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Autore: Beatrix Bonnie    24/01/2014    1 recensioni
Un pianeta di acqua e fuoco. Quattro tra i migliori soldati della Federazione Galattica e nessuno scopo. Solo rabbia e rancore, per essere stati abbandonati al loro destino, dimenticati all'inferno. Sorgono come relitti di un antico passato al quale, un giorno, saranno chiamati a ritornare. Ma torneranno?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anno della Federazione Galattica 99
antica numerazione, 2182
Pianeta TERRA



Il rumore dei reattori di una nave da carico coprì le parole che rimbombavano nell'hangar, mentre una sonda ronzò sopra le teste delle reclute, registrando suoni e immagini ad alta definizione. Proprio in quel momento, uno sciame di soldati, nelle loro uniformi nere con i bordi colorati in base alla specializzazione, si schierarono ordinati davanti all'entrata della nave, pronti a salirvi non appena fosse stato dato l'ordine.
Guardando tutte quelle operazioni eseguite con precisione millimetrica, non si poteva provare altro che ammirazione: ognuno aveva il suo compito e tutti sapevano esattamente cosa fare per far funzionare quella macchina perfetta. Era la base della fede della Federazione: cuique suum, a ciascuno il suo. Secondo le proprie predisposizioni naturali, a ognuno veniva affidato un ruolo nella società, cosicché questa funzionasse alla perfezione.
Lucrezia sorrise. In base a quel meccanismo, lei era stata assegnata a uno dei compiti più impegnativi e carichi di responsabilità: l'Esercito della Federazione. E non solo: era entrata a far parte dei Reparti Speciali, caratterizzati dall'uniforme nera con i bordi viola (e per questo i soldati Speciali erano chiamati violetti nei corridoi dell'Accademia). Dieci anni di duro addestramento per diventare un corpo d'eccellenza, la punta di diamante dell'intero esercito. Erano in grado di combattere in qualunque condizione e con qualunque arma, di obbedire ciecamente agli ordini, di resistere a privazioni fisiche e al dolore. Ma il grosso dell'addestramento era a livello psicologico: la mente era l'arma più potente di un soldato dei Reparti Speciali. Con la fede nella Federazione, si poteva fare qualsiasi cosa.
Lucrezia ci credeva. Credeva negli ideali di giustizia e di pace che la Federazione portava avanti, credeva nel meccanismo della macchina perfetta e nell'idea che le loro missioni di pace in giro per la galassia fossero il modo migliore per riportare la tranquillità a quei pianeti sconvolti dalla guerra e esportare insieme i valori della cultura umana: uguaglianza, giustizia e libertà.
«Soldato Boldi» la richiamò una voce che conosceva fin troppo bene.
Lucrezia scattò sull'attenti e fece un perfetto saluto militare. «Signore.»
«Riposo, soldato» concesse il comandante, con un sorriso bonario. Era un ex violetto il comandante Eimhin [NdA: dato il mio folle amore per l'Irlanda, non potevo non fare un personaggio originario di quella terra. Il nome è appunto irlandese e si pronuncia Evan.] Leinster, un uomo brizzolato, abbastanza alto e con un naso tanto pronunciato da essere diventato leggendario tra le file dei suoi sottoposti. Ogni sacrosanta battuta cominciava con “Il naso di Leinster è così grosso che...” e terminava in modo più o meno scurrile in base a quanto fosse alta la possibilità che i commilitoni facessero la spia a qualche superiore.
«Ho una notizia in anteprima per te.» Il comandante Leinster era famoso per il suo scarso senso di rispetto per le regole. Era solo perché aveva grandi attitudini al comando e aveva condotto la sua truppa vittoriosa nella battaglia di Taille, contro i demoni del ghiaccio, che la Federazione lo teneva ancora nelle file del suo esercito.
«Signore, non credo che sia il caso di rivelare l'informazione» tentò di frenarlo Lucrezia, per quanto si sentisse lusingata di essere entrata nelle simpatie del comandante.
Leinster sorrise. «Ci sono un sacco di cose che non credo siano il caso di fare, ma le faccio lo stesso» replicò, con una strizzatina d'occhio. Per quanto avesse un grande senso dell'onore, c'erano fin troppe inutili regole che si divertiva a infrangere. «Ho fatto il tuo nome per la prossima missione di pace sul pianeta Londeon.»
Lucrezia rimase scioccata. «Signore?»
Leinster le mise una mano sulla spalla. «Sei una delle migliori reclute che abbia mai visto addestrarsi in questa Accademia. Fai brillare il tuo valore e diventerai presto il mio successore.»

Anno della Federazione Galattica 114
antica numerazione, 2197
Pianeta ADEUS



Niente male come lancio. Il nocciolo eseguì una bella parabola, per poi farsi inghiottire dalle acque grige con un piccolo risucchio. Lucrezia prese un altro frutto solo per il gusto di vedere se riusciva a sputare più lontano, non perché avesse veramente fame. Lo spolpò con poche mosse esperte di mandibola e poi effettuò il lancio.
«Il missile del Caccia 347 centra in pieno l'obiettivo!» esultò, quando il secondo nocciolino superò il punto dove era stato inghiottito il primo.
Qualcuno si avvicinò a lei, ma la ragazza nemmeno si voltò: dopo quindici anni, aveva imparato a riconoscere i suoi compagni anche solo dal passo. Quello di Joaquin era ritmico, militare, ma non troppo pesante.
«Vuoi?» chiese, offrendogli un acino.
L'uomo scosse la testa, facendo frusciare i capelli scuri che gli arrivavano alle spalle. «Non sono mai riuscito a farmeli piacere, quei...» si interruppe, non sapendo il nome del frutto.
«Lochred, con la c un po' aspirata» ripeté paziente Lucrezia. «O almeno così li chiamano i Titani. Non conosco il nome in pereotese.»
«Non capirò mai come tu possa aver imparato quella lingua» la elogiò Joaquin. Certo, lui non era proprio portato per le lingue straniere, dato che il suo inglese aveva ancora un pesante accento spagnolo, residuo della sua terra d'origine, l'Argentina. Joaquin sospirò e si appoggiò al parapetto della nave. Parte della vernice di lava che lo proteggeva dagli agenti atmosferici si stava scrostando, ma nessuno di loro aveva idea di come ripararla. In fin dei conti, quella nave era un prezioso regalo dei Titani ed era anche ciò che permetteva loro di sopravvivere, ma era fatta con materiali del pianeta Adeus e nessuno era mai riuscito a capire davvero il meccanismo che la regolava. Nemmeno Angus, e lui se ne intendeva di meccanismi. Inoltre, preferivano investire in riparazioni essenziali che permettevano loro di far navigare quella bagnarola, piuttosto che sprecare energie in tinteggiature esterne.
«La vecchia Bezzy non reggerà ancora a lungo» sospirò Lucrezia, dando qualche pacca al fianco dell'imbarcazione.
«Forse riusciremo a convincere i Titani a darcene una nuova» suggerì Joaquin.
La giovane donna scosse la testa. «Dovremmo avere ottima merce per fargli accettare lo scambio» rispose. «E non ce l'abbiamo.»
«Be', ma ce lo devono!» protestò Joaquin, con uno sbuffo. «Senza una nave noi non possiamo raggiungere l'isola dei Pereoti e se non la raggiungiamo, niente mercato.»
«E pensi di convincerli tu, con questo tuo bel faccino?» Lucrezia passò la mano sulla guancia dell'altro e la barba incolta le pizzicò la pelle. Gli tirò un paio di schiaffetti amichevoli. «Come se non conoscessi i Titani.»
Avevano un nome azzeccato, pensò. Grossi, nerboruti, scaltri. Titani. Praticamente perfetto.
Certo, il nome glielo avevano affibbiato i Ricognitori Galattici quando, all'epoca delle Grandi Esplorazioni, erano stati individuati, studiati e catalogati tutti i pianeti della Via Lattea (con rispettive specie abitanti) che offrissero un ambiente le cui condizioni consentissero la vita all'uomo senza bisogno di respiratori o macchinari particolari.
Per quanto, definire Adeus un pianeta vivibile era quasi ridicolo. L'aria era respirabile, ma sempre densa di fumo, spessa e pesante; il mare, quella sottospecie di brodaglia grigia che ricopriva per intero il piccolo pianeta, era cupo e imbevibile. Sorgevano parecchie isole, ma si trattava perlopiù di isole vulcaniche. Con vulcani attivi. E la stella di quel sistema era troppo lontana per essere visibile nel cielo, che restava dunque perennemente grigiastro, con nessuna differenza tra il giorno (se di giorno si poteva parlare, dato che sulla testa non brillava altro che una fosca stellina) e la notte. Mica per niente i Ricognitori l'avevano battezzato Adeus. Il regno di Ade, l'inferno.
Su Adeus vivevano solo due specie catalogate come CCeI (sigla che stava per le parole latine cum coscientia et intellectu e che prevedeva, tra gli altri parametri, una forma di linguaggio sufficientemente sviluppata): i Titani, appunto, grossi e cattivi, e i Pereoti, docili e innocui. Entrambe le specie avevano un aspetto più o meno umanoide perché, secondo un'accreditata teoria scientifica che a parere di Lucrezia peccava un po' di antropocentrismo, in pianeti con condizioni di vita simili alla Terra, si sviluppavano esseri CCeI simili agli uomini.
I Pereoti, inoltre, sembravano essere stati creati da qualche divinità per non far altro che lavorare: sopportavano immense fatiche, potevano sollevare qualsiasi cosa che pesasse anche il doppio di loro e avevano scorte di cibo e acqua inserite in sacche sotto il gozzo, cosicché potevano restare anche una settimana senza nutrirsi. Questo li aveva resi facile preda per i Titani, che li catturavano e li schiavizzavano.
O, almeno, l'avevano fatto finché non erano arrivati loro. Sull'isola dei Pereoti, infatti, cresceva una pianta biancastra, le cui foglie erano velenose al tatto (ma non per la dura scorza dei Pereoti): se eri un grosso Titano a caccia di schiavi, rischiavi di finirci addosso e lasciarci le cuoia decisamente troppo spesso. In questo modo, i Pereoti si erano protetti, per quanto possibile, e il loro popolo si era salvato dall'essere ridotto in schiavitù.
Era qui che entravano in gioco loro: un umano, con la sua altezza media di un metro e settanta, aveva molta più probabilità di sopravvivere sull'isola dei Pereoti e di poter cacciare indisturbato.
Siamo diventati mercanti di schiavi, si ritrovò a pensare Lucrezia. Questo non ti sarebbe piaciuto, comandante Leinster.



Anno della Federazione Galattica 99
antica numerazione, 2182
Nave della Federazione Transporter 117



La luce rossa dell'allarme lampeggiava senza tregua. La voce all'interfono dava una serie di annunci a raffica, ma nessuno riusciva a distinguere le parole, perché il rimbombo delle esplosioni copriva qualsiasi cosa.
Niente panico, sono un soldato!
Questo pensiero le diede un minimo di forza. Era stata addestrata per affrontare qualsiasi situazione, non bastava certo un attacco a sorpresa per metterla fuori gioco.
Trova un superiore, mettiti ai suoi ordini.
Sarebbe stato tutto più semplice se il suo battaglione non si fosse trovato, insieme a buona parte delle truppe, nel vano trasporti che era praticamente saltato in aria al primo missile. Lei era salva per puro miracolo: poco prima dell'attacco, era stata spedita in sala comando per portare un ordine del suo comandante. Era lì che si stava recando, quando la nave da trasporto della Federazione aveva cominciato a tremare. Poi erano seguite le esplosioni; e le grida.
Chi ci dovrebbe attaccare?
Erano una nave da trasporto, piena zeppa di giovani reclute in viaggio verso la loro prima missione. Una missione di pace verso il pianeta Londeon. Roba a basso rischio.
Fintanto che non li avevano attaccati. E, per quanto i passeggeri fossero quasi tutti soldati, quella non era una nave da guerra, ma da semplice trasporto. Avevano una decina di Caccia come scorta, giusto per prassi, ma non erano armati né pronti per difendersi. Dopotutto, chi avrebbe dovuto attaccarli? La Terra era in pace con tutti da parecchi decenni.
Lucrezia si affacciò a uno degli oblò del corridoio e ciò che vide non le piacque per niente: almeno una ventina di Caccia dalla forma assottigliata si stavano lanciando contro di loro, partendo da due navi madre armate di missili e cannoni al laser.
Non ho mai visto niente del genere.
Aveva studiato a memoria la forma delle navi di tutte le principali civiltà della Via Lattea, in modo da poterle riconoscere a prima vista. Ma quelle non stavano in nessun manuale dell'Accademia. Ed erano mostruosamente veloci.
Una nuova, potente scossa del Transporter la fece riprendere. Sala comando, quello doveva essere il suo obiettivo: se c'era possibilità di risolvere la situazione, era da lì che sarebbero partiti tutti gli ordini. Strinse i pugni e riprese a marciare.
«Soldato Speciale!» gridò qualcuno alle sue spalle. «Ehi, parlo con te!»
Lucrezia si voltò per trovarsi di fronte un soldato con la divisa gialla dei Genieri. Aveva i capelli color paglia sparati in aria e la faccia stravolta. «Seguimi in sala macchine» le ordinò. «Ho bisogno di aiuto.»
«Ma io non so nulla di motori» protestò Lucrezia, mentre il panico cominciava a risalirle dallo stomaco fino allo sterno.
L'uomo si era già voltato per raggiungere di corsa il suo obiettivo. «Sei un violetto, impari in fretta» gridò, senza nemmeno preoccuparsi che le sue parole arrivassero alla ragazza.
Lucrezia tentennò una manciata di secondi, domandandosi se fosse meglio proseguire verso la sala comando o mettersi agli ordini del Geniere. Se c'è un problema ai motori non andiamo da nessuna parte, si disse. E prese a correre dietro all'uomo.
Quando lo raggiunse, davanti alla porta della sala macchine, lui stava cercando di assoldare un'altra giovane recluta, una ragazzona bionda con la faccia schiacciata e i tratti duri; le strisce sulla sua divisa erano quelle rosse degli Assaltatori. Portava sulle spalle un'enorme cannone al laser. «Arianna va fuori e li fa saltare tutti per aria!» tuonò.
«Lo trovo un po' difficile, ora come ora» replicò il Geniere, che aveva ancora la forza di far battute di spirito. Ma proprio in quel momento un'esplosione proveniente dalla sala macchine fece scoppiare la porta e sbatté i tre soldati indietro di parecchi metri.
Lucrezia fu l'unica a capovolgersi all'indietro e rialzarsi immediatamente; la ragazzona di nome Arianna sbucò da un cumulo di macerie con il suo cannone sottobraccio, come se volesse sparare alla porta appena esplosa.
«Damnú air!» sbottò invece il Genere, rialzandosi a fatica.
«E ora?» domandò Lucrezia. Il suo tentativo di nascondere il panico fallì miseramente.
«Se la sala macchine è saltata in aria, abbiamo i minuti contati.» L'annuncio del Geniere, per quanto ovvio, non aiutò a tranquillizzare le due reclute.
«Li facciamo saltare per aria!» gridò Arianna, puntando il cannone laser verso uno degli oblò del corridoio.
«Andiamo alle capsule d'emergenza» propose invece l'uomo, molto più diplomatico.
Percorsero a fatica la strada che li separava dall'hangar principale, a causa dei continui scossoni della nave. Probabilmente uno dei missili aveva colpito i sistemi di stabilizzazione, perché il Transporter traballava come se fosse finito dentro una tempesta di meteoriti.
«Damnú air!» grugnì nuovamente il Geniere, quando raggiunsero le capsule di salvataggio.
«Cosa vuol dire?» chiese Lucrezia, anche se immaginava che non fosse nulla di buono, dato che il pannello di controllo delle capsule aveva l'aria di essere fuori uso.
L'uomo borbottò qualcosa, mentre armeggiava con i controlli: estrasse dalla tasca un arnese in metallo con la punta sagomata e cominciò a maneggiare sul pannello. «Vuol dire merda, in gaelico» rispose alla fine. «E non è un buon segno.»
Finalmente, dopo l'ennesimo colpo che scosse la nave come un gigante che sballotta una noce, le porte della capsula più vicina si aprirono. «Entrate» ordinò il Geniere, ma non ci fu nemmeno bisogno di dirlo che le ragazze si erano già fiondate dentro. La navicella si staccò dalla pancia dell'astronave a fatica, come se qualcuno da fuori le avesse dato una gran spinta.
«Dovrebbero migliorare i sistemi di sicurezza» grugnì Arianna, mentre abbracciava il suo cannone, manco fosse il suo primogenito.
Il Geniere scosse la testa. «Ho dovuto farla partire con i comandi manuali perché il sistema computerizzato era k.o.» spiegò con uno sbuffo.
«E questo vuol dire che per la memoria della nave nessuna capsula è stata sganciata» arguì Lucrezia, improvvisamente consapevole di ciò che implicava quella storia.
Il Geniere aprì uno sportellino sul soffitto e quattro inconfondibili respiratori si sganciarono dall'alto. «Speriamo che il pianeta su cui siamo diretti presenti un ambiente vivibile» commentò. «Altrimenti due di noi sopravviveranno per dodici ore, uno per ventiquattro.»
Lucrezia si volse verso l'oblò, per contemplare la superficie del pianeta che si stava avvicinando. Alle loro spalle, la nave Transporter 117 era una fiamma rossa, risucchiata verso il nero infinito dell'universo. Dei Caccia di scorta alla missione non vi era alcuna traccia, se non per quell'uno che, colpito al motore, precipitava in modo più o meno sconnesso verso il loro stesso pianeta.
Nessuna capsula di salvataggio era stata sganciata, secondo il sistema computerizzato della nave; questo significava che per la Sala Controllo dell'Esercito nessuno era sopravvissuto.
«La Federazione verrà a cercarci.»
Quella era la sua unica certezza. Quella era la sua fede.



Anno della Federazione Galattica 114
antica numerazione, 2197
Pianeta ADEUS



Uno scossone preoccupante fece traballare la nave. Lucrezia e Joaquin si scambiarono un'occhiata significativa, proprio quando dei capelli arruffati, di un biondo ormai ingrigito, sbucarono dalla botola sul ponte. Quella zazzera informe apparteneva a Angus McKaster, il Geniere che aveva portato in salvo se stesso e due giovani reclute dalla distruzione del Transporter 117. Si erano salvati, certo, ma erano anche stati condannati ad un'esistenza infame, abbandonati in quel piccolo inferno. Spesso Lucrezia si chiedeva se non sarebbe stato meglio morire come tutti gli altri sul Transporter, piuttosto che ridursi a catturare Pereoti sul pianeta Adeus.
«Che succede?» si informò Joaquin. Anche lui era sopravvissuto al disastroso attacco, essendo riuscito a pilotare il suo Caccia danneggiato fino ad atterrare sull'isola dei Titani.
Quattro sopravvissuti. Quattro relitti, nient'altro.
Abbandonati.
Perché la Federazione non era venuta.
«Siamo nei guai» annunciò Angus, ripulendosi la sgualcita divisa gialla dal più grosso della fuliggine.
«Quando mai non lo siamo?» Il sarcasmo disilluso era tutto ciò che restava a Lucrezia, dopo che si erano frantumate tutte le sue certezze. Angus le riservò un'occhiata di sbieco. «Questa volta siamo a terra: è partito il motore.»
«Coño» imprecò Joaquin, nella sua lingua madre. «E ora?»
«Ci serve merce, buona merce per ottenere una nuova nave dai Titani» osservò Lucrezia, pensierosa. «Devo andare a caccia.»
«Vengo con te!» esclamò Arianna, comparsa sul ponte proprio in quel momento. Portava i lunghi capelli biondi raccolti in una treccia, ma anche quel vezzo non aveva addolcito i suoi tratti duri, né il forzato esilio inattivo aveva smorzato il suo temperamento impulsivo.
«No» la frenò subito Lucrezia. «Sulla scialuppa c'è poco spazio e io devo poter trasportare la merce al ritorno.»
I suoi compagni opposero qualche resistenza, ma alla fine dovettero cedere perché il suo piano era il più sensato: lei era la meglio addestrata e quella con maggiori probabilità di successo. Successo dal quale, ora come ora, dipendeva la loro vita.
Lucrezia non aveva mai smesso di allenarsi: il suo fisico di donna ormai adulta era scattante, rapido e insieme muscoloso. Mantenere un perfetto addestramento da Soldato Scelto era tutto ciò che le era rimasto, la sola cosa che sapeva fare, la sola che il disincanto non si era portato via. Per questo motivo non aveva alcuna difficoltà a catturare anche da sola tre o quattro Pereoti. Quando andava a caccia si ripeteva che era l'unico modo di sopravvivere in quell'inferno e cercava di non pensare alle implicazioni morali della faccenda. La Federazione insegnava giustizia e uguaglianza, lei mercanteggiava schiavi.
La Federazione ci ha abbandonati, si ripeté per l'ennesima volta. Poteva andare a marcire nel culo di un Titano, con tutti i suoi inutili valori.
Qui si tratta di sopravvivenza.
Quando Lucrezia arrivò all'isola dei Pereoti, nascose la scialuppa nella solita baia incassata tra due costoni di roccia e si arrampicò in cima a quello più alto. Da là aveva un'ottima visuale della stretta valle sottostante, cosicché poteva decidere come muoversi. Nonostante tutto, le piaceva cacciare. Poteva finalmente fare ciò per cui era stata addestrata, usando al massimo tutte le sue potenzialità. Erano quello che le restava, l'unica cosa che la facesse sentire ancora viva.
Faccio ciò che mi avete insegnato. La mia mente si svuota e il mio corpo agisce.
Era giunta l'ora di dare un'occhiatina alla valle per decidere la strategia d'azione. Strinse il calcio della sua arma laser, la sola che aveva avuto con sé al momento dell'attacco. Era una pistola niente male, per fortuna, con una batteria nucleare praticamente infinita. Era l'unica arma a sua disposizione, ma ormai la sapeva manovrare con la stessa naturalezza con cui avrebbe mosso un suo dito: non era più un oggetto estraneo, ma era parte di lei.
Lucrezia si mosse rapida e silenziosa tra gli arbusti sottili che ricoprivano il crinale della cima, dirigendosi verso il punto che sapeva essere il migliore per osservare senza essere visti.
«Cosa diavolo...?» Le parole le morirono in gola.
Una strana astronave dalle forme affusolate era appollaiata sul fianco sinistro della vallata come un'aquila che studia le prede dall'alto del suo nido. Lucrezia staccò dalla cintura il binocolo digitale (lo strumento faceva parte delle attrezzature che Joaquin aveva con sé nel Caccia) e osservò meglio la nave: non ne aveva mai viste di quella forma, eppure le ricordava vagamente qualcosa. Attorno ronzavano una serie di esseri dall'aspetto umanoide, affusolati come la loro nave. Avevano i visi appuntiti e gli arti molto lunghi, ma la cosa più assurda era che sembravano fatti di ghiaccio, per via di quella strana trasparenza del loro corpo, o di gelatina, per la sinuosità dei movimenti.
Allora hanno ragione quegli scienziati, si ritrovò a pensare Lucrezia. Tutte le specie CCeI hanno forma simile a quella umana. Oppure siamo noi che assomigliamo a loro?
Tutti i suoi pensieri furono interrotti da una specie di onda sonora che le arrivò all'orecchio. Fu solo grazie ai suoi sensi tesi al massimo per via dell'allenamento che si accorse del suono in tempo per voltarsi ed evitare di farsi cogliere alle spalle come una novellina.
Si ritrovò faccia a faccia con uno degli alieni della strana astronave. Si concesse il lusso di una rapida occhiata per studiarlo e immagazzinare tutti i dati che in un futuro sarebbero potuti tornarle utili. L'essere era alto più di due metri, magro come un fuso, senza altri segni distintivi sul corpo se non un pigro pulsare di un bagliore simile ad una scarica elettrica al centro del collo affusolato.
Non aveva armi, o almeno non visibili.
Lucrezia si mosse lentamente, non sapendo se la creatura che aveva davanti le era ostile o meno. Si mantenne in guardia, ma cercò di non mostrarsi troppo aggressiva né fare movimenti di scatto.
«Umano.»
Inglese. L'essere parlava la sua lingua. E, per quanto l'accento fosse strano, quasi liquido, il tono sembrava proprio sorpreso. Lucrezia si lasciò sfuggire uno sbuffo. Per forza sei sorpreso, ghiacciolo: noi non dovremmo essere qui.
«Umano» ripeté, questa volta con maggiore convinzione. Lucrezia notò che nel pronunciare quella singola parola, nulla si era mosso in lui: una semplice onda sonora si era sparsa nell'aria.
Forse quello era il loro sistema di comunicazione; forse, quando prima Lucrezia aveva sentito quelle vibrazioni, era stato perché la creatura aveva parlato.
E poi seguì un'altra inequivocabile parola: «Morte».
Lucrezia fu piuttosto rapida a reagire, nonostante tutto. Roteò su se stessa, scansandosi dalla traiettoria di qualsiasi arma la creatura potesse avere e si mise al riparo dietro il costone di roccia in tempo per evitare una specie di raggio a cerchi concentrici che le fu scagliato addosso.
Da dove diavolo spara?
Non ci fu modo di rispondere alla domanda: Lucrezia si spostò sempre più a destra, girando intorno alla roccia, ma si accorse presto che quel gioco non poteva durare in eterno.
La miglior difesa è l'attacco.
Con due agili mosse si issò in cima allo sperone, si appiattì su di esso per essere meno visibile possibile e si sporse in fuori: la creatura era in posizione di attacco, vigile e con le braccia puntate in avanti come un karateka. Lucrezia realizzò subito che aveva pochi secondi prima che l'altro si accorgesse di lei, quindi agì d'istinto. Non aveva tempo per rialzarsi: semplicemente appoggiò la pianta dei piedi contro un masso che sporgeva e utilizzò la forza delle gambe per spingersi in avanti. In un battito di ciglia, strisciò il torace, il ventre e le gambe contro la rupe, sentì la tuta che si strappava e la pelle che veniva lacerata, ma isolò il dolore in un recesso della sua mente e lo ignorò. Cadde in avanti, giù dallo sperone di roccia, proprio in faccia al suo nemico. Le braccia protese verso di lui, non gli diede nemmeno il tempo di accorgersi di quello che stava succedendo: semplicemente, fece fuoco. Il suo laser centrò in pieno la sfera luminosa nel collo della creatura, ma Lucrezia non ebbe tempo di vedere altro perché la caduta richiese la sua attenzione: si posizionò in modo da atterrare secondo le regole delle arti marziali che aveva appreso in Accademia, così da rialzarsi immediatamente, l'arma ancora pronta a sparare.
Non ce ne fu bisogno, perché la creatura era a terra, attraversata da strani crepitii elettrici. Ronzò, inarcò la schiena e poi evaporò come una pozzanghera al sole.
Lucrezia restò ferma in posizione per quasi un minuto, aspettando che il battito del cuore tornasse regolare. Era la prima volta che sparava contro qualcuno, si rese conto. All'Accademia si era allenata in simulatori quanto mai realistici, ma non aveva ancora colpito nessuno, dato che erano stati attaccati prima ancora che cominciasse la sua missione.
Fa uno strano effetto. Uccidere, dico.
Aveva cacciato i Pereoti, li aveva condotti in catene e venduti ai Titani, ma non aveva mai ucciso.
Mi sono difesa, si disse. E ho fatto ciò per cui sono stata addestrata.
Si sentì improvvisamente piena di vita. Non aveva mai apprezzato tanto la sua, fin quando non si era accorta di quanto fosse facile toglierla agli altri.
Vivrò, fu la sua promessa. Non fosse altro per impedire a questi ammassi gelatinosi di decretare con tanta facilità che un essere umano merita la morte.
Decise di ritornare immediatamente dagli altri, per avvertirli del pericolo e scegliere insieme cosa fare. Non sapeva il motivo per cui i Gelatinosi (così aveva deciso di chiamarli) fossero atterrati su Adeus, né perché quell'esploratore, nel sorprenderla, aveva stabilito che meritasse di morire solo perché era umana. Ma di una cosa era certa: era sopravvissuta a tutto, non si sarebbe fatta ammazzare dal primo pazzo che passava.
Quando raggiunse la vecchia nave dei Titani attraccata alla baia, Lucrezia notò che era ormai giunta la sera, per quanto il cielo grigio di Adeus si modificasse poco con il vespro e l'alba.
«Cosa ti è successo?» la accolse Arianna, vedendo lo stato in cui era conciata la sua divisa. Lei e Lucrezia insistevano a portare l'uniforme della Federazione perché, nonostante tutto, era ancora in buono stato e soprattutto era comoda e si adattava alla temperatura esterna.
Lucrezia scese con un balzo dalla scialuppa e si avvicinò alla nave dalla spiaggia. «Un tizio ha cercato di uccidermi.»
Arianna le calò una corda perché potesse arrampicarvisi. «Un Pereota?» le gridò, incredula.
L'altra aspettò di essere sul ponte della nave, prima di rispondere. «No, un tizio di una razza aliena che non ho mai visto» spiegò.
Quando anche Angus e Joaquin si avvicinarono, Lucrezia raccontò loro quello che era successo sull'isola dei Pereoti. La prima e più immediata reazione fu il silenzio. Dopo tanto tempo, sembrava loro impossibile che qualcuno atterrasse su quell'inferno di pianeta.
Qualcuno che, tra l'altro, aveva intenzioni tutt'altro che pacifiche.
«Li facciamo saltare in aria!» esclamò alla fine Arianna, entusiasta di poter finalmente usare il suo cannone su qualcuno.
Lucrezia annuì. «Sono d'accordo.»
«Ma siete pazze?» le bloccò immediatamente Joaquin. «Un'occasione del genere non ci si ripresenterà più!»
«Che occasione?» si informò Lucrezia, dubbiosa.
«L'occasione di andarcene.»
L'idea si insinuò lenta nelle loro menti. Andare via. Lasciare finalmente quel pianeta e poter tornare a casa. Sulla Terra, dopo tutti quegli anni.
«Rivedrò le mie Highlands. E mio fratello» mormorò sognante Angus.
Anche Arianna sorrise, beata e infantile come non lo era mai stata. «Andremo a vivere insieme in un cottage nella brughiera» immaginò, prendendo per mano il suo amato Geniere.
«Follie!» tuonò Lucrezia. Erano soldati, non sciocchi bambini che rincasavano dopo essersi persi nel bosco. Tornare sulla Terra poteva voler dire una sola cosa per tutti loro: Esercito della Federazione Galattica. «Non siamo in grado di fuggire con quella nave» tentò di farli ragionare.
«Hai detto che non hanno un grande equipaggio, possiamo farcela a rubarla.» Joaquin perorò la sua causa con una cocciutaggine ai limiti della follia.
«Se anche riuscissimo ad impossessarcene, tu non saresti in grado di guidarla!»
Anche Joaquin si infervorò. «Voi violetti non siete gli unici a ricevere un addestramento d'eccezione. Io posso pilotare qualsiasi velivolo!»
«Oh, fantastico, e questo vi sembra un buon piano?» gridò Lucrezia, la voce densa di sarcasmo. «Andiamo lì, uccidiamo quegli esseri gelatinosi, ci impossessiamo della loro nave e torniamo tranquilli, tranquilli a casa?»
«È sempre meglio che restare qui a marcire per chissà quanti altri anni!» Joaquin era esasperato dalla sciocca resistenza opposta da Lucrezia.
«Io concordo con Joaquin» intervenne Angus, più diplomatico. «Abbiamo una possibilità, sfruttiamola. Io mi sono rotto di restare qui a marcire.»
«Bene.» Lucrezia li squadrò con violenza. «Molto bene, fate come volete» concesse. «Io non vengo.» E con quelle parole si avviò a grandi passi verso la botola che portava sottocoperta.
«Lucrezia, ti prego, fermati!» le urlò dietro Joaquin. La inseguì, la afferrò per un braccio e la costrinse a voltarsi.
Lucrezia trattenne l'istinto di rispondere con una mossa di karate per liberarsi dalla stretta, ma non riuscì a evitare di lanciargli un'occhiata furibonda.
«Si può sapere cosa diavolo dici?» la aggredì, insieme furioso e disperato. «Come sarebbe che non vieni?»
Lucrezia era fuori di sé. «Non tornerò alla Federazione» scandì.
Joaquin le afferrò entrambi i polsi e la strinse a sé. «Perché non vuoi venire via con noi? Perché non vieni... con me?»
Lucrezia era troppo furente per rendersi conto del trasporto che Joaquin aveva messo in quelle parole. Con una mossa veloce si liberò dalla presa dell'altro e si allontanò di un passo da lui. «Vuoi sapere perché non torno?» lo aggredì. «La Federazione ci insegna ad obbedire ciecamente agli ordini, ci insegna a resistere a qualsiasi tortura fisica e psicologica, a sopravvivere in ambienti ostili, senza cibo anche per giorni, perfino ad amputarci una gamba da soli, in caso di bisogno» gli riversò addosso, piena di rabbia. «Ma non ci insegna cosa fare quando ciò in cui crediamo ci abbandona all'inferno!» E con quelle parole si voltò e se ne andò, chiudendo definitivamente la conversazione.



Anno della Federazione Galattica 96
antica numerazione, 2179
Pianeta TERRA



Lucrezia restò rigida come se avesse delle canne di vetro al posto degli arti. Non era certo la prima volta che aveva a che fare direttamente con un superiore, perfino con quel tipo strano del comandante Leinster, ma non le era mai capitato di essere convocata nello studio privato di qualcuno dei pezzi grossi.
Devo aver fatto qualcosa di sbagliato, era stato il suo primo pensiero. Le mancavano tre anni per diplomarsi all'Accademia nei Reparti Speciali e avere una punizione nel suo curriculum non era il modo migliore per cominciare la carriera militare nella Federazione.
«Stai tranquilla, non ti mangio» la rassicurò il comandante, tirando fuori dal taschino della divisa un toscanello e ficcandoselo in bocca. Tastò sulla scrivania alla ricerca di un accendino e, ignorando bellamente la regola che impediva di fumare in qualsiasi luogo dell'Accademia, si accese il sigaro.
Per quanto si trovasse in una situazione critica, Lucrezia non poté fare a meno di ripensare a una battuta che aveva sentito quella mattina: il comandante Leinster ha il naso così grosso che può fumare sotto la doccia senza far spegnere la sigaretta. Sogghignò mentalmente, sforzandosi in ogni modo per evitare che gli angoli della sua bocca si inclinassero in un sorriso.
L'uomo, per fortuna, non si accorse di nulla. «Sono stato anche io un violetto, sai?» Tirò una lunga boccata dal sigaro, in realtà senza aspettarsi che la giovane recluta rispondesse a quella domanda retorica: doveva essere a conoscenza del fatto che circolasse ben più di una leggenda sul suo conto, nei bassifondi dell'Accademia. «La mente è la nostra più grande arma, ci dicono. Vero» concesse. «Fin tanto che va tutto bene. Se poi le cose si mettono male, la mente diventa il nostro peggior nemico.»
Lucrezia rimase in silenzio, senza capire dove volesse andare a parare il comandante con quel discorso. Sapeva alla perfezione che l'uomo non era dei più fervidi sostenitori dei metodi dell'Accademia, ma stava addirittura mettendo in discussione tutto l'impianto di fede su cui si basava la Federazione. Inaudito!
«So che pensi stia delirando.» Il comandante Leinster alzò gli occhi su di lei e solo allora Lucrezia si accorse di quanto fosse intenso il suo sguardo. L'uomo buttò fuori una nuvola di fumo. «La Federazione insabbia tutti i casi, ma non sai quanti violetti finiscono ricoverati negli ospedali psichiatrici dopo il fallimento di una missione.»
«Ospedali psichiatri?» si lasciò sfuggire Lucrezia, come un'eco di un sussurro lontano. Non poteva credere a nulla del genere.
Il comandante le puntò contro il suo sigaro. «Se credi ciecamente in qualcosa, quando questo qualcosa viene meno, il tuo mondo ti frana sotto i piedi.»
«Io credo nella Federazione» rispose in automatico Lucrezia, ormai entrata alla perfezione nella logica dell'Accademia.
«Appunto» sospirò Leinster. Tirò qualche boccata dal toscanello, poi riprese: «Io ho visto delle grandi potenzialità in te, recluta Boldi. Nei test fisici ottieni sempre il massimo punteggio, ma sei anche dotata di iniziativa e di spirito bellicoso.»
Lucrezia chinò leggermente la testa, davanti a quei complimenti. Faceva il suo lavoro, nulla di che.
«Io voglio salvarti da questo meccanismo diabolico» le annunciò il comandante. «Voglio fare di te un vero soldato, non un fanatico senza coscienza.»
Lucrezia non riuscì a cogliere la differenza. Tutti quelli che lui chiamava fanatici, per lei erano veri soldati.
«Quando avrai finito l'Accademia, farai le solite due o tre missioni di gavetta, poi richiederò espressamente che tu venga assegnata al mio battaglione» la informò Leinster, facendo passare per una banalità quella che era una raccomandazione bella e buona.
«Grazie, signore» fu l'unica cosa che riuscì a dire Lucrezia, incerta se essere orgogliosa di aver attirato l'attenzione di un superiore o se preoccuparsi di dover finire agli ordini di quello che era conosciuto come il più indisciplinato comandante di tutto l'Esercito. Ma poi, se odiava così tanto la Federazione, perché continuava a combattere nelle sue file?
«Sei congedata, recluta Boldi» le ordinò Leinster, mentre prendeva posto alla sua scrivania.
Lucrezia tentennò un attimo, rosa da un piccolo tarlo di curiosità. «Signore?» domandò incerta.
«Sì?» Leinster alzò gli occhi su di lei.
«Se non nella Federazione, in cosa devo credere?» le uscì in un sussurro.
Un'ombra di sorriso sincero attraversò i lineamenti del comandante, di solito così beffardi. «Io credo nella vita, la mia e quella dei soldati che devo riportare a casa.»



Anno della Federazione Galattica 114
antica numerazione, 2197
Pianeta ADEUS



Lucrezia non credeva più in niente da un bel po' di tempo, ormai. Prima c'era stata l'illusa speranza che la Federazione arrivasse a salvarli, poi lo sconforto più nero, infine odio. Così tanto odio da non sapere nemmeno più verso cosa indirizzarlo. Lucrezia sospettava che fosse stato quello a tenerla in piedi, ad impedirle di cadere nel baratro della follia, come quei violetti che erano finiti rinchiusi in un ospedale psichiatrico.
Ognuno di loro aveva qualcosa che lo aiutava ad andare aventi: Angus aveva i suoi esperimenti, il suo vano e cocciuto tentativo di costruire un'astronave che, sfruttando l'energia di uno dei vulcani, potesse riportarli in orbita; Arianna aveva il suo cannone al laser e quell'assurdo amore che la legava, ricambiata, proprio a Angus. Anche in Joaquin c'era una qualche nota di speranza, anche se Lucrezia non aveva mai capito quale fosse.
Ma lei, lei era sostenuta unicamente dall'odio. Puro, profondo e viscerale, scagliato contro la Federazione e tutti quegli stupidi valori che le avevano inculcato in testa. Tante belle parole, ma poi li avevano abbandonati comunque.
Per questo non poteva tornare alla vita di prima: non sarebbe mai più riuscita a rientrare in seno a quella struttura sociale che odiava con tutta se stessa. Tornare sulla Terra, tornare alla Federazione avrebbe significato per lei solo follia. Follia e morte.
Tuttavia, aveva deciso di aiutare i suoi compagni a rubare l'astronave, perché era certa che senza di lei non ce l'avrebbero fatta. Non se la sentiva di condannarli a morte certa.
Ho ancora una coscienza, io.
Aveva stretto attorno alla vita e sul petto un panno di quelli comprati dai Titani, fatto di una strana fibra vegetale simile al lino, per tenere al riparo le escoriazioni che si era provocata. Aveva stretto i capelli sfibrati e secchi in uno chignon alla base della nuca, come quando era una giovane recluta dell'Accademia. La prospettiva di compiere ciò per cui era stata addestrata la elettrizzava e la faceva sentire di nuovo viva.
Finalmente.
Silenziosi e perfettamente abituati a muoversi nella grigiastra boscaglia dell'isola vulcanica, Lucrezia e i suoi compagni avevano deciso di sfruttare l'elemento sorpresa: attaccando come fulminei predatori notturni, potevano avere qualche possibilità di sopraffare il nemico. Lucrezia dubitava fortemente che ci sarebbero riusciti, ma in un certo senso non le importava: aveva di nuovo una missione, un obiettivo da portare a termine e questo cancellava perfino la paura della morte.
È questo ciò per cui sono nata, capì, mentre procedeva acquattata nel sottobosco e indirizzava brevi segnali ai suoi compagni per istruirli su come muoversi. Si aprirono a ventaglio attorno alle due sentinelle poste a monte rispetto all'astronave ma, prima che Lucrezia potesse dare qualsiasi ordine, a valle esplose il pandemonio: fuoco, spari, grida.
«Che succede?» sussurrò Joaquin, guardingo.
Lucrezia scosse la testa, ma non aveva tempo di pensare. Lasciò che l'addestramento avesse la meglio e, sfruttando il diversivo che era scoppiato all'improvviso, avanzò rapida e silenziosa alle spalle delle sentinelle; con due spari precisi le uccise sul colpo. Fredda e determinata, resa perfettamente vigile sia dall'adrenalina sia dall'avere uno scopo da perseguire, Lucrezia fece segno ai compagni di avanzare. Li condusse verso valle, compiendo un giro più largo per evitare di incappare nel grosso delle forze nemiche e al contempo riuscire a capire cosa fosse accaduto.
Là sotto era in corso una piccola battaglia: le creature aliene, senza armi, scagliavano i loro raggi di energia dalle mani, come evidentemente aveva fatto quella che aveva attaccato Lucrezia, mentre altre figure dall'aspetto umanoide sparavano loro addosso con fucili al laser. Il combattimento era confuso, luci ed esplosioni dappertutto, eppure...
Non è possibile.
Le figure non erano umanoidi. Gli occhi di Lucrezia avevano imparato presto ad adattarsi al grigiore notturno del cielo di Adeus, per cui riusciva a distinguere i tratti degli assalitori appena arrivati.
Sono umani. Soldati umani.
Mentre le creature aliene cominciavano ad avere la peggio e a retrocedere, Lucrezia, completamente dimentica dei compagni, sgusciò silenziosa tra la vegetazione per avvicinarsi l'astronave insieme alle truppe di terra che avanzavano. Quando riuscì a raggiungere la radura dove la nave era atterrata, gli uomini avevano ormai eliminato tutti i nemici.
«Signore, è l'astronave da ricognizione che abbiamo colpito due giorni fa al largo di Timnus» fece rapporto un soldato, avvicinandosi a quello che pareva essere il comandante.
«Molto bene».
Quella voce. Non ci credeva.
Lucrezia si avvicinò, ormai senza più badare alla cautela, proprio mentre i suoi compagni la raggiungevano.
«Chi è là?» gridò il soldato che aveva parlato con il capitano, puntando il suo fucile verso di loro. L'uomo a capo della spedizione si voltò, estraendo l'arma con una velocità impressionante e puntandola dritta al petto di Lucrezia.
È lui.
Era invecchiato, certo, con molti più capelli grigi di quanti ne ricordasse, ma avrebbe riconosciuto ovunque quello sguardo intenso e il naso pronunciato. «Comandante Leinster.»
L'uomo si fece avanti cauto, senza abbassare la pistola. E poi si fermò di botto: un'improvvisa rivelazione gli trasfigurò il volto in una maschera di puro sconcerto. «Non è possibile...» mormorò incredulo.
«E invece è possibile!» esplose Lucrezia, lasciando libero sfogo a tutto l'odio che aveva accumulato in quegli anni. «Siamo sempre stati qui! E nessuno ci è mai venuto a cercare!»
Il comandate Leinster lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Sentì come se il peso schiacciante della responsabilità gli cadesse addosso, per quanto, all'epoca, nessuna delle decisioni che erano state prese era dipesa da lui. «Dai dati di volo, non c'erano sopravvissuti, né capsule di salvataggio» tentò di giustificare, ben consapevole che non sarebbe bastato a soddisfare la sete di vendetta degli uomini abbandonati.
«Potevate indagare per esserne certi!» Lucrezia, ormai fuori di sé, alzò l'arma e la puntò al petto dell'uomo che aveva sempre considerato il suo mentore. Gli altri soldati puntarono a loro volta i fucili contro quei quattro derelitti che erano comparsi dal nulla; restarono in attesa di un ordine che non sarebbe mai arrivato.
«Lucrezia!» esclamò Joaquin, spaventato dalla piega che stavano prendendo gli eventi. Ma il comandante Leinster lasciò cadere la sua pistola e alzò semplicemente le mani, come se fosse pronto ad assumere su di sé la responsabilità di quel delitto. Il suo debole sorriso era insieme stanco e dispiaciuto.
«La Federazione ci ha abbandonati all'inferno!» gridò Lucrezia, la vista appannata da lacrime di rabbia.
Il sorriso di Leinster si spense. «La Federazione non esiste più.»
Lucrezia abbassò l'arma, colpita dalla notizia come un uragano di inaudita violenza. «Come?» sussurrò.
«La Federazione non esiste più da anni» ripeté il comandante, sempre con le mani alzate.
«Cosa è successo?» intervenne Angus, anche lui incredulo.
«L'attacco al vostro convoglio fu solo il primo di molti» spiegò Leinster. «Questi esseri...» accennò con il capo all'astronave dalle forme affusolate. «Noi li chiamiamo Giustizieri. Vengono dalla galassia M 91 e sono decisamente più evoluti di noi, in qualsiasi cosa.»
Lucrezia realizzò: quella nave le ricordava qualcosa perché apparteneva alla stessa razza aliena che li aveva attaccati sul Transporter 117. Quei caccia appuntiti che avevano popolato i suoi incubi per tanto tempo... perché volevano sterminarli?
«Perché ci hanno attaccati?» Angus diede voce alla domanda che attraversava la mente di tutti.
Il comandante Leinster lasciò di nuovo cadere le braccia e scosse la testa rassegnato. «Dicono che la razza umana è indegna di governare sulla Via Lattea.»
«Noi non governiamo su niente» brontolò Arianna, immusonita da quell'accusa che riteneva infondata.
«Oh, adesso no di sicuro.» Il sarcasmo amaro di Leinster li colpì come uno schiaffo. «Ma la Federazione, nei tempi d'oro, aveva qualche problema a capire quando superava il confine e trasformava i suoi interventi armati sugli altri pianeti in vere e proprie invasioni.» Angus sbuffò. «E questi cosiddetti Giustizieri non stanno facendo lo stesso? Che diritto hanno?»
«Non ne ho la più pallida idea, ma di una cosa sono certo: ci hanno massacrati e ci stanno massacrando tutt'ora.» Leinster si passò una mano sugli ispidi capelli a spazzola, nel vano tentativo di rilassarsi. «La Federazione crollò su se stessa otto anni fa, incapace di reggere il peso degli assalti» spiegò. «Per qualche periodo regnò l'anarchia e vennero alla luce tutti i punti oscuri che avevano permesso alla Federazione di ergersi come più luminosa conquista dell'umanità.»
Joaquin restò perplesso. «Punti oscuri?» chiese, con il suo accento spagnolo più marcato per via della maggiore tensione.
«Lo sapevate che, nel momento della sua ascesa al potere, dopo la catastrofe della Terza Guerra Mondiale, la Federazione aveva represso nel sangue ogni dissidenza?» li provocò il comandante. «La Federazione era una dittatura. Mossa dai più nobili ideali di unione dei popoli, di uguaglianza e giustizia, ma era e restava una dittatura.»
«Y ahora?» si lasciò sfuggire Joaquin nella sua lingua madre, ma tutti lo capirono ugualmente.
«E ora non lo so» ammise il comandante Leinster. «Dopo tutti questi anni di conflitto, siamo allo stremo delle forze. Ciò che è rimasto dell'umanità è governato da un Consiglio di Guerra e io sono a capo dell'esercito. Ora come ora, tutto ciò che possiamo fare è fermare la catastrofe e arginare il disastro.»
Angus si passò una mano sulla faccia. «Io voglio tornare a casa» decretò alla fine, in tono serio. «E poi combatterò con tutte le mie forze, per conquistare la pace.»
«Li faremo saltare tutti per aria!» esclamò Arianna, quasi allegra per la prospettiva, come se non avesse colto la gravità della situazione. «Lucrezia?» domandò incerto Joaquin. Non avrebbe accettato di abbandonarla su Adeus. Questo mai.
«Io non ho più niente» sussurrò la giovane donna, con voce atona. Aveva lo sguardo fisso su un punto dell'orizzonte, gli occhi spenti. «Quindici anni, quindici anni passati all'inferno, ad odiare la Federazione per averci abbandonati. E ora non ho più nemmeno quello.»
Lacrime salate cominciarono a scorrerle sulle guance, prima che potesse anche solo rendersene conto.
«Tu hai ancora qualcosa» esclamò di getto Joaquin, afferrandola per un braccio. «Hai la tua vita. Hai me.»
«Credi nella vita, Lucrezia.» La voce del comandante Leinster suonò offuscata, come se appartenesse ad un lontano ricordo.
E poi le lacrime si fecero violente, i singhiozzi un terremoto. Lucrezia si gettò tra le braccia di Joaquin, esausta e svuotata. Sentì la presa salda di lui intorno alla sua vita e decise che non aveva più senso combattere. Lasciò che le forze la abbandonassero, facendosi avvolgere dall'oscurità.



Anno 2213
Nave militare NewHope



Lo spazio era freddo. Un'immensità blu, punteggiata di piccoli puntini luminosi. Era affascinante, in un certo senso, ma di un fascino oscuro. Forse perché c'era la possibilità che da un momento all'altro una flotta dei Giustizieri comparisse all'orizzonte.
Il generale Lucrezia Boldi se ne stava sul ponte di comando, le braccia dietro la schiena e le gambe rigide. Vi stiamo aspettando, li incitò, proprio mentre le prime navi sbucavano dal salto nell'iperspazio.
«Capitano Cortez?» domandò ad alta voce, affinché i microfoni registrassero il suono e lo inviassero all'auricolare del pilota.
«Siamo in posizione.»
«Ottimo» rispose il generale. «Attendiamo ordini.»
«Fategli il culo!»
Lucrezia sorrise. Il comandante Leinster, per quanto ormai ottantenne e quindi impossibilitato a seguire le operazioni sul campo, non aveva ancora imparato a tenere a freno quella sua linguaccia.
«Generale?» la interpellò il Primo Geniere, sogghignando sotto i baffi. Se li era fatti crescere davvero, i baffi, Angus, perché diceva che gli davano un'aria più da padre. Lucrezia non era mai riuscita a capacitarsi di come Arianna avesse potuto abbandonare il suo cannone e il suo spirito bellicoso per crescere ben sette figli nella desolata brughiera scozzese. Ma, in realtà, sospettava che il cannone al laser lo tenesse ancora nascosto in cantina.
Lucrezia finse un'espressione seria. «Ha sentito il comandante, Geniere McKaster? Facciamogli il culo.»
Angus annuì soddisfatto e cominciò a dare ordini e a smanettare lui stesso con i comandi per i missili.
«Lucrezia?» La voce leggermente metallica di Joaquin risuonò nella sala controllo della nave NewHope.
«Sì, capitano Cortez?» lo assecondò lei, per quanto sapesse benissimo cosa volesse dirle.
«Ti amo.»
Non era la prima volta che Joaquin metteva in scena quel teatrino, prima di una missione particolarmente difficile. Gli altri ufficiali, se le prime volte erano rimasti quanto meno perplessi, poi ci avevano fatto l'abitudine e, anzi, vi leggevano sempre un buon auspicio per la riuscita dell'attacco.
«Vedi di tornare a casa tutto intero, capitano, o il culo te lo faccio io.» Lucrezia, per quanto si sentisse estremamente lusingata dall'aperta dichiarazione di Joaquin, non amava le smancerie: alla soglia dei cinquant'anni, era anche difficile modificare il suo atteggiamento militaresco.
Però un sorriso se lo concesse. Perché, in fin dei conti, quella poteva rivelarsi una buona missione.
Non era la battaglia risolutiva del conflitto, né si poteva dire che stessero vincendo contro i Giustizieri. Ma almeno il disastro era stato arginato. L'umanità era ancora in piedi, perché ciò che le riusciva meglio era proprio risollevarsi da terra, anche dopo le peggiori cadute. C'era ancora speranza, una nuova speranza.
In fin dei conti, l'unica cosa che Lucrezia aveva imparato dalla sua vita era che non c'era niente da imparare. Bastava un secondo perché tutto cambiasse, ma questo non significava rinunciare a credere in qualcosa o smettere di sperare. Lei avrebbe combattuto fino alla fine, anche se il destino era inesorabile.
Perché credeva nella vita.











Eccomi qui, signori miei, con qualcosa di totalmente diverso dal solito.
In realtà, io ho sempre adorato la fantascienza, ma è la prima volta che mi cimento con una storia di questo genere (e non sono convinta di essere proprio nel mio elemento). Comunque, ammetto che questa è una di quelle bizzarre storie nate da un sogno e poi rimodellate dalla mia fantasia (così lo sono anche "Il Veggente" e "Il cacciatore"); quindi, poiché mi sembrava che l'idea valesse la pena, ho approfittato del Superenalotto contest... al contrario per imporre un limite alla mia pigrizia.
Che dire? Spero che vi sia piaciuta. Un ringraziamento a chiunque deciderà di dare un'occhiata o di lasciare un commento.
Alla prossima,
Beatrix B.

   
 
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