due non ci fosse qualcosa.
In quella frazione di secondo, Nico riportò indietro il fucile e colpì con il suo calcio la faccia dell’inglese, che  fu scaraventato a terra. Lo tenne sotto tiro, ma si accorse che era svenuto.
Lo zigomo era percorso da un taglio da cui colava sangue, e Percy si chiese se si fosse procurato così anche l’altra cicatrice. Avvicinandosi al suo corpo, poté vedere che non era l’unica ferita fresca: il labbro spaccato suggeriva una rissa, o un altro tipo di offesa.
In una certa dose, provò ribrezzo per i suoi cittadini che l’avevano trattato così, un uomo che cercava di svolgere il suo arduo compito. Poi, si ricordò che era un subdolo stronzo e malvagio, e la pietà scomparve.
Si rivolse a Nico, l’adrenalina che gli dava la forza di reggersi sulle proprie gambe.
«Che cos’avevi intenzione di fare?» lo riprese. «La vendetta non è mai la soluzione.»
«Non lo è neanche l’avventatezza» insinuò l’altro.
Percy sentì che aveva toccato un tasto dolente. «Non mi sembra che tu ne sia immune.»
«Volevo dargli una lezione» si difese Nico, aprendo le braccia, scocciato da quella predica che non si aspettava.
«Non è vero, tu volevi ucciderlo e l’avresti fatto, se non fossimo arrivati noi» lo contraddisse Percy.
Nico guardò a terra, fremendo per la rabbia.
«Me ne vado» sbottò, passando accanto alla spalla del moro.
Annabeth si scostò dalla porta, permettendogli di uscire.
«Quand’è che finirai di scappare dai problemi?» lo accusò Percy. «Quand’è che incomincerai ad affrontarli uno per uno?»
Nico si fermò, restando di sasso a quelle parole. «Io non sto fuggendo.»
«Già, te ne stai solo andando dalla casa dove hai quasi ucciso un uomo» lo schernì il più grande.
Il giovane si voltò, furente.
«Oh, giusto, perché è molto meglio fare come te e oltrepassare gli ostacoli mostrando la schiena!» urlò. «È decisamente più intelligente agire così, senza curarsi che si fa soffrire anche chi ti sta intorno!» Ripercorse i propri passi, puntò un dito sul suo petto e sputò: «Sei egoista, Percy.»
Il moro tremò, ma non per quelle parole. Qualcosa di gelido e pesante gli aveva toccato il collo.
«Voi americani… sempre presi dalle passioni, mai una volta che ragioniate. Lo capirete, prima o poi, che così non funziona?» intervenne Luke Castellan.
Nessuno gli aveva tolto la pistola dalle mani, quando era svenuto; nessuno aveva pensato che si sarebbe svegliato così in fretta.
Percy guardò Nico e Annabeth.
Se per qualcuno doveva finire male, quel qualcuno era lui. Nico era troppo giovane, aveva una sorella che avrebbe pianto per lui. Annabeth era amata e stimata, aveva amiche e un padre, era l’unica a non essere colpevole, in quella storia.
Contemplò l’idea di consegnarsi a Luke Castellan e, nel caso non l’avesse ucciso sul posto, di vivere ai suoi comandi, di passare la sua intera esistenza con lui. Si sarebbe opposto a tutto ciò che gli avrebbe comandato, per il mero gusto di sfidarlo e per scoprire fino a che punto avrebbe resisto; avrebbe visto quanto un uomo può far male a un altro. Inaspettatamente, quel destino non gli parve troppo gravoso.
«Prendete me, lasciate loro» disse.
Luke Castellan rise.
«Non è così che funziona. La signorina ha il permesso di andarsene, in ogni caso, non farei male a una donna. Ma voi due meritereste di venire uccisi qui, come cani. Invece, vi propongo di sottoporvi alla Corte di Londra e a un processo.»
Percy fece una risatina isterica. «Un modo gentile per dirci che moriremo comunque.»
Sentì l’inglese scrollare le spalle dietro di lui. «Un po’ di gentilezza non guasta mai.»
«Non accadrà nulla di ciò» si inserì Annabeth, affiancandosi a Nico.
Gli strappò il fucile di mano e rivolse la canna contro il suo stomaco.
«Se non fate come vi dico, io mi ammazzo.»
«Annabeth» disse Percy, secco. «No.»
«Vi prego» tentò di addolcirla Luke Castellan, «se fate così, se non seguite il mio consiglio, sarò costretto a trattarvi come loro.»
«Allora, fatelo, perché io non mi tirerò indietro» ribatté Annabeth, fiera, premendosi contro l’arma.
«Milady, per favore» mormorò l’inglese, in tono calmo ma irremovibile. «In nome di quello che c’è stato tra noi, o di Dio, se non v’importa di me, uscite da questa casa.»
Annabeth si morse le labbra così forte che un sottile rivolo di sangue le colò sul mento. «Perché vi costringete a fare questo? Potete ancora salvarvi, so che c’è del buono in voi.»
Percy sentì la pistola tremare in mano al soldato. Osservò Annabeth come se fosse l’ultima volta, imprimendosi nella mente ogni dettaglio della sua figura.
Nico sussurrò: «Mi dispiace, Annabeth.»
La donna fece una faccia stranita, ma il ragazzino la spinse a terra, recuperò il fucile e sparò un colpo di avvertimento. Aveva negli occhi una scintilla che Percy non gli aveva mai visto.
«Avete bisogno di un capro espiatorio, non è così? Bene, sono qui. Gli altri se ne vanno, noi regoliamo i conti. Affare fatto?» sentenziò.
«Come volete» accettò Luke Castellan, ritirando la pistola dal collo di Percy, che si allontanò subito. Avrebbe aiutato Annabeth, se questa non si fosse già rialzata.
«Forza» incalzò Nico, e rivolse a Percy uno sguardo complice.
Il più grande annuì, camminando all’indietro verso la porta. Quando era circa al centro della stanza, Nico alzò il fucile e, con fare casuale, sparò contro l’inglese.
La casacca di Luke Castellan si tinse velocemente di rosso, mentre il suo proprietario barcollava indietro, cercando qualcosa cui appoggiarsi. Si lanciò uno sguardo alla spalla, dove il proiettile si era conficcato e sfrigolava ancora.
«Avevamo…» si interruppe, perché la sua voce tremava. «Avevamo fatto un patto» ansimò.
«Certo» consentì Nico, «ma lo sanno tutti che perché un accordo sia valido, entrambi debbano giurare sulla Bibbia.»
Luke Castellan soppesò quelle parole, si umettò le labbra e rialzò il capo.
«Bel tiro» si complimentò.
Si lasciò andare a una risata folle, che fece rabbrividire Percy e Annabeth al suo fianco.
«Peccato che mi abbiate colpito la sinistra, perché io sparo con la destra.»
Percy realizzò il vero senso di quella frase una frazione di secondo dopo che il proiettile partì. Nico crollò a terra, gli sfuggì il fucile dalle mani. Il moro gli fu accanto subito dopo. Annabeth corse a porsi come scudo umano davanti ai due.
Percy guardò dove l’aveva colpito, toccandogli il corpo, e per caso ci mise due dita dentro. Imprecò, stracciando la camicia e vedendo il buco all’altezza dell’ombelico. Diede uno schiaffo a Nico, con le palpebre, ma non ottenne nessun risultato. Supplicò Annabeth con lo sguardo perché facesse qualcosa. La donna aveva gli occhi lucidi.
«Se vi importa qualcosa di me, per favore, lasciateci andare» disse, la voce che le tremava.
«Restate voi qui» replicò Luke Castellan, scivolando con la schiena contro la parete.
«Non posso» si scusò.
In quel momento, l’inglese le sembrò l’uomo più triste del mondo. Percy si alzò con un grugnito, che avrebbe potuto essere anche un grido, sollevando Nico di peso. Uscì dal capannone in legno con lui in braccio, Annabeth che lo seguiva. Lo aiutò a sistemarlo sulla sella e a salirci, prima che partisse al galoppo.
Il vento era talmente forte che gli era difficile tenere gli occhi aperti. Lanciava continui sguardo a Nico, svenuto.
«Non azzardarti a morire» intimò. «Non provarci nemmeno.»
Nico gorgogliò qualcosa, sputando un grumo di sangue. Il cuore di Percy fece una capriola. Si chinò su di lui, cercando di afferrare le parole del giovane.
«Se sto… per morire…»
«Non stai morendo. Non permetterò che accada.»
«… voglio dirti che… che…»
«Non mi hai sentito? Tu non lascerai questo mondo per nulla al mondo, non mi importa quanto sia bello l’Aldilà.»
«io…io ti amo, Percy…»
Percy si alzò di scatto, ma quasi non provò dolore. Sentì quelle parole rimbombargli nella mente, assordarlo, impedirgli di ragionare. Tutto ciò che fu in grado di fare, fu spronare Blackjack verso Jackson Hill.
 
 
 
Bianca si torturava le mani, camminando per la stanza. Avanti, indietro. Avanti, indietro. Percy era seduto su una sedia, tra diversi cuscini, e cercava di mantenersi vigile. Fissava le lenzuola candide in silenzio, incapace di proferire parola.
I raggi del Sole illuminavano la camera, che sembrava immune al loro splendore e alla loro radiosità, tanto era impregnata della paura e della tensione di chi c’era dentro.
Percy sospettava che Bianca avrebbe avuto un attacco nervoso, che avrebbe dovuto somministrarle qualche medicina per farla dormire.Ma gli sembrava incredibilmente crudele costringere qualcuno a vivere i propri incubi, senza che la persona si rendesse conto che fossero solo sogni.
Sia Fletcher Lee che Michael Yew si erano occupati di Nico, ed entrambi avevano concordato sul fatto che aveva perso molto sangue, ma che si sarebbe rimesso. Il giovane, però, non si era svegliato. Percy temeva che non avrebbe aperto gli occhi mai più. Il giorno prima, si era ripromesso di vegliarlo, ma la stanchezza era stata troppa ed era crollato. Senza adrenalina, si sentiva troppo spossato per fare qualsiasi cosa non fosse aspettare, combattendo una guerra contro se stesso per non addormentarsi.
Non sapeva quanto tempo era passato, però gli sembrava molto. Era il primo pomeriggio, quando Bianca lanciò un grido e lo riscosse da quello stato immobile. La donna bruna copriva con tutti i suoi capelli il fratello, piangeva e lo accarezzava, lo coccolava e le lacrime le solcavano il volto.
Alla fine, cadde addormentata accanto a lui. Tormentata dall’ansia e senza aver chiuso occhio per molte ore, dopo quell’ondata di sollievo, non ce l’aveva fatta a resistere ancora.
Percy si alzò, strascicò i piedi fino al capezzale del letto e guardò Nico. Il giovane era, se possibile, più pallido del solito, e aveva l’aria di chi non ci stava capendo un accidenti di quello che stava accadendo. Percy si udì raccontare la storia, ma non era realmente in sé.
Nico annuì più volte e accarezzò i capelli di Bianca, durante il corso del racconto. Alla fine, il silenzio si impose nella camera. Il giovane esitò, ma non riuscì a non porre la domanda che gli era salita alle labbra.
«Ho detto qualcosa, quando mi stavi riportando in città?»
Percy sentì una fitta al costato.
«No» rispose. «No» ripeté, con più decisione.
In quel momento, con i raggi del Sole che gli scaldavano la pelle, Nico che si era finalmente svegliato e Bianca stava dormendo in pace, Percy pregò che col tempo, quel “no” sarebbe diventata anche la sua verità.
 
 
«E così, alla fine, tutto si è sistemato» sospirò Annabeth, sollevata.
Percy stava passeggiando a braccetto con lei ai margini dei campi di cotone, ancora rigido per le frustate, ma decisamente più in forma. Spirava un venticello tranquillo di Settembre, che riusciva a infilarsi tra i vestiti e a scompigliare i capelli.
Le verdi colline si stavano coprendo di foglie brune, gli alberi stavano diventando rossi, gialli e arancioni, assumendo le tinte dell’autunno. Stormi di rondini volavano in formazione per mete più calde. Quelli che non migravano, si affrettavano a raccattare ramicelli per costruire un nido più solido.
Luke Castellan era partito tre giorni dopo che Nico si era svegliato, così come Ethan, il suo seguace, e nessuno aveva più sentito parlare di loro. Il suo nemico l’aveva lasciato solo, in un misto di amarezza e felicità. Si sentiva più grande, più maturo, con delle spalle che avrebbero potuto sorreggere il peso del mondo.
Non si sarebbe dimenticato di lui, avrebbe rievocato il suo volto e quei giorni ogni volta che si sarebbe fatto il bagno e, lavandosi, avrebbe toccato le trenta cicatrici che gli sfregiavano il dorso. Aveva sentito dire che, più importante è una persona che se n’è andata, più è inciso a fondo il suo marchio nel proprio corpo.
Il segno di Luke Castellan sarebbe stato il più profondo di tutti.
«Già» sospirò a sua volta.
Annabeth lo osservò, cercando di capire cosa gli passasse per la testa.
«Non vi vedo esultare» constatò. «Eppure, dovreste essere felice.»
«E lo sono» replicò Percy. «Ma non posso più esserlo allo stesso modo di prima, perché non sono più lo stesso uomo.»
«Adesso non venite a dirmi che avete perso il vostro entusiasmo, Percy. Non voglio che diventiate uno studioso dalle metafore complicate» provò a farlo sorridere la donna.
«Potrei stupirvi» fece Percy, malizioso.
Annabeth gli scoccò un’occhiata di sfida. Il moro alzò il mento, raddrizzò le spalle e si guardò attorno in cerca d’ispirazione. Non poteva fare paragoni scontati, ora che aveva lanciato lui stesso quella provocazione.
Una foglia d’acero si staccò da un ramo, volteggiò, compiendo diversi cerchi in aria prima di depositarsi a terra.
«Io credo» iniziò, «che, alla fine, siamo tutti come foglie d’autunno. Cerchiamo di resistere alle difficoltà e agli ostacoli che ci pone la vita, attaccandoci al ramo per non staccarci, aggrappandoci a esso con le unghie e con i denti. Siamo coraggiosi, siamo forti, e solo chi dimostra in pieno il proprio valore riesce a rimanere su. Ma siamo davvero sicuri che siano questi i più intrepidi? C’è chi si lascia prendere dal vento, ne cavalca le correnti o ne è succube, e giunge a terra. Non è forse più pauroso e pericoloso il nuovo, l’inesplorato, la morte? Allora, in fondo, non importa se resistiamo o se cadiamo, perché in tutti c’è coraggio e forza: basta solo trovare il modo per mostrarli.»
Annabeth rimase in silenzio, e Percy ebbe l’impressione di aver appena fatto un discorso senza senso.
Poi, la bionda sorrise ed esclamò: «Di grazia, se trenta frustate vi hanno reso così arguto, dovrebbero prescriverle ai bambini fin da piccoli!»
Percy rise per l’assurdità. Anche Annabeth, conscia di aver straparlato, scoppiò a ridere.
Percy godette di quella vista rara, del sorriso genuino di Annabeth e dei raggi ramati che le illuminavano i ricci biondi. Si ripromise che avrebbe fatto di tutto per poterla vedere ancora.

Angolino dell'autrice
C'est la fin! Non credo che questa ultima parte sia quella che mi è venuta meglio e, rileggendo la questione delle foglie, mi sembra sempre più stupida.
Ho litigato molto con tutti i personaggi, soprattutto con Nico, che mi sfuggiva come un pesce tra le mani. Forse sapeva del suo destino e voleva ostacolarmi xD
Per chi se ne fosse accorto, ho inserito una citazione che mi ha permesso di inserire quella sfumatura chiarissima di Percy/Luke. Da Ender's Game, libro diScott Orson o, per me che ho visto solo il film: "nel momento in cui io capisco davvero il mio avversario, abbastanza profondamente da poterlo battere, in quel preciso momento io comincio ad amarlo. Penso che sia impossibile conoscere una persona, ciò che è e ciò in cui crede, senza amarla come lei ama se stessa." Solo che io non ho scritto frasi così fighe hahah
Il rapporto Lukabeth è un po quello dei libri, solo riprodotto in modo diverso e meno "fraterno". Ma, ehi, questa non è la mia OTP, non aveva possibilità a prescidere.
Non ha vinto neanche la Pernico, perché Percy ne è spaventato. In quegli anni, l'omosessualità era un caso molto raro e per nulla ben visto, basti pensare che, durante la Seconda Guerra Mondiale, c'era una stella di un colore apoosta per loro da indossare nei campi di concentramento.
Percabeth è Percabeth, è la casa di tutti, dove si può sempre ritornare u.u
Il fucile Pennsylvania era il più comune durante la guerra, percui ce l'ha pure Percy, e credo che sia uno dei pochi che sia a colpo singolo e non faccia la "rosa". tanto non gliene frega a nessuno
Nico che ricorda di "giurare sulla Bibbia" è un po' come Ade con "giuralo sullo Stige" e boh, mi piaceva l'idea di fare una bastardata del genere, poi amo Ade *-*
La scena del salvataggio di Nico e della sparatoria è stata la più rompiscatole, perché quello che avevo in mente di scrivere non andava mai bene e, uff, è stata una faticaccia sistemare insieme i vari pezzi. Se ci fosse stato Rick Riordan, o Nico o Luke, sarebbero morti, but who cares? ^^
In conclusione, ringrazio EmmaStarr, lord Ruggente, PiccolaEbe e Directioner31 che hanno recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno inserito questa storia tra le preferite/ricordate/seguite.
Un bacio a tutti!

Water_wolf
  
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