CAPITOLO QUATTORDICI - FEAR
“It’s crystal clear, I hear
your voice
and all the darkness disappears”
(I belong to
you, E.Ramazzotti e Anastacia)
“Non
posso non dirglielo, Jack. È mia sorella”.
“E
come le spieghi una cosa del genere?”
“Be’,
le dirò la verità. Tanto sa già quello
che
facciamo. Più o meno”.
“Se
ne sei sicuro”.
Il
capitano parcheggiò il suv a ridosso del
marciapiede, di fronte ai cancelli sbarrati di un edificio. Una volta
spento,
scese velocemente dal veicolo, seguito da Ianto.
“Certo
che ne sono sicuro”. Il ragazzo gli si
affiancò e rimase a guardare l’insegna spenta del Rose’s Hotel. “E’
questo il posto?”
“Direi
di sì”.
Prima
di addentrarsi dentro all’albergo, entrambi
rimasero a guardarlo per un po’, come se lo stessero
ascoltando. A prima vista
sembrava un innocuo Hotel come ce n’erano tanto a cardiff.
Non era
particolarmente di lusso, ma non era nemmeno un bed and breakfast da
quattro
soldi. L’unica pecca che aveva erano i muri scrostati e le
porte chiuse col catenaccio,
segno che era stato chiuso da un po’. Precisamente da quattro
anni, si erano
informati Jack e Ianto prima di venire lì. Sarebbe stato
molto più utile se
l’avessero trasformato in un palazzo di appartamenti o se
l’avessero demolito
per costruirci un parco, ma la gente aveva paura, paura di quello che
c’era
dentro. Qualcuno giurava di sentire delle voci, delle grida provenire
da lì, e
che ogni tanto le luci si accendevano. La gente era convinta che ci
fossero dei
fantasmi. E in quegli ultimi tempi questi fenomeni sembravano accadere
sempre
più spesso.
Per questo Torchwood si era attivato. Dopotutto, loro risolvevano
problemi di
quel genere.
“Andiamo?”
chiese Jack porgendo un braccio al
proprio compagno come un vero cavaliere. Ianto gli sorrise e ci
infilò il
proprio sotto. I due, poi, salirono i pochi gradini che li separava
dall’ingresso.
Al Capitano ci volle poco per scassinare il lucchetto con gli attrezzi
giusti
e, non appena spinsero la porta, vennero pervasi dall’odore
stantio e muffoso
che pervadeva quell’ambiente, chiaro segno che quel posto
veramente non veniva
aperto da un po’.
Davanti a loro si estendeva un corridoio che portava al bancone della
reception, proprio di fronte alle porte, mentre sulla destra
c’erano un basso
tavolino circondato da delle poltrone. Il tutto coperto rigorosamente
da teli
di stoffa bianchi e pieni di polvere. Accanto al bancone,
c’era una rampa di
scale che si muoveva a spirale e che di certo portava alle stanze al
piano di
sopra.
Ianto
tirò fuori da una borsa che portava a tracolla
lo strumento di solito utilizzato da Toshiko per captare segnali alieni
e lo
accese puntandolo in varie direzioni. Ma lo strumento non emetteva
alcun
rumore.
“Pare
non ci sia niente”.
“Aspetta.
Dovremmo controllare tutta la zona”.
“Andiamo
di sopra?”
Jack
si era già avviato verso le scale quando, prima
che Ianto potesse raggiungerlo, sembrò cambiare
improvvisamente idea perché
torno indietro. “Prendiamo l’ascensore”.
Prese il compagno per una mano e lo
trascinò fino all’ascensore che ricordava tanto lo
stile degli ascensori negli
anni venti.
Ianto non capiva quell’improvvisa decisione ma non
cercò di indagare.
Una
volta dentro, il Capitano schiacciò il numero
uno e chiuse i cancelli dell’ascensore. Ianto invece
notò che c’erano ben venti
piani in quell’hotel e il solo pensiero che forse gli
avrebbero dovuti
controllare tutti gli fece salire la nausea. Letteralmente. Ma
riuscì a
spingerla indietro.
L’ascensore
si fermò al primo piano con un suono
metallico e aprì le porte. Jack fu il primo ad uscire e
immediatamente diede
una rapida occhiata in entrambe le direzioni. C’era un lungo
corridoio,
piuttosto stretto anche, e su entrambe le pareti facevano bella mostra
di sé
diverse porte, tutte uguali, tutte sicuramente chiuse a chiave, ma
contrassegnate da numeri differenti.
“Dobbiamo
controllare tutte le stanze?” chiese
Ianto.
“Solo
quelle che trovi aperte. Se ne trovi”. Come
per dare una mostra di ciò che aveva appena detto, Jack
cercò di aprire la
prima porta ma senza successo. Avrebbe potuto usare i suoi strumenti da
scasso,
ma non gli andava di farlo per ognuna. “Senti,
perché non ci dividiamo? Tu
resti qui, io vado di sopra. Se trovi qualcosa, dimmelo”. E
per fargli capire
come, portò la mano verso il proprio auricolare che teneva
all’orecchio e ci
schiacciò un bottone. Ianto lo guardò andare via
con l’ascensore, quasi
dispiaciuto che se ne andasse, e poi cercò di darsi un
contegno. Non poteva
essere nervoso. Non ce n’era bisogno. Era soltanto
un’altra giornata di lavoro
normale, come tutte le altre. E Jack sarebbe tornato.
Si
incamminò lungo il corridoio stringendo forte il
radar cerca-alieni. La nausea lo disturbava ancora e aveva paura che da
un
momento all’altro si trovasse piegato in un angolo a vomitare
tutta la
colazione. Ma sul serio le donne incinte sopportavano questo?
Cercò di non pensarci e di concentrarsi solo sulla missione
affidatagli da
Jack. Si avvicinò ad una delle tante porte e
tentò di aprirla. Ma niente.
Allora continuò ad andare avanti, svoltando dietro ad un
muro. Improvvisamente,
gli sembrò di sentire una presenza alle proprie spalle. Si
voltò lentamente,
sperando di cogliere chiunque fosse in flagrante. Ma non
c’era nessuno. Tirò un
sospiro di sollievo dicendosi che era stata solo una sua sensazione.
Stava
diventando troppo suscettibile.
Mise
avanti un altro piede per continuare la sua
esplorazione attraverso l’hotel, quando gli parve di scorgere
un’ombra strana
provenire da una stanza a pochi metri da lui. Si incamminò
in quella direzione
e, più si avvicinava, più quell’ombra
prendeva le sembianze di una figura
umana. Il radar tuttavia non segnava niente di anomalo. Allora lo mise
via ed
estrasse la pistola. Gli ultimi due passi li percorse con cautela, il
cuore che
batteva a mille. Si parò dinanzi alla stanza aperta con la
pistola ben puntata
di fronte a sé, ma di nuovo scoprì che non
c’era niente. E quell’ombra che lui
aveva scambiato per una figura umana era nient’altro che
l’ombra di una statua
che doveva rappresentare una qualche dea.
Quasi rise di se stesso.
“Jack,
qui non c’è niente”, disse
all’auricolare
legato al suo orecchio destro.
“Nemmeno
qui”, si sentì rispondere dalla voce del
Capitano. “Torna al pianoterra così decidiamo cosa
fare”.
Ianto
obbedì subito praticamente correndo verso
l’ascensore. Non vedeva l’ora di ricongiungersi con
Jack e di uscire da lì;
aveva una brutta sensazione addosso.
Quando giunse al luogo del ritrovo, però, il Capitano non
c’era ancora. La
reception era sempre lì, così come le poltrone e
il tavolino.
Raggiunse il bancone per dare un’occhiata al registro o
scoprire qualcosa,
quando dei passi dietro di lui lo fecero sobbalzare. Si
voltò di scatto
scoprendo che era solo Jack che scendeva le scale.
“Stai
bene?” gli chiese questi, riponendo la propria
pistola.
“Sì”,
rispose il ragazzo ma non ne era tanto sicuro.
“Torniamo
alla base e controlliamo meglio la mappa
dell’hotel. Magari veniamo insieme a Gwen e Owen la prossima
volta”.
“D’accordo”.
Ianto, contento che stessero per
abbandonare quel posto, cominciò ad andare verso la porta,
quando si bloccò sul
posto come paralizzato, il volto che mostrava un’orripilata
espressione di
panico. “Jack, dov’è la porta?”
“Cosa?!”
La
porta d’ingresso dalla quale erano entrati era
sparita, dissolta, come se non ci fosse mai stata. Al suo posto
c’era soltanto
una parete, bianca come tutte le altre. Jack le corse incontro
poggiandoci
sopra le mani, come per cercare una porta segreta o comunicare con il
muro.
Ianto, invece, afferrò un vaso che stava dietro il bancone e
ci vomitò dentro.
Poi
le luci al neon sul soffitto presero ad
accendersi e spegnersi.
“Chi
siete? Come avete fatto ad entrare?”
Sia
il Capitano sia il gallese sobbalzarono entrambi
al sentire quelle voci ed estrassero contemporaneamente la pistola,
puntandola
contro cinque persone appena giunte lì, senza che loro li
avessero sentiti
arrivare. Questi alzarono immediatamente le mani, spaventati.
“Non
sparate!” gridò un ragazzo vestito in stile
metallaro, pieno di borchie e piercing, i capelli acconciati in una
corta
cresta in cima alla testa.
Ianto
e Jack si lanciarono un’occhiata, come per
comunicarsi qualcosa in silenzio, e poi abbassarono le armi
così come le
avevano tirate fuori.
Gli
altri quattro, invece, erano un uomo sulla
trentina vestito in modo particolare, con una camicia bianca, le
bretelle, i
pantaloni eleganti e una lunga giacca di stoffa rossa con bottoni
elaborati e
le maniche avevano una parte lavorata in pizzo. I suoi capelli, poi,
erano
pettinati in modo ancora più strano, lunghi riccioli biondi
che gli scendevano
fino alle spalle che sembravano appena stati sistemati da una
parrucchiera.
Sembrava venire da un altro secolo.
Poi c’era una donna vestita di semplici jeans e una felpa.
Era piuttosto
carina, con quei capelli rossi e gli occhi verdi. Il terzo uomo era
invece
piuttosto avanti con l’età, il volto era
già segnato da rughe e i capelli
bianchi si stavano diradando. Tuttavia, nemmeno lui pareva appartenere
molto a
quell’epoca.
Il quinto personaggio, era, invece, una bambina. Indossava un vestitino
che le
arrivava alle ginocchia, i capelli erano raccolti in due codine alte ai
lati
della testa e aveva le ginocchia sbucciate. I suoi enormi occhi marroni
fissavano i due uomini con enorme terrore.
“Come
siete arrivati qui?” chiese la donna in tono
sorpreso.
“Dalla
porta. Come voi, immagino”.
“Quale
porta?” fece il ragazzo metallaro.
Già,
quella era una bella domanda.
“Quella
che ora è scomparso”, disse Ianto con voce
piuttosto disperata. Non gli andava per niente di restare bloccato
lì dentro.
“Chi
siete voi?” domandò Jack col tono che di solito
usava per dare ordini. E ciò probabilmente indusse la
ragazza dai capelli rossi
a rispondere subito. “Io mi chiamo Chiara Toniazzi e loro
sono Jacob” e indicò
il metallaro. “Il Signor Wilson” puntò
il dito contro l’uomo più anziano
“Oliver Quinn e Emma”. Il giovane che sembrava
provenire da un altro secolo
fece una riverenza e la bambina si nascose dietro le gambe di Chiara.
“Io
sono il Capitano Jack Harkness e lui è Ianto
Jones. Siamo di Torchwood”.
“Torchwood?
Mai sentito”, bofonchiò Oliver con
sguardo pensieroso. Ianto e Jack si guardarono; tutti a Cardiff avevano
sentito
nominare Torchwood almeno una volta benché loro cercassero
di mantenerlo
segreto il più possibile. Sicuramente non era del posto.
“D’accordo”,
fece allora Jack cercando di prendere in
mano la situazione. “Potreste dirci che posto è
questo?”
“E’
un hotel maledetto”, iniziò Jacob con aria
teatrale e voce spiritata. “Non potete nemmeno immaginare che
cosa c’è qui
dentro”.
La
ragazza dai capelli rossi sospirò e fece un passo
avanti. Sembrava essere la più pratica lì dentro,
nonché la più collaborativa.
“E’ strano. Ci sono delle cose qui…
nascoste nelle stanze”.
“Quali
cose?”
“Non
lo so. Sono spaventose, comunque e non sappiamo
come combatterle. Né come uscire da qua”.
Jack
iniziò a percorrere la hall dell’albergo a
grandi passi, aprendo cassetti e spulciando dietro i mobili e
addirittura
dietro ai quadri. Ianto invece si lasciò andare contro una
poltrona coperta.
“Da
quanto siete qui?”
“Non
saprei. Non da molto. Ma è impossibile uscire
ora”.
Il
Capitano bloccò la sua andatura di colpo,
rimanendo immobile di fronte ai cinque con le labbra piegate in un
sorriso
piuttosto furbesco. “Niente è impossibile. Non per
me”. Poi corse al bancone,
aprì una teca di vetro e prese un grosso mazzo di chiavi.
“Ianto!” chiamò poi.
Il ragazzo lo raggiunse, sicuro che aveva qualcosa in mente.
“Ti prometto che
ti tirerò fuori di qui”, gli sussurrò
all’orecchio senza che gli altri lo
potessero udire. Poi gli diede un veloce bacio a stampo. E Ianto seppe
subito
che così sarebbe stato. Infine Jack si rivolse di nuovo agli
altri cinque che
erano rimasti a guardarli curiosi. “Oliver, Jacob, voi
verrete con me e Ianto.
Voialtri andate a esplorare dove meglio credete e se trovate qualcosa,
tirate
un urlo”.
“E
cosa dobbiamo cercare?” chiese il metallaro.
“Qualsiasi
cosa. Non ho intenzione di rimanere qui”.
Tutti
quanti sembravano aver capito che non c’era
verso di contestare quelle parole, né tantomeno mettersi
contro il Capitano.
Così obbedirono subito agli ordini. E in ogni caso, non
potevano dargli torto.
Ianto,
Jack, Jacob e Oliver presero l’ascensore fino
all’ultimo piano, mentre gli altri andarono a piedi partendo
dal primo.
“Non
trovate anche voi che quella fanciulla, Chiara,
sia vestita in modo un po’ fuori
dall’ordinario?” chiese Olver, camminando
dietro gli altri tre uomini lungo il corridoio stretto
dell’ultimo piano
dell’hotel. “Non ho mai visto una donna portare i
pantaloni?” Gli altri erano
troppo distratti per stupirsi o interessarsi alle sue parole e quindi
nemmeno
si degnarono di rispondere, il che parve offendere leggermente il
biondo.
Ianto
si avvicinò ad una porta e notò che il
rilevatore che teneva tra le mani si era acceso di una luce verde
fosforescente, indicando un pericolo alieno.
“Jack?”
chiamò il ragazzo, avvicinandosi di più alla
porta.
“C’è
qualcosa?”
“Non
lo so”.
Il
Capitano pose una mano sulla maniglia e fece per
spingerla in giù. Quando ad un tratto sentirono un grido
provenire da uno dei
piani di sotto, sicuramente appartenente a Chiara oppure a Emma.
Jack
non ci pensò due volte prima di girarsi e
correre verso le scale, lasciando che il cappotto gli sbattesse contro
le
gambe. Scese velocemente le scale, quasi fosse inseguito da uno
pterodattilo, e
arrivò al quindicesimo piano dove vide Chiara inginocchiata
per terra che si
reggeva la testa tra le mani. Emma era nascosta dietro il muro, mentre
il
Signor Wilson tentava di confortarla.
“Che
cos’è successo?” chiese Jack allarmato,
abbassandosi al livello della ragazza.
“Non
lo so. Ha aperto quella porta e ha solo urlato.
Ma io non ho visto niente”, spiegò
l’anziano, l’espressione che lasciava
trapelare tutta la sua paura.
“Chiara?”
la chiamò l’uomo prendendola per le
braccia. Voleva cercare di vederla in viso. “Adesso sei al
sicuro. Nessuno ti
farà del male”. Quelle parole parvero confortarla
immediatamente, perché smise
di tremare e abbassò le mani, poggiandole sulle ginocchia.
Tuttavia non alzò lo
sguardo. “Che cos’hai visto?”
Chiara a quel punto rivolse il viso verso il Capitano rivolgendogli i
suoi
occhi scuri pieni di lacrime e puro terrore. “Era
spaventoso”, esalò con una voce
debolissima, tanto che si faticò a sentirla.
“Enorme, più grande di me e aveva
delle zanne… voleva mangiarmi”.
Il
Signor Wilson lanciò un’occhiata confusa
all’uomo
accanto a lui, indeciso se iniziare ad avere paura o semplicemente
concludere
che la ragazza era impazzita tutto d’un colpo e aveva le
allucinazioni.
Il volto di Jack invece… il suo volto improvvisamente si era
illuminato di una
luce di comprensione. Forse iniziava a capire.
Improvvisamente,
si udirono altri passi dietro di
loro arrivare di corsa e Ianto, Jacob e Oliver fecero la loro comparsa.
“Che
cos’è successo?”
“Dobbiamo
controllare le altre stanze”, ordinò Jack,
rialzandosi.
“Ma
non potete!” esclamò Chiara. “Il
mostro… il
mostro vi mangerà”.
Il
Capitano le sorrise rassicurante. “Non sono tanto
buono. Non mi mangerà”.
Ianto
invece non esitò un attimo e cercò di aprire
tutte le porte di quel piano. Si rese conto di essersi allontanato dal
gruppo
solo dopo un po’, ma continuò ad andare avanti.
Finalmente giunse ad una porta che doveva nascondere qualcosa, visto
che il suo
radar si era messo addirittura a suonare.
Allungò
lentamente la mano verso la maniglia e, con
molta cautela, il cuore in gola, la spinse verso il basso. La porta si
aprì e
un fastidioso cigolio di cardini attraverso il corridoio. Il ragazzo la
spalancò ma era completamente immersa
nell’oscurità.
Allora si decise a varcare la soglia, a passi molto piccoli, e a
tentoni cercò
l’interruttore della luce. Quando lo trovò e la
stanza venne illuminata da una
psichedelica lampada al neon appesa al soffitto, Ianto rimase
paralizzato per
ciò che vide: c’era Jack steso sul
letto… o meglio, c’era il suo corpo buttato
scomposto sul letto, le braccia allungate sopra la testa e le gambe
piegate
oltre il bordo. I suoi occhi erano spalancati ma non vedevano niente ed
erano
ancora più chiari del normale. Dalla bocca gli scendeva un
rivolo di sangue.
Anche sul suo corpo c’era del sangue, ce n’era
tantissimo, gli macchiava la
camicia bianca e il cappotto, il suo bellissimo cappotto. E
c’era del sangue
persino sui muri e sul soffitto e per terra.
Ianto
cercò di urlare ma nemmeno una debole sillaba
gli uscì dalla bocca. I suoi occhi erano pieni di terrore e
di panico. Come
poteva essere lì Jack? Se poco fa lo aveva visto insieme
agli altri vivo e
vegeto. Oltretutto lui non poteva morire. Si sarebbe svegliato,
presto… sì… ma
allora perché non si alzava? Forse qualcuno lo aveva
dissanguato e non poteva
più tornare indietro.
All’improvviso
sentì un botto dietro di lui e con
orrore si rese conto che la porta si era chiusa. Le si buttò
contro per aprirla
ma qualcuno l’aveva chiusa da fuori.
Ma chi? Forse uno di quei cinque che avevano conosciuto
nell’hotel? Che gli
volessero fare uno scherzo.
Si
voltò di nuovo verso il letto, ma Jack continuava
a giacere lì, lo sguardo cieco rivolto verso di lui.
Ad un tratto vide un’ombra uscire da dietro
l’armadio. Era un’ombra molto
grossa e molto… minacciosa. Solo quando quella fu uscita
completamente allo
scoperto, Ianto si rese conto di conoscere benissimo la figura che lo
sovrastava. Era… era suo padre. Suo padre, molto
più grosso e alto di quanto se
lo ricordasse. E tutto d’un colpo gli passò
davanti agli occhi la sua immagine
diciassettenne che tentava di scappare a tutte le vessazioni e le botte
di suo
padre.
“Ciao,
figliolo”, lo salutò l’uomo con un
ghigno
completamente inumano. In realtà non sembrava molto suo
padre, sembrava più una
maschera di suo padre realizzata male. Ma soprattutto realizzata per
riempirlo
di terrore. “Hai visto cosa ho fatto?”
ringhiò, indicando con un cenno del capo
il corpo di Jack steso sul letto. “Voi checche meritate solo
questo. E adesso
ucciderò pure te e poi mi prenderò
quell’obbrobrio che porti nel ventre”.
Ianto
si voltò verso la porta e cominciò a battere
forte perché qualcuno, chiunque, lo liberasse. La paura lo
aveva completamente
attanagliato e non riuscivo a provare nient’altro. Sentiva
che sarebbe morto lì
all’istante, ancora prima che il padre potesse mettergli le
mani addosso.
“Fatemi
uscire!” gridò con tutto il fiato che aveva
in gola. “Vi prego! Liberatemi!!!”
“Non
serve a niente urlare. Nessuno ti può sentire”.
Il
ragazzo sentiva l’uomo avvicinarsi a lui sempre
di più sebbene non udisse i suoi passi. Gli mancavano solo
pochi centimetri ed
era sicuro che gli avrebbe mollato uno dei suoi fortissimi pugni in
testa.
Allora si preparò a ricevere il colpo, rassegnato al fatto
che nessuno sarebbe
venuto a salvarlo, nemmeno Jack. Perché Jack era morto. E questo faceva ancora
più male delle botte
di suo padre.
Lasciò che le lacrime gli inondassero il viso.
Sentì
il padre urlare dietro di lui, alzare il
braccio e…
C’era
un profumo, un profumo dolcissimo, un profumo…
familiare che gli aveva inebriato tutte le narici. E poi
c’erano delle braccia
forti, muscolose, calde… lo tenevano al sicuro, lo
stringevano forte facendogli
capire che tutto sarebbe andato bene.
Alzò
lo sguardo per incontrare due chiari occhi vivi
e attenti, pieni di preoccupazione e paura, ma vivi.
“Jack”,
sussurrò il ragazzo con un debole sorriso di
contentezza.
“Che
cos’è successo?” gli chiese il Capitano
allontanandolo dalla porta.
Ianto
non sapeva come spiegarglielo. Tutto quello
che aveva vissuto fino a poco fa ora non gli sembrava altro che un
bruttissimo
incubo eppure se ci ripensava poteva ancora vedere chiaramente le
immagini e
ricordare le sensazioni che aveva provato, il terrore, il
dolore…
“C’era…
c’eri tu. Eri morto”.
Jack
lo dovette lasciar andare per controllare nella
stanza ancora aperta. Eppure quando entrò non vide niente di
sospetto. C’erano
solo un letto, un armadio, una finestra e due comodini.
Controllò persino
dentro all’armadio ma non trovò niente.
Quando
uscì, vide Ianto seduto per terra, la schiena
appoggiata contro il muro e un ginocchio piegato.
“Che
cosa hai visto?” gli chiese,
inginocchiandoglisi accanto.
“Te.
Eri su quel letto… m… morto. E c’era
mio padre
che… che…”.
Il
Capitano si protese verso di lui per stringerlo
forte contro di sé. Il ragazzo affondò il viso
contro il suo petto e si lasciò
cullare, aggrappandosi alla sua camicia.
“Non
c’è niente. Sei al sicuro adesso, nessuno ti
farà del male”, continuava a sussurrargli per
confortarlo. “E io sono qui con
te”. E gli diede un bacio tra i capelli.
“Ragazzi!”
esclamò la voce di Chiara che era
arrivata di corsa in quel momento. “State bene?”
“Sì”,
rispose Jack aiutando il compagno ad alzarsi.
“Torniamo di sotto”.
La
ragazza rimase ad indugiare con lo sguardo sui
due, ma alla fine li seguì verso l’ascensore. Il
Capitano premette il pulsante
del piano terra e le porte si chiusero con uno schiocco. Ianto si
appoggiò alla
parete dietro di lui, gli occhi puntati sulla schiena di Jack, quando
un
improvviso e lancinante dolore gli trafisse lo stomaco. Si
piegò in due e
faticò a trattenere un gemito.
“Che
succede?” fece Jack allarmato.
“Ho
dei crampi”, biascicò il ragazzo, le braccia
strette attorno alla pancia.
“Merda!”
Quando
l’ascensore si fermò e le porte si furono di
nuovo aperte, Jack e Chiara trascinarono Ianto fino all’atrio
e lo fecero
accomodare su un divano. “Lascia, faccio io”, disse
la ragazza, fermando le
mani del Capitano che cercavano di aprire la camicia del ragazzo.
“Sono
un’infermiera”. Puntò i suoi occhi su di
lui per fargli capire che si poteva
fidare.
“D’accordo”, concluse l’uomo.
“Ti lascio nelle sue mani. Se hai bisogno di me,
chiama”. Ianto annuì e lo guardò andare
via, mentre un altro crampo gli faceva
soffocare un gemito di dolore.
Chiara
gli sbottonò la camicia scoprendogli il petto
e la pancia lisci. “Quanto sono forti i crampi?”
“Abbastanza”,
rispose Ianto con voce rotta.
“Hai
qualche disturbo particolare?”
“Non
mi crederai mai se te lo dico”.
L’infermiera
dai capelli rossi rise divertita.
“Siamo bloccati in un albergo senza porte né
finestre con strane creature e
poco fa sono stata quasi uccisa da un enorme mastino con gli occhi
aguzzi.
Davvero pensi che non possa credere a qualsiasi cosa hai da
dirmi?”
Se
non avesse avuto quei crampi dolorosi anche il
gallese sarebbe scoppiato a ridere. Chiara aveva ragione, ormai pure
nella sua
vita aveva visto tante di quelle stranezze che niente
l’avrebbe più stupito.
“Aspetto
un bambino”, le disse.
“Oh!”
“Già”.
“Ok…
ehm… comunque non stai avendo un aborto, non
c’è sangue. Deve essere lo stress, dovresti stare
un po’ tranquillo”.
Restarono
per un po’ di tempo a guardarsi, Chiara
leggermente imbarazzata e piena di domande da chiedergli e Ianto
piuttosto
sollevato perché i crampi erano passati.
“Com’è successo?” gli chiese
lei.
“E’
lunga da spiegare. E complicato”.
“E’
come questo?”
“Sì,
diciamo che ne fa parte”.
“E’
di Jack?”
Le
labbra di Ianto si piegarono in un sorriso. “Si
capisce così tanto?”
“Abbastanza”,
ridacchiò Chiara. “Si vede che vi
amate”.
Il
ragazzo spostò lo sguardo verso il profilo del
Capitano, in piedi appoggiato al bancone
a leggere dei fogli.
“Comunque
state bene insieme”.
“Grazie”.
“Siete
sposati?”
“Oh
no!”
“Avete
intenzione di farlo?”
“Non…
non lo so”. Sposarsi con Jack? Non ci aveva
mai pensato e a dire la verità non credeva affatto che fosse
una cosa
contemplata nella loro vita di coppia. Jack di certo non era tipo da
matrimoni
anche se era già stato sposato. “E tu?”
chiese poi a Chiara per cambiare
argomento.
“Magari!
Sono single da un bel po’. Diciamo che non
ho molta fortuna con gli uomini. Sono venuta qui anche per questo,
volevo farmi
una bella vacanza e magari conoscere un bel ragazzo gallese”.
“Di
dove sei?”
“Vengo
dall’Italia”.
“Deve
essere un bel posto”.
“Sì,
abbastanza. Ma nemmeno il Galles non è male”.
Entrambi si sorrisero teneramente, quasi fossero complici di un
segreto. Poi
qualcuno dietro le spalle della ragazza tossicchiò attirando
l’attenzione dei
due.
“Posso
parlare da solo con Ianto?”
Chiara
si alzò dal divano mentre il ragazzo si
richiudeva la camicia. Certo, il bambino era sopravvissuto ad una
pallottola,
ma non gli andava di fargli prendere freddo.
“Che
succede?”
Il
Capitano si mise comodo di fronte al compagno e
gli prese una mano. “Ho controllato i registri
dell’albergo, persino quelli
vecchi”.
“Quindi?”
“Quest’hotel
esiste dai primi anni del 1800”.
“Sì,
lo so”. Non capendo dove Jack volesse andare a
parare, Ianto lo esortò con lo sguardo a continuare.
“Oliver
Quinn è stato registrato come ospite di
questo albergo nel 1867, mentre il Signor Wilson è stato qui
nel 1943”.
Ianto
sgranò gli occhi sorpreso.
“Chiara
Toniazzi pare essere stata qui cinque anni
fa, mentre Jacob una settimana prima di lei. C’è
anche una Emma McKeagan
registrata nel 1976. E non è finita. Ho trovato anche dei
documenti che
attestavano la morte di tutte queste persone, deceduti in circostanze
misteriose”.
“Come
sarebbe a dire? Sono dei fantasmi?”
“Non
lo so. Forse. O forse qualcosa li tiene
bloccati qui”.
“Ma
quindi? Che cos’è questo posto? E quello che ho
visto?”
Jack,
anziché rispondere, si alzò e si
allontanò dal
divano andando fino al bancone. Fece un piccolo balzo e si sedette
sulla
superficie liscia del mobile.
“Signore
e signori!” chiamò per attirare
l’attenzione. Tutti perciò rivolsero gli sguardi
verso di lui. “Ascoltatemi
attentamente. Tutti quanti voi avete aperto la porta di almeno una di
quelle
stanze e avete visto qualcosa. Giusto?”
“Sì”,
confermò Jacob.
“Qualcosa
che vi ha fatto molta paura”.
“Esatto!”
“Vi
ricordate che cos’è successo dopo?”
Nella
stanza calò il silenzio, un silenzio carico di
tensione.
“Io
sono svenuto. E quando mi sono risvegliato non
c’era più nessuno e non riuscivo ad
andarmene”, rispose Oliver con uno sguardo
stralunato.
Non
eri svenuto. Eri morto.
“Penso
di aver capito che cosa ci minaccia”,
annunciò alla fine il Capitano e, se prima non
l’aveva fatto, ora aveva
attirato veramente l’attenzione di tutti.
“Di
cosa si tratta?”
“Delle
nostre paure. Quello che vedete nelle stanze
che aprite rappresenta la vostra paura più forte, la vostra
paura nascosta,
quella che non sapete nemmeno voi di avere”.
“Come?!”
“Ma
questo è assurdo?”
“Sarebbe
una maledizione?” chiese Oliver.
“Oh
no! Non è affatto una maledizione”, lo
contraddisse Jack. “E’ un alieno”.
“Un
alieno!” esclamò il Signor Wilson. “Come
può
essere?”
“Un
alieno che si nutre della paura delle persone. E
deve essere molto potente”.
I
presenti si guardavano tutti fra loro, indecisi se
credere a quello strano tizio che parlava di alieni o dargli del matto.
Jack,
non facendoci minimamente caso, si avvicinò
nell’angolo dove sedeva Emma e si
piegò accanto a lei.
“Ciao,
piccolina”.
Lei
lo scrutò con i suoi enormi occhi spaventati ma
non disse nulla.
“Tu
che cosa hai visto nella tua stanza?”
La
bimba abbassò lo sguardo verso la punta delle
proprie scarpe. “Ho visto il buio”.
“Il
buio?”
“Sì.
Mi entrava nelle orecchie e nel naso”.
“Capisco.
E i tuoi genitori?”
“Loro…
non lo so. Non li trovo più”.
Il
Capitano le diede un tenero buffetto sul naso
sospirando. Purtroppo per lei non li avrebbe trovati più.
“Tu
ci salverai?” chiese Emma riportando di nuovo lo
sguardo sull’uomo accanto a lei. “Ci libererai da
quell’alieno?”
Jack
le sorrise. “Certo, tesoro. Te lo
prometto”. Non
rifiutava mai di aiutare
una persona quando questa glielo chiedeva. Era una cosa che aveva
imparato da
una persona fantastica, parecchio tempo fa. E poi, come poter dire di no a una bambina
così dolce come Emma?
Ianto,
seduto ancora sul divano, fissava un punto
imprecisato davanti a lui. E così lui e Jack erano in
compagnia di cinque fantasmi,
oltretutto provenienti da secoli diversi. Avrebbe voluto bombardare
Oliver di
mille domande sulla sua epoca, l’età vittoriana
l’aveva sempre affascinata, ma
non poteva certo rivelargli che si trovavano nel ventunesimo secolo e
che lui
era morto.
E dire che inizialmente aveva pensato fosse semplicemente un tipo un
po’ fuori
di testa.
“Dove
pensate possa trovarsi?” chiese Jacob
osservando la mappa dell’albergo aperta sul bancone della
reception.
“Allora…”,
iniziò Jack tracciando delle linee con un
dito. “Questi sono tutti i piani delle stanze, quindi
escluderei che si possa
trovare qui. Questo che cos’è?”
“Deve
essere la caldaia?” rispose il signor Wilson,
riconoscendo il disegno dei tubi e di strani macchinari che stava
indicando
Jack.
“Forse
è lì”.
“Può
darsi. È un posto caldo. Allora direi di
controllare prima lì”.
Il
Capitano richiuse la mappa e fece un balzo oltre
il bancone.
“Ma
come si sconfigge?” domandò Chiara, legandosi i
capelli in una coda.
“Se
il mostro si nutre delle paure, allora serve un
opposto che lo sconfigga”, ipotizzò Jacob.
“Esattamente”.
“Il
coraggio?”
“No,
quello non basta”.
“E
allora che cosa?”
“La
fede”.
A
quella parola di Jack tutti gli altri si
scambiarono uno sguardo confusi.
“Jack!”
chiamò Ianto avvicinandosi all’uomo. “Ma
come sono morti queste persone?” fece, a bassa voce
perché gli altri non lo
sentissero.
“Di
paura”.
“Paura?”
“Sì”.
“Accidenti.
E con cosa lo uccideremo?”
“Non
lo so. Improvviserò qualcosa. In ogni caso, tu
non vieni con me”.
“Cosa?”
Jack
spinse Ianto contro un muro e lo guardò dritto
negli occhi azzurri. Non aveva intenzione di portarlo con
sé, già poco fa aveva
rischiato di perderlo. Sarebbe morto anche lui di paura se non fosse
venuto a
salvarlo e questa volta il bambino che portava in grembo non
l’avrebbe potuto
salvare. Perciò non aveva alcuna intenzione di trascinarlo
dritto nella tana
del lupo.
Dovette
insistere parecchio però perché il ragazzo
si decidesse a rimanere. Alla fine lo convinse, promettendogli che
sarebbe
tornato presto. Il Capitano se ne andò nella stanza della
caldaia, che stava in
un’ala un po’ isolata, insieme a Oliver e Jacob,
mentre Ianto se ne rimase
nella hall con Chiara, il Signor Wilson e Emma, ripetendosi quanto
detestasse
quando Jack lo escludeva così benché fosse per il
suo bene.
“Ragazzi!
State bene?” urlò Jack guardandosi
attorno. Lui e i due che l’avevano accompagnato erano appena
stati attaccati da
un alieno viscido e bavoso che li aveva stesi tutti quanti a terra
senza che
avessero nemmeno il tempo di urlare. Era molto più grosso e
forte di quello che
il Capitano aveva previsto e non sarebbe stato facile.
“Ho
preso un colpo alla testa, ma sto bene!” gli
rispose la voce di Jacob. Certo che stava bene, dopotutto era
già morto e non
poteva morire un’altra volta.
“Anche
io sto bene”, aggiunse Oliver.
Jack
si mosse di nuovo verso l’entrata della stanza
dove era custodita la caldaia e sbirciò attentamente il
mostro che stava
dentro. Avevano svegliato il drago…
L’alieno, una creatura che somigliava a un tirannosauro Rex,
solo con qualche
occhio in più, lo stava fissando da un angolino nel quale si
era rintanato e
sicuramente preparava un attacco.
“Ricordatevi,
ragazzi! Non dovete temerlo!” ricordò
Jack agli altri due. “E se vi mostra qualcosa, ricordatevi
che sono solo
illusioni, non c’è niente di vero”. Poi
afferrò una sbarra di ferro e gli si
lanciò contro. Ma sapeva che non era quello il modo per
ucciderlo. C’era solo
una maniera con qui avrebbe potuto farlo fuori, una sola e non era
certo una
sbarra di ferro.
Il
mostro lo spinse con la testa facendolo volare in
mezzo a delle assi di legno. “Ahia”, si
lamentò il Capitano, toccando una
sostanza appiccicosa e rossastra che gli stava sporcando la camicia.
“Jack!”
sentì urlare qualcuno. Ma non era né la voce
di Jacob né tantomeno quella di Oliver. Era… era
Ianto. Maledizione! Ma che ci
faceva lì? Gli aveva detto di rimanere al piano terra.
“Ianto!”
Jack cercò di alzarsi, non senza fatica, e
strisciando contro il muro si diresse nella direzione da cui aveva
sentito
provenire la voce. Trovò il ragazzo fermo immobile di fronte
al muso
dell’alieno, l’espressione terrorizzata.
“Ianto! Non avere paura. È questo che
lo uccide, non devi avere paura!”
“Jaaaaaack!!!”
Jack
allora saltò per afferrare la coda del mostro;
gli si aggrappò come un koala e cercò di
dirigerlo via dal compagno. Ma quello
continuava ad agitarsi come un toro imbufalito e rischiava di far
mollare la
presa al suo assalitore.
Ianto
invece afferrò la pistola e la puntò
l’alieno.
Gli sparò un paio di colpi in bocca ma ciò non
servì a niente se non a farlo
arrabbiare ancora di più. la creatura gli si
avvicinò ancora di più e col muso
lo spinse forte contro il muro. Il ragazzo sbatté la testa
piuttosto
violentemente e immediatamente la stanza prese a vorticargli attorno.
La voce
di Jack gli arrivava attutita alle orecchie e sentiva che pian piano
stava
perdendo coscienza.
L’alieno però non aveva intenzione di lasciarlo
perdere; con le zanne protese
gli ringhiava addosso.
“Ianto!”
gridò Jack, in ginocchio dall’altra parte
della stanza. “Ianto!”
“Jack”,
sussurrò il ragazzo, senza voce. Allungò una
mano per raggiungere la pistola che gli era scivolata
quand’era caduto, ma non
riuscì nemmeno a sfiorarla. “Jack. Ti
amo”. Se stava per morire lì, in quel
modo, che almeno quelle fossero le sue ultime parole. Non aveva paura,
perché
c’era Jack lì con lui e Jack lo amava e lo avrebbe
salvato, lo faceva sempre,
perciò lo avrebbe fatto anche questa volta.
Lui amava Jack e Jack amava lui.
“Fai
piano, hai sbattuto la testa”.
Ianto
aprì piano gli occhi per lasciarli abituare
alla luce che, anche se debole, gli dava piuttosto fastidio. Si
portò una mano
alla nuca dolorante e si guardò attorno. Era steso sul
divano della hall
dell’albergo e Jack sedeva per terra accanto a lui. Aveva la
camicia sporca di
sangue ma stava bene. E anche lui stava bene, a parte il mal di testa.
“Che…
che è successo?”
“Ci
siamo appena scontrati con un orribile mostro
alieno che voleva mangiarci”, gli rispose il Capitano con un
sorrisetto
furbesco.
“Oh”.
Ianto si mise seduto, le ossa del corpo che
gli dolevano tutte. “Adesso
dov’è?”
“L’abbiamo…
l’hai sconfitto”.
“Io?”
“Sì”.
“E
come?”
Jack
abbassò lo sguardo e assunse un’espressione
strana, pensierosa. “Non lo so”.
“E
che fine hanno fatto gli altri?”
“Si
sono dissolti. Erano solo delle proiezioni
psichiche tenute in quest’albergo dall’alieno che
si nutriva delle loro paure.
Se l’hotel non fosse stato chiuso avrebbe continuato a
mietere vittime”.
“Ma
nessun’altro poteva vederlo?”
“No,
è visibile solo in questa dimensione”.
“Quindi
questa è un’altra dimensione?”
“In
un certo senso sì”.
“Oh”.
“Dai,
andiamo via”.
Jack
e Ianto si precipitarono subito verso il Suv
senza guardarsi indietro, desiderosi solo di lasciarsi quel posto alle
spalle.
Il sole stava ormai tramontando dietro l’orizzonte e
sicuramente gli altri
dovevano essere preoccupati.
“Jack?”
chiamò il ragazzo voltandosi verso il
compagno.
“Dimmi”.
“Tu
di cosa hai paura?”
Jack
mise in moto l’auto e sistemò lo specchietto
retrovisore. “Di niente. Uno che non può mai
morire di cosa potrebbe avere
paura?”
“Tutti
hanno paura di
qualcosa”.
MILLY’S
SPACE
Eccoci
qui. Probabilmente qualcuno di voi avrà notato una
certa somiglianza tra questo capitolo e l’episodio di Doctor
Who ambientato in
un albergo dove c’era una creatura che si nutriva della
“fede” delle persone.
Effettivamente, mi sono ispirata proprio a quella puntata ^^
be’, che ne dite?
Comunque
anche a me piacerebbe incontrare una persona
vissuta durante l’età vittoriana o magari fare un
viaggio nel tempo e andare a
vederla coi miei occhi. È un’epoca che mi ha
sempre molto affascinata ^^ ma mi
sa che il mio sogno non si realizzerà mai : (
eh, pazienza.
Prima
di chiudere vi faccio sapere che un po’ di giorni
fa ho pubblicato una breve oneshot in questo fandom, si intitola
“In the arms
of an Angel” e se vi va andate
a
leggerla : )
Detto
questo, vi ricordo di lasciarmi qualche recensione.
Un
bacione,
Milly.
HELLOSWAG:
la
tua minaccia mi ha parecchio spaventata, perciò ho fatto di
tutto per
aggiornare abbastanza presto ^^ non pensavo comunque di aver reso lo
scorso
capitolo così flaff. Cercò di non uscire mai
troppo dai personaggi e credo che
la dolcezza non sia contemplata tra le caratteristiche di Jack,
però a volte
non ne posso fare a meno : ) spero di risentirti, un abbraccio. M.
AMAYAFOX91:
John è un personaggio che piace pure a me e in fondo non
credo sia cattivo,
semplicemente a volte fa scelte sbagliate. Spero ti sia piaciuto anche
questo
capitolo. Ciao. Milly.