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Autore: martaparrilla    16/02/2014    10 recensioni
"Non voglio più che mi odi per quello che stai provando. Non voglio più che guardi i miei occhi senza sapere che mi sveglio presto solo per guardarti uscire di casa e prender il tuo cornetto al bar. Che mi piace l'odore dei tuoi capelli. Mi piace il calore della tua mano. E se devi impazzire, voglio che impazzisca con me, non per me".
Una Emma e Regina in una città senza nome, si scontrano come solo loro sanno fare. Ben presto capiscono che il loro odio cela qualcosa di più grande. Ma Regina questo già lo sapeva. Gli occhi di quella bionda erano terribilmente somiglianti a qualcuno che aveva perso e questo la incuriosiva. Emma dal canto suo non riusciva a spiegarsi i brividi che sentiva quando la vedeva.
Regina ed Emma racconteranno sensazioni e sentimenti in prima persona, alternandosi tra i vari capitoli. Non dubitate della mia sanità mentale quando leggerete le stesse frasi in capitoli diversi, il motivo è semplice: una volta sarà Emma a parlare (o ascoltare), una volta Regina.
Riusciranno insieme a superare i traumi passati?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Le sensazioni che mi ha dato erano indescrivibili. Ma quando sono così forti, quando ti danno quella carica di adrenalina...be, di sicuro c'è qualcosa di negativo sotto. C'è qualcosa che poi ti frega. Perché è questo che fa l'amore, l'attrazione, la fiducia: ti fregano alla grande.

E' una questione di fortuna, e nella mia vita la fortuna non è propensa a presentarsi.

Mi aveva inseguita, si era aperta a me per cosa? Per vedere se cedevo? Per quale razza di motivo mi aveva illusa con tutte quelle belle frasi? Perché!

La odiavo. Odiavo il fatto che mi aveva baciata.

Mi ero messa a letto col cuore spezzato quel giorno, e dopo due settimane, faceva ancora male. Non riuscivo a capacitarmi della cosa. Avevo forse immaginato il suo bacio? I suoi occhi bagnati di lacrime? Il suo cuore galoppante da sotto il giubbotto? Era capace di controllare anche la velocità del suo battito come controllava me?

Ogni giorno, nelle due settimane successive, mi sono affacciata alla finestra. Non è più passata al bar a prendere il suo cornetto. Non l'ho più vista. Per quanto ne so può essersene andata. Può essere fuggita una notte portandosi dietro i suoi amati mobili e la collezione di palle di neve.

E anche i cocci del mio cuore. Della mia fiducia. Della mia rinascita.

Riprendo il mio lavoro d'ufficio ma tutte le notti le guance bruciano. Risento le sue mani sul mio viso, sui miei fianchi. Il dito che ha toccato la mia cicatrice sul labbro. Brucia come se mi toccasse in ogni istante.

Oggi la giornata in ufficio è stata devastante. Problemi su problemi, scartoffie su scartoffie da sistemare, milioni di telefonate da fare e nessuno che mi aiuti o che mi renda più semplice il lavoro. Sono tutti degli incompetenti buoni a nulla, capaci solo a parlare.

Come lei. E' stata capace solo a parlare.

Sull'ascensore, premo un pulsante a caso senza guardare. Poggio la testa sulla parete dell'ascensore che lentamente ha iniziato a muoversi. Oggi però non piangerò. No. Avrei pianto solo per una persona e di certo non è lei.

Le porte dell'ascensore si aprono, esco senza nemmeno guardarmi intorno. Prendo la borsa per cercare le chiavi e di fronte mi ritrovo una porta che non è la mia.

«Ma che diavolo...» mi guardo intorno. E' il suo pianerottolo.

Senza rendermene conto finisco al quinto piano.

«Quanto sono stupida». Rimango a fissare la sua porta. Non si sente nulla. Silenzio di tomba. Decido di prendere le scale, in fondo devo scendere solo per due piani, non sarebbe stato faticoso.

Faccio i primi tre gradini con una brutta sensazione addosso quando sento un rumore di vetri rotti. Mi volto spaventata e rimango immobile aspettando qualche altro rumore. Altro vetro in frantumi, seguito da un urlo.

Non mi posso sbagliare. E' lei. Le è successo qualcosa. Risalgo i gradini e suono il campanello.

«Emma!!!» urlo bussando con insistenza sulla porta «Sono Regina, apri per favore». Silenzio.

«Emma!! Sarò costretta a farmi dare le chiavi del portiere se...» ha aperto. E la figura che mi ritrovo davanti sembra solo qualcuno che un tempo somigliava a Emma.

I suoi occhi sono spenti e rossi di sonno. O di pianto. Il tutto è circondato da occhiaie scure, capelli arruffati e...oddio sangue. Addosso ha solo una maglia lunga e dalla mano sinistra gocciola del sangue.

Mi osserva stupita, felice e spaventata allo stesso tempo.

«Regina...» dice con un filo di voce «Sapevo che saresti venuta a salvarmi».

Chiudo la porta e le afferro il polso trascinandola per la casa alla ricerca del bagno. Di sfuggita vedo dei vetri rotti accanto alla finestra.

Che diavolo ha combinato. Perché non mi risponde? Ho paura. Ma ora perde troppo sangue e devo tenere la mia paura in un angolino, per affrontare quella piccola emergenza.

Ecco il bagno. E' completamente sfatta, poco curata e infreddolita. Trema di freddo (o di paura). Apro il rubinetto dell'acqua e infilo prontamente la mano di Emma, che non parla. Una volta pulita la mano dal sangue posso finalmente vedere come e dove si è ferita: aveva un brutto taglio sul palmo, che non smette di sanguinare. Probabilmente ci vorranno dei punti, ma decido di fare da me.

«Emma hai del cotone o delle garze?».

Non sentendo risposta mi volto a guardarla. E' totalmente assente. Il viso sporco di sangue ancora fresco, sembra sospesa in un'altra dimensione.

«Lascia la mano sotto l'acqua!» urlo quando cerca di spostarsi. Lei ha un tremito per lo spavento. «Stai ferma, cerco qualcosa qui, avrai del cotone, tutti hanno del cotone in casa!» inizio a frugare nel mobiletto sotto il lavandino. Non c'è niente di nulla. In mezzo ad assorbenti e carta igienica però trovo un po' di cotone in una bustina. Non è molto.

«Ce lo faremo bastare, ok?» la guardo negli occhi cercando un po' di complicità, un tentativo di comunicazione anche visiva ma niente. Avrei pensato dopo a quello, ora devo fermare il sangue.

Dopo aver chiuso il rubinetto, tampono la ferita con un asciugamano appeso di fianco al lavandino. Lo avrebbe lavato poi. Sfilo il cotone dalla bustina, e dopo aver tolto e lasciato cadere per terra l'asciugamano, metto il cotone nel palmo della sua mano, premendo forte.

Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa con cui fasciarla, quando noto la cinta dell'accappatoio poco fuori dal bagno. Evito di chiedermi che ci faccia la fuori.

«Emma, non fare cadere quel cotone, ok?» è come parlare da sola.

Lascio la sua mano per qualche secondo e torno giusto il tempo necessario a evitare che il cotone cada dalla sua mano. Seguè i miei movimenti come stregata, incantata, senza dire una parola. Inizio a stringere il cotone sulla mano con la cinta, cercando di tenerle libere le dita, per poterle muovere. Dopo avere fatto un orrendo nodo sul dorso della mano dico: «Ecco fatto» provo a sorridere ma il suo viso è come avvolto da una cupa nube nera.

«Emma» le accarezzo il braccio per tentare di riportarla da me.

«Emma» dico a voce più alta.

«Emma!» la mia mano si scaglia sulla sua guancia in un sonoro ceffone.

«Rispondimi!» dico ormai sull'orlo di una crisi.

Apre e chiude le palpebre e schiude un po' le labbra come a volere dire qualcosa. Sfiora la gota che ho appena colpito con la mano sana per poi avere finalmente una reazione. Gli occhi tornano a riempirsi di lacrime.

«Regina...mi..m...mi dispiace, io...» balbetta. Abbassa lo sguardo verso la mano che le avevo fasciato. Mi avvicino piano, per non spaventarla e la cingo in un abbraccio. I suoi singhiozzi riempiono il silenzio della casa. Le accarezzo la testa come facevo con Henry quando piangeva.

Non l'avrei lasciata da sola. Non ho visto mai nessuno in quello stato. A parte me stessa. E io avrei avuto bisogno di qualcuno con me...qualcuno che non c'è stato. Non le avrei fatto provare lo stesso. Mi ha ferita, è vero, ma questo è molto peggio. Questo va molto oltre ed è qualcosa che non posso ignorare solo perché sono ferita nell'orgoglio.

Prendo il suo viso tra le mani mentre lei ancora singhiozza.

«Senti, ora facciamo così: tu smetti di piangere e...»

«Ti prego non andare via...mi...mi dispiace» le parole bloccate dall'ennesimo singhiozzo. Mi sciolgo completamente. In un secondo torno ad essere debole, vulnerabile, come solo lei sapeva farmi essere.

«Non dirlo nemmeno per scherzo, non me ne vado, però smetti di piangere va bene? Ora ti pulisco la faccia poi ti metti qualcosa di caldo addosso e ti preparo una bella camomilla» cerco di rassicurarla anche con lo sguardo oltre che con le parole. Le stampo un bacio sulla fronte e cerco di sorridere.

Mi riabbasso sul mobiletto a cercare un asciugamano. Prendo il più piccolo che trovo e ne bagno un angolo con acqua calda. Così, inizio a pulire il viso di Emma che mi guarda, triste.

«Che è successo?» forse è meglio cercare di farla parlare un po'.

Un lamento esce dalle sue labbra e una lacrima riga il suo volto.

«Va bene va bene...me lo racconterai un'altra volta allora. Finalmente sei pulita. Ora andiamo in camera e prendiamo un pantalone e una maglietta ok?»

Le metto un braccio intorno alle spalle mentre la guido dentro la sua camera. Facile riconoscerla, ci sono un mare di vestiti sparsi dappertutto. La faccio sedere sul letto, consapevole che non sarebbe stata in grado nemmeno di cambiarsi. Inizio ad aprire le ante dell'armadio e i cassetti sotto di esse. C'è un disordine indicibile.

«Ecco le calze» dico a voce alta «oh, questo sembra un pantalone del pigiama» chiudo il cassetto.

«Andranno benissimo». Mi siedo vicino a lei.

«Emma...hey....ora ci vestiamo ok?».

Fa cenno di si con la testa. Sospira profondamente e mi prende le calze dalle mani. Con un po' di difficoltà, data anche dalla fasciatura, riesce a infilarle, e di seguito i pantaloni.

Non ho guardato. Nè le gambe, nè i piedi nè il sedere. Niente. Mi sono concentrata sul suo viso, che è quello che mi preoccupa di più. Si siede di nuovo accanto a me, tremante. Dietro di me scorgo una felpa bianca di pile.

«Infilati questa e sdraiati, vado a prepararti una camomilla. Hai della camomilla?» mi alzo.

«La troverò...tu non muoverti da questo letto».

Annuisce con la testa. Mi sposto per la casa...c'è un caos impressionante. Bicchieri e piatti sporchi. La busta della spazzatura aperta e piena. Mi sarei occupata dopo di quello.

Inizio ad aprire e chiudere compulsivamente gli sportelli finché trovo una scatolina verde. "Infuso di finocchio".

«Non sarà camomilla, ma almeno se lo scaldo avrà qualcosa nello stomaco» fortunatamente per me ha il microonde. Riempio una tazza di acqua e la infilo nel fornetto. Mentre quello inizia a girare mi assicuro di trovare zucchero e un cucchiaino.

E' completamente abbandonata a se stessa. Si è lasciata andare e non capisco perchè. E' triste, è distrutta, è tornata quasi una bambina. E mi ha implorato di non lasciarla sola. Non posso dire di no a quegli occhi, non ce l'avrei mai fatta.

Dinn-. Il trillo del microonde mi distoglie dai pensieri che affollano la mia mente. Dalle domande che inevitabilmente mi sto ponendo.

Presa la tazza, verso il contenuto della bustina, un cucchiaino di zucchero e torno da lei.

La ritrovo come l'avevo lasciata. Seduta sul letto a fissare un punto nel vuoto. Poggio la tazza e il cucchiaino sul comodino.

«Emma guardami» le prendo il mento, sistemandole i capelli dietro le orecchie.

Spalanca gli occhi verso di me, che diventano come due fanali che perforano i miei.

«Mi dispiace....mi dispiace così tanto...».

«Di cosa ti dispiace Emma?» Si morde il labbro inferiore e piano, fa cadere la sua testa sul mio petto, sospirando.

«Ho bisogno di sapere che ti è successo» le massaggio la schiena facendo dei piccoli cerchietti finchè lei non si decide a tornare dritta.

«Mi dispiace per quello che è successo alla cascata...mi dispiace per essere scappata» piange. Di nuovo. Mi si spezza il cuore vederla così, voglio che quegli occhi smettano di piangere. Io posso sopportare la delusione da lei...ma lei non sopporta la delusione da se stessa.

«Non importa...non importa...»..

«Certo che importa» mi urla finalmente arrabbiata! «Tu...» posa la sua mano sulla mia guancia... tu sei così...bella...e io non capisco cosa mi sta succedendo! So solo....so solo che mi sono lasciata andare e solo dopo ho elaborato che sei una donna! E a me non sono mai piaciute le donne! E questo mi confonde in modo assurdo!».

Apro la bocca tentando di parlare, ma mi interrompe.

«E sento il cuore scoppiare ora che ci sei. Ma stava scoppiando anche quando mi hai dato di nuovo del lei! E avevi maledettamente ragione» poggia le mani sulle mie ginocchia. Sono stupita, tanto per cambiare. E preoccupata.

«E' che io...non lo so come è potuto accadere, ma sono due settimane che non riesco a mangiare, a dormire! Che mi fa male il petto, lo stomaco. Perché volevo tornare indietro ma tu non ci saresti stata, non mi avresti ascoltata. E ho passato le giornate dal letto al divano, dal divano al letto. E quando riuscivo a dormire, allora mi ricordavo quello che avevo detto e piangevo...e piangevo...e piangevo e» si alza di scatto diretta verso il salotto. L'ho seguita senza aprire bocca.

«E li vedi questi cocci? C'è la tazza dove hai bevuto il tè, e la palla che hai toccato! Li metto sul tavolino e li fisso. Pensando a quanto sia stata cogliona a non ascoltare quello che provavo. E a farmi condizionare dal fatto che siamo due donne».

«Allontanati da quei vetri, ci manca solo che ti ferisca anche i piedi» la afferro per un braccio visto che gesticola e si muove in modo inconsulto.

«E ora io non so cosa fare. Tu sei qui e mi hai aiutato e io riesco solo a piangere e non riesco nemmeno a guardarti negli occhi perché mi vergogno! E perché non ha senso che tu sia qui dopo quello che ti ho fatto! Ti ho praticamente presa in giro e tu sei ancora qui».

Urla e piange.

Stavolta sono io a fare il primo passo. Mi sta nuovamente confessando quello che prova, solo che ha avuto due settimane per riflettere. Non l'avrei fatta scappare di nuovo. No. La frustrazione delle due settimane appena passate sono valse tutto questo. Sono io a doverla aiutare.

Faccio un passo verso di lei ma mi blocca urlando:

«Non ci credo che non te ne sei ancora andata! Non ci credo che dopo le mie parole, dopo essermi confessata e poi rimangiata tutto tu sia ancora qui! Cosa c'è sotto? Sei una strega che vuole farmi qualche incantesimo? Sei una ladra? Che cosa sei tu!».

E' completamente fuori controllo, ma a quel punto sono arrabbiata anche io.

«Tu mi hai portato a stare qui! Tu mi costringi a stare qui! I tuoi maledetti occhi blu! La tua bocca, le tue gambe e la tua voce! Il tuo avere bisogno di protezione! E mi dispiace tantissimo se nessuno ha mai fatto niente per dimostrarti qualcosa, sai, nemmeno con me è successo! Ma io rimarrò qui seduta su questo divano fino a che tu non capirai che non ho intenzione di lasciarti in mezzo alle tue paranoie. Io mi siedo qui e tu sarai costretta a guardarmi come SCELGO TE nonostante i pianti, i ripensamenti e tutto il resto, sono stata chiara? IO. SCELGO. TE. La notte mi sono ritrovata a scrivere per te. Non potendoti parlare, avevo bisogno di comunicare con te in un altro modo. E poi forse un giorno te le avrei fatte leggere, per vederti sorridere della mia pazzia. Ecco, credevo che tu avessi bisogno di qualcuno che ti scrivesse un sacco di stronzate alle cinque del mattino. Credevo di poterti offrire un mondo popolato da persone divertenti. E un altro, più piccolo ma più grande, abitato solo da noi due. Per potere avere un po' di felicità. Felicità, Emma. La felicità è fare l’amore a ore strane oppure normali, purché con te. La felicità è crescere insieme, litigare a chi ha la testa più dura e poi, piene di bernoccoli, salire un altro gradino del nostro percorso. La felicità è un appuntamento nel tuo posto magico dove io credo di essermi vestita in modo inadeguato. Se hai un problema che ti assilla, lo risolviamo insieme. Ti volevo soltanto dire che non mi manca una donna. Mi manchi tu. Che sei anche una donna, e che donna. Ma sei qualcosa di più: sei quella che mi toglie il fiato solo perchè piange per le parole che le dico».

Col fiato corto mi siedo sul divano, incrociando le braccia al petto. Smetto anche di guardarla in faccia. Prima scappa, poi si fa rincorrere, poi mi incolpa. Io da li non mi sarei mai mossa, MAI.

Dieci interminabili minuti. Lei ferma accanto alla finestra, io seduta sul divano. La sento muovere qualche passo. Passa dietro di me, superando il divano e sedendosi accanto. Gamba contro gamba, braccio contro braccio. Con la mano fasciata mi afferra il mento così da voltarmi verso di lei. Ancora una volta i miei occhi parlano da soli e spero tanto che veda quello che sento, quello che voglio.

Ancora lacrime dai suoi occhi.

Le afferro il viso tra le mie mani. Sussurro «Shhhh» come ho fatto alla cascata. Faccio aderire lentamente le mie labbra alle sue, che subito si schiudono calde, accoglienti, morbide. Il respiro si fa affannoso, e per riprendere fiato, sposto la mia bocca sulle sue guance, sugli occhi rossi e bagnati di lacrime, sul naso, sul mento, per poi tornare sulla sua bocca, che implora di essere baciata e continua a dire «Mi dispiace, mi dispiace»...io la zittivo attirandola a me.

Non avrei voluto smettere mai di baciarla. Perché tutto di lei mi dice che avrebbe voluto la stessa cosa. Le sue parole, le sue labbra, i suoi occhi, il suo corpo. E' tutta per me. Voglio parlarle di nuovo ma lei mi cinge in un abbraccio che non vuole saperne di lasciarmi. Non che a me dispiaccia. Ma io sono brava ad ascoltare i miei desideri fisici....solo che voglioo assecondare anche quelli del cuore. Con lei c'è tanto cuore oltre che fisico.

Mi spinge verso il bracciolo del divano e stiamo così, con lei che bacia avidamente il mio collo e Dio solo sa quanto vorrei far volare altrove quei vestiti che porta addosso.

L'aria è diventata calda. Le mie mani si sono insinuate sotto la sua maglietta e accarezzo la sua perfetta e muscolosa schiena nuda (e ancora una volta senza reggiseno).

Solo dopo avermi quasi consumato il labbro inferiore si ferma.

Il suo mento sprofonda tra la mia spalla e il mio collo, in un dolcissimo abbraccio.

Rimaniamo ancora così, ferme, a ascoltare i nostri cuori battere, a sentire i nostri respiri affannosi, le nostre labbra consumate, le nostre mani che si sono fermate troppo presto. Continuo a dare piccoli baci alla sua testa, ai suoi capelli mentre lei si scioglie di nuovo in lacrime.

«Basta piangere Emma. Basta. Andrà tutto bene. Ok?» cerco di convincere lei ma anche me stessa. Cerco di staccarla da me, ma lei emette un leggero lamento, come un cucciolo.

«Ti sei trasformata in un cagnolino»?.

«Si» dice subito.

«Mi vuoi dire che ho baciato un cane? Ma che cosa fantastica».

Ride. Sta finalmente ridendo e non posso fare altro che essere contenta di questo. Si stacca un attimo da me, giusto per avere lo spazio per guardarmi negli occhi. Scivola sul divano, dalla parte della spalliera.

«Mi dispiace per prima».

«Lo so, non importa, stai meglio ora?».

Mi da un altro piccolo bacio. «Ora si».

Il mio corpo e il mio cuore urlano solo una cosa: spogliala. La testa no. Io devo aiutarla a capire quello che ci succede, che le succede. E approfittare di un suo momento di debolezza non mi avrebbe sicuramente fatto onore e non è da me.

Ci guardiamo negli occhi. Siamo assolutamente perse l'una nell'altra, nessuno avrebbe potuto distrarmi da lei. Le sfioro i capelli e in me si fa strada la consapevolezza che non sarei mai riuscita a lasciarla andare.

Ma la posizione è scomoda.

«Che ne dici di sistemare un po' il caos che hai fatto in questo momento di pazzia?» strizzo gli occhi guardinga.

«Che ne dici se faccio tutto io?» dice lei.

«Che ne dici se ti aiuto?».

Storce il naso.

«Che ne dici se....io mi faccio una doccia, mi cambio, sistemo un po' e tu....aspetti qui?».

«Allora che ne dici se torno per l'ora di cena e tu fai tutto quello che devi?».

«Dico che non voglio che esci da quella porta perché ho paura che non tornerai» dice queste parole con una sincerità pungente.

«Giuro che tra due ore sono qui con due pizze e una bottiglia di vino rosso, che dici?».

«Promesso?».

«Solo se la smetti di guardarmi in quel modo altrimenti non riuscirò mai a allontanarmi da te» mi fa male l'idea di lasciarla li da sola per due ore.

«Vuoi che rimanga fuori dalla doccia a farti la guardia?» le mie mani scivolano sulle sue braccia fino ad arrivare all'orrenda fasciatura improvvisata. Le tiro su il braccio.

«Anzi, ti fa male?» poggio la mia mano sulla sua guancia, e lei si accoccola per qualche secondo.

«Un po'...però non ho più cotone».

«Ecco allora vado a prendere la mia cassetta del pronto soccorso».

La vedo cambiare di espressione, dal preoccupato all'interessato.

«Ti vesti da dottoressa sexy?».

«Non sono abbastanza sexy così?» le sussurro a un orecchio, sfiorandoglielo.

«Se non vai ora non ti lascio più, alzati».

Obbedisco immediatamente. Sistemata la gonna e la giacca, la aiuto ad alzarsi dal divano.

«Due ore e torno qui. E fai in modo di non aprirmi la porta sanguinante come due ore fa» mi dirigo verso la porta poi mi ricordo di una cosa.

«Magari ci scambiamo i numeri e mi chiami quando sei pronta, no?».

«Mi sembra una buona idea» si avvicina al tavolino accanto alla porta d'ingresso, e mi porge una penna.

«Scrivi».

Afferro la penna con la mano sinistra e scrivo il suo numero, che mi detta, e poi il mio. Infine divido il foglietto il due, affidandole la metà dove ho scritto il mio.

«Ricordati di tornare da me...»

«Non posso lasciare queste cose bellissime che hai proprio qui, sulla bocca, sotto il naso!» mi avvicino a lei, lasciandole un bacio leggero, quasi a metà. Quando riapro gli occhi vedo che le labbra sono ancora tese verso di me.

«Ho smesso di baciarti...vai» ridacchio. «Prima finisci prima torno qui da te».

Annuisce mentre le gote si colorano. Apro la porta ed esco.

Lei sta male per me. Lei è stata male per me per due lunghe settimane. Ha perso il sonno, la fame, il sorriso. Si è pentita delle sue parole nel momento stesso in cui le ha pronunciate.

Posso essere più lusingata? Avrei voluto che si fosse presentata da me a dirmi quelle cose. Non l'avrei lasciata da sola con i suoi dubbi e le sue paure. Anche io ero spaventata, sono spavetata...non che fosse una donna ma che mi faccia provare certe cose. Cose che non sono abituata a provare.

Vederla con quel sangue addosso mi ha terrorizzata. Non so come abbia avuto quel sangue freddo. Ho pensato si fosse fatta male volontariamente. Questo non l'avrei mai sopportato.

Sono ormai arrivata di fronte alla mia porta. Una volta dentro, visto che sono le otto di sera, decido di chiamare subito in pizzeria per ordinare le due pizze. Sono certa che in massimo un'ora lei mi avrebbe chiamata, quindi è meglio accelerare i tempi.

Devo fare una doccia rapida. Ho tante cose a cui pensare come ogni volta sotto la doccia, ma l'avrei fatto dopo...ora non ho tempo. Devo rivederla immediatamente.

Prendo il primo vestito grigio che trovo. Lo infilo assieme ai collant e le decoltè.

I capelli sono sempre il passo più delicato, ma ormai in mezz'ora riesco sempre ad asciugarli e sistemarli con le punte un po' in fuori.

Sarei stata perfetta quel giorno. Voglio esserlo, anche se devo solo mangiare una pizza. Ma lei vale tutto il trucco e i tacchi e il resto. Un ultimo ritocco al rossetto. Borsa in spalla.

Prendo una decina dei miei aperitivi, quelli che le sono piaciuti tanto e una bottiglia di vino rosso. In quel momento squilla il cellulare. Sono certa sia lei.

«Pronto?».

«Credo che farò tardi» dice con voce allegra e squillante.

«E io sto uscendo di casa. Arrivo tra un minuto».

«Non sono pronta!».

«Non importa, arrivo, Ciao».

Riattacco. La cassetta del pronto soccorso. Sto dimenticando la cosa più importante.

Raccatto anche quella dal bagno ed esco.

Percorro i due piani che mi separano da lei.

Suono il campanello. La porta si apre e......

«Ciao». Decisamente non me l'aspettavo.

  
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