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Autore: GoldSaints    15/06/2008    10 recensioni
Dopo un sonno durato secoli, Hera si risveglia all'Heranion, il grande Tempio sull'isola di Samo. Presa da propositi di conquista, riunisce attorno a sè i suoi guerrieri e cerca una falla in quelli di Athena, non ancora incarnata.
Due giovani Gold Saints si troveranno a dover fare i conti con lei prima del tempo, in un incontro scontro che sarà il preludio, anni più tardi, alla vera Battaglia di Hera.
Ci si imbatte qui negli oscuri retroscena che vedranno contrapporsi la Dea Madre e la Dea Fanciulla in uno scontro epico che coinvolgerà tutto il Santuario.
Genere: Generale, Azione, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo Personaggio, Pisces Aphrodite, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Milo di Scorpio ( Le Fleur Du Mal )

Aphrodite dei Pesci ( Kijomi )

Camus dell’Acquario ( Ren-Chan )

Presentano:

Heramachia

Prologo


00. Prologo

La facciata del tempio era spoglia e rovinata, nonostante le cure che la Grecia moderna aveva per le opere di antica e pregevole architettura, come quella. La storia e il tempo avevano avuto ragione del mito, alla fine.

L’uomo serrò i pugni. Non sarebbe stato così per sempre.

Presto l’Era degli Dèi sarebbe sorta a nuovo splendore, a cancellare con la sua solennità e bellezza quell’epoca stanca e arida.

“Madre Hera”, sussurrò, lo sguardo puntato alle rovine e si sentì più determinato che mai.

Aveva dovuto attendere la notte, per avvicinarvisi. Non desiderava essere visto e aveva bisogno di agire indisturbato.

Con le stelle brillanti su di sé e la luna nuova, per propiziare il rito, salì le scale corrose e s’inoltrò nell’Heranion.

Camminò nell’erba, tra le pietre larghe e bianche. Ecco le colonne spezzate. Il pronahos, tracciato a terra appena, come se non fosse stato un monumento maestoso e sfarzoso, simbolo dell’autorità della regina degli dèi. Serrò le labbra.

Seguì il tracciato a terra, tra l’erbe e le pietre, sotto le stelle. Ed ecco la cella più interna.
Chiuse gli occhi e cercò in sé la scintilla del proprio potere. In risposta, la terra vibrò.

Ascoltò quel vibrare come fosse un canto antico, poi pose a terra il ginocchio destro, sul lastrone di marmo, al riparo di una colonna spezzata. Toccò con i polpastrelli delle dita e la sua espressione corrucciata si addolcì. Madre Hera. E’ tempo di risvegliarsi, madre Hera.

Appoggiò anche l’altro ginocchio e sedette sui talloni. Alzò lo sguardo al cielo e gli occhi scuri mandarono un brillio, alla luce delle stelle.

Li chiuse. Rimase in ginocchio per interminabili minuti, poi si alzò e dispose in cerchio le candele, attorno al nahos.


Shion si svegliò di soprassalto, al Tredicesimo Tempio.

Levandosi di scatto fece una smorfia, quando il suo corpo anziano, irrigidito dal sonno, tentò di protestare per le pretese del Pontefice.

“Sia dannato Hades”, borbottò acido. Non si diede pena di indossare i paramenti sacerdotali, né di svegliare alcun servitore preposto alla sua cura. Gettò invece alle spalle l’enorme massa dei capelli e assottigliò gli occhi viola, raggiungendo la finestra. Che accidenti stava succedendo?

Il rito durò fino a poche ore prima dell’alba.

Quando depose a terra il gioiello, le pietre marmoree della pavimentazione emanarono energia fredda, come se lo reclamassero per loro.

Il guerriero sussultò. Sapeva ciò che era venuto a fare ed era pronto, ciononostante il potere che attraversò la terra e il suo corpo lo colmò tanto da spiazzarlo.

Quel gioiello di smeraldo e d’argento che ricalcava la forma stilizzata di un pavone, sacro ad Hera, era stato forgiato da Efesto – diceva la leggenda - per la madre, ai tempi del mito. Hera aveva sempre sottovalutato il figlio deforme, ma aveva amato tanto quel dono da ricongiungersi con lui.

“Ha amato tanto questo dono da sceglierlo come rifugio, culla per il suo sonno in tutti questi secoli”. Rabbrividì d’eccitazione. Suo Sacerdote, suo il compito di riportarla alla vita.

Salmodiò a voce bassa ritualità antiche, in un greco così arcaico da faticare egli stesso a riconoscerne i vocaboli.

Non ti ho invitata, Hera, a benedire la mia vita.

Non ho riconosciuto la bellezza

nella magica luminescenza del pavone,

la tenacia nella greve fissità dell’animale,

il candore nella perlacea luce del giglio.

Ho già scontato, Hera, la collera feroce che colpisce

chi non calpesta i tuoi cortili

chi diserta i tuoi altari.

Ti porto in dono ora la trama fragile dei giorni

in tua assenza consumati.

L’incompiutezza è imperdonabile?

Che sia tu ad invitarmi adesso

che le ombre si fan lunghe

al fedele mistero che ci unisce.

Cantò piano, flautato, poi cantò ancora.

E quando ebbe cantato per la terza volta la terrà tremò. Ci fu un bagliore innaturale e sull’isola di Samo, per un momento, la notte si fece più chiara del giorno.

Le pietre si spezzarono e dalle profondità della terra ne salirono altre. Il marmo delle colonne si ricostruì da se stesso, da terra fino al timpano sgretolato, che ricomparve in un boato sui capitelli ionici. Si ricomposero le statue, perfette nel marmo e negli smalti, nella ricchezza dei particolari e gli occhi in pasta vitrea. E le mura, con i loro affreschi di gigli e pavoni.

Il Sacerdote fece appena in tempo ad afferrare tra le dita la spilla, prima che i moti d’assestamento del Tempio la chiudessero nelle profondità delle fondamenta. La strinse, con forza, ancora abbacinato dal risultato ottenuto.

L’enorme statua della dea che presiedeva imponente il nahos, adesso, lo guardava dall’alto, un brillio di vita negli occhi di vetro.

Sentì il respiro spezzarglisi in gola e piegò la testa, rimanendo in ginocchio davanti a lei.

“Madre Hera”

“Sì, Menelao.” La voce della dea risuonò, ancora incorporea, tra le mura del tempio ricostruito “Sì, sono qui”.


Il Sommo Sion strinse le mani affusolate e senili sul davanzale di pietra. Rimase in ascolto dal Santuario di Atene, come se, per un momento, avesse percepito qualcosa di molto potente. Qualcosa che non aveva distinto e non aveva sentito mai, nella sua lunga esistenza, ma che l’aveva colpito per il potere e la violenza con cui quel Cosmo aveva divampato. Un Cosmo divino.

Hai sentito anche tu, Doko? Chiuse gli occhi e rimase in ascolto, ma dalla Cina gli tornò indietro solo un pensiero carico di interrogativi, come il suo.

Rimase ancora all’erta, a chiedersi se quel Cosmo avesse in sé intenzioni malvagie o no, se potesse avere conseguenze non piacevoli per il genere umano che egli, nel nome di Athena, doveva proteggere.

Il suo piede scalzo giocò ansiosamente con una pantofola, contro il muro, gli occhi viola assottigliati nell’espressione concentrata. Attese. Attese. E attese ancora, solo, nella notte, con Doko dall’altra parte del globo che attendeva con lui.

Ma dopo quel fragore che era divampato, era stato silenzio. E lo fu ancora per le settimane a venire.

© Rosa Carotti, da Il Calderone Magico, ottobre 2002 per i versi su Hera

   
 
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