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Autore: Acquamarine_    27/01/2014    1 recensioni
"Così s'avventarono l'uno sull'altro, alla velocità di un fulmine che squarcia il cielo, e io mi slanciai al seguito, col cuore in gola, per difendere il mio padrone, il primo bambino che abbia mai stretto fra le braccia ancora in fasce, il maggiore de' miei figliuoli."
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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  Note: Salve :) Alcune note veloci prima di cominciare. Non avrei mai pensato di approdare su questo fandom, ma la mia prof di italiano ci ha assegnato una traccia tanto carina ("Scrivi la scena del duello dal punto di vista di Cristoforo") e io mi sono divertita tanto a scriverla che ho deciso di pubblicarla anche qui. I nomi della moglie e dei figli sono totalmente inventati. Le frasi "Nel mezzo, vile meccanico, o ch'io t'insegno una volta come si tratta co' gentiluomini”,  “Voi mentite ch'io sia vile” e  “Temerario! Io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue!” sono tratte, come sapete, dall'opera del Manzoni. Che dire, spero che questa piccola sciocchezza vi piaccia :)

*


  Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo e, a ripensarci adesso, ciò può esser certo inteso come una beffa. Se devo però esser sincero, vi dirò che forse non mi tirerei indietro. Possedere un presagio di ciò che sarebbe accaduto non sarebbe stato capace di scalfire il mio animo, di oscurare il mio senso di giustizia.
  Quel giorno il sole splendeva alto nel cielo, e i nostri passi si confondevano fra centinaia d'altri, le risate de' bravacci di cui il mio signore Lodovico era solito circondarsi risuonavano, coprendo le voci de' poveri umili intimoriti da quelle presenze. Non accettavo la loro compagnia, eppure ero consapevole che la convivenza con loro era necessaria per il benessere del mio padrone; sapevo che era sforzo mio quanto suo circondarsi di tali oscure presenze. Lo amavo quasi quanto i miei figli, forse lo consideravo quasi tale, tanti erano i respiri che avevo uditi uscire dalla sua bocca. Lo conoscevo sin dalla più tenera età, lo avevo visto ancor fra le braccia della sua levatrice, era per me come il maggiore dei miei figliuoli.
  
Alzando lo sguardo dalla sudicia strada, incrociai lo sguardo di colui che sarebbe stato il mio assassino. Fu come se l'aria attorno a me vibrasse: un insolito calore si diffuse sul mio collo, sino all'altezza degli orecchi. Giuro di avere udito un sussurro. Non so cosa avesse detto, ma so che c'è stato.
  
Inizialmente non compresi ciò che stava accadendo: vedevo Lodovico stare a capo della nostra piccola combriccola, mentre urlava a gran voce contro quello strano individuo.
  
“Nel mezzo, vile meccanico, o ch'io t'insegno una volta come si tratta co' gentiluomini” urlò l'uomo, che doveva essere forse un nobile: un tale connubio d'arroganza e maleducazione poteva essere solo d'un aristocratico.
  
“Voi mentite ch'io sia vile” rispose Lodovico, ferito nell'animo.
  
Di tutta risposta, disse l'altro: “Tu menti ch'io abbia mentito”.
  
Ai miei occhi questa disputa apparve com'uno dei giuochi infantili de' miei figliuoli; e si può ben dire che i nobili, che siano essi di nascita o di acquisizione, sono tutti un po' eterni bambini. Sapevo che la situazione sarebbe degenerata presto: se ciò che avevo asserito prima era vero, ed avrebbero essi dunque seguito l'esempio di fanciulli, sarebbero venuti alle mani per una questione della quale non avevo bene inteso, perso ne' miei arrovellamenti.
  
Ed ebbi ragione. Si può dire che in questo poveri e ricchi non differiscono, non fosse che i poveri vengon alle mani quand'hanno le cervella fresche di giovinezza; sono infatti troppo stanchi, da adulti, per pensare anche solo di discutere.
  
“Temerario! Io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue!” urlò il nobile, in risposta a qualcosa che non avevo udito per via del frastuono.
  
Così s'avventarono l'uno sull'altro, alla velocità di un fulmine che squarcia il cielo, e io mi slanciai al seguito, col cuore in gola, per difendere il mio padrone, il primo bambino che avessi mai stretto fra le braccia ancora in fasce, il maggiore de' miei figliuoli.
  
Quello dall'animo tormentato e il desiderio di proteggere gli umili, quello che non era né nobile né povero, guardato di traverso da entrambe le categorie. Stringevo fra le mani un pugnale che in realtà non avrebbe potuto salvarmi: ma era pur vero che il mio intento non era quello di uccidere. Non sono mai stato avventato, non mi sono mai potuto permettere questo lusso. In realtà, non ho mai potuto permettermi alcun lusso.
 
  Lodovico e suo padre prima di lui mi hanno permesso di vivere in modo dignitoso, e altrettanto dignitosamente di poter crescere i miei otto figliuoli.  Si dice che nel momento in cui si sta per morire, tutta la vita ci passi dinanzi agli occhi. E io li vidi tutti, i volti delle persone da me amate, mentre la spada del nobile signore mi trapassava le carni, dopo che m'ero slanciato per salvare la vita a quel figlio con altro sangue nelle vene, al mio padrone, al mio complice: Adelina, mia moglie; Dante, Luisella, Celeste, Giosué, Carletto, Ennio, Giorgia, Caterina, i miei figliuoli; Lodovico e suo padre.
 
  Mi tornarono alla mente i più bei momenti che avevo vissuto, così velocemente che, a ripensarci, sarebbe potuta esplodermi la testa. La prima cosa che percepii fu un senso di calma. Poi esplose il dolore, acuto, straziante: fu come se gli organi mi fossero strappati dal corpo, volevo urlare ma non avevo voce, non avevo bocca. 
  E d'un tratto non provai più nulla: il sipario della morte era calato su di me.

   
 
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