Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Rota    20/01/2014    1 recensioni
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e ricordò con un brivido di aver freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio cappotto.
-Ho dimenticato il mio cappello.
L'altro uomo non sorrise ma si erse in una posizione più comoda. Le parole formavano, ogni volta, una condensa di fumo leggero davanti al naso appuntito e alla bocca sottile.
-Ti aspettiamo.
La risposta del francese arrivò troppo veloce, tanto che sembrò fermare il tempo per qualche istante – come una pallottola.
-No.
Non addolcì lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né si sentì in qualche modo in dovere di dare spiegazioni circa il fatto che volesse godersi quelle poche ore rimanenti in un intimo silenzio. Lui e la città, la neve e il freddo, il rumore di ogni cosa incorporato nei sogni di qualcun altro.
-Torno da solo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger, Hanji, Zoe, Irvin, Smith, Mike, Zakarius
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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3. I can't change my mold

 

You know I can change, I can change

I can change, I can change
But I’m here in my mold
I am here in my mold
And I’m a million different people
from one day to the next
I can’t change my mold
No, no, no, no, no

 

 

 

Aria mancante – ruba spazio all'ossigeno e crea un vuoto incolmabile nei polmoni, costringendo il respiro in un affanno accelerato alla ricerca di qualcosa che non si trova, che si fa fatica persino a individuare. La gola si allarga, negli spasmi di tentativi sempre più isterici, e vive una crisi di panico in tutti i propri dettagli: inala poco, emette ancora meno, si irrita nel passaggio tra le due cose e rende lo sforzo senza una valida ragione che lo sostenga.
Rivaille apre gli occhi e si ritrova in un luogo bianchissimo, che paradossalmente gli è più familiare del dolore stesso. Vi sono sempre le solite ombre, qualcuna aggiuntasi nel tempo qualcuno dispersa nei meandri di una memoria mai colma di sofferenza, e nelle maschere facciali, dalle espressioni grottesche e deformi, vede tutta la conformazione della propria terribile ossessione. Fanno il rumore della carta che cade, ovattato e discreto, e quando gli passano vicino un brivido freddo gli attraversa la schiena per poi disperdersi in una sensazione di peli raddrizzati dal vento.
Sgrana gli occhi, per qualche istante: il bianco tremula, come il miraggio che è, e le ombre assieme a lui, conformandosi all'angoscia che le rappresenta nell'intima natura. Lui vaga con lo sguardo fino a incrociare i propri piedi, accorgendosi solo in quel momento di avere moncherini di carne e due gambe di legno scuro, quasi nero. Non ci sono dita; una caviglia piatta e un dorso molto liscio, danno l'idea del finto e del gelo di un oggetto da esposizione, che deve solo ingannare e far finta che la mancanza non esista – tutto è perfetto, nel non-luogo, tanto che non c'è da chiedersi il motivo di niente, la ragione di nulla: un assolutismo che placa qualsiasi curiosità o dubbio. Persino quel nodo di acqua rossa, che si sviluppa come una radice dal suolo e si dilunga come un fiume sempre più grosso, deve la propria nascita alla sola volontà della creazione, come se nella logica si trovasse sterilità e nella pazzia fantasia troppo feconda. Il rosso si arrotola, si aggroviglia, e sgorga dalla propria sorgente spruzzando ovunque, anche sui suoi polpacci.
Sono i suoi, gli occhi che lo stanno guardando con quella certa riluttanza tipica di chi non ha molto piacere a fare la conoscenza altrui, ora stretti nel disagio di un'angoscia che non riesce a risolvere. Alzando appena lo sguardo per sfuggire a quella visione che non ha nome né spiegazione, Rivaille vede che le maschere hanno cominciato a prendere persino corpo, e macchiano di impronte il suolo bianco impiastricciandolo di colore intenso; tutto diventa carminio, e il carminio ingloba tutto, in piccole onde che si increspano e, toccando i lembi dei mantelli scuri, risucchiano in un continuo vortice il nero e lo tingono di rubino terribile. Le maschere, quasi, agonizzano un nome che si fa fatica a identificare, quando anche il bianco degli occhi non esiste più
L'uomo inizia a camminare con passo sicuro, guardando dritto davanti a sé. Ignora volutamente le dita nere che, dai fluttui, sembrano galleggiare come relitti, e il suono flaccido delle sue gambe che sembrano come calpestare delle interiora molli, così poco dense da rendere difficoltosa la marcia.
Le ombre stridono, per quanto riescono ancora – ma è come riemergere, dal fiume di sangue, vivi e arsi al medesimo tempo, o scappare da un incendio che è arrivato nelle ossa e le consuma poco a poco: l'uomo interessa loro ben poco, prese da una condizione che le rende inesorabilmente tanto egoiste da non degnarlo neanche di uno sguardo. Si afflosciano sulla riva di quel fiume infernale e rimangono immobili, cadaveri mai stati vivi.
Niente cambia, su quella strada senza senso e senza direzione. Rivaille sente il rimbombo di quelle grida sempre più umane rimbalzargli tra cuore e polmoni, far vibrare il fegato e l'intestino, e riempirlo come l'aria che non riesce a respirare fino a rendersi fluido e nulla allo stesso tempo, pensiero che scivola nelle vene e nelle arterie.
Marcia, com'è solito fare, e si immerge in un rosso che più che suggerirgli la passione del fuoco e della vita gli ricorda la fine inesorabile di ogni anima, sola, che lascia quel mondo tra lamenti a una luna sorda e a un sole indifferente.
Che sia paura o altro quella che lo imprigiona, la sente accompagnarlo senza lasciarlo più in una melodia malinconica scandita dal battito del suo cuore.

 

*******

 

Un bambino dalla voce chiara diede un la alto, abbastanza lungo da suggerire la tonalità a quelle quattro persone che gli stavano attorno, nel mezzo della tormenta. Probabilmente esagerò con la forza, nel tentativo di non lasciarsi vincere dal freddo dei fiocchi di neve che gli venivano schiacciati in faccia, e dopo pochi secondi stonò e dovette abbassare la voce fino a farla diventare un gorgoglio abbastanza imbarazzato – sua madre sorrise mentre il padre della vicina rise apertamente del fallimento appena messo in atto, senza una qualche sorta o traccia di malizia che lo potesse far diventare oggetto di odio o risentimento.
Il ragazzino nascose il naso rosso sotto lo strato di lana colorato della sciarpa fatta a mano, ultimo regalo del Natale passato da poco, e si scaldò con il proprio stesso alito le labbra e il mento, l'inizio delle guance irrigidite dal freddo terribile. Alzò gli occhi quando un guanto e la mano che conteneva gli prodigò una carezza sulla cuffia a pompon che gli chiudeva la testa, in un gesto che voleva essere evidentemente di incoraggiamento e di fiducia assieme. Il suo sguardo lucido salì al viso di un uomo incontrato solo quel giorno, quello grosso con la voce profonda, che faceva così contrasto con la sua da fornirgli un invidiabile contorno. Con naturalezza infinita, riuscì a sorridergli per la prima volta.
-Tutto bene?
Hanji si strinse ancora nel proprio maglione spesso, avendo già chiuse le braccia al petto in un abbraccio a sé stessa davvero stretto, che sembrava voler trattenere ogni minima grado di calore residuo. Il sorriso le si era ghiacciato sulle labbra e, anche volendo, le sarebbe stato difficile piegare l'espressione a un altro stato emotivo: si trovava su quella soglia da troppi minuti, in attesa, per riuscire a piegare qualche muscolo del viso. E forse era per reale arrendevolezza all'impossibilità fisica, forse invece per non voler cedere alla scortesia, ma teneva ancora tra le dita strette un sacchetto di dolci fatti in casa e un'offerta per quel secchielli di latta che i guanti del bambino tenevano ben saldo per il manico. Lo sguardo del piccolo gruppo canoro si tinse, in una leggera gradazione verso la parte più esterna dell'iride, di ammirazione e rispetto.
La donna sorrise ancora e con un soffio spostò quel ciuffo grigio di capelli che le era scivolato davanti al viso.
-Forza! Fatemi sentire come cantate!
Il bambino iniziò la canzone con un la intonato, ben alto e chiaro, che venne seguito successivamente da altre quattro voci altrettanto chiare e altrettanto intonate – e benché Natale fosse passato, di poveri e carità si abbisognava sempre, come ricordavano i tanti fiocchi colorati di rosso acceso, appesi ai collo di tutti e cinque i cantanti.
Erwin, nel caldo rilassante e sicuro del salotto di casa, arricciò le labbra in un sorriso quasi compiaciuto. Si stirò i muscoli delle gambe, allungandosi verso il tavolo basso di legno che divideva i due sofà della stanza. Sopra la superficie orizzontale, vide il secondo dei piatti ormai svuotati dei biscotti che fino a un quarto d'ora prima erano caldi di forno, e tutte le briciole scure che erano sparse attorno alla sua circonferenza, sia dentro che fuori. Ma a lui, quel dettaglio importava poco.
Nascosto dal grande albero brillante che occupava il posto appena più in là rispetto al suo, poco dopo che il tappeto disteso a terra finisse e tre metri di distanza dal camino ancora acceso, l'uomo ebbe il privilegio di assistere allo spettacolo canoro da una posizione di rilievo, che gli faceva intravedere il profilo della propria compagna e la porta dell'abitazione ancora aperta. Ogni tanto, assieme a una brezza freddissima, entrava temerario anche qualche grumo di neve, che sciogliendosi entro i primi cinque metri dell'appartamento diveniva una semplice goccia sul pavimento lucido.
-Ne hanno ancora per molto?
L'uomo, per mascherare la sorpresa con cui quell'affermazione lo aveva colto in un solo movimento, distese il proprio braccio e lo appoggiò la mano nell'ultima parte del bracciolo del sofà, stringendo con le dita vecchie e un poco grigie l'angolo.
Il suo animo conservava, nonostante gli anni, quella nota di indulgenza che riservava al mondo, e quella punta di profondo paternalismo con cui trattava ogni cosa e ogni persona, specialmente lui.
Erwin era cambiato solo nel numero delle rughe della fronte e del colore più secco dei capelli, ma sentirlo parlare in quel momento era come sentirlo parlare trent'anni prima. Come il vecchio che ormai era diventato, con la guerra e il tempo, mordeva tenacemente le convinzioni da lui ritenute migliori e ne diventava servo leale fino quasi alla pazzia e al controsenso.
Sorrise persino alla sua brutta espressione.
-Non essere impaziente. Anche la gioia ha i suoi tempi.
Rivaille aveva mezzo occhio per lui e mezzo occhio per le briciole disseminate sopra il tavolino di fronte a loro – tuttavia gli riuscì benissimo di essere sgradevole ancora una volta, come sempre.
-Mi pare ostentazione, questa.
Smith mosse ancora la mano, non per il disagio ma per non essere toccato in qualche modo dal suo tono. Razionalmente, era consapevole di essere sempre più stanco, e se si soffermava troppo sul significato delle abitudini la sua mente già sofferente di insonnia avrebbe cominciato ad arrovellarsi su questioni inutili. Cristallizzò il proprio sorriso e solo poi riuscì a guardare l'altro uomo.
-Sei sempre così intransigente, con tutti.
-In questo modo ho sempre ottenuto dei risultati ottimi.
-E anche un sacco di maledizioni.
Sorrise, sorrise davvero, grato di quel particolare privilegio che la compagnia del subordinato di esercito, come poche altre cose ormai, gli riservava.
Mosse gli occhi quando Hanji chiuse la porta e sigillò il calore al solo interno dell'abitazione. Fece una faccia strana a Erwin, quando gli passò vicino, piena di confidenza e quotidianità passata assieme, e con il suo passo ancora svelto raggiunse la cucina e il giovane Eren, abbandonato per qualche minuto da solo a controllare che le patate nella pentola non si cuocessero tanto da bruciarsi. Persino da lontano si sentì, nella sua voce, il disagio di un uomo non avvezzo ai fornelli altrui, e le rassicurazioni della donna circa la salvaguardia personale presente e futura di tutti loro.
Di fronte al camino, i due uomini tornarono a guardarsi.
-Ma almeno si poteva capire cosa ti aspettassi dalle persone.
Erwin si concesse un momento di nostalgia, con lui, fiducioso di potersi consegnare interamente a qualcuno che non avrebbe in alcun modo abusato di lui.
-Sei sempre stato un vero amico, Rivaille.
Per qualche secondo, Rivaille si vide stretto in un'angoscia senza nome preciso, una di quelle intuizioni che solo la curiosità e la malizia, unite assieme, potevano far nascere dentro qualcuno. Vedere l'altro uomo in quel momento, con gli occhi lucidi e il cuore il mano, gli fece temere la confessione di un morente.
Questo fu il motivo per cui non fuggì da Erwin e anzi, si sporse verso di lui – con tutta la propria persona: fisico e cuore.
-Non hai mai dimostrato di essere di meno.

 

Indugiò due secondi in più e Erwin si voltò a guardarlo, con uno sguardo non troppo allarmato o impaziente. Lo scrutava da lontano, con la stanchezza negli occhi e un passo lasciato a metà, tra il vialetto ben pulito del giardino della sua casa e il marciapiede ancora pieno di neve, tanto alta da ricoprire i suoi passi e tutta la sua scarpa scura.
Sovrappensiero, vide Hanji muovere la propria borsetta in aria, quasi la stessa facendo roteare, e cantava la stessa canzonetta festiva che aveva ricevuto come visita non troppe ore prima, tenendo il ritmo con il suo passo. Aveva comprato da poco una macchina – rivoluzionario come una signora della sua età, di quei tempi, si permettesse di guidare l'ultimo figlio di quella generazione di tecnologia davanti a tutti. Lei, con quell'atto quasi rivoluzionario, aveva dimostrato a tutti di voler ancora sentirsi libera di provare qualsiasi emozione, anche la curiosità e l'eccitamento di una nuova scoperta.
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e ricordò con un brivido di aver freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio maglione.
-Non hai dimenticato niente?
L'altro uomo sorrise e chinò appena il capo in avanti, in un gesto che voleva nascondere un guizzo dello sguardo troppo evidente. Fissò la punta degli stivali, provò ad alzarne una ma vinse il freddo: non ci riuscì.
Alzò la testa e lo guardò, ancora appoggiato al lato della porta d'ingresso. Dietro di lui, Eren lo adocchiava con una certa curiosità – sorrise a entrambi.
-No, non mi sembra proprio.
La risposta del francese arrivò lenta, con lo stesso ritmo ora dolce della danza dei fiocchi di neve, e sembrò fermare il tempo per qualche istante.
-Allora scusami, devo aver sbagliato.
Non rese più dispiaciuto lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né lo piegò alla commiserazione o al rimpianto. Non bisognava dare spiegazione al dolore ma nessuno dei due uomini aveva intenzione di piegarsene vigliaccamente: i rimpianti non andavano esposti ad altre anime sensibile.
Si diedero l'ultimo addio nel sorriso di Erwin.
-Torno da solo.

 

Quando era rientrato in casa, avendo lasciati gli ospiti fuori dalla porta, aveva notato sull'appendiabiti dell'ingresso un cappotto scuro – il proprio, per la stagione invernale – posizionato in un modo tale da scivolare, lentamente, verso il pavimento. Prima che fosse riuscito ad allungare la mano per afferrarne un lembo e trattenerlo, era già caduto a terra, per fortuna sopra il bel tappeto dell'atrio. Si era chinato a raccoglierlo, e quando era stato a terra si era fermato per un ovattato tonfo sordo, appena qualche metro davanti a lui. Aveva alzato lo sguardo e aveva visto rotolargli incontro il cappello nero da militare, quello con il bavero scuro di pelle. Aveva fermato la sua corsa con la mano e lo aveva sollevato con sé, portando anche quello sull'attaccapanni.
In quel momento, gli riservò un'occhiata più lunga del dovuto, soffermandosi più sull'essenza del valore che sull'oggetto in sé, ormai vecchio e così rigido per essere indossabile. Lo lasciò lì, assieme ad altre memorie, e avanzò nella casa.
Nel salotto, il camino stava dando gli ultimi sbuffi di vitalità, tra la legna secca e la cenere grigia. L'attizzatoio era stato riposto in malo modo nel proprio portantino: andò lì e lo mise a posto, incapace di sopportare quello squilibrio nella propria dimora. Passando così vicino alla cucina, d'altro canto, riuscì a sentire quel vago aroma di cibo cotto e carne arrostita che ancora aleggiava in quel luogo, dopo quella insolitamente lunga serata di festa. Chiuse le braccia al petto e si incamminò veloce verso la camera da letto, unica stanza nell'appartamento ad avere ormai la luce accesa.
Eren dava le spalle, nude, alla porta, ma quando lo sentì entrare, riemergendo dal buio della notte ormai fonda, si girò verso di lui e lo accolse con un sorriso ovattato dalla stanchezza trattenuta a stento.
L'uomo più anziano cominciò a togliersi i vestiti, uno a uno.
-È sempre bello passar la festa di capodanno con il signor Smith e la signorina Hanji.
Non c'era formalità, nella sua allegria, e benché gli scappò uno sbadiglio ben udibile e dovette ricorrere a una spiegazione ulteriore, non c'erano dubbi che lui fosse sincero, su quanto stesse dicendo.
-La loro compagnia mi piace.
Riposta la camicia sopra lo schienale della sedia della scrivania, Rivaille si concentrò sulle bretelle, che sciolse con un sol gesto e una smorfia assai marcata.
-Questa casa diventa un ospizio, quando si riempie di quella gentaglia.
-Non è molto gentile da dire! Sono i tuoi vecchi colleghi, compagni di esercito!
-Un monco e una pazza: quale miglior resto la vita mi ha lasciato.
-Una mancia niente male.
-Da far invidia.
Rivaille, pronto per la notte, si volse finalmente verso il compagno che attendeva tra le lenzuola calde. Gli illuminava il fianco la lampada posta sul comodino; gli brillavano gli occhi e aveva uno sguardo caldo, accogliente.
Andò con calma al letto e sollevò le coperte, per mettersi sotto senza fretta, e solo una volta coperto permise a Eren di avvicinarlo, con un veloce movimento dell'intero corpo.
Non lo strinse: si appoggiò con il viso alla sua spalla e fu come se si fosse depositato lì, senza realmente pesargli contro.
-Mi sono sempre domandato in che modo foste riusciti a incontrarvi, tutti assieme.
Sentire la sua presenza era tutto ciò che a Rivaille serviva per sentirsi bene, in quel frangente. Alzò appena il livello delle lenzuola e guardò altrove.
-Un episodio come un altro, niente di davvero significativo.
Sospirò, sovrappensiero.
-Anche perché è stato importante quello accaduto dopo.
-Credo di poterlo capire, questo.
L'uomo più giovane si stropicciò gli occhi e sbadigliò ancora, sistemandosi con una mano i cuscini dietro la schiena. Nella sua mente stava prendendo posto il sonno, senza discrezione, e già la testa gli si faceva pesante. Dovette costringersi a stare sveglio quando l'altro tornò a parlare.
-Mi ricordo benissimo cos'è capitato la notte del nostro incontro, invece.
Rivaille lo guardò solo in quel momento in viso e lo vide più spaesato di quello che si sarebbe aspettato – non comprese il suo disagio e il suo disappunto, ma lo registrò perfettamente.
-Cos'è successo?
-Non ricordi nulla?
-Mi ricordo l'impressione che ebbi di te, molte delle parole che dicesti, ma non più di questo.
Ne rise, nascondendo in quel moto la punta di amarezza che gli era nata nel cuore. Non avrebbe pensato di scoprirlo così, ma quello che teneva nel cuore – i ricordi di una persona che si scopre dolorante e che non ha intenzione di rinunciare a quello che ha, giudicandolo già troppo poco – gli era più caro di qualsiasi altra convinzione.
-Sei incredibile.
-Ti dispiace?
Ma non era così caro quanto Eren, o forse quella di Rivaille era solo momentanea decisione. Decise, però, di non guardarlo più negli occhi.
-No, non così tanto. È solo un dettaglio, in realtà. Come tutto il ballo e la musica e il resto.
-Il ballo me lo ricordo. E il freddo.
-Il freddo è stata una cosa fondamentale.
-Probabilmente ti muovevi tanto proprio per quello!
Al suo riso tornò a guardarlo, con un'espressione corrucciata in volto.
-Non mi sono mosso tanto.
-Sì che lo hai fatto! Non te l'ho mai detto, ma come maestro di ballo sei sempre stato pessimo!
A questo non volle rispondere – e il suo cruccio non ne ebbe di sparire, in quel momento. Il più giovane rise, e si mise sotto il suo braccio, come a costringerlo in una stretta intima; l'altro lo lasciò fare, perché sentire il peso del compagno sul petto era decisamente più appagante che sentirlo sulla schiena, e in quel momento necessitava di qualche piccola certezza, e del suo sorriso che non tardò ad arrivare, contro la sua pelle.
-Mi ricordo di non averti mai dimenticato.
-Questo non ha molto senso, se lo aggiungi a quello che hai detto prima.
Al secondo bacio, il petto di Rivaille si gonfiò più del dovuto, e le sue dita scivolarono sulla nuca dell'altro, in una carezza leggera che terminò tra i ciuffi scuri del suo capo. Eren impiegò qualche secondo di silenzio per formulare una risposta adeguata, che non si lasciasse corrompere dal bacio promesso dalla sua bocca.
-Perché? Mi ricordo di te e quello che a te mi lega. Penso sia sufficiente per dare un senso al nostro rapporto. Non mi servono altri oggetti o gingilli di qualche tipo, come non relego la memoria che ho di te a nient'altro che i miei sentimenti. Questa è la base di ogni legame: quello che proviamo l'uno per l'altro.
La promessa si ruppe, sulle labbra dell'uomo più anziano, ma non per cattiveria o indivia, per sorpresa e una punta di ammirazione mai dichiarata.
Tuttavia, le carezze non terminarono.
-Parlare per te è sempre così facile.
-Non è vero. Quando ci sei tu niente è semplice.
Abbassò capo e sguardo, per vergogna improvvisa.
-Non lo è mai stato.
E rideva, quando tornò a ricambiare il suo sguardo – gli baciò persino la mano, nel tentativo dolce di rassicurarlo se mai qualche paura gli fosse sorta nell'animo.
-Hai perso l'aura da oggetto mistico che avevi all'inizio, questo sì. Sono rimasto ammaliato dalla tua figura per più di dieci anni. Ma non sei stato solo luce negli occhi, e questo pesava sulla mia coscienza.
Non poteva essere altri che lui: ciò di cui Rivaille aveva bisogno e ciò che aveva sempre cercato. Per quel motivo, dal loro primo incontro, l'uomo non aveva mai scordato il colore dei suoi occhi e la forza, la verità insite in ogni sillaba formulata dalla sua voce.
Forza che guida, forza che viene guidata, forza che non si limita all'apparenza ma diventa essenza. Quando Rivaille aveva chiesto come Eren si fosse innamorato di lui – se mai ci potesse essere motivo o ragione logica per tale avvenimento – il ragazzo aveva risposto con una frase simile, adducendo magari qualche merito alla morale di cui era esempio e alla coerenza di fondo che mai gli era stata estranea.
In quel mondo di decadenza, aggrapparsi a valori puri di passione e rigore era l'unico modo di sopravvivere e vivere assieme. E questo lo avevano capito entrambi, alla stessa maniera.
Rivaille gli sorrise e gli prese la mano saldamente.
-Hai detto che ti ricordi il ballo, vero?
-Sì, me lo ricordo.
Lo trascinò in piedi, con sé, mezzo nudo e impastato di sonno. E quando si mise in posizione volle finalmente dire una verità tanto scomoda quanto divertente.
-Anche quando eri un ragazzo eri più alto di me.
-Sì, sei sempre stato basso.
Ma Eren lo guardò stranito, adocchiando anche la stanza assonnata attorno a loro.
-Vuoi ballare qui?
-Abbiamo tutta la casa, per farlo.
-E la musica?
-Non ho bisogno di altra melodia che te, Eren.
Sorrisero, con le dita strette le une nelle altre.

 

Ci fu una sorta di ballo, che iniziò nella camera da letto e si schiantò un paio di volte lungo il muro del corridoio; minacciò anche di entrare in bagno, ma lo sbattere di un gomito contro la porta di vetro lo fece rotolare altrove, accompagnato da un'imprecazione e uno sbuffo divertito.
Incappò in qualche tappeto, minacciò di interrompersi in un inciampo e in un piede calcolato male, che calpestò quello del conducente – la realtà è che nessuno ballerini dei due era ormai pratico di tutto quello ed era più che difficoltoso mantenere integra quella sorta di dignità che avrebbe reso un senso all'insieme dei gesti.
Non arrivarono neanche al salotto: si fermarono prima, lungo distesi sul tappeto dell'atrio. Eren rideva, con la schiena contro il pavimento, mentre Rivaille aveva assunto di nuovo tutto il suo sdegno e lo guardava con un certo risentimento, nei muscoli tesi del collo.
Sentì le sue unghie aggrapparsi alla schiena, come in un ancoraggio estremo. Lo guardò, tra labbra e occhi; chiedeva solamente che la promessa fatta venisse mantenuta, si tese un poco verso di lui per incitarlo.
Lo prese per la coscia, gli allargò le ginocchia e vi si mise in mezzo, nel caldo abbraccio delle gambe. Lo baciò, con foga impaziente, e si schiacciò tanto contro di lui quasi da strizzarlo. Eren se ne lamentò, all'inizio, e gli sfuggì anche un gemito strozzato quando l'uomo cominciò a muoversi contro il suo bacino.
Quella era la dichiarazione di Rivaille, senza parole o sorrisi, senza propositi deposti nel vento o promesse profumate di lavanda e della stagione delicata e sfuggente della primavera: amore che era ruvido e scaldava il cuore, della stessa passione a cui era assoggettato.
Si tolsero il sottile intimo rimanente, rimanendo pelle contro pelle. Rotolarono, a quel punto, e non fu più chiaro chi dovette restare sopra e chi sotto; si tenevano uniti per le mani e per le labbra, concatenati in uno sguardo mai chiuso.
Si unirono al buio, nei gemiti che si alzarono come a saluto del nuovo anno – un susseguirsi dei loro nomi senza ordine e senza reale scopo, in verità, ma solo per il piacere di farlo.

 

Solo ossessioni abbandonate, non più a incrostare la mente.
La solitudine per la compagnia. La morte per la conferma della vita. La perdita per l'amore.

   
 
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