CAPITOLO
DUE
“Cosa?!”
gridò John con voce quasi isterica,
spostando freneticamente lo sguardo da Sherlock alla ragazza che aveva
appena
varcato la soglia del loro appartamento. La signora Hudson se ne stava
ferma
sull’uscio, immobile come una statua, ma il suo viso
esprimeva tutta la
perplessità che stava provando in quel momento.
Fratellino?
Davvero l’aveva chiamato fratellino?
Il
detective, invece, se ne stava in piedi, a poca
distanza dalla sconosciuta e la fissava… semplicemente la
fissava, con le labbra
serrate e gli occhi chiari aperti e vigili. O la stava studiando oppure
era
immerso in qualche sua elucubrazione intensa.
“Be’,
non mi fai accomodare?” chiese allora la
ragazza che ricambiava lo sguardo del moro senza battere ciglio, per
niente
intimorita o confusa, come di solito capitava agli altri quando si
vedevano
osservare così da Sherlock Holmes.
John,
allora, si schiarì la gola e decise di
prendere in mano la situazione e fare il bravo padrone di casa, visto
che il
suo coinquilino non sembrava assolutamente intenzionato a farlo.
Nonostante
quello fosse affar suo, sicuramente affar suo.
“Ehm…
sì, accomodati”, le disse, indicandole il
divano appoggiato al muro e spostandosi per permetterle di passare. Lei
obbedì
ma non ringraziò, impassibile e imperturbabile. John, quando
quella strana tipa
gli passò accanto, si sentì quasi raggelare dal
suo sguardo freddo e
scrutatore. Eppure lei non gli rivolse altro che una rapida e breve
occhiata,
giusto il tempo per vederlo un attimo in volto.
Appoggiò la borsa a terra e si sedette dove le era stato
detto di fare, rigida
e dritta con la schiena.
Soltanto
allora Sherlock parve reagire: si destò
dallo stato catatonico nel quale sembrava essere caduto e si sedette
sulla
sedia dove di solito faceva accomodare i suoi clienti, di fronte al
divano e di
fronte alla ragazza. Ma non disse niente. Continuò a
fissarla. E lei faceva
altrettanto; si era sporta in avanti con i gomiti appoggiati alle
ginocchia e
il mento sorretto dal dorso delle mani.
“Oh
be’, vado a fare un po’ di
tè”, disse a quel
punto la signora Hudson, interrompendo il silenzio. Nessuno le rispose
né fece
intendere di averla sentita, così lei si ritirò
nella sua tana. Poi il silenzio
calò di nuovo. John invece andò in cucina e si
appoggiò col didietro al tavolo,
osservando i due e chiedendosi che cosa mai quello strano scambio di
sguardi
poteva significare. Che stessero comunicando mentalmente? Ma questo era
impossibile… o forse no. Dopotutto si trattava di Sherlock.
No, veramente non avrebbe saputo darsi una spiegazione, purtroppo lui
non era
così deduttivo.
Ma
dopo cinque minuti in cui non si sentì volare
nemmeno una mosca, il dottore ne ebbe abbastanza. “Oh, ma
insomma! Avete
intenzione di continuare così per tutta la notte?”
Le
labbra della ragazza si piegarono in un sorriso,
lo stesso sorriso che aveva mostrato quando aveva visto Sherlock.
“Il tuo amico
non è molto perspicace”.
Il moro ricambiò quel sorriso, nella stessa identica
maniera. “No, però
potrebbe sorprenderti”.
“Non ne dubito”.
E a quel punto entrambi scoppiarono a ridere. Solo un po’ e
soltanto per un
po’. Non si lasciarono andare a una risata troppo sguaiata
né troppo solare,
come se volessero mantenere un certo contegno, però
c’era… c’era una strana
complicità e forse persino qualcosa di molto…
molto dolce. John lo notò o
almeno credette di averlo notato, per questo non se la prese nonostante
stessero ridendo di lui.
“Che
ci fai qui, Connie?” chiese allora Sherlock,
quando il silenzio fu calato di nuovo.
“Anche
io sono felice di vederti”, fu la risposta
dell’altra, le labbra piegate in una smorfia sghemba che
chiaramente faceva
intendere che stava nascondendo qualcosa.
“E’
da molto che non vieni a Londra”, commentò il
moro.
“Più
di dieci anni”, confermò la ragazza, in tono
indifferente. “Ho perso il conto. O forse non l’ho
mai tenuto”.
Il
detective ridacchiò, abbassando lo sguardo.
“Quando sei tornata?”
“Il
mio aereo è atterrato un’ora fa. Ho preso il
taxi e sono venuta subito qui”.
“Come
hai fatto a trovarmi?”
“Ho
i miei metodi”. Connie socchiuse gli occhi in
un’espressione malevola, ma davanti al volto confuso e
sbigottito di Sherlock,
sospirò e spiegò: “Ho semplicemente
cercato su Google. Sei famoso”.
“Ma
insomma, Sherlock! Mi vorresti spiegare?” sbottò
allora John, spazientito. Possibile che il suo dannato coinquilino si
fosse
dimenticato di lui?
Il
detective scattò in piedi, pareva effettivamente ricordarsi
del dottore soltanto in quel momento, e si affiancò a lui
che lo aveva
raggiunto in salotto. “Connie, lui è John. John,
lei è mia sorella Connie”.
“Molto
piacere, John”, disse lei in tono gentile, ma
senza alzarsi dal divano o porgergli la mano. Lui restò a
guadarla sbigottito,
come se vedesse un fantasma. “Tua…
sorella?”
Sherlock
lo guardò come se tutto d’un colpo si fosse
rimbambito: “Sorella è il termine che indica una
persona di sesso femminile…”
“So
cosa diavolo è una sorella, Sherlock!” lo
interruppe il dottore spazientito. A volte si chiedeva se lo stesse
semplicemente prendendo in giro o se veramente il suo cervello,
così
intelligente e così perspicace, non riuscisse a capire certe
cose elementari.
“Non mi hai mai detto di avere una sorella!”
“Come?
Non hai detto al tuo fidanzato di me,
Sherly?”
Sherlock
ormai si sentiva messo alle strette, ma non
capiva il reale motivo di tutti quei sconvolgimenti. John,
d’altro canto, era
troppo… oh, non sapeva nemmeno lui cos’era, ma
sicuramente era qualcosa di
molto forte visto che non si accorse che la sorella
di Sherlock lo aveva scambiato per il suo fidanzato.
Il
detective era ammutolito di nuovo e certamente
non era una cosa che capitava tutti i giorni, che il grande Sherlock
Holmes
rimanesse senza parole per ben due volte nella stessa ora.
“Be’,
poco male, direi”, concluse alla fine Connie,
ma parve rassegnata. “Devo chiederti un favore”,
aggiunse, riportando gli occhi
sul moro.
In
quel momento, però, vennero interrotti dalla
signora Hudson che portava un vassoio carico di tazze di tè.
“Vi ho portato
qualcosa da bere”.
Connie
sorrise e un velo di malinconia parve
attraversare i suoi occhi verde acqua, veloce come un fulmine.
“Tè. Avevo
scordato queste confortevoli tradizioni inglesi”.
“Oh,
allora serviti, cara”, la invitò
l’anziana
proprietaria del 221B con un sorriso cortese.
“Grazie
mille, signora…”.
“Hudson!
Sono la proprietaria di questo
appartamento”.
“Oh,
è molto carino. Comunque, io sono Connie, la
sorella di Sherlock”.
“E’
un piacere conoscerti, cara”.
“Anche
per me”.
Aveva
un sorriso radioso quella ragazza, pensò John,
un sorriso dolce e tenero e tutto quello che aveva visto prima in lei,
il velo
di malinconia, il gelo negli occhi, non sembravano nemmeno
appartenerle.
Era una tipa… particolare, sì. Questo era certo.
Be’, dopotutto era la sorella
di Sherlock. Di Sherlock e quindi anche di Mycroft. Strano che nemmeno
lui
l’avesse mai nominata. Ciò significava che
rappresentava qualcosa di
significativo per i due fratelli Holmes.
“Che
cosa mi dovevi chiedere?” chiese a quel punto
il detective, tornando sul punto della situazione. La ragazza, seduta a
bere il
suo tè al tavolo della cucina, sembrò riscuotersi
improvvisamente da un sogno.
“Sì, giusto”, iniziò e il suo
tono questa volta era molto più indeciso. “Vorrei
che mi ospitassi per qualche giorno, giusto il tempo di
sistemarmi”.
Il
detective restò a guardare per qualche attimo,
come se stesse cercando di assimilare le sue parole.
“Mi
andrà bene anche il divano”, aggiunse lei a
mo’
di supplica.
“Ok”,
rispose semplicemente lui, senza alcuna
espressione. “John ti darà delle
coperte”.
John,
chiamato in causa, si voltò verso di lui e lo
guardò perplesso. “Cosa? Sherlock!”
Cercò di aggiungere qualcos’altro, tipo che
non era gentile far dormire sua sorella su un divano scomodo, primo
perché era
una donna e secondo perché era l’ospite, ma non
fece in tempo visto che quello
se ne sparì con uno svolazzo del suo lungo cappotto.
Il dottore riportò lo sguardo sulle due donne con un sospiro.
“Ti
va del tè, caro?” chiese la signora Hudson.
Il
mattino dopo John entrò in cucina come suo solito
e per poco non saltò contro il soffitto nel trovarsi di
fronte una donna seduta
al loro tavolo.
Ah, giusto! Connie… se n’era quasi scordato.
“Buongiorno”,
la salutò trascinandosi ai fornelli.
“’Giorno”,
ricambiò lei senza guardarlo, troppo
impegnata a mettersi lo smalto sulle unghie. Il dottore si
preparò la colazione
e si voltò a osservare la ragazza; l’altra sera
non aveva avuto modo di vederla
bene, dato che indossava il cappotto, ma ora poteva notare che aveva un
fisico
snello e atletico. Sicuramente si teneva in forma. Il seno non era
molto grande
però era ben fatto, così come i fianchi e le
gambe lunghe. Il volto pallido,
poi, aveva degli zigomi piuttosto pronunciati, ma non le stavano male,
e su di
esso spiccavano due occhi identici a quelli di Sherlock. Tutto in lei
ricordava
Sherlock e John avrebbe potuto scommettere che anche i suoi capelli,
ora
raccolti in uno chignon in cima alla testa, avevano gli stessi boccoli
del
fratello. Somigliava a lui più di quanto Sherlock non
somigliasse a Mycroft. Ed
era molto bella.
C’erano solo un paio di cose che la differenziavano dal
detective: le braccia
piene di tatuaggi – John non avrebbe proprio saputo dire
quanti e quali tipi di
animali e creature mitologiche ci fossero disegnate – e il
piercing sul naso.
Il che faceva dedurre che era una persona differente da Sherlock.
Sorrise tra
sé e sé per questa deduzione; abitare col
consulente detective migliore del
mondo portava anche i suoi frutti.
“Lo
sai che non è gentile fissare la gente?” La sua
voce gli raggiunse le orecchie come una stilettata e per poco non si
strozzò
con il tè. “S – scusa”.
“Non
ti preoccupare. Mi piace quando la gente mi
fissa”. Connie non aveva ancora tolto gli occhi dalle sue
unghie che ora stava
accuratamente passando con la lima; sembrava che fosse
un’operazione di vitale
importanza. “Dai, fammi compagnia”, gli disse poi,
indicandogli la sedia di
fronte a sé.
John
obbedì senza protestare, portandosi dietro la
sua tazza di tè. “Vuoi del
tè?”
“Oh
no, grazie. Stanotte mi sono alzata due volte
per pisciare”. Soffiò sulle unghie per spazzare
via la polvere e dispiegò le
dita di fronte a sé per ammirare il proprio capolavoro.
Aveva fatto un bel
lavoro, ammise John tra sé e sé, e ci aveva
disegnato dei ghirigori piuttosto elaborati.
Infine portò lo sguardo su di lui e rimase a scrutarlo per
qualche secondo. “Scusa,
mi potresti ripetere il tuo nome?”
Ecco,
quella domanda non se l’aspettava. Tuttavia il
dottore rispose, anche se con voce un po’ roca:
“John, John Watson”.
“Bene,
John Watson. Scusa, ma non sono brava a
ricordarmi i nomi comuni”.
“Anche
Connie è un nome comune”, le fece notare
l’uomo.
“Sì,
ma Connie sta per Constance”.
Be’, certo:
Mycroft, Sherlock e Constance. I
loro genitori dovevano essersi
sbizzarriti nella scelta dei nomi.
“E’
un bel nome, Constance”.
“A
me non piace”. La ragazza sembro notare un
piccolo dettaglio sull’unghia dell’indice che non
le piaceva perché aprì di
nuovo la boccetta dello smalto e intinse il pennello.
“E
sei più piccola di Sherlock, Connie?”
“Sì,
ma solo di un paio di anni”.
John
non l’avrebbe mai detto, sembrava molto più
giovane. Ma
dopotutto, nemmeno Sherlock
mostrava più di quei trent’anni che aveva.
“E
tu che lavoro fai, John?” chiese lei a quel
punto, guardando il dottore di sottecchi.
“Sono
un medico”.
“Capisco.
Be’, certo, mio fratello sa scegliere bene”,
commentò, ma sembrò parlare più a
sé stessa che non a lui. “E da quanto tempo
state insieme?”
L’uomo
la guardò confuso. “Come, scusa?”
Lei
sospirò quasi esasperata. “Da quanto tu e
Sherlock state insieme?”
“Io
e lui non… non stiamo insieme. Viviamo insieme,
ma siamo solo amici”.
“Oh,
quindi, non fate sesso?”
Decisamente
quella era la sorella di Sherlock,
nessuno poteva averla scambiata nella culla. Fare domande di quel
genere senza
provare il minimo imbarazzo doveva essere un vizio di famiglia.
“No”.
“Ah,
peccato”.
John
ora avrebbe voluto chiederle che cosa intendeva
con quell’ultima esclamazione, ma preferì tenere
la bocca chiusa e lanciarle un’occhiata
indagatrice senza che lei se ne accorgesse. A Sherlock di solito non
faceva mai
troppe domande e cercava di non indagare mai sulle sue elucubrazioni,
perciò
con Connie doveva essere lo stesso.
Avrebbe però voluto restare a chiacchierare con lei ancora
per un po’ e magari
farle domande sul fratello, ma era tardi e lui doveva andare al lavoro.
Quando
John abbandonò l’appartamento e lei rimase da
sola – Sherlock se n’era andato prima che lei si
alzasse e lo aveva sentito
benissimo che si defilava fuori dalla porta – Connie si
abbandonò contro la
sedia e tirò un sospiro. Sentiva una strana pesantezza
all’altezza dello
stomaco e non era affatto dovuto a qualcosa che aveva mangiato, ne era
certa.
Non si era aspettata quel benvenuto da parte del fratello, si era
aspettata
piuttosto… a dire la verità non sapeva nemmeno
lei che cosa si fosse aspettata.
Di certo no baci e abbracci, non era da Sherlock, certo,
però… non si aspettava
nemmeno quella freddezza. No, decisamente no. Dopo tutti quegli anni
che non si
vedevano, poi. Se la sarebbe aspettata di più da parte di
Mycroft, lo doveva
confessare, con lui il rapporto è sempre stato un
po’ teso, ma con Sherlock…
Sentì
le sue viscere e il suo stomaco agitarsi
dentro di lei e fu costretta ad alzarsi di scatto e a correre in bagno
per
vomitare nella tazza del water quel poco che aveva mangiato a
colazione.
Connie,
sei una stupida,
si disse.
MILLY’S
SPACE
Di
solito non sono così veloce ad aggiornare, però
visto
che ora ho un po’ di tempo ho deciso di concederlo un
po’ a questa fanfiction a
cui tengo molto.
Qui si scopre qualcosa di più su questa Connie, spero che
come personaggio vi
piaccia. Ovviamente lei appartiene a me, tutti gli altri invece sono di
quel
genio di Arthur Conan Doyle : )
Volevo specificare una cosa che l’altra volta mi sono
dimenticata: questa
storia è ambientata dopo la seconda stagione,
però non tiene conto di quello che
è successo nella terza.
Ecco,
penso sia tutto. Presto posterò delle foto di
Connie sulla mia pagina facebook, così vi fate
un’idea di come dovrebbe essere
; ) perciò venitemi a trovare anche lì.
Un
bacione grande grande e notte a tutti.
Milly.
ERULE:
grazie per la recensione, sono contenta che il primo capitolo ti sia
piaciuto. Spero
continuerai a seguire. Un bacione, M.