I – Il Mago
Parigi
Parigi, 14 Luglio 2011.
Verity sistemò le
scatole di cioccolatini in cima allo scaffale e guardò da un angolazione
diversa l’effetto ottenuto. Si punteggiò il mento con l’indice non del tutto
soddisfatta. – Non mi piace. – disse a Zoe, l’altra commessa della cioccolateria.
– Non mi convince come le ho messe.
– Prova a
scambiare la scatola con il fiocco rosso a destra con quella il fiocco oro.
Verity obbedì ed
entrambe le ragazze guardarono la combinazione scuotendo la testa. – Fanno schifo
come prima. – disse Verity togliendo le due scatole amareggiata – Hai altre
idee?
La porta di
ingresso scampanellò ed entrambe le ragazze di voltarono verso il cliente con
lo stesso, identico sorriso anche se quello di Verity era un po’ tirato per gli
eventi degli ultimi mesi. Essere sempre sorridenti era la politica del negozio
ma aveva una fitta al cuore ogni volta che vedeva una coppia di fidanzati o una
famiglia.
– Buongiorno. –
dissero in coro.
Alla vista del
giovane Zoe divenne rossa come un peperone, balbettò qualcosa che assomigliava
a: ‘controllo il magazzino’ e scomparve nel retro bottega lasciando Verity da
sola a servire il cliente.
– Come posso
aiutarla? – chiese lei alzando gli occhi al comportamento bizzarro di Zoe. Dopo
le avrebbe chiesto cosa fosse successo.
L’angolo delle
labbra del giovane si piegò in un mezzo sorriso come se stesse ridendo ad una
battuta che solo lui poteva capire. – Vorrei un assortimento di cioccolatini,
ma qualcosa di speciale. Una scatola con trentuno praline.
– Trentuno? –
ripeté Verity battendo le palpebre.
– Trentuno. Cos’è
non sai contare fino a trentuno?
Verity lo trapassò
con lo sguardo irrigidendosi all’istante. – Io so contare benissimo, – disse
mantenendo il più possibile la calma. – solo che trentuno praline non stanno in
una scatola.
Il giovane si
appoggiò con il gomito sopra il bancone di marmo verde e si sporse verso di
lei. – Beh, questo sarà un problema che dovrai risolvere. Perché io voglio
esattamente trentuno praline del vostro migliore cioccolato. Né una di più, né
una di meno.
Verity deglutì sotto
lo sguardo penetrante del ragazzo. Quegli occhi azzurri le fecero accelerare il
cuore ma non sapeva se era rabbia o qualcosa di più. Aveva l’impressione che
dietro quel viso ce ne fosse un altro che conosceva bene e se avesse allungato
la mano gli avrebbe tolto la maschera e lo avrebbe riconosciuto.
Si diede della
stupida per quel comportamento e si ricompose
raddrizzando le spalle. – Come volete.
– La tua amica. –
disse lui lentamente non schiodando gli occhi da lei. – Quella che è scomparsa
alla velocità della luce, dovrebbe conoscere la misura di scatola adatta. Vengo
qua tutti i mesi.
Verity annuì una
volta e andò nel retrobottega a recuperare Zoe. Iniziava a capire perché fosse fuggita
a gambe levate. In quattro frasi quel ragazzo l’aveva fatta arrabbiare e i suoi
modi saccenti le avevano fatto prudere le mani.
– Zoe! – chiamò
Verity passando davanti la pasticceria e andando verso il magazzino. – Che
scatola usi per il signore?
Zoe sobbalzò
sulla cassa su cui era seduta e scrisse sulla lavagna con i gessetti colorati ‘non
è bellissimo?’
– Una misura
standard, – le rispose guardando eloquente ciò che aveva appena scritto. – ma
metto trenta praline quadrate un tonda in centro. – spiegò.
Verity le rispose
sulla lavagna cercando di non sporcarsi la divisa di gesso. Io lo uccido era scritto rosso su nero,
minaccioso come le parole non dette di Verity
– Grazie. – disse
prima di abbassare i toni e le sussurrò: – E riprenditi, è solo un ragazzo.
Verity le diede
le spalle e tornò nel negozio, ma non le sfuggirono le ultime parole di Zoe: –
Non è solo un ragazzo. È Michael. – disse sognante.
Recuperò la
scatola standard sotto il bancone e aprì la vetrinetta delle praline di
cioccolato finissimo. – Preferenze? – chiese frettolosamente. Non era proprio il
massimo dell’educazione, ma aveva cominciato quel ragazzo con l’essere sgarbato.
Lui si mise le
mani in tasca, padrone della situazione. – Direi di no. La ragazza che li
riceverà mangia qualsiasi cosa contenga cioccolato, anche il cianuro se fosse ricoperto
di fondente.
E così ha la ragazza. Beh, Zoe mettitela via.
Un tipo del genere è meglio perderlo che
trovarlo.
– Inizio con
quelle al fondente?
Lui alzò le spalle
guardandola sempre con quel mezzo sorriso che la stava irritando. – Come
desideri. Ti lascio carta bianca.
Verity iniziò a
riempire la scatola il più velocemente possibile mettendo le praline quadrate
ai lati e una rotonda, al caramello, in centro. – Vanno bene così? – chiese
mostrando l’assortimento al ragazzo.
– Ottimo.
Sembrerà strano, ma sei riuscita ad azzeccare quasi tutti i suoi gusti
preferiti.
Un’altra scossa
di irritazione attraversò Verity dalla testa ai piedi. Non le piaceva come le
stava parlando. La trattava come se avesse cinque anni e non capisse nulla. Se
quel tipo non si fosse levato dai piedi avrebbe finito per picchiarlo. Gli
diete le spalle e iniziò a fare il pacchetto. Non aveva indicazioni da parte
della direzione per un assortimento così strano, ma una scatola marrone con nastri
verde e oro le sembravano una buona soluzione. – Potresti mettere un coperchio
bianco e del nastro oro? – chiese lui.
Verity lo fulminò
attraverso lo specchio. – Certamente. – disse acida.
Chiunque sia la sua ragazza deve avere la
pazienza di una santa.
Lo guardò per un
altro istante si accorse che lo sguardo del ragazzo le stava percorrendo
pigramente la schiena soffermandosi sulle sue gambe e sul… – Mi sta guardando
il fondoschiena? – domandò voltandosi di scatto.
Lui alzò le mani
e le sorrise senza traccia di vergogna. – Mi offri una visione del genere ne
dovevo approfittare, no?
Verity mise la
scatola sul bancone e si morse la lingua. Ancora pochi minuti e il ragazzo
sarebbe sparito e non l’avrebbe più visto.
Aveva visto
giusto nel fuggire, sopportarlo per più di un quarto d’ora doveva essere una
specie di primato. – Allora, – disse tenendosi stretto il suo ultimo barlume di
calma. – sono trentuno praline per un euro e cinquanta.
– Ne pago
trentadue.
Verity si bloccò
di colpo con la mano sulla cassa. – Nella scatola ne ho messe trentuno.
– Lo so, –
rispose lui tirando fuori il portafogli. – la trentaduesima è per te.
Non voleva nulla
da lui, ben che meno una pralina. – Io non mangio cioccolato.
Il ragazzo si
allungò sopra il bancone lasciando pochi centimetri tra di loro. – Il che
spiega perché sei così frigida e fredda.
Verity indietreggiò.
– Io non sono frigida!
– Dimostramelo. –
sussurrò lui inclinando la testa di lato – Esci con me.
– Forse nei tuoi
sogni.
Michael scoppiò a
ridere e lei ebbe l’impressione di aver già sentito quel suono da qualche
parte. Le mise una banconota da cinquanta euro sul bancone. – Tieni pure il
resto. E mangia quella pralina, mi raccomando. – Verity fece lo scontrino e gli
passò il pacchetto guardando da un’altra parte.
Il ragazzo prese
la busta che lei gli tendeva e se andò per poi fermarsi sulla porta del negozio
e voltarsi di nuovo. – Nessuno mi dice di no due volte. – disse. – La prossima volta
che te lo chiedo, uscirai con me.
Come
si chiuse la porta alle spalle, Zoe decise di riapparire in negozio. – È andato
via? – domandò facendo capolino. Verity
si voltò a guardare torva l’amica. L’aveva abbandonata nel momento del bisogno.
– Mi spieghi perché mi hai lasciata sola con quello là?
–
Non è andata così male. – mormorò Zoe giocherellando con un pezzo di nastro
abbandonato sul tavolo.
–
Come no. – rispose ironica recuperando uno straccio e uno spruzzatore. Iniziò a
pulire il bancone di marmo come se ne andasse della sua vita. – Non è andata
male. Se si avvicinava un altro po’ gli staccavo il naso.
–
Che stai facendo? – chiese Zoe. – Le pulizie le facciamo la sera.
–
Lo so, – disse spruzzando abbondante spray sul marmo – ma disinfetto il locale
dalla presenza di quello là.
–
Quello là si chiama Michael.
–
Preferisco quello là.
Zoe
sospirò e prese le scatole di cioccolatini che Verity aveva abbandonato
all’arrivo di Michael per sistemarle sull’espositore di legno scuro. – Michael
non è così malvagio, voglio dire, viene qui una volta al mese e compra sempre
qualcosa in più per noi. – spiegò scambiando le scatole verdi con quelle
bianche.
Verity
si fermò con lo straccio stretto in mano. – Stiamo parlando della stessa
persona? Perché a gli avrei cacciato una Torre Eiffel di cioccolato giù per la
gola.
Zoe
le sorrise e le prese lo spray e lo straccio dalle mani. – Non voglio
difenderlo, voglio dire, Michael è Michael aspettarsi qualcosa di serio da lui
è da folli…
–
Aspetta, aspetta, aspetta. – guardò prima lei poi la porta da cui lui era
uscito e un’idea si fece strada nella sua mente. – Ci sei uscita insieme?
La
faccia di Zoe diceva tutto, ma lei lo confermò lo stesso: – Usciti è una parola
grossa. Divertiti direi.
–
Ah. – si accorse di avere la bocca aperta e si ordinò di richiuderla. – Per
questo sei corsa in cucina?
Zoe
le picchiettò la fronte con l’indice – Sei un po’ tarda, eh? È successo prima
che tu venissi assunta qui. Anche l’altra ragazza che c’era prima di te…
–
Anche lei?
–
E quella prima. E anche la ragazza che ci dà una mano nei finesettimana.
–
Si è fatto tutte le commesse? – strappò lo straccio dalle mani di Zoe e riprese
a pulire con rinnovata energia. Avrebbe eliminato ogni traccia di quel tizio a
costo di consumare il marmo. – Io li odio gli uomini così. Pensano sempre che
le ragazze gli cadano ai piedi. Io. – e picchiò lo straccio sulla vetrinetta
che tintinnò. – Li odio. E comunque perché non l’hai servito tu?
–
Non ti sfogare sulla vetrina. E poi mi vergognavo, Michael non esce con la
stessa ragazza due volte. Una volta l’ho visto con una ragazza tre sere di
fila, ma credo che fosse un record.
Verity
incrociò le braccia al petto. – Non è che me lo rendi più simpatico se mi
racconti cose del genere. – aveva conosciuto un tipo del genere una volta. Lei
e le sue amiche lo prendevano sempre in giro anche se sapeva che era stato un
po’ con tutte. – Perché poi trentuno cioccolatini?
–
Ah, – Zoe si morse pensierosa un angolo del labbro. – Non ne prende sempre
trentuno, a volte trenta. A febbraio, ventotto. – cercando una via di fuga
all’interrogatorio, Zoe riprese a lavorare con più energia. – Abbiamo bisogno
di altre praline al cognac e cointreau, vado a prenderle!
Si
defilò prima che Verity potesse fare un’altra domanda, lasciandola a fissare i
cioccolatini confusa. Se lui saltava da un letto all’altro per chi era la
scatola che aveva fatto preparare così minuziosamente? Scosse la testa per
scacciare il pensiero, non gli interessava un accidenti di quel tipo odioso.
Aveva
chiesto quel lavoro per avere un modo per mangiare e lo stipendio non era male.
Inoltre il proprietario del negozio le aveva messo a disposizione il piccolo appartamento
che divideva con Zoe. Così mentre Verity faceva le sue ricerche poteva
mantenersi. Tutto il resto era di troppo.
Sorrise
e riprese a pulire, ad ogni passata il ricordo di quel ragazzo saccente se ne
andava.
Zoe
riapparve qualche minuto dopo con il vassoio in mano mentre Verity controllava
le sculture di cioccolato e contava le Torre Eiffel piccole. – I pasticceri
chiedono se abbiamo bisogno di qualcosa.
–
Ci servirà qualcuna di queste. – rispose indicando le sculture. Raddrizzò un
cesto che conteneva un assortimento di cioccolatini pregiati e bottiglie di
liquore. – A proposito di torri Eiffel, hai sentito dell’esposizione?
–
Quella del diamante?
Verity
annuì. – Mi piacerebbe vederla, ho letto sul giornale che è uno dei diamanti
più grandi del mondo, ma i biglietti costano caro. – avrebbe voluto vederla, ma
era chiaro che era un’esposizione destinata all’élite di Parigi, non per gente
come lei.
Zoe
rise. – Per questa volta passiamo vista l’ultima bolletta dell’acqua, ma che ne
pensi che ci prenotiamo la prossima? – Verity scoppiò a ridere insieme a Zoe. Erano
perennemente in bolletta e qualsiasi esposizione sarebbe stata impossibile a
tempo indeterminato. – Sai che ti dico? – proseguì Zoe – Stasera usciamo,
andiamo a Montmartre a divertirci.
–
Ma… – Verity non seppe cosa dire per la proposta improvvisa. Aveva già fatto i
suoi piani per quella sera.
–
E adesso in pausa signorina! Sei sopravvissuta a Michael.
–
Ma… – Verity provò di nuovo a protestare sul piano di Zoe, ma l’amica la zittì
con un cenno della mano. – E non dimenticarti di mangiarti la pralina pagata da
Michael. – venne spinta fino all’espositore di cioccolatini alla frutta. –
Avanti! So che non mangi cioccolato, ma quello con la salsa alle fragole devi
assaggiarlo.
Ritrovò
la parola. – A me non piace il cioccolato.
–
A tutti piace il cioccolato. Tu sei solo di gusti difficili. – le ficcò il
dolcetto in bocca.
Verity
tossì rischiando di farselo andare di traverso e la guardò con gli occhi lucidi
– Sei matta? – bofonchiò.
–
E stasera niente regina della castità! – proseguì Zoe ammonendola con un dito.
– Si esce!
Una
volta che partiva per i suoi sproloqui, Zoe non si fermava più ma Verity aveva
altri piani e doveva trovare un modo per dirle di no. – Non ho nulla da
mettermi. – protestò lei cercando di tirarsi indietro. – E vorrei studiare un
po’.
–
Chi vota per far uscire Verity? – urlò Zoe alzando la mano nel locale vuoto.
Dalla cucina si sentì un coro di ‘noi’ e la ragazza arrossì fissando le
piastrelle. Sibilò ‘traditori’ a denti stretti rivolta ai pasticceri. Li
trovava simpatici, anche se a volte erano un po’ troppo esuberanti.
–
‘Membri che hanno una vita sociale’ battono i membri del: ‘noiosa serata a casa
con pigiama’. Andiamo! – esclamò lei volteggiando su se stessa. Verity non
sarebbe riuscita più a farle cambiare idea. – È il 14 luglio! È festa!
Ubriachiamoci fino a non stare più in piedi.
–
Ma…
–
Niente ma! Ti presto qualcosa io, usciamo, ci divertiamo, fine. Da quando sei
arrivata sei sempre stata a casa.
–
Sono andata a fare un giro turistico per Parigi.
–
Quello lo chiami uscire? – chiese lei come se non credesse alle proprie
orecchie. – Quello è ammazzarsi di cultura e noia.
Verity
alzò le mani arrendendosi. – Va bene! Va bene, la riconosco una battaglia
persa. Esco. – la guardò male e Zoe le fece un sorriso che non prometteva nulla
di buono.
–
E niente broncio.
–
Niente broncio. – sospirò sotto lo
sguardo dell’amica e alzò gli occhi – Promesso. – Zoe riusciva a esasperarla
fino a ottenere ciò che voleva.
****
Michael
si sedette nella seconda fila del piccolo teatro della società filarmonica e
osservò gli invitati al concerto salutarsi cordialmente e scambiarsi sorrisi
mentre i loro figli si preparavano dietro alle quinte.
Trasformò
una smorfia disgustata in un sorriso distaccato quando vide la donna castana
avvolta in lungo abito blu fissarlo. Ovviamente doveva esserci anche lei, non si sarebbe mai persa lo
spettacolo e ne avrebbe approfittato per cercare nuove, altolocate amicizie. La
salutò con un cenno della testa, ma lei si voltò dall’altra parte iniziando a
parlare con la coppia accanto.
Non
ne era turbato, sapeva che prima di andarsene sarebbe venuta a parlargli. O per
lo meno a minacciarlo.
Controllò
che il mazzo di fiori e la scatola di cioccolatini non si fossero rovinati e si
strinse meglio la cravatta scura mentre le persone prendevano posto intorno a
lui e le luci si abbassavano.
Chiuse
gli occhi e si rilassò sulla poltroncina ascoltando gli studenti della
filarmonica che uno ad uno si esibivano nei loro saggi. Batteva il tempo con le
dita e gli sfuggivano dei sorrisi quando quelli più giovani sbagliavano. Sapeva
che l’emozione giocava brutti scherzi, a suo tempo era successo anche a lui e
ancora rideva al ricordo.
Batté
le mani un paio di volte ad ogni esibizione guardandosi attorno con noia e
studiando possibili vie di fuga. Quell’abitudine era così radicata in lui che
lo faceva senza pensarci.
–
E ora, per l’ottavo anno su questo palco, – disse la voce della presidentessa
della società filarmonica. – Aimée Hermé al pianoforte e Angéline Dubois al
violino in Amazing Grace. –
l’attenzione di Michael si riaccese e studiò le due ragazze che salivano sul
palco.
Angéline
strinse l’archetto del violino prendendo posto vicino allo spartito e percorse con
lo sguardo la sala finché non individuò Michael e sorrise. Lui le fece un cenno
con la testa incoraggiandola a esibirsi al meglio. Sarebbe sempre andato ai
concerti della sua Angiéline, quella figura esile che affrontava il palco e le
centinaia di occhi puntati addosso con solo il suo violino.
Si
sporse in avanti preso dalla musica e dalla coordinazione delle due ragazze. In
quel momento sparì ogni suo problema e dubbio, esisteva solo Angéline e il cuore
di Michael batteva seguendo le note del violino. Aveva la pelle d’oca per la
bravura che aveva raggiunto la ragazza.
Quando
terminarono saltò in piedi applaudendo più forte che mai. Ignorava le persone
che lo fissavano e sussurravano ‘maleducato’, lei era stava la migliore di
tutti e doveva farglielo sapere.
Al
termine del concerto Michael si fece largo nella sala fino a raggiungere
Angéline che beveva in un angolo un bicchiere d’acqua. – Hai steccato. –
sussurrò prendendola alle spalle e facendola sobbalzare.
–
Michael! – esclamò lei sorpresa. – Mi hai fatto paura. – gli diede un veloce
bacio sulla guancia e poi lo guardò mettendo il broncio. – Non ho steccato.
–
Oh sì, invece. – rispose lui sorridendo – Hai steccato due volte. E questi non
te li meriti. – le mise sotto il naso mazzo di giacinti azzurri e la scatola di
cioccolati. – Penso che li darò a qualcun altro.
–
Non ho steccato. Ho studiato lo spartito con attenzione. – non sembrava più
convinta come prima e Michael decise di porre fine allo scherzo. Le scostò una
ciocca di capelli castani dalla spalla e le baciò la tempia. – Lo so che non
hai steccato, stupidina. Sei stata perfetta, la migliore della serata. – le
offrì i fiori.
–
Per cosa sono? – domandò lei prima di perdersi nel loro profumo.
–
Ci deve essere un motivo per regalare un mazzo di fiori a mia sorella? – non le
avrebbe mai dato una risposta, non c’era alcun motivo per cui glieli regalava
voleva solo vedere il sorriso della sua sorellina. Prese un bicchiere di
champagne e lo fece tintinnare contro il suo.
–
Non me li aspettavo. Tutto qui.
–
Sei pronta ad andare via? Abbiamo tutta la giornata da passare insieme. Puoi
fare quello che vuoi, chiedermi quello che vuoi.
Angéline
guardò verso le porte d’uscita e poi lui – Ecco, prima…
–
Cosa?
Lei
fece cenno di avvicinarsi con le guance rosa. – Devo andare in bagno. –
sussurrò complice. – Sai, l’ansia da palcoscenico.
Michael
si sforzò di non scoppiare a ridere, Angie non glielo avrebbe perdonato. – Ti
aspetto qui. – disse togliendole il bicchiere e i fiori dalle mani per
appoggiarli sul tavolo.
Angéline
si diresse verso i bagni e il sorriso di Michael si spense quando avvertì una
presenza familiare alle spalle. – Mi stavo giusto chiedendo quando ti saresti
fatta viva.
–
Ti vedo in forma, Michael. – la donna che prima lo aveva guardato male si fece
avanti toccandogli il polsino della giacca grigia – Armani?
Michael
annuì e la donna si morse un labbro inferiore valutando il taglio dell’abito. –
Sei il degno figlio di tuo padre. – commentò infine.
Michael
le sorrise gelido. – Lo prenderò come un complimento, anche se scommetto che
non lo era. – si tolse la soddisfazione di vederla cambiare colore assumendo
quella sfumatura acida che lui ricordava fin da bambino.
–
Voglio solo ricordarti le regole. Se vuoi vedere Angéline, devi rispettarle.
Michael
si appoggiò con la schiena contro la parete, insofferente. – Ti offrirei da
bere, ma scommetto che i tuoi amici te ne offriranno a fiumi quando andrete a festeggiare.
Lei
irrigidì le spalle e lo fulminò con gli occhi azzurri. – Non cambiare discorso.
Sai le regole. Ripetile. – ordinò secca.
–
Non dirle che lavoro faccio, chi era nostro padre e soprattutto non dirle cosa sono. – lei annuì, facendogli cenno
di proseguire. – Non dirle dove abito, evitare le domande che mi riguardano
direttamente. Contenta? O ho dimenticato qualcosa?
–
Sai che è per il bene di Angéline. La faresti soffrire, come tuo padre ha fatto
con me.
–
La miglior scusa di sempre per distruggere un matrimonio. – la mano che teneva
in tasca si chiuse a pugno. – O per abbandonare il tuo primogenito.
–
Angéline merita solo il meglio. Ricordatelo bene, Michael. Se lei non avesse
insistito tanto, alla morte di tuo padre tu non l’avresti più vista.
Michael
sostenne il suo sguardo per alcuni secondi costringendola ad abbassare gli
occhi. – È l’unico motivo per cui ho accettato.
La
donna gli fece un piccolo sorriso per aver vinto quello scontro, ma Michael si
era trattenuto dal dirle cosa pensava. – Bene. – guardò il tavolo e i fiori
appoggiati sopra. Si sistemò meglio la stola color blu pavone. – Giacinti. Che
fiori pacchiani. Angéline merita le migliori rose...
–
Lei detesta le rose. – rispose Michael con irritazione. Quella donna non sapeva
nulla di Angie. Nulla. – Si è punta da bambina con una spina. E i giacinti sono
i suoi fiori preferiti.
–
Ciò non toglie che siano dei fiori insulsi. – Michael alzò lo sguardo e si
raddrizzò quando vide Angéline tornare verso di loro.
–
Meglio che vada. – proseguì lei seguendo lo sguardo di Michael. – La rivoglio a
casa per le dieci. Non un minuto dopo o sai cosa accadrà. – lasciò la minaccia
in sospeso, ma non c’era bisogno di dirlo ad alta voce. Lui poteva vedere
Angéline una volta al mese a patto che mantenesse gli accorsi presi.
–
D’accordo. E madre? – si girò tra le dita una ciocca di capelli castani di sua
madre. – L’unico motivo per cui sopporto tutto questo è Angéline. Toglimela e
non risponderò di me, sai cosa posso fare. – tirò un po’ più forte facendole
assaggiare un po’ di quel dolore lei gli infieriva fin da bambino. – L’inferno
è niente in confronto a me.
Sua
madre si dileguò tra la folla e Michael sorrise a sua sorella minore. – Sei
pronta ora? – chiese offrendole il braccio e prendendo i fiori e i cioccolatini
in mano.
–
Sì. Di cosa parlavate tu e la mamma? – si voltò a cercarla tra la folla e
Michael la seguì a ruota individuando prima di lei la donna. Angéline la salutò
con una mano e lei gli rispose con un sorriso.
–
Nulla, sorellina. Le solite chiacchiere: come sto, se gli studi vanno bene,
come va il lavoro. Le classiche cose da mamma.
–
E sempre tanto gentile, vero? Due settimane fa mi ha portato da Chanel per
comprarmi una borsa nuova e abbiamo visto un povero uomo che chiedeva la carità
per strada e mi ha promesso che avrebbe comprato degli abiti per più bisognosi.
Michael
alzò gli occhi. L’innocenza di Angéline lo lasciava sempre stupito. Sua sorella
aveva sempre vissuto sotto una campana di vetro grazie a lui e a sua madre e
non aveva mai conosciuto la crudeltà delle persone. Michael aveva sempre fatto
di tutto per proteggerla, anche accettare le minacce della madre se significava
avere quella luce radiosa che era Angie vicino.
–
Una vera santa. – disse accompagnandola fino alla macchina. – Mi chiedo perché
non le abbiano fatto una statua. – le aprì lo sportello e poi le passò i regali.
– Dove vuole andare, signorina? – chiese appoggiandosi allo sportello con un
braccio.
Nulla
l’avrebbe mai ferita, nulla avrebbe turbato il sorriso che lei gli stava
regalando. – Smettila! Fai sempre così.
–
Così come?
–
Mi prendi sempre in giro. Non è carino, mi metti in imbarazzo.
Michael
si tolse la giacca e la cravatta e arrotolò la camicia fino ai gomiti – Stai
bene così, Angie? Hai bisogno qualcosa?
Lo
sguardo di Angéline corse alla scatola che aveva tra le mani. – Posso aprirla?
–
È tua, puoi farci quello che vuoi.
Angéline
aggredì la scatola di cioccolatini e la spacchettò alla velocità della luce
lasciando Michael a bocca aperta. – Non mangi molto cioccolato, vero? – ogni
mese lui le regalava una scatola con il numero di praline che rappresentavano i
giorni che li avrebbero separati. Una pralina per ogni giorno del mese fino al
successivo.
–
In collegio non ce lo lasciano tenere e mamma dice che non mi fa bene. –
Michael sghignazzò e fece il giro della macchina salendo dal lato guida.
–
Michael? – lui si voltò a guardarla e sua sorella le mise una pralina tra le
labbra. – Questa è tua. – lui masticò lentamente assaporando il gusto del
fondente e delle arancia candita.
–
Il motivo per cui condividi con me il tuo prezioso cioccolato?
Angéline
alzò le spalle e tornò a guardare la scatola. – Perché sei mio fratello, ma non
farci l’abitudine. Sono le mie praline. Mie.
– disse accarezzando i lati della scatola bianca come l’anima di sua sorella.
–
Posso separarti da quella scatola il tempo di una passeggiata? Al Luco?
–
Non può venire con noi? – chiese lei rimettendo il coperchio.
Lui
sorrise e girò la chiave. – Inizio a capire perché mamma dice che ti fa male.
Hai una grave forma di dipendenza. Quasi dimenticavo, – si allungò sul sedile
posteriore e prese un cappello azzurro che mise sulla testa di sua sorella
sistemandole poi i capelli sulle spalle. – Oggi il sole è un po’ forte, meglio
se ti metti questo.
–
Azzurro? Come facevi a sapere che avrei messo il vestito azzurro?
–
Sei mia sorella. – rispose e ingranò la retromarcia, uscendo dal parcheggio.
Ai
Giardini del Lussemburgo, Michael teneva sottobraccio la scatola di
cioccolatini mentre lei lo tirava da una parte all’altra per vedere le statue e
le fontane chiedendogli di spiegarle cosa rappresentavano.
–
Perché c’è una statua della libertà qui? – lei conosceva la risposta, la loro
madre non avrebbe ammesso l’ignoranza ma Angie gli faceva quella domanda tutte
le volte che andavano al Luco.
–
È una riproduzione di quella che sta a New York, c’è ne un’altra sulla Senna. –
rispose meccanicamente.
–
Sai tante cose di Parigi. – rispose Angéline battendo le mani estasiata –
Vediamo, – disse cercando qualcos’altro da chiedergli – sei mai andato a New
York?
Michael
le sorrise e le indicò una statua spiegandole chi fosse l’autore. Voleva
cambiare discorso sperando che la capacità di distrazione di sua sorella
facesse il resto.
–
Allora? – insistette lei – Sei mai andato a New York? Mamma mi ci vuole portare
per Natale.
Michael
fissò assorto il terreno prendendo a calci un paio di sassolini. Lui questo non
lo sapeva e stava già progettando qualcosa per Natale, se gliela portava via
cosa avrebbe fatto? Michael non ci voleva pensare. Se Angie fosse andata a New
York lui sarebbe capitato là per caso. – Ci sono stato, – iniziò vago. – una
volta, per lavoro.
Angéline
lo prese sottobraccio e lo tirò verso una panchina costringendolo a sedersi. –
Non mi hai mai detto che lavoro fai.
–
Gioielli. – la risposta che dava a tutti quelli che glielo chiedevano. – Lavoro
con i gioielli e mi capita di viaggiare.
–
Non hai problemi con l’università?
Michael
scosse la testa. Lei oggi aveva voglia di fargli domande a cui lui non voleva
rispondere, ma non poteva negargliele anche se erano vuote. – Non ho obbligo di
frequenza, il che mi permette di essere abbastanza elastico sul lavoro.
–
Michael? – lui alzò la testa sentendo il cambiamento nel tono nella voce di sua
sorella. Adesso iniziava a capire perché lei continuava a fare domande, stava
cercando di raccogliere il coraggio per chiedergli qualcosa a cui lui avrebbe
risposto di no. – Posso venire a vivere con te?
Le
accarezzò la guancia. Dirle di no gli avrebbe spezzato il cuore. Avrebbe dato
tutto ciò che possedeva per tornare a essere una famiglia, ma la sua presenza
metteva in pericolo Angie. – Perché me lo chiedi? – indagò.
–
Mamma vuole presentarmi dei ragazzi. – Michael ritrasse la mano come se il contatto con Angéline l’avesse scottato e
strinse i pugni.
–
Perché? – doveva fare un discorso a sua madre. Se pensava di vendere Angéline
al miglior offerente si sbagliava di grosso.
–
Vuole che pensi al mio matrimonio, dice che finita l’università potrei sposarmi
e farmi una famiglia.
Michael
la tirò a sé stringendola in un abbraccio. – E non vuoi sposarti?
–
Voglio scegliere io chi sposare. Finora non ho discusso cosa voleva mamma, ma
non credo che mi possano piacere i ragazzi che lei mi vuole presentare. – era
preoccupata, sola e spaventata, non ci sarebbe voluto un genio per capirlo. – O
se non gli piacessi io?
–
Sarebbero degli stupidi. – sussurrò Michael. – Sarebbero veramente degli
stupidi a rifiutarti, ma se non li vuoi vedere, dillo a mamma. È ancora presto.
–
Non voglio deluderla. Lei è sempre tanto gentile con me, ma mi chiedevo, – si
torse le dita come faceva sempre quando era nervosa. – se potessi prendere un
po’ di tempo e vivere con te, un mesetto magari, solo per cambiare aria.
–
Angie, – cominciò Michael cercando le parole adatte. Mentirle era sempre più
difficile e le mezze verità lo stavano soffocando, ma doveva pensare alla sua
sicurezza. – il mio appartamento è piccolo. Molto piccolo. E non è adatto.
Parlerò io con mamma, te lo prometto. La convincerò a non farti vedere quei
tipi.
Si
strinse al suo petto e tremò contro di lui soffocando un singhiozzo. – Non
capisco perché non mi vuoi vedere più di una volta al mese.
Michael
spalancò gli occhi e sentì la bocca secca. – Cosa ti ha detto mamma?
–
Che sei sempre impegnato e vedermi più di una volta al mese ti è difficile o
che non hai voglia anche se sei libero. – Michael la baciò sulla nuca lasciando
piangere sua sorella e non trovando le parole per consolarla. Se le avesse
detto la verità non l’avrebbe più vista. – Scusa. – mormorò. – Sono un pessimo
fratello.
–
Vorrei solo vederti di più. Tu sei l’unico che mi ascolta veramente.
–
Angie, mi dispiace. So che non sono presente e non voglio che tu faccia nulla
che non ti vada. Sistemerò le cose con mamma, lo giuro. – lei alzò gli occhi su
di lui, rossi di pianto. – Non li vedrai se non vuoi. – ripeté lui asciugandole
una lacrime e se quei tipi avessero insistito lui li avrebbe fatti fuggire a
gambe levate. – Basta piangere. Andiamo a vedere le papere?
–
Mi fanno paura. – singhiozzò lei con un sorriso.
–
Le papere non fanno paura, – disse Michael – sono molto buone al forno con le
patate o come paté.
–
Michael!
Lui
aprì la scatola e batté le palpebre trovando le praline ridotte alla metà. –
Angie? – chiamò continuando a gli spazi vuoti. – Come hai fatto a dimezzare la
scatola in pochi minuti?
Lei
gli mostrò le mani e si allungò per afferrare un cioccolatino. – Sono veloce.
La afferrò per la vita e la tirò indietro. –
Ah, non ci pensare neanche! Prima mi prometti una cosa.
–
Cosa? – chiese Angéline cercando di aggirarlo.
–
Che non farai cose che non vuoi solo per far contenta mamma.
–
Prometto. – rispose lei senza pensarci cercando di passare sotto le sue braccia.
– Ora posso avere la scatola? – Michael scosse la testa e gliela mise sotto il
naso. Se sua sorella voleva il cioccolato nulla le avrebbe fatto cambiare idea.
– Non rovinarti l’appetito.
–
Perché? – chiese lei con la pralina in mano.
–
Mangiamo fuori. Ti porto in posto carino.
–
Montmartre? – ingoiò il boccone quasi senza masticarlo. – Dimmi che mi porti a
Montmartre, ti prego. Voglio vedere gli artisti di strada. – Michael le lisciò
i capelli sostenendo lo sguardo pieno di aspettative della sorella con un
piccolo sorriso. Passava quasi tutto il suo tempo in collegio e vedeva così
poco di Parigi, ma non poteva portarla lì, nemmeno se lei lo pregava.
–
Non mi piace molto Montmartre. Gira gente strana e non ha una buona
reputazione. – spiegò dolcemente. – Possiamo andare a Place Stravinskij, anche
là ci sono gli artisti di strada. Facciamo una passeggiata fin là. – propose.
Angéline
si guardò intorno, il lungo il viale diventava pian piano sempre più affollato
di famiglie e coppie ora che le ore più calde della giornata erano passate. –
Quanto tempo ci mettiamo?
–
Non è molto lontano. Dall’altra parte del fiume. Se tagliamo per l’Ile-de-la-cité
ci mettiamo poco. Angéline gli sfoderò un sorriso a trentadue denti che gli
illuminò lo sguardo. – Il fiume? – chiese facendosi più vicina al viso di
Michael.
Sospirò
arrendendosi in partenza alla proposta che lei gli avrebbe fatto. – Angie, hai
quello sguardo.
–
Quale? – chiese lei innocente.
–
Quello che hai quando stai progettando qualcosa per farmi fare una pessima
figura.
–
Ci sono le librerie all’aperto lungo la Senna. E troveremo sicuramente qualcuno
che vende disegni e caricature, magari anche una giostra.
–
Angie, – scosse la testa. – mi rifiuto di farmi fare una caricatura.
Lei
si dondolò sui talloni – Veramente, pensavo alla giostra.
–
E sono troppo grande per la giostra. – che ci fosse salito il Natale scorso non
aveva importanza, non ci avrebbe più messo piede.
Angéline
lo afferrò per il polso e lui si lasciò trascinare in piedi. – Nessuno è troppo
grande per la giostra. È questo il bello! – si guardò intorno cercando le
indicazioni per uscire dal parco. – Da che parte devo andare?
Fingere
che fossero di nuovo bambini, però, gli dava un senso di pace e non se lo
voleva perdere. – Se non ricordo male ce n’è una alle Tuileries… – disse pensando
che la giostra non fosse la cosa peggiore al mondo. Angie gli aveva fatto fare di
peggio.
Angéline
si avviò a grandi passi strascinandosi dietro il fratello maggiore che scoppiò
a ridere. – Angie, è nell’altra direzione. E le Tuileries non sono di strada.
–
Potremmo fare una passeggiata un po’ più lunga. Sai, mamma non mi lascia molto
uscire da sola e passo quasi tutto l’anno in collegio. Voglio fare queste cose
con mio fratello. – gesticolava animata da quel fuoco interiore che Michael
conosceva da sempre. Angie non stava mai ferma, nemmeno quando dormiva. – Da
bambini le facevamo sempre. Ti ricordi? Papà ci portava sempre sul lungosenna e
tu non facevi altro che lamentarti mettendoti in un angolino.
Michael
deglutì, sua sorella si stava addentrando in un discorso pericoloso tirando
fuori loro padre. – Era noioso. – commentò brusco.
–
Ci portava sempre a vedere le mostre più belle. Ti ricordi come fissava i
tesori della corona di Carlo Magno? Sembrava quasi che se li volesse mettere in
tasca.
–
Sì… – di quello non voleva proprio parlarne. La corona di Carlo Magno era un
argomento da evitare.
Angéline
si batté l’indice sulla guancia. – Se
non ricordo male sono stati rubati un paio di anni fa. La notizia era su tutti
i giornali.
Michael
decise che fu ora di portare sua sorella su una conversazione più sicura. –
Dove vorresti cenare oggi, Angie? – chiese prendendo il telefono e andando
sulle mappe per cercare un ristorante sulla strada. – Così preparo un
itinerario.
–
Non lo so, non ci ho ancora pensato. Qualcosa di semplice.
–
Semplice e buono o semplice e sciapo? – disse scorrendo la lista.
–
Semplice. Facile e veloce da mangiare.
Michael
studiò un po’ il suo telefono riducendo le scelte. – Sei mai andata a mangiare
da McDonald’s?
–
No. È buono?
Michael
rise. Non avrebbe usato la parola buono. – Diciamo che è semplice e veloce da
mangiare.
Angéline
corse in avanti per poi voltarsi in mezzo al viale a guardarlo. – Allora
andiamo, – lo chiamò – voglio assaggiarlo.
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NdA.: le vecchie abitudini di capitoli lunghissimi quanto mi erano mancate? comunque eccoci qua, con il primo capitolo e come al solito devo ringraziare Bianca per i suoi consigli e la sua caccia agli avverbi che finiscono in -mente...che sono rimasti lì.. Ne ho tolti solo un paio. Ovviamente ringrazio anche le splendide recensioni che mi sono state fatte, soprattutto quella di Nimue. Mi fa piacere che ti abbia attratta, spero che ti attragga anche questo capitolo.
Ma parliamo di come è cominciata. Il titolo della storia è La regina di Spade, che effettivamente era il titolo originale che gli avevo dato e poi l'ho cambiato. Ora sono tornata a quel titolo. Mi piacerebbe dirvi come è nata la storia, ma sarebbe uno spoler che non mi perdonerei mai, quindi ve la racconterò più avanti. Posso dirvi però, che Michael è il mio primo personaggio maschile ed è anche quello che mi fa dannare di più. Difficle lavorare con un personaggio che ritiene che il mondo gli giri intorno solo perché è lui. Spero comunque di averlo reso bene e di aver vi susscitato qualche curiosità.
a presto!