CAPITOLO TRE
Mycroft
guardò
il fratello con un'espressione impassibile e imperturbabile, eppure dal
suo volto
traspariva tutta la sorpresa che stava provando in quel momento;
sorpresa mista
a un certo scetticismo.
"Tornata?
Come tornata?"
Sherlock
sospirò; ma perché la gente faceva domande
stupide?
"È
tornata",
ripeté infine, puntando gli occhi sul bordo della scrivania
del fratello.
"Ne
sai il motivo?"
Il
consulente
detective rialzo lo sguardo sull'uomo che aveva di fronte e con un
semplice sguardo
cercò di comunicargli quello che pensava. Com'era abbastanza
prevedibile Mycroft
non recepì il messaggio.
"Non
lo so".
Il
maggiore
alzò gli occhi al cielo e, anche se fu un gesto
impercettibile, Sherlock se ne accorse
ma non disse nulla.
"Non
glielo hai chiesto?"
"Certo
che no", rispose come fosse la cosa più ovvia del mondo ma
dallo sguardo del
fratello capi che per lui non era cosi. Perciò aggiunse:
"Nostra sorella è
appena tornata a Londra dopo ben dieci anni. Scusami se non le ho fatto
il terzo
grado".
Il
terzo
grado? Da quando Sherlock si preoccupava di fare il terzo grado a
qualcuno? Pensò
Mycroft. Questo non era mai stato un problema per lui.
"Be'
io te l'ho detto", concluse il detective alzandosi in piedi. Non vedeva
l'ora
di uscire da quel posto. "Ora posso andare".
Il
fratello
decise che era inutile insistere. "E con il caso come procede?"
Il
più giovane
attese un attimo prima di rispondere. "Ci sto lavorando". Raggiunse la
porta in poche rapide falcate e vide il fratello muoversi per
raggiungerlo. Ma Sherlock
lo blocco lì dov'era: "Conosco la strada".
Quando
il
fratello abbandonò il suo ufficio, Mycroft si accascio sulla
sua sedia girevole
e si passò le mani sul viso con aria stanca. Nonostante non
avesse fatto niente
quella mattina si sentiva spossato. E come se non bastasse aveva una
bruttissima
sensazione. Già
il fatto che Sherlock fosse
venuto a trovarlo era di per sé strano visto che non lo
faceva mai e ora veniva
pure a sapere che Connie era tornata a Londra. Non sarebbe venuto fuori
nulla di
buono, ne era certo.
Doveva saperne di più.
John
salutò
i due simpaticissimi vecchietti che
avevano occupato il suo studio per quasi un’ora e
tirò un sospiro di sollievo. Aveva
seriamente temuto che non se ne sarebbero più andati; il
signore aveva dei
normalissimi problemi alla prostata, ma sua moglie non aveva fatto
altro che
tartassarlo di domande, dubbi e preoccupazioni, mettendo quasi in
dubbio la sua
carriera di medico militare. Detestava quel tipo di persone, erano
così asfissianti
e… noiosi. Sì, noiosi era la parola giusta.
Oddio, si stava Sherlockizzando!
Aveva
bisogno di un caffè, uno forte.
Uscì dal suo ufficio, salutò Sarah e raggiunse la
macchinetta nella
salta d’attesa. Per fortuna non c’era
nessuno, così non gli toccò nemmeno fare la fila.
Inserì le
monete nella fessura e schiacciò un paio di numeri, poi
aspettò che il suo
caffè si preparasse.
Finché aspettava, la sua mente cominciò a vagare
per conto suo, destreggiandosi
tra i vari pensieri incasinati che lo stavano assillando dalla sera
precedente
e il tutto chiaramente riguardava Sherlock… Sherlock e
Connie a voler essere
precisi. Perché il detective non gli aveva parlato di sua
sorella, perché non
gliel’aveva nemmeno accennata? Invece, come al solito, era
venuto a scoprirlo
così, come se si trattasse semplicemente del suo piatto
preferito.
Doveva confessarlo, si era sentito ferito, molto. Sapeva che
c’erano molte cose
che Sherlock non gli aveva detto del suo passato e John lo rispettava,
davvero,
capiva benissimo che alcune cose potevano risvegliare in lui sofferenze
e
ricordi spiacevoli, però pensava che avesse iniziato a
fidarsi e che le cose
importanti, come l’avere una sorella, si potessero anche
raccontare. E la cosa
peggiore era che sicuramente era l’unico a non averlo mai
saputo. Era un po’
come quando non gli aveva detto di essere vivo, mentre
c’erano almeno una
trentina di persone che lo sapevano. No, anzi, questa volta era peggio
perché
almeno, nell’altra occasione, l’aveva fatto per un
motivo valido, o comunque un
motivo che poteva accettare. Ma adesso…
La
macchinetta
emise un suono lungo indicandogli che il suo caffè era
pronto.
Meglio se
si rimetteva al lavoro o sarebbe veramente andato fuori di testa.
Quando
Mycroft
salì nell’appartamento di John e Sherlock, rimase
piuttosto sbigottito di
fronte a quello che si trovò davanti: Connie, in pantaloni
di pigiama e
reggiseno, si dimenava per tutta la stanza, cantando a squarciagola una
canzone
che lui non conosceva. Ma anche se l’avesse già
sentita, di certo non l’avrebbe
riconosciuta; la ragazza non era propriamente intonata. Anzi, sembrava
più il
gracchiare di un corvo. Tuttavia non tentò di fermarla, ma
rimase sulla soglia
a guardarla.
Quando
lei
si girò verso la porta e lo vide lì, si
bloccò di colpo, nella posizione in cui
era, piuttosto scomoda e ridicola, e si tolse immediatamente le cuffie
dell’i-pod
dalle orecchie.
“Myky!”
esclamò Connie, sorpresa di trovarlo lì.
“Constance”,
salutò lui con voce inespressiva. Continuava a fissarla
però, come se avesse di
fronte una pazza scappata dal manicomio.
Lei
sospirò:
“Uff, lo sai che odio il mio nome”.
“Però
ti
chiami così”.
“Sei
noioso”.
La
ragazza
poggiò sul tavolo del salotto il suo i-pod e andò
in cucina a prendersi da
bere. Mycroft la seguì, rimanendole comunque a debita
distanza, quasi la
temesse. Oppure era solo la solita reazione esagerata che assumeva
quando si
trovava con qualcuno che non conosceva.
“Come
mai sei qui, Connie?”
Lei svuotò
il bicchiere e lo poggiò sul tavolo, non curandosi di non
farlo sbattere. “Anche
io sono contenta di vederti, fratellone”.
Ecco,
non era cambiata affatto; aveva ancora quel fastidioso e snervante modo
di
cambiare argomento quando quello di cui si stava parlando non le
piaceva.
“Sono
serio”.
“Anche
io lo sono!” Questa volta la ragazza gli aveva puntato
addosso i suoi occhi
chiari, sostenendo il suo sguardo, orgogliosa e prepotente.
“Dico solo che
potresti mostrare almeno un minimo di contentezza nel vedermi. Sono tua
sorella”.
Mycroft
sospirò e distolse per un attimo lo sguardo. “Hai
ragione. Sono contento di
vederti”.
Lei
si
morse il labbro inferiore e ritornò in salotto, buttandosi
sulla poltrona di
Sherlock. “Lo so che non è vero, ma
farò finta di crederci”.
Rimasero
in silenzio per un po’, Connie a osservare il fratello con
fare indifferente e
lui a guardarsi attorno per evitare il suo sguardo.
“Allora
mi dici come mai sei qui?”
La
ragazza sbuffò gonfiando le guance e si sedette a gambe
incrociate. “Non posso
semplicemente venire a trovare la mia famiglia”.
Lui
le
lanciò un’occhiataccia come per dirle che non ci
cascava.
“Perché
pensi che debba avere altri scopi?”
“Perché
tu li hai sempre”.
“Hai
così poca stima di me?” L’espressione
ferita della sorella gli parve sincera e
l’uomo si sentì leggermente in colpa per averla
trattata così. Si sedette sulla
poltrona di fronte a lei e cercò di sorriderle teneramente,
ma lui non era in
grado di sorridere teneramente, anzi, non era proprio in grado di
sorridere,
perciò quello che ne uscì fu una cosa piuttosto
inquietante. Ma Connie decise
di non farci caso e apprezzò il gesto. “Sei
invecchiato, Mycroft”, notò.
“Anche
tu”, le rispose. Però non era vero; il tempo non
sembrava averla segnata e non
aveva nessuna ruga in volto. Era rimasta bella ed esuberante come la
ricordava.
Era rimasta uguale in tutto, forse.
Quando
John
quella sera tornò a casa, trovò Connie dalla
signora Hudson; le due donne
sedevano al tavolo rotondo davanti a una tazza di tè per
ciascuna e sembravano
divertirsi molto per qualcosa, a giudicare dalle risate che si
sentivano
persino nell’ingresso.
“Oh,
ciao, John!” lo salutò l’anziana donna,
rivolgendogli un largo sorriso. “Vuoi
unirti a noi?”
Lui
le
guardò dalla soglia della porta, inarcando le sopracciglia.
“Connie
mi stava raccontando di quando lei e Sherlock erano bambini”,
spiegò la signora
Hudson intuendo la sua muta domanda.
“Davvero?”
chiese lui interessato.
“Sì. Sapevi
che Sherlock ha tentato di rubare le mele dall’albero del
vicino e quello lo
aveva seguito brandendo un bastone per tutto il vicinato?”
fece la donna,
emozionata come una bimba il giorno di natale. Adorava sentire quelle
storie.
“Sherlock
diceva che voleva fare un esperimento”, aggiunse Connie.
“Ma quell’uomo era
matto, tutti i bambini ne avevano paura e persino qualche
adulto”.
John
avrebbe ascoltato volentieri quelle storie, ma si sentiva piuttosto
stanco e
voleva solo farsi una doccia rilassante. Perciò
salutò le due donne e andò al
piano di sopra, dove trovò Sherlock intento a qualche
esperimento in cucina.
“Ciao,
Sherlock”, lo salutò buttando la giacca sulla
poltrona. Il detective gli
rispose con un debole mugugno, troppo concentrato sul suo lavoro.
“Vado
a
fare la doccia”, lo informò il dottore dirigendosi
in bagno.
“John!”
lo chiamò l’altro, puntandogli gli occhi sulla
schiena. “Le hai comprate tu le
caramelle Kitsy?”
“Sì”.
“Perché?”
John
lo
osservò perplesso non capendo il motivo di quella domanda.
“Perché so che ti
piacciono”.
“Ah,
ok”,
rispose semplicemente il moro, tornando poi sulle sue boccette da
chimico e l’altro
capì che l’interrogatorio era finito. Mah,
Sherlock era proprio strano. E lui
si era persino scordato di aver comprato quelle caramelle.
John
finalmente poté entrare nella doccia e lasciar scorrere
l’acqua sul proprio
corpo, cercando di liberare la testa da ogni pensiero. Era da un
po’ che lui e
Sherlock non si trovavano immischiati in qualche caso e cominciava a
pesargli
tutta quella monotonia. Be’, eccetto per Connie.
Ad
un
tratto sentì la porta del bagno aprirsi e vide qualcuno
entrare. Per un attimo
temette che fosse Connie, ma poi riconobbe, attraverso il vetro opaco
della
tenda, la siluette e la statura alta del suo coinquilino e si
rilassò. Ma in ogni
caso era coperto e di certo nessuno avrebbe potuto vederlo
dall’altra parte.
Sherlock,
silenziosamente, si chinò per prendere qualcosa da sotto il
lavello e rimase lì
per un po’, cercando di trovare quello che gli serviva.
E allora, senza che lui riuscisse in qualche modo a fermarla, la mente
del
dottore iniziò ad andarsene per conto suo, spogliando il
detective con lo
sguardo, immaginandolo nudo sotto la doccia. Magari insieme a lui.
Ma
che
gli saltava in testa?
Sherlock
finalmente uscì dal bagno e John tirò un sospiro
di sollievo. Ormai però il
guaio era fatto e il suo amichetto lì sotto ne era la prova.
MILLY’S
SPACE
Wow!
Non l’avrei mai detto ma sono riuscita ad aggiornare
di nuovo ^^ due sere di fila. È che questa fanfiction mi
ispira proprio e spero
ispiri anche voi. Lo so che ora è un po’ troppo
tranquilla e che non succede
nulla ma non preoccupatevi, presto ci saranno delle succulente
novità.
Intanto,
ditemi cosa ne pensate, se vi piace o se secondo
voi dovrei rinunciare.
E
fatemi una visita anche sulla mia pagina face:
(https://www.facebook.com/MillysSpace)
Bacioni,
M.