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Autore: Beatrix Bonnie    04/02/2014    3 recensioni
Christopher, invece, che aveva fiutato il pericolo lontano un miglio, pensò bene di sfoggiare le sue indiscusse virtù eroiche. «Prendi lei!» squittì, riparandosi alle spalle dell'altra e lasciandosi nascondere dal cono di ombra proiettato sul marciapiede.
Maryon gli lanciò uno sguardo indignato e incredulo: era lui il cavaliere, avrebbe dovuto difenderla, non offrirla come merce di scambio!
Perfino il tizio con i denti gialli lo guardò perplesso.
«Io sono un bambino prodigio» si giustificò Christopher. «Sarebbe una perdita terribile per l'umanità.»

Piccole disavventure per grandi eroi: Maryon e Christopher si incontrano per la prima volta all'età di sei anni, durante una cena di gala a cui partecipano i rispettivi genitori. Ma l'incontro tra la focosa e testarda Maryon e il piccolo genietto capriccioso Christopher sarà più uno scontro, condito da tanti pericoli e dall'intromissione di magici cavalieri erranti.
Genere: Commedia, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
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Dublino, agosto 1996



La bambina piroettò su se stessa, facendo sollevare a palloncino la sua gonna. Indossava un grazioso abitino rosa, corredato di fiocco in testa dello stesso colore, e questo la faceva sentire una vera principessa. Per di più, stava per andare ad un ballo. Quasi come quello di Cenerentola.
Quasi perché, in realtà, non aveva ben capito di cosa si trattasse. Papà diceva che ci sarebbe stata una cena con tanti grandi barbosi, ma a lei questo non importava: stava per andare in un castello, un vero castello, dove c'erano i valletti, il tappeto rosso e un tizio vecchio che le ricordava tanto il Granduca Monocolao.
Mancava solo il Principe Azzurro.
«Nonna, stasera incontrerò il Principe Azzurro?» cinguettò estasiata la bambina, quando una signora con un abito semplice ma elegante entrò in cucina. Non era una vera e propria domanda, in realtà: suonava più come un'innocente speranza che poteva venir proferita solo dalla bocca di una piccola sognatrice di sei anni.
«Ma certo, tesoro» la rassicurò la nonna, dandole un buffetto sulla guancia.
In quel mentre, si catapultò in cucina un giovane uomo con il frac tutto di traverso e i capelli sparati in testa: sembrava che fosse appena sopravvissuto ad un duello mortale con un leone. «Per tutti i folletti, come diavolo si indossa questo coso?» sbottò esasperato, rivoltandosi la giacca al contrario.
«Caro, vieni qui» mormorò rassegnata la signora, nel tentativo di aggiustare il disastro combinato dal figlio. Anche il giorno del matrimonio aveva dovuto aiutarlo a indossare il suo abito da sposo: Remus era un caso disperato con i vestiti. Se solo avesse potuto, se ne sarebbe andato in giro con i suoi orribili maglioni anni Settanta e quel paio di jeans sporchi di inchiostro per il resto dei suoi giorni. Non c'era verso di fargli capire che la comodità si poteva conciliare anche con un minimo di buon gusto.
«Il frac non è un mostro che attenta alla tua vita, Remus» cercò di fargli capire sua madre, in un tono premuroso ma rassegnato. «Un mostro!» gridò allora la bambina, arrampicandosi sulla sedia e prendendo in mano il mestolo per brandirlo come una spada. «Babbo combatte contro i mostri!» continuò, un piede in equilibrio sulla sedia, uno sul tavolo, in una posa da vero moschettiere.
Sognava il Principe Azzurro, la piccola Maryon, ma era più simile ad un eroico cavaliere che ad una principessina abbandonata in una torre. Se lo sarebbe mangiato lei, il drago, se avesse tentato di rapirla. Non aiutava a smorzare la sua inesauribile fantasia il fatto che il padre la assecondasse sempre in quel genere di giochi.
Remus, infatti, aveva preso il colapasta e se l'era calato in testa come un elmo; dopodiché, con un coperchio come scudo e il mattarello a mo' di spada, prese a duellare con la figlia. «Remus il Valoroso affronta Maryon la Coraggiosa per il dominio della Terra di Mezzo!» esclamò l'uomo incrociando la sua spada improvvisata con quella della figlia.
Il tutto sotto l'occhio esasperato della nonna. «Guarda che fra poco arriveranno i signori Sangster» rimproverò il figlio, nel tentativo di riportarlo sulla retta via nominando i suoceri. Vano tentativo.
«Ah!» gridò la bambina, riuscendo a penetrare le difese dell'avversario con un affondo.
Remus si mise il mestolo sottobraccio per fingere di essere ferito poi, con dolorosi lamenti degni di un grande attore di teatro, si accasciò contro il frigorifero.
Fu proprio in quel momento che i signori Sangster entrarono in casa (un'entrata in scena neppure troppo sorprendente, visto che Remus aveva il vizio di dimenticarsi sempre di chiudere la porta a chiave). Trovarono la nipotina che esultava per chissà quale vittoria in piedi sul tavolo e il genero stramazzato a terra con un colapasta in testa, un mattarello in mano e un mestolo sottobraccio, mentre la consuocera cercava in qualche modo di riportare l'ordine.
Non furono per nulla sconvolti dalla scena.
«Ecco la mia nipotina preferita!» esclamò il signor Sangster, aprendo le braccia per ricevere il meritato abbraccio dalla bambina.
«Nonno, sono la tua unica nipotina!» rispose Maryon, che era piccola ma certi conti li sapeva già fare. Tuttavia non disdegnò un bell'abbraccio.
Remus, nel frattempo, cercò di ricomporsi al meglio, anche se ormai i suoceri lo conoscevano da tempo e non si lasciavano più stupire dalle sue stranezze; anzi, era quasi possibile dire che il signor Sangster lo ammirasse.
«Caro, è meglio se andiamo, o faremo tardi» intervenne la signora Sangester rivolta al marito, dopo aver salutato la signora Alborgeth e averla aiutata a rendere presentabile lo smoking di Remus.
L'uomo annuì con il capo e, presa per mano la nipotina, si avviò verso l'automobile che li stava aspettando per portarli alla cena di beneficenza.
Ovviamente Maryon non sapeva cosa volesse dire “cena di beneficenza”: le avevano detto che tante persone avrebbero pagato per mangiare e con i soldi avrebbero costruito una scuola per i bambini di un posto caldo, caldo che si chiamava Somalia; e alla scuola avrebbero dato il nome della sua mamma, che adesso stava in cielo insieme agli angioletti. Il tutto si sarebbe svolto in un vero castello: la villa sul fiume Liffey dove aveva sede il “club dei Ricconi” di cui faceva parte anche nonno Jeremy. Non si chiamava proprio così, in realtà. Aveva un nome in irlandese, Saibh... qualcosa, ma a lei piaceva di più il modo in cui l'aveva battezzato.
Quando arrivarono, c'era davvero il tappeto rosso e tutti i signori vestiti eleganti li salutavano e facevano tanti complimenti al suo bel vestitino rosa. Maryon era deliziata: sorrideva a tutti e faceva vedere le sue belle scarpette di vernice.
Dopo dieci minuti, però, quella tiritera le era già venuta a noia. Fu una liberazione quando si sedettero a tavola a mangiare, perché seduti vicino a lei c'erano solo i nonni e il suo babbo e per questo non era obbligatorio ascoltare in silenzio le conversazioni dei grandi. Le pietanze avevano tutte un sapore strano, ma Maryon non si faceva problemi a mangiare qualsiasi cosa.
Nel frattempo perlustrava la sala con lo sguardo, alla ricerca di altri bambini con cui poter giocare dopo cena nel parco. Individuò anche il suo papabile Principe Azzurro: era un bambino che poteva avere più o meno la sua età, che indossava una versione rimpicciolita del prezioso abito del suo babbo, quello nero con il fiocco sul collo. Sembrava tanto un ometto in miniatura. I suo capelli neri erano pettinati di lato in un modo così perfetto da sembrare quasi finti. E poi aveva gli occhi chiari; azzurri forse, ma da così lontano non riusciva a vedere.
Doveva avvicinarsi.
Aspettò che fosse finita la cena, poi si alzò da tavola, si sistemò il vestito rosa e il fiocco che aveva tra i capelli, e prese a marciare verso la sua vittima. Più che una graziosa bambina sembrava una leonessa che insegue la preda. Ma poco importavano le sottigliezze.
«Ciao» esclamò Maryon, quando l'ebbe raggiunto, cercando di essere carina e gentile.
L'altro non parve per nulla contento della sua uscita e si limitò ad un annoiato: «Ciao.»
«Io sono Maryon» si presentò la bambina, ancora troppo piccola per capire il sottile messaggio nascosto tra le righe della scarsa gentilezza dell'altro.
«Sinceramente, nessuno te l'ha chiesto» replicò infatti quello, ormai senza più preoccuparsi di mascherare il suo disinteresse.
«Oh, sei un bambino orribile» sbottò Maryon incrociando le braccia al petto. Cambiò idea con l'incredibile rapidità che solo una bambina di sei anni poteva avere.
L'ometto dagli occhi azzurri (sì, erano davvero azzurri, e di un gran bell'azzurro) si strinse nelle spalle con indifferenza. «Me ne farò una ragione. Ora, se vuoi scusarmi» rispose tranquillo, poi si allontanò senza nemmeno aspettare una risposta.

Christopher McGregor odiava i bambini suoi coetanei. Erano sempre così infantili, con le loro petulanti chiacchiere e l'insistente tentativo di coinvolgerlo nei loro giochi. Grazie al cielo, non aveva molte occasioni di frequentare altri bambini: all'asilo non c'era mai andato e anche adesso che avrebbe dovuto cominciare la scuola, aveva convinto i suoi genitori ad affiancargli un istruttore privato. Dopotutto, non aveva davvero bisogno di un'istruzione: aveva imparato da solo a leggere e scrivere all'età di quattro anni e da allora non aveva fatto altro che divorare qualsiasi libro passasse per le sue grinfie. Considerato che su padre, Alfred McGregor, lavorava nel campo della finanza, in casa giravano soprattutto quotidiani economici e Christopher aveva preso l'abitudine di leggere quelli.
La domestica portoricana che veniva a fare le pulizie tutte le mattine, era terrorizzata da quel marmocchio vestito da adulto che se ne stava in poltrona a sfogliare giornali di economia. Pensava fosse il figlio del demonio e per questo, tutte le volte che gli passava davanti, si faceva il segno della croce e mormorava qualche mezza parola in spagnolo.
Christopher non se ne preoccupava: il suo unico obiettivo era che gli venissero riconosciuti i suoi meriti e per raggiungerlo doveva ottenere l'approvazione di adulti laureati e intellettuali di ogni genere. Per questo motivo si era preparato un discorso che esprimesse la sua opinione riguardo all'argomento caldo del momento (la possibilità di una moneta unica per l'Unione Europea), da esporre agli economisti presenti alla cena del Saibhir.
Così, quella sera, zampettò in direzione della cricca di intellettuali radunati ad uno dei tavoli della sala e prese posto tra loro con estrema tranquillità.
«Ma che bel bambino!» commentò John O'Sullivan, uno dei più illustri economisti dublinesi degli ultimi anni, nonché direttore della Banca d'Irlanda e capo di suo padre. Era un vecchietto incartapecorito con più rughe che buon senso, e portava un buffo monocolo sull'occhio sinistro, ma tutti cercavano di tenerselo buono perché era ancora lui che reggeva le fila del gioco economico di tutta la città e dell'Irlanda intera.
Per questo motivo, anche Christopher ignorò il buffetto del vecchio, che voleva essere un gesto d'affetto ma che in realtà gli aveva divelto una guancia, e si limitò ad un sorrisetto di circostanza.
«Tu sei il figlio di Alfred, non è vero?» continuò imperterrito O'Sullivan.
«Sì, signore. Christopher McGregor» si presentò gonfiando il petto con orgoglio. Era pur sempre un McGregor, discendente di una delle più illustri famiglie della città. «Di cosa stavate discutendo?» si informò in tono serio.
«Cose da adulti» intervenne un altro signore, con una strizzatina d'occhio nella sua direzione.
«Sono perfettamente in grado di sostenere una conversazione con degli adulti» replicò Christopher, stupendo gli uomini di finanza per il vocabolario forbito che sapeva usare. «Immagino che stavate discutendo della moneta unica europea» cominciò il suo discorso, assumendo un'aria da manager che tiene una riunione ai suoi sottoposti. «Se posso esprimere la mia opinione, ritengo che la moneta unica sia una possibilità interessante, tanto più per un paese come l'Irlanda che, mi spiace dirlo, non ha un'economia trainante. Mentre la moneta unica riunirebbe i paesi sotto un'unica bandiera e renderebbe l'Europa una potenza competitiva, in grado di reggere agli assalti delle nazioni emergenti come Cina e India».
Calò un silenzio imbarazzato.
Gli adulti si scambiarono qualche occhiata perplessa, chiedendosi come potesse quel bambino di sei anni fare un discorso del genere in tutta tranquillità.
Christopher si guardò intorno in attesa: non aveva ricevuto la reazione sperata. «Che c'è, non condividete la mia posizione?» domandò preoccupato, chiedendosi come mai gli altri non lo elogiassero per il suo indiscusso intelletto.
«Christopher, perché non vai a giocare con gli altri bambini e lasci ai grandi queste questioni?» domandò uno degli economisti.
Il bambino si sentì improvvisamente inadeguato: i piedi non toccavano terra, il tavolo gli arrivava al mento e tutti quei signori in smoking lo scrutavano dall'alto dei loro seggi, come se volessero metterlo alla prova su un argomento di cui non sapeva nulla. Gli parve di essere messo in croce per qualcosa che non aveva fatto.
E si arrabbiò.
«Va bene, non ho bisogno della vostra approvazione per sapere che sono un genio!» sbottò, alzandosi dal tavolo e allontanandosi a grandi passi (o meglio, con la falcata più lunga che le sue gambette da bambino potevano permettergli).
Non aveva bisogno dell'approvazione di nessuno: lui stava bene anche da solo. Punto.
«Ciao» mormorò una vocina sognante alle sue spalle.
Christopher si voltò con un sonoro sbuffo; avrebbe riconosciuto quella voce fra mille: Angelica Dams, la sua personale, collosa persecutrice. Avrebbero dovuto inventare un reato penale per impedire a quelli come lei di stressare in modo così molesto e fastidioso le povere, sante persone che non erano in alcun modo interessate alle loro attenzioni.
«Ti prego, non assillarmi con le tue petulanti richieste!» esclamò Christopher, voltandosi verso di lei. «No, non voglio venire a casa tua a vedere la collezione di bambole di porcellana, non mi interessa niente del tuo cane Bobby, del tuo pappagallo e del tuo pesce rosso. Voglio solo essere lasciato in pace.»

La bambina trattenne a stento un singhiozzo. Perché lui la trattava sempre così male? Lei era carina e graziosa, glielo dicevano tutti, e poi quella sera indossava un adorabile vestitino con una fantasia scozzese che sua mamma aveva fatto confezionare apposta per lei.
«Lascialo perdere. È bambino orribile» commentò qualcun altro, alle sue spalle.
Angelica si voltò di scatto con un sibilo di rabbia: nessuno poteva permettersi di insultare il suo Christopher. «Chi sei?» aggredì la bambina con l'abito rosa che aveva appena parlato. Era brutta, il vestito le stava male e aveva una faccia antipatica.

«Mi chiamo Maryon» si presentò con un sorriso, come se bastasse quello per diventare amiche.
«Io sono Angelica» rispose l'altra, con un'aria di sfida che Maryon non capì a cosa fosse dovuta. «E Christopher è il mio fidanzato: un giorno ci sposeremo.»
«Non mi sembra che lui sia d'accordo» replicò Maryon, con una risatina. No, non le piaceva proprio quella bambina: era cattiva con lei senza nessun motivo.
Angelica le si avvicinò e le diede una spinta. «Tu comunque stagli alla larga, chiaro? Lui è mio» le intimò con cattiveria.
Maryon si arrabbiò: nessuno poteva permettersi di spingerla. «Io non lo voglio: è un bambino orribile! E anche tu lo sei! Siete fatti per stare insieme!» le gridò addosso. Dopodiché le fece una sonora pernacchia e si affrettò a ritornare dal suo babbo.
«Qui tutti i bambini sono cattivi» si lamentò, sedendosi in braccio al padre. «Non voglio più venirci» decretò con il broncio.
Remus le scompigliò i capelli e le diede un bacio sulla fronte. «Perché non provi ad essere più gentile? Magari sono solo timidi» le consigliò con un sorriso dolce.
«Oh, no! Non ci parlo più con loro» decise Maryon, più cocciuta che mai. Non voleva aver niente a che fare con nessuno di quelli. «Va bene, fra un po' torniamo a casa» concesse Remus, che pensò di approfittare della scusa della bambina per defilarsela alla svelta da un ambiente che piaceva poco anche a lui. «Intanto perché non vai un po' fuori nel parco?» le suggerì, dispiaciuto dal vederla così imbronciata.
Maryon annuì con il capo e scivolò giù dalle ginocchia del padre per raggiungere il giardino. Fuori c'era buio e l'umidità era tale da rendere la serata calda e appiccicosa. Gli adulti erano dentro a chiacchierare alla luce dei lampadari e al sicuro dalle zanzare estive, per cui il parco era praticamente vuoto. Maryon si sedette sull'erba umida, sul ciglio di un pendio piuttosto ripido che portava alla riva del fiume Liffey, che attraversava la città di Dunlino. Rimase immobile ad osservare le luci delle case e dei lampioni sull'altra riva, i fanali delle macchine che passavano e le timide stelle che si affacciavano tra le nuvole. Le piaceva guardare il cielo, perché il babbo diceva sempre che era attraversato da fate messaggere che portavano notizie alla loro regina e la bambina se ne stava delle ore con il naso all'insù nella speranza di individuarne una.
«Ehi...» borbottò qualcuno in tono lugubre.
Maryon si voltò per trovarsi davanti quell'antipatico di Christopher. Ricordandosi del monito di papà di essere gentile, evitò di staccargli la testa a morsi. «Ciao» sibilò invece, con quanto più veleno potesse mettere in un semplice saluto.
«Mia madre mi ha obbligato a venire a farti compagnia perché dice che sei tanto sola» spiegò il bambino, per dare un senso alla sua poco gradita comparsa.
«Non ho bisogno del tuo aiuto» gli rispose Maryon, digrignando i denti.
Christopher parve molto più sollevato. «No? Fantastico allora, mi risparmi una grossa seccatura!» esclamò, girando sui tacchi per andarsene. Maryon scattò in piedi furibonda. «E così io sarei una seccatura?» lo aggredì, impedendogli di svignarsela.
Christopher la guardò con sufficienza. «Sai discutere del valore di mercato?» le chiese.
Maryon non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando. «No» rispose, aggrottando le sopracciglia.
«Allora sei un'inutile scocciatura» concluse Christopher con una semplice alzata di spalle.
Fu allora che Maryon si scagliò contro quel signorino impomatato e lo buttò a terra, per dargli una lezione come si deve.
Lui gridò e scalciò, ma era chiaro che non aveva speranza di vincere. Rotolarono nell'erba spingendosi e strattonandosi, finché il terreno sotto di loro non scivolò per l'umidità e i due bambini ruzzolarono giù dal pendio.
Christopher era certo che sarebbe morto quella notte, in un modo assai stupido, e per una banale litigata con una bimbetta troppo irascibile. Prese un'incredula boccata d'aria quando si accorse che la sua rovinosa caduta si era fermata. Ad un passo dal finire dritto nel fiume. L'inebriante e paradisiaca sensazione di essere ancora vivo durò per pochi secondi, perché Maryon gli saltò addosso e si mise a cavalcioni sulla sua pancia, una mano sul petto, l'altra che gli teneva ferme le braccia.
«Chiedimi scusa!» gli intimò con una brutalità spaventosa per una bambina di sei anni.
«Tu sei pazza!» mugugnò Christopher, con la voce ingozzata per il terrore.
«Chiedimi scusa, ti ho detto!» ripeté Maryon, facendo una leggera pressione con la mano sul petto dell'altro.
«Ok, va bene, scusa!» gridò il bambino, terrorizzato da quella sottospecie di demonio che gli stava a cavalcioni.
Maryon annuì soddisfatta e si alzò da terra in tutta tranquillità, come se non avesse appena strapazzato e spaventato a morte un marmocchietto viziato. Guardandolo rannicchiato sul terriccio come un animale ferito, gli fece un po' pena e allora allungò una mano verso di lui per aiutarlo ad alzarsi.
Christopher, terrorizzato, si ritrasse da lei, manco avesse qualche rara malattia contagiosa. «Vuoi picchiarmi ancora?» mugugnò con un filo di voce.
Maryon sbuffò esasperata e roteò gli occhi in una vera espressione di profonda irritazione. «No, voglio solo aiutarti!»
I due bambini rimasero immobili per una manciata di secondi, finché Christopher non si azzardò ad afferrare la mano dell'altra, che lo strattonò con forza e lo fece alzare da terra. Christopher le lanciò uno sguardo languido come un cane bastonato e poi si voltò verso la salita da cui erano scivolati in riva al fiume. La sua bocca si allargò in una O perfetta, mentre sgranava gli occhi, manco avesse appena assistito ad una apparizione della Madonna circondata da tutti i cori angelici. «Non risaliremo MAI da lì!» ululò in preda al panico. Maryon gli rivolse uno sguardo di pura commiserazione.
Fu allora che Christopher esplose in un lagnoso piagnisteo: «Sono rotolato giù da una scarpata da cui non potrò mai risalire, insieme ad una pazza indemoniata che mi vuole picchiare e ora sono tutto sporco di fango e spettinato. Per di più, mi sono rotto la caviglia!»
Sembrava che stesse piangendo. Ma era un pianto senza lacrime, il suo, come quello dei bambini quando fanno i capricci. E Maryon ne sapeva qualcosa di capricci, perché aveva un cuginetto più piccolo.
«Fammi vedere» disse Maryon, in un tono che voleva essere materno. Christopher acconsentì con una certa riluttanza. In realtà la bambina non aveva la più pallida idea di come fare a capire se si fosse fatto male alla caviglia, ma i grandi facevano sempre così: guardavano, toccavano e capivano.
«Non c'è niente» decretò dopo un'attenta analisi.
«Ma mi fa male!» protestò Christopher, sempre con quella sua voce piagnucolosa.
Maryon sbuffò. Non esisteva un verso giusto per prendere quella piattola: aveva sempre qualcosa di cui lamentarsi. Lei si sforzava di essere carina, ma lui era davvero impossibile!
«Ma fa davvero male!» rincarò la dose Christopher, visto che l'altra non sembrava aver recepito il suo disperato messaggio di aiuto.
«Sei una lagna!» esplose Maryon, esasperata dalle continue lamentele del compagno.
Christopher incrociò le braccia al petto. «La smetti di maltrattarmi? Minare alla mia seppur alta autostima non mi è di aiuto in questo momento».
Maryon gli lanciò uno sguardo irritato, ma non commentò, più che altro perché non aveva ben inteso il senso della frase. Aveva usato parole troppo difficili che lei non conosceva. Però era certa del fatto che non fosse per nulla una cosa gentile. «Muoviamoci, dobbiamo risalire» disse invece, cominciando a fare i primi passi a quattro zampe per riuscire meglio a stare in equilibrio.
«E come pensi di fare, genio?» la provocò Christopher, con un sorrisetto a metà davvero odioso.
«Scalando» fu l'ovvia risposta.
Il sorriso di Christopher vacillò per un attimo. Scalare? Era quella cosa orribile che facevano le persone tirandosi su con le braccia come delle sottospecie di primati regrediti? No, non se ne parlava proprio. Lui era un delicato aristocratico con graziose e affusolate mani da pianista. Non avrebbe mai arrampicato da nessuna parte. Fine della storia.
«Vuoi restare lì tutta la notte?» lo apostrofò Maryon, che aveva già fatto qualche passo.
«Nel caso in cui tu non te ne sia accorta, io ho una caviglia slogata e questa salita è i-m-p-o-s-s-i-b-i-l-e» scandì per bene.
Maryon tornò indietro con l'aria esasperata. Si slegò il nastro di raso che aveva intorno alla vita e sventolò un capo sotto il naso di Christopher.
«Che dovrei farci?» mormorò il bambino, a metà tra il perplesso e lo sconsolato.
Maryon sbuffò. «Aggrappati» gli ordinò senza troppi giri di parole. Dopodiché afferrò l'altro capo del nastro e cominciò la salita trascinandosi dietro Christopher.
Fu una camminata silenziosa, se non per i sommessi lamenti di Christopher. Maryon era una bambina abituata a fare giochi all'aria aperta, a correre, scatenarsi e arrampicarsi sugli alberi, ma trainarsi dietro un'altra persona risalendo una scarpata del genere era tutta un'altra cosa. Tanto più perché Christopher non era per niente d'aiuto e non faceva altro che lamentarsi. Maryon fu costretta a procedere in diagonale per cercare il punto in cui la salita era più dolce. Così, quando arrivarono alla sommità della collinetta, erano ben lontani dal punto in cui erano scivolati a riva.
«Ma brava, adesso siamo fuori dal perimetro della villa. Come facciamo a rientrare?» la provocò Christopher, con quella sua odiosa aria da saputello.
Maryon gli rivolse quello stesso sguardo che di solito era riservato al suo cuginetto Matthew, quando faceva domande sciocche da bambino. «Suoniamo il campanello alla porta?» rispose con ovvietà.
Christopher si morse il labbro, frustrato dal fatto che una soluzione così banale non gli fosse venuta in mente. Mentre Maryon aveva avuto la risposta pronta e l'aveva messo a tacere. Maledizione.
Forse, però, non era poi così male quel demonietto vestito da bambina.
«Muoviamoci» ordinò Maryon, strappandogli dalle mani il nastro di raso per rifarsi il fiocco e mostrare all'altro, nel contempo, che lei lo sapeva fare. Era stata la prima della sua classe di asilo ad imparare ad allacciarsi le scarpe da sola e ne era sempre stata molto orgogliosa.
Christopher era troppo occupato a mugugnare e a trascinarsi apatico alle sue spalle, per accorgersi della sfida lanciata dall'altra bambina. Anche perché, se l'avesse notato, non ci sarebbe stata nemmeno battaglia: lui era un enfant prodige e, a dirla tutta, non aveva nemmeno bisogno di sapersi allacciare le scarpe, visto che indossava solo mocassini.
«Ci siamo persi» si lagnò dopo nemmeno dieci passi. Le strade di Dublino erano buie e silenziose, in quella zona poco frequentata. Non che Christopher avesse paura del buio, ma la sua stretta razionalità gli suggeriva che due bambini di sei anni, soli, in piena notte, in un quartiere deserto non erano del tutto al sicuro.
«Il palazzo è lì, non lo vedi?» rispose esasperata Maryon, indicando la sagoma dell'edificio, poco distante da dove si trovavano. «Certo, se ti muovi, magri ci arriviamo!»
«Mi fa male la caviglia!» si lamentò Christopher, con un mugolio lagnoso.
Maryon stava per rispondere con una delle sue sfuriate, quando una sagoma scura sbucò dal nulla e fu subito su di loro.
«Ciao, bei bambini» mormorò una voce graffiante e fastidiosa. Apparteneva ad un uomo dinoccolato e alto come un palo della luce: indossava un brutto pastrano marrone che lo faceva sembrare un avvoltoio malaticcio e quando rivolse un sorriso viscido ai due bambini, mise in mostra una serie di orribili denti giallastri. Puzzava anche un po'.
«Si dovrebbe lavare, signore» commentò Maryon, con la tipica innocenza di una bambina di sei anni. Probabilmente non aveva ben afferrato la minaccia.
Christopher, invece, che aveva fiutato il pericolo lontano un miglio, pensò bene di sfoggiare le sue indiscusse virtù eroiche. «Prendi lei!» squittì, riparandosi alle spalle dell'altra e lasciandosi nascondere dal cono di ombra proiettato sul marciapiede.
Maryon gli lanciò uno sguardo indignato e incredulo: era lui il cavaliere, avrebbe dovuto difenderla, non offrirla come merce di scambio! Perfino il tizio con i denti gialli lo guardò perplesso.
«Io sono un bambino prodigio» si giustificò Christopher. «Sarebbe una perdita terribile per l'umanità.»
Maryon non capì esattamente il succo di quel discorso, ma fu certa che non ci sarebbe stata possibilità di tirar fuori un goccio di coraggio da quel codardo. Neanche a spremerlo con uno spremiagrumi. Così si voltò verso Dentigialli e si preparò a fronteggiarlo. Non era poi così diverso da uno dei tanti mostri che aveva sconfitto durante i suoi giochi di fantasia. Era solo un po' più reale.
«Va bene, bella bambina» ghignò Dentigialli. «Diamo ascolto al tuo coraggioso amichetto. Quanto pagheranno i tuoi genitori per riaverti?» «Niente!» gridò Maryon combattiva. «Perché il mio babbo verrà a salvarmi!»
Dentigialli si avvicinò di un altro passo. Da qualche parte dietro di lei, Christopher mugugnò atterrito.
«Che succede qui?» domandò una voce roca e cavernosa, comparsa dal nulla.
Maryon si sporse di lato per vedere a chi apparteneva: dietro Dentigialli stava una figura imponente di un uomo incappucciato, con le braccia incrociate al petto e le gambe larghe. Nascosti dal cappuccio brillavano due grandi occhi scuri.
Poco oltre c'era un'altra persona avvolta da un mantello nero, ma era proporzionata in modo strano: era bassa, molto bassa, e piuttosto ben piantata.
«Io...» borbottò Dentigialli, incapace di inventare una scusa plausibile.
«I cavalieri erranti!» esclamò Maryon, riportando alla memoria storie di draghi, fanciulle prigioniere ed eroi.
«Ci mancavano altri due psicopatici per completare il cerchio» sussurrò invece Christopher in un filo di voce, con un quanto mai inappropriato moto di sarcasmo.
La figura incappucciata più alta puntò il suo dito accusatore contro Dentigialli. Maryon notò che aveva la pelle di uno strano colore tra il verde e il marrone, ma forse la sua percezione era sfalsata dal buio.
«Smamma» ordinò senza mezzi termini a Dentigialli. Quello non se lo fece ripetere due volte e se la squagliò.
«Da quando siamo altruisti e difendiamo gli umani, Bahirdar?» domandò il tizio basso, con una voce gracchiante.
Quello di nome Bahirdar (che nome strano, poi!) fece un gesto scocciato con la mano, come se volesse scacciare un insetto molesto. «Sono solo dei bambini» mormorò, avvicinandosi di qualche passo a loro.
«Prendi lei!» squittì di nuovo Christopher, convinto di essere finito dalla padella alla brace.
«Zitto tu» gli intimò Bahirdar senza tanti scrupoli.
Christopher borbottò qualcosa, perché non gli piaceva prendere ordini dagli altri, ma poi tacette, perché, a ben vedere, l'uomo con il mantello era grosso tre volte lui. E la stazza aveva ancora il vantaggio sul suo seppur sviluppato cervello.
«È lei che mi interessa» sussurrò Bahirdar, osservando da vicino Maryon. «Sarà solo un'impressione, ma mi ricorda qualcuno.»
Stranamente Maryon non era intimorita dalla figura incappucciata: le dava un senso di sicurezza, come se fosse certa che non le avrebbe mai fatto del male. Scrutò con attenzione sotto il cappuccio, nel tentativo di scorgere i tratti del viso, ma c'era troppo buio. Fu allora che con la coda dell'occhio vide delle scintille blu danzare intorno alla figura più piccola. «Il tuo amico è un mago?» domandò a Bahirdar, con vivo interesse.
Bahirdar smise di scrutarla e si voltò di scatto verso il compagno: ancora qualche scintilla gli brillava intorno. «No, perché?» cercò di sdrammatizzare.
«Fa magie» fu la semplice risposta della bambina, che alzò il suo ditino verso di lui per sottolineare le sue parole con i gesti. «Ma no, sono solo giochi di luce» rispose Bahirdar, con evidente imbarazzo.
«È meglio se andiamo» arguì l'altro allontanandosi di qualche passo. «Abbiamo un lavoro da svolgere.»
«Già» asserì Bahirdar, meditabondo. «Sono stufo di questo lavoro da ladro di viste umane» commentò poi, rivolto a nessuno in particolare. «E cosa pensi di fare?» gli domandò l'altro, ma senza un vero interesse.
Bahirdar ci pensò su. «Mi darò alla politica» decise infine, con aria soddisfatta.
«Io non ti voterei mai» intervenne Christopher con un certo astio, ma senza smettere di starsene ben nascosto dietro Maryon.
Il tizio basso sbuffò. «È proprio ora di andare» commentò, facendo un cenno all'altro. E con quelle parole si incamminò lungo la strada deserta.
Bahirdar rimase immobile ancora per una manciata di secondi, poi seguì il compagno. «Io ti ho già vista da qualche parte» fu l'ultima frase che pronunciò voltandosi di poco verso Maryon, prima di scomparire nel buio della sera.
Solo quando Christopher mugugnò e si lamentò del male alla caviglia, la bambina si ricordò di non essere sola.
«Ti prego, torniamo dentro» implorò Christopher e sembrava proprio sul punto di scoppiare a piangere.
Maryon, ancora rapita dall'incontro con Bahirdar, si limitò ad annuire. Dopodiché si incamminò verso l'edificio dove aveva sede il Saibhir. «Secondo te erano davvero due cavalieri erranti?» domandò sovrappensiero, ripensando al loro abbigliamento strano, ai mantelli, ai loro discorsi e a quelle scintille blu che era certa di aver visto.
«Erano due pazzi psicopatici e siamo salvi per miracolo!» replicò Christopher con acidità. Aveva il broncio. Probabilmente non sapeva nemmeno lui se aveva più voglia di piangere o di gridare. «E dammi una mano!» aggiunse poi, astioso, dal momento che stava inerpicando a fatica, poiché la caviglia dolente non riusciva a sopportare il suo peso.
«Sei impossibile!» gridò esasperata Maryon, ma accettò di tornare indietro per aiutarlo. Gli passò un braccio intorno alla vita per cercare di sostenerlo e poi si incamminarono assieme.
Per tutto il tragitto Christopher se ne restò in silenzio. Sembrava combattuto se ringraziare o meno Maryon per l'aiuto, ma poi il suo orgoglio ebbe la meglio; dopotutto, si trovava in quel guaio per colpa sua: avrebbe anche dovuto dirle grazie?
Quando rientrarono alla sede del Saibhir, la mamma di Christopher venne loro incontro con aria disperata. «Dov'eri finito? È mezz'ora che ti cerco!» esclamò la donna elegante, stritolando il figlio in un abbraccio.
«Ahia, mamma» mugugnò il bambino, soffocato nella stretta.
La donna si separò da lui e lo guardò attentamente, per controllare che stesse bene. E poi la vide. «Tesoro, che hai fatto alla caviglia?»
Entrambi i bambini abbassarono lo sguardo sulla caviglia imputata. Alla luce del lampadario della sala, Maryon notò che in effetti era un pochettino grossina. Un pochettino tanto.
«Bisogna andare in ospedale» commentò la mamma in tono dolce, toccando delicatamente il punto dove gli faceva male. «È rotta.»
Ops... pensò Maryon.
Christopher si era già sentito morire alla parola “ospedale”: lui aveva il terrore degli aghi e di tutte quelle diavolerie mediche. E poi... era rotta davvero! Fece appena in tempo a voltarsi irato verso Maryon, quando il dolore e le emozioni della serata ebbero la meglio. E svenne afflosciandosi a terra come una pera cotta.

Fu chiamata l'ambulanza.
Non che ce ne fosse davvero bisogno, a parere di Maryon. Sai quante volte lei si era fatta male giocando e non aveva fatto tutti quei piagnistei. Christopher le dava proprio l'aria di uno che non aveva mai giocato in vita sua. Santo cielo, non sapeva nemmeno arrampicarsi!
I paramedici vennero e lo caricarono su una barella, nonostante tutte le sue proteste. Era bianco come un cencio e sembrava più terrorizzato dalla prospettiva di farsi mettere una flebo che di essere rapito da Dentigialli. Solo che quella volta Maryon non poteva farsela mettere al posto suo.
«Che bambino odioso» sibilò Maryon, osservando il lavoro dei dottori.
Quando la barella passò davanti a lei, Christopher fece segno ai medici di fermarsi un attimo. «Sai che ti dico? La psicologia fa miracoli» sussurrò con uno strano sorrisetto tutto di lato. «Si chiama meccanismo della rimozione: la mia mente cancellerà questa spiacevole serata e costruirà dei ricordi alternativi per trovare una causa plausibile alla frattura della mia caviglia.»
Maryon lo guardò con aria piuttosto perplessa, perché non aveva capito una sola parola di quel complicato discorso.
«Significa che mi dimenticherò di averti conosciuta» le suggerì Christopher, con una strizzata d'occhio particolarmente odiosa.
Maryon si indignò parecchio. «Oh, sei un bambino davvero orribile!» sbottò, incrociando le braccia al petto. «Spero di non vederti mai più per tutto il resto della mia vita!» aggiunse cocciuta, con il vivo augurio che quel pronostico si potesse avverare.
In realtà, Maryon Alborgeth non poteva sapere quanto spesso avrebbe rivisto Christopher Alfred McGregor, nel resto della sua vita.
Perché, a volte, il destino ha uno strano senso dell'umorismo e quella sera lei aveva davvero trovato il suo Principe Azzurro. Solo che ancora non lo sapeva.









Madame et Monsieur...
ecco a voi un'altra storia del ciclo di Faerie! Questa è l'ultima che ho scritto, in realtà, ma ho pensato di inserirle in ordine cronologico. Qui i miei adorati protagonisti hanno 6 anni, quindi è la prima storia della serie dedicata a loro. Per chi avesse letto anche gli altri racconti, Maryon e Chris sono comparsi nel prologo e nell'epilogo de
La leggenda di sir Gregory, mentre Remus, il padre di Maryon, è il protagonista de La promessa del folletto.
Qui abbiamo un primo assaggio dell'adorabile caratterino di Maryon e degli infiniti piagnistei di quel genietto di Chris. Questi (insieme agli altri che popoleranno le storie dedicate a loro) sono i miei primissimi personaggi originali. Hanno visto la luce circa otto anni fa (nel lontano 2006), quindi ci sono particolarmente affezionata. *-*
Presto li vedrete protagonisti di numerose altre storie (che, come potete immaginare, hanno bisogno di una massiccia risistamezione!).
Nell'attesa, spero che questa piccola one-shot possa esservi piaciuta!
Grazie in anticipo a chi darà un'occhiata, leggerà la storia o deciderà di lasciare un commento.
Alla prossima,
Beatrix B.

   
 
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