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Autore: 12Dodici    19/06/2008    3 recensioni
Emanuele ha quasi 18 anni, ha molti amici, ha la scuola, ma ha anche gli occhi di chi si ferma a riflettere troppo a lungo, di chi legge troppi libri e di chi ascolta troppa musica. E non ama, perchè per lui nessuno è così intenso da valere il suo amore. Finchè non incontra Emma.
Emma, però è grande. Troppo grande. Emma va all'università, ha altri amici. Emma fa altre cose e guarda altrove. Non vede Emanuele, non può vedere Emanuele che, invece, ha gli occhi pieni di lei.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era stravaccato sul sedile della metropolitana, appoggiato con la spalla alla parete. Il capelli neri, portati un po’ lunghi sulle orecchie - perché andare dal parrucchiere voleva dire buttare via il tempo -  erano sparsi alla rinfusa sulla fronte e un po’ sulle guance. Quasi, anche loro, fossero stanchi dalla sera prima.

I suoi occhi erano chiusi e appesantiti, la maglia con le maniche tirate sopra le mani, perché quando aveva sonno aveva anche molto freddo. I jeans accasciati sulle gambe e su delle scarpe che non erano state allacciate.

La gente si accalcava, signore con troppo profumo per il primo mattino sbuffavano, uomini d’affari leggevano quotidiani di finanza e un marmocchio urlava, in fondo alla carrozza. Un paio di ragazzine bisbigliavano fra di loro, continuando a lanciargli occhiate. Ma lui non sentiva niente, neanche la musica eccessivamente alta nelle cuffie. Era davvero stanco.

Quel giorno riprendeva la scuola e lui ci avrebbe messo i suoi soliti nove mesi per abituarsi a svegliarsi così presto al mattino.

Liceo Classico Berchet, fermata della metropolitana Crocetta.

Emanuele aprì un occhio per vedere a che punto fosse arrivato. Mancava ancora qualche fermata.

Quell’anno era in seconda liceo. Sbuffò, cercando di svegliarsi. Ci sarebbero stati ancora stupidi che gli avrebbero chiesto come mai, a quasi diciassette anni, era ancora in seconda.

Imbecilli. Se davvero non sapevano che al classico gli anni si contano diversamente e che la seconda liceo era la quarta superiore erano davvero degli imbecilli.

Emanuele pensava che bene o male, quasi tutti fossero insopportabili imbecilli.

Porta Romana.

Ancora una fermata.

Che palle. Da non credere che le vacanze estive fossero passate così in fretta. Sembrava ieri che si era tutti in Sicilia a cazzeggiare, mangiare arancini, cazzeggiare e passare ai cannoli e cazzeggiare di nuovo. Sembrava ieri che quel pirla di Saverio ci provava con tutte le ragazze della spiaggia.

E invece eccoci qui, nuovamente a Settembre, nuovamente a Milano, nuovamente stanchi... Emanuele sbuffò e si alzò dal suo posto.

“Ehi, Lele!”

Voce nota, lievemente nasale: quel pirla di Save.

“Leleee”

Gli occhi verdi si Emanuele cercarono l’amico nella carrozza.

“Sono qui” era ad aspettarlo sulla banchina.

“Cazzo, Lele, che faccia c’hai? ‘zzo hai fatto ieri sera?”

“Solito. Una birra”

“Doveva essere roba forte! Non mi sembri al meglio per ricominciare”

Emanuele alzò il sopracciglio, con aria interrogativa. Non aveva davvero la forza di parlare

“Ci sarà Bianca. Ci saranno i capelli di Bianca, il culo di Bianca, le gambe di Bianca…” Saverio disse con aria sognante.

“A meno che non l’abbiano smembrata, ci sarà tutta Bianca”

“Il proposito di quest’anno è farmela”

Lele rise: “E’ il tuo proposito dalla quarta ginnasio, scemo”

“Ma quest’anno davvero, me la faccio”

“Non te la darà neanche quest’anno”

“Deve!” Saverio disse quasi fosse un’ovvietà “ Se non altro per la mia costanza”

Salite le scale, Emanuele si accese una sigaretta, scostò i capelli mori dalla fronte, perché rischiavano di bruciarsi con l’accendino, e aspirò profondamente, cercando in quel fumo un po’ di forza per quella mattina, grigia e catatonica.

Salite le scale, Emanuele non si accorse della ragazza che gli passò di fianco, di corsa. Non si accorse dei suoi capelli, delle sue gambe. Non si accorse di nulla.

Non si accorse nemmeno degli occhi di Emma, che guardavano altrove.

Si passarono così vicini da toccarsi, ma nessuno dei due si accorse di nulla.

Emanuele prese una lunga boccata.

“Caffè prima di cominciare” disse più come un dato di fatto che come una proposta.

“Eccola là. Chiamala e offrile un caffè” Saverio si sbracciò per catturare l’attenzione di Bianca “Biancaaaa” La ragazza non sentì “Biancaaaaa”

“Tanto neanche quest’anno la convinci” Saverio si girò verso chi aveva parlato, ma si zittì prima di cominciare. La voce apparteneva ad un ragazzo di dieci centimetri e trenta chili più grande di lui, coi capelli rasati e la giacca di pelle nera.

“Ciao Muto” apostrofò Lele che non aveva alzato lo sguardo per vedere il compagno di classe.

“Ah, ciao Muto” proseguì Saverio che di avere Muto così vicino non era mai felice.

“Ti ho già detto che non mi piace che mi chiami Muto”

“Ma anche lui ti ha appena chiamato muto”

“E tu non chiamarmi”

“Ma scusa, ti chiami Muto, come altro devo chiamarti?”

“Andrea”

Saverio si strinse nelle spalle: “Che nome banale. Muto è molto più chic”

Il ragazzone aggrottò le sopracciglia e diede una spinta amichevole all’amico.

“Stronzo”

Raggiunsero le ragazze.

Un figura esile, slanciata, dai lunghi capelli castani si buttò fra le braccia di Emanuele.

“Ciao Lele” miagolò “Sono così felice di rivederti”

“Caffè” riuscì a dire il ragazzo, cercando di scrollarsi di dosso quelle braccia troppo invadenti.

“Dovete scusarlo” intervenne Saverio “senza caffeina, sappiamo che il nostro Lele non funziona. Soprattutto la mattina presto”

Si fermarono al bar e Lele sbuffò, per l’ennesima volta, quella mattina. Tutti sembravano felici: Saverio che parlava con Bianca, il Muto che parlava di con Margherita, i ragazzi della B ammucchiati al bancone…

Ma per lui era più complicato, troppo più complicato. La scuola non gli piaceva. Non gli era mai piaciuta. Poche erano le materie che gli interessavano, e ancora meno i professori che gli piacevano. Si applicava, sì – perché non si può certo dire che non studiasse – aveva voti alti e, bene o male, i professori non potevano dirgli molto sulla sua resa scolastica. Eppure i colloqui erano sempre uguali: il ragazzo si applica, sì, ma potrebbe farlo di più. Lei, signora, non ha idea delle potenzialità che spreca! E poi, signora, c’è quel carattere! Quel carattere così cupo. E’ sempre circondato da un nugolo di persone, ma è come se lui non ci fosse mai. Alcuni intervalli li passa a leggere, altri ad ascoltare musica. Vede signora, non dico che il leggere faccia male. Ovviamente. Tutt’altro. Ma Emanuele usa la lettura per isolarsi. Ride poco, solo quando legge. O quando parla con quel Saverio lì che, in tutta onestà, è troppo occupato coi suoi ormoni per occuparsi di studiare.

Vede signora, all’apparenza va tutto bene. I voti sono alti, il ragazzo è bravo, ma noi del consiglio vorremmo che facesse altro, che desse di più. Se quegl’amici che ha non gli piacciono, se tutto quel malumore deriva dal fatto che Emanuele si sente troppo intelligente per loro, allora che venga al consiglio di istituto, che si lasci coinvolgere dalle attività extra scolastiche, che…

Che un paio di palle. Imbecilli, tutti quanti. E i prof di certo non facevano eccezione. Lasciarsi coinvolgere dal consiglio di Istituto. Davvero, Emanuele, raramente aveva sentito una stronzata peggiore di quella. Voleva farsi i cazzi suoi. I sacrosanti cazzi suoi. Che male c’era?

Poi nessuno lo divertiva molto. Saverio forse era l’unico. E le prof. Ignoravano le sue di grandi potenzialità.

Poi c’era il Milan, la domenica, il calcetto il sabato e le birre della sera.

Perché doveva essere più sociale di così? La sua musica, i suoi libri… Loro gli riempivano la mente con qualcosa. Il resto no.

Era stato in vacanza in Sicilia quell’estate. Si era divertito, anche tanto a dire il vero.

Allora che cazzo volevano i suoi prof?

C’era una differenza sottile fra quello che gli dicevano i professori e quella che era la realtà. Il tanto decantato domani, Emanuele, non riusciva a carpirlo. Si era sempre chiesto il perché tutti si affannassero ad avere “un futuro”, mentre non avevano neanche un presente. Una volta aveva provato a parlarne in classe, ma la sua professoressa di filosofia aveva liquidato l’argomento dicendogli che il suo modo di pensare era troppo adolescenziale. La irresponsabilità di non farsi carico di un domani era tipico dell’età.

Emanuele scrollò le spalle e ordinò un secondo caffè al bar.

“Dobbiamo andare!” gli disse Saverio

“Un caffè e ci sono” Lo inghiottì in un sorso.

 

Di fronte alla scuola c’erano tutti gli altri. Gli erano mancati? Emanuele si strinse nelle spalle: non che non li volesse rivedere, ma vederli domani invece che oggi non avrebbe cambiato nulla.

Ultimo banco, in fondo a sinistra verso la finestra. Era il suo posto nessuno osava prenderglielo.

Saverio di fianco a lui, Bianca e Margherita davanti, le gemelle Sospiri – che continuavano anche quest’anno a sospirare per lui – davanti a destra, il cele e la Cele al primo banco…

Tutto drammaticamente uguale.

Prof di Latino.

“Cazzo, latino per cominciare. Dev’essere un presagio. Quest’anno andrà male” bisbigliò Saverio

“Chiara Adiani”

Presente

“Celeste Arbati”

Presente

“Francesco Celese”

Presente

“Saverio Cuadri”

Saverio alzò la mano: “Sempre con la C, prof, e sempre presente” Trovava estremamente divertente che nel suo cognome ci fosse un errore di ortografia.

Dopo poco, il suo nome

“Emanuele Facoeri”

Sì, era davvero tutto ricominciato.

 

 

  
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