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Autore: Sylphs    20/02/2014    7 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 14
 
 
 
 
 
 
Jesper infilò esitante la chiave nel grosso lucchetto, la girò e fece scattare la serratura. Il lucchetto si aprì con uno schiocco secco. S’era asserragliato nella sua camera da letto, assicurandosi che nessuno lo disturbasse o capitasse incidentalmente da quelle parti, specialmente Christine – ma la donna era impegnata a gestire quelle lagne ambulanti della signora Ullmann e della sua figlia minore – tuttavia, sebbene il silenzio regnasse pressante e avesse addirittura inchiodato le tende di broccato alle finestre affinché da quel momento in poi le sue azioni rimanessero segrete, non riusciva a liberarsi dal terrore immotivato di essere spiato. Gli sembrava di avere una spada di Damocle sospesa sopra al capo, e che il filo che la reggeva diventasse di giorno in giorno più sottile. Che lo sguardo malevolo di Christine lo seguisse ovunque, luccicando di soddisfazione.
L’alleanza con quella puttana si era rivelata un’arma a doppio taglio…
Ma non poteva attendere oltre, doveva scoprire se esisteva un altro modo, se perdere Harriet lo avrebbe davvero precipitato nel più nero sconforto, e il libro, antichissimo e polveroso, con la copertina di pelle nera ormai lisa e crepata lungo i bordi e le borchie logore, cantava come una sirena. Non aveva idea di come fosse capitato nelle mani dei Lawrence ormai secoli prima, ma facendo delle ricerche era venuto a scoprire che colui che lo aveva trovato, Lacke Lawrence, nell’anno 1754, aveva ribaltato le condizioni economiche della famiglia, allora impoverita e sull’orlo del lastrico, innalzandola a ricchezze spropositate. Quel tomo era una benedizione e una maledizione al tempo stesso. Tutto aveva un prezzo, Jesper non era così stupido da non capirlo, e suo padre lo aveva pagato nel modo più duro. Lo stesso Lacke Lawrence si diceva fosse impazzito e si fosse suicidato tagliandosi le vene nel letto che condivideva con la moglie in preda ad un attacco isterico. Ma era disposto ad accettare le conseguenze delle sue azioni.
Era disposto a tutto.
Chiuse un attimo gli occhi azzurri – non indossava altro che un paio di pantaloni sformati, era a petto nudo, con i muscoli scolpiti lucidi di sudore, e i capelli biondi aderivano al palpitante volto terreo – poi li spalancò e aprì il pesante volume, fissando immediatamente lo sguardo spiritato sulla prima pagina.
A grandi lettere dorate campeggiava una scritta affilata, De pacti.
Il suo cuore incominciò a battere ad una velocità spaventosa, e la vista gli si fece più acuta per l’emozione fortissima. Non riusciva a controllare il tremito alle mani, né il respiro alterato e irregolare. Quello, quello era il vaso di Pandora dei Lawrence, e in quanto membro della famiglia, non era immune al fascino irresistibile che esercitava su di lui. Iniziò a leggere, avidamente, ma senza la minima pazienza, saltando la maggior parte delle parole nella foga di trovare il segreto; fortunatamente era sempre stato uno studente zelante ed aveva un’ottima conoscenza del latino, traduceva all’impronta, afferrando subito il senso di ciascuna frase.
Mentre voltava le pagine freneticamente, ma nel contempo attento a non danneggiare la carta ingiallita e sottile, l’immagine dello scheletro che giaceva nella terra fredda e inospitale vista poche ore prima, con le orbite vuote e pochi stracci muffi a coprire le costole e l’intrico di ossa sporche, gli si stagliava nitida nella mente. Lo stava facendo per lei, solo per lei…e utilizzare un potere occulto per amore non era un delitto, giusto? No, no, no…
 
Non era riuscito ad accettare con lo stoicismo e la freddezza che avevano sempre caratterizzato suo padre l’abbandono di Ursula, a farsene una ragione, a dirsi che aveva solo sedici anni, che era ancora giovane, che avrebbe trovato qualcun altro e la luce avrebbe illuminato nuovamente il vuoto e la desolazione della sua vita.
Non aveva voluto farsene una ragione. Si era rifiutato cocciutamente, non tanto per il dolore che gli scivolava nelle vene, sulla pelle, come cera incandescente – c’era, era ovvio, ma il dolore di un amore adolescenziale si può superare – quanto per la rabbia e l’odio che lo consumavano a fuoco lento mentre, rigirandosi tra le lenzuola puzzolenti di sudore, barricato nella sua camera con le finestre tappate, rivedeva nella mente il modo sprezzante con cui Ursula gli aveva voltato le spalle e i cadaveri di suo padre e suo fratello che giacevano, mutilati, in mezzo al sangue e alle cervella. Due avvenimenti manifestatisi in rapida successione che gli si erano abbattuti contro senza preavviso e senza che se lo aspettasse, stravolgendo il suo animo di ragazzo viziato, immune ai dispiaceri, un ragazzo che aveva avuto finora tutto quello che desiderava e che si era ritrovato, nel giro di una settimana, privo di ogni cosa, senza capire assolutamente perché.
Hugo e Viktor erano stati brutalmente assassinati e l’unica persona che avrebbe potuto aiutarlo ad elaborare il lutto, l’unica che avrebbe potuto dissipare l’oscurità dalla sua esistenza e dargli la forza di andare avanti, anziché confortarlo e stargli vicino aveva preferito tradirlo, scappare, e peraltro nella maniera più spietata e crudele possibile.
“Non resterò legata ad un mostro, al fratello di un assassino, solo in nome di ciò che è stato!”
Credeva che il mostro fosse lui. Non Raphael, no, lui, che l’aveva aiutata e amata, che l’aveva scelta anche se era la figlia di una cameriera, lui era il mostro, naturalmente! Sua madre, non meno distrutta di lui dalla perdita recente, aveva provato a consolarlo, a spiegargli che Ursula era ancora profondamente immatura e che chiunque, alla sua età, di fronte ad un omicidio così efferato sarebbe scappato, ma Jesper quelle parole se l’era fatte entrare da un orecchio e uscire dall’altro perché era sicuro che al posto dell’ex fidanzata non si sarebbe comportato in un modo così vigliacco e meschino, no, lui sarebbe rimasto, l’avrebbe stretta forte, e sostenuta in quel periodo difficile!
Ma probabilmente ad Ursula non fregava nulla del suo lutto e del suo dolore, né che suo padre e suo fratello erano stati fatti a pezzi, se la sbatteva alla grande di lui, mentre Jesper combatteva contro i demoni e la paura rotolandosi tra le coperte lei preparava le valigie per trasferirsi, felice e contenta, farsi una nuova vita e, magari, anche un nuovo fidanzato.
La sola prospettiva riempiva di sangue il cervello del ragazzo.
Te lo puoi scordare, troia, te lo puoi scordare di sfuggire alla maledizione e ridere di me, di farti scopare da un altro mentre io sto qui ad ascoltare il medico che mi descrive come non è riuscito a ricomporre la testa di mio padre per quanto era danneggiata!!
Spedendo un domestico di fiducia ad indagare al paese era venuto a scoprire che Ursula avrebbe preso l’aereo per Stoccolma, dove l’aspettava una zia disposta ad ospitarla, il tredici febbraio, e il fatidico giorno della partenza, il giorno in cui lei sarebbe scomparsa per sempre dalla sua vita, Jesper si ritrovò, senza sapere neanche come, ad indossare in fretta e furia i primi abiti che gli capitarono sotto mano e ad uscire dalla propria camera con un’aria spiritata e quasi folle, il volto livido e sbattuto dopo i giorni di reclusione e la chioma arruffata. Non aveva idea di cosa volesse fare, sapeva solo che doveva impedire alla ragazza di partire, che lei non aveva il diritto di abbandonarlo, era solo una spiantata del cazzo, una sguattera con un bel visino, mentre lui era un Lawrence, e nessuno, a sentire suo padre, poteva prendersi gioco di un Lawrence. Se lo ripeteva come un mantra, una cantilena ossessiva.
Nessuno si prende gioco di un Lawrence, nessuno si prende gioco di un Lawrence…
Inforcò il motorino rosso fiammante e si lanciò in strada a velocità folle, chino in avanti, con le dita bianche serrate sul manubrio, le cosce abbrancate convulsamente al metallo e i capelli che volavano da tutte le parti, scendendo dal pendio dove era situato Lawrence Borg senza badare a semafori o cartelli, una saetta impazzita nell’aria umida e gelida del mattino. I fiocchi di neve, impalpabili come ovatta, gli baciavano le guance bollenti. Il paesaggio intorno a lui risplendeva di un biancore abbacinante. Si era morso l’interno guancia così forte che avvertiva il sapore ferroso del sangue in bocca.
Raphael gli aveva tolto suo padre e suo fratello ed era fuggito senza ricevere alcuna punizione, gli aveva distrutto la serenità senza scontare la sua colpa; ormai, ogni volta che ripensava ad Hugo e Viktor, li rivedeva stesi ai piedi della scalinata della torre, suo padre con il cranio maciullato e la materia cerebrale sparsa intorno, suo fratello con le viscere e gli intestini esposti come vermi fumanti, e risentiva quell’odore, un odore che tuttora gli dava la nausea. Ma Ursula non avrebbe fatto lo stesso. No, Ursula non lo avrebbe lasciato solo.
Era assurdo, sentiva come di doverla punire non solo dell’abbandono, ma anche dell’omicidio. La rabbia, il dolore, l’odio, lo shock, erano troppo forti, aveva bisogno di scaricarli.
Conosceva a menadito la strada per l’aeroporto, aveva accompagnato suo padre prima che egli partisse per uno dei suoi innumerevoli viaggi di lavoro in tante occasioni, e sapeva che tagliava per i boschi, tenendosi alla larga dal villaggio. Il vento gli frustava la faccia in staffilate crudeli e gli schiacciava la pelle sulle ossa e i capelli sul cranio, infilandosi sotto ai vestiti turbinanti e pizzicandogli delicatamente la carne. Ai lati del nastro d’asfalto scorrevano abeti dalle chiome imbiancate di neve e betulle livide come fantasmi, che protendevano rami adunchi verso di lui. La foresta era talmente fitta e intricata che non s’intravedeva nulla, al suo interno, a parte il manto candido che s’era depositato sul terreno, formando uno strato compatto e uniforme. I cartelli lo avvertivano del passaggio di lupi e cervi, ma neanche li vedeva. Il motorino rombava sotto di lui come un animale furibondo e i piccoli occhi della fauna locale lo scrutavano, luccicando tra i cespugli.
Lo scenario aveva in sé qualcosa di fiabesco. Mancava solo Cappuccetto Rosso…
Apparve, davanti a lui, la sagoma inconfondibile di una macchina, un mezzo di trasporto adatto ad un adolescente, piccolo e fragile. La riconosceva perché era stato lui stesso a regalarla ad Ursula quando, compiuti i sedici anni, aveva passato il corso di guida, e lei per la gioia gli aveva gettato le braccia al collo e lo aveva ricoperto di baci. Un ghigno storto, privo di qualunque allegria, gli piegò le labbra violacee. La ragazza era sempre stata timorosa e prudente nel guidare, non superava mai gli ottanta, mentre lui schizzava come un bolide, nessuno poteva eguagliarlo.
Eccoti, puttana schifosa…
Accelerò ancora di più, incurante del freddo spietato di quella mattina di febbraio, e accorciò la distanza che lo separava da lei finché non vide il suo profilo seduto al volante, i capelli biondi raccolti in una coda alta che lasciavano scoperto un collo lungo ed elegante, da cigno, e due spalle ben modellate. Ursula poteva anche essere povera, ma dal punto di vista fisico nessuno la eguagliava…Jesper ricordava ancora la morbidezza della sua chioma quando ci affondava le mani e il suo profumo inebriante, un profumo di donna e non di bambina. Lei era sua. Era un Lawrence e quando un Lawrence vuole una cosa se la prende. Nessuno l’avrebbe toccata, mai più.
Accostò il motorino alla fiancata dell’automobile e gridò, sguaiatamente: “Vai da qualche parte?”
Per la sorpresa, lei perse il controllo del mezzo di trasporto e sbandò un poco, avvicinandosi al guard-rail. Girò freneticamente il volante e, nel voltare la testa, i suoi occhi incrociarono quelli di Jesper; in mezza frazione di secondo il giovane li vide dilatarsi e riempirsi di un misto di stupore e di paura che lo fece tremare per il piacere.
Doveva avere paura, doveva temerlo di un timore sacro. Portò il motorino davanti alla macchina, sbarrandole la strada, ed Ursula fu costretta a premere con foga sul pedale del freno per non andare a sbattergli contro. Le ruote stridettero sull’asfalto incrostato di brina, producendo un suono lamentoso, lugubre, e i tergicristalli che scorrevano sul finestrino per liberarlo dal ghiaccio si bloccarono. Jesper godeva perché la stava costringendo a fare quello che voleva lui, perché finalmente si stava imponendo sugli eventi e ne stava determinando il corso, senza che questi lo travolgessero e sfuggissero al suo controllo. In quell’ultima settimana non era stato altro che una loro vittima, un burattino inerte, ma adesso basta. Adesso era il suo turno.
“Ma che cazzo…” la ragazza aprì lo sportello con un movimento brusco ed uscì dalla macchina, stretta ed intirizzita nel pellicciotto rosso – un altro suo regalo – con le guance che avvampavano di collera e gli occhi ancora dilatati, due palle bianche in un volto perfetto: “Sei impazzito?! Potevi ammazzarmi!”
Non era più spaventata. Il respiro era accelerato e ansimante, ma alla paura si era sostituita la stessa rabbia supponente con cui l’aveva trattato quando si erano lasciati, e questo non andava bene.
Jesper smontò dal motorino, lasciandolo crollare sulla strada con indifferenza, e fissò la sua ex dritto negli occhi: “Ursula, devo parlarti”.
Lei era paonazza, incredula e furibonda insieme, le braccia incrociate sotto il seno per difendersi dal freddo e le labbra tremanti da cui scaturivano nuvolette di vapore: “Parlarmi?” scandì, sconcertata: “Parlarmi?!” ripeté ancora una volta mentre l’ira prendeva il sopravvento sullo sgomento: “Sai dove vi potete ficcare tu e il tuo parlare?! Ma cosa cazzo hai in testa, Jesper?! Cosa cazzo ti salta in mente?! Non hai nessun diritto di…”
Lo sguardo del giovane si indurì, facendosi gelido come il ghiaccio: “Non. Urlare” sibilò, pacato.
“Io urlo quando e quanto mi pare!” strillò lei di rimando, quasi isterica, mentre la neve, circondandoli e dividendoli, le spolverava di zucchero la coda di capelli biondi: “Cosa cazzo ci fai qui, Jesper? Cosa vuoi?!”
Lui aggrottò la fronte: “Te l’ho già detto. Parlarti”.
Ursula scosse il capo più volte, strabuzzando gli occhi: “Abbiamo già parlato a sufficienza. Non ti amo più, te lo vuoi ficcare in testa o no?! E devo prendere un aereo, non puoi piombare qui e sbarrarmi la strada e…”
“Tu non prendi nessun aereo” ribatté Jesper quasi serenamente, imponendosi di stare calmo, di gestirla come avrebbe fatto suo padre, con lucidità e freddezza. Ursula era davvero irritante con quella voce acuta e penetrante, da cagnolino rabbioso, le labbra strette in una linea severa e le mani arrossate dal gelo che si torcevano incollerite, ma non c’era motivo di perdere la testa. Dopotutto, anche se l’aveva tradito, la amava ancora.
“Cosa?”
Faceva la finta tonta, una tecnica femminile tra le più gettonate. Il suo messaggio era stato chiarissimo.
“Cosa?” ribadì la ragazza, trattandolo come un ritardato, cosa che lo infastidì ancora di più: “Scusa tanto, Jesper, ma non ho proprio tempo di star dietro alle tue scenate di protagonismo. Lasciami andare e facciamola finita qui”.
Jesper fece un passo verso di lei: “Sai, Ursula” incominciò lentamente: “Tu credi che io sia solo un idiota con una bella faccia. Che non ci sia niente dietro. Un idiota con una bella faccia e una tendenza alla megalomania. Sei convinta di potermi voltare le spalle pochi giorni dopo l’omicidio di mio padre e di mio fratello come se nulla fosse, e di potertene andare felice, perché tanto io non ce l’ho una sensibilità, giusto?”
Anche se la sua voce si era mantenuta pacata, qualcosa nel suo sguardo doveva averla messa sul chi vive, perché impallidì lievemente e arretrò sui tacchi alti, il petto che si alzava e si abbassava velocemente: “Senti…” esordì, ma Jesper la interruppe. Era un Lawrence e nessuno può parlare ad un Lawrence prima che egli abbia finito un discorso.
“No, senti tu, Ursula! Senti tu!” stavolta lo alzò, il tono, incapace di trattenere il rancore, e gioì nel vederla azzittirsi bruscamente; a quanto pare aveva ereditato parte dell’autorevolezza paterna: “Sei stata la mia prima e unica ragazza. Il primo bacio l’ho dato a te, l’amore l’ho fatto solo con te. Ti ho dato tutto quello che desideravi e non me n’è mai fregato nulla delle tue origini. Quello che chiedevo in cambio era un po’ di conforto. Un abbraccio, una parola gentile. Ma devo averti fatto qualcosa di veramente orrendo, perché invece tu mi hai sbattuto la porta in faccia, mi hai mandato al diavolo, pur sapendo cosa stavo passando!”
Si era arcuato nella sua direzione, livido, ansimante, contratto, e la ragazza era indietreggiata ulteriormente, appiattendosi all’automobile e fissandolo con un principio di spavento nelle pupille. Quando parlò, aveva adottato un accento più cauto, meno aggressivo, che il giovane Lawrence trovò più falso e ipocrita che mai.
“Ascolta, Jesper…” mormorò, detergendosi il sudore che, malgrado il freddo artico, le imperlava la fronte: “Questa situazione…è troppo per me. L’omicidio, tutto quanto…non ce la faccio a sopportarlo. Ho bisogno di dimenticare. E tu devi accettarlo”.
“Devo accettarlo perché non ho scelta!” ringhiò. Le si avvicinò ancora, arrivando quasi davanti a lei: “Tu, Raphael, non me l’avete lasciata una scelta! Ho perso un padre che amavo e un fratello giovanissimo e ho dovuto andare avanti perché non avevo scelta, ma non farò lo stesso con te!”
La ragazza, ora, era davvero pallida, salvo per le orecchie e il naso, violacei per il gelo: “Jesper, stai delirando…”
“E anche se fosse?” le afferrò il braccio di colpo, con uno scatto rapace, e lei sussultò mentre stringeva la presa sul suo arto delicato: “Tutti hanno ottenuto quello che volevano con mezzi illeciti…mio padre il potere, Raphael la vendetta, tu la tua pace…ma io?” accostò il volto a quello terreo di Ursula e bisbigliò, quasi dolce: “Non andrai a Stoccolma dalla zietta, amore. E non t’affannare per l’aereo, perché lo perderai”.
Lei lo fissò muta per un paio di secondi, il seno palpitante, le iridi fisse, la bocca dischiusa. Era bellissima. Jesper tese una mano per accarezzarle la guancia, e quando la toccò, non lo respinse né si fece indietro. Forse…
All’improvviso, con un movimento repentino, gli assestò una ginocchiata sull’inguine con tutta la forza che aveva e Jesper ebbe la sensazione che una lama incandescente gli fosse penetrata nei genitali, mentre si ritraeva e crollava in ginocchio ululando dal dolore.
Ursula, boccheggiante, tremante di un misto di paura e trionfo, con le ciocche bionde che sfuggivano alla coda, proruppe in un grido selvaggio: “Sta’ lontano da me, pazzo psicopatico!”
Poi accennò a rientrare nella macchina, e in quella visione l’adrenalina corse frenetica nelle vene di Jesper.
Nessuno si prendeva gioco di un Lawrence.
Allungò una mano e le arpionò una caviglia; Ursula era poco stabile a causa dei tacchi alti, e a quella morsa gridò e perse l’equilibrio, cadendo a terra e perdendo la calzatura. Jesper, continuando a stringerle il piede nudo, iniziò a riprendersi dal colpo basso e a muoversi nella sua direzione, il respiro rotto e ingolfato, una vena che pulsava scoperta sulla fronte e un barlume di odio puro nello sguardo.
“Puttana!” ruggì con furore incontrollato, mentre lacrime insensate gli si gonfiavano sotto le palpebre: “Maledetta puttana!”
I suoi propositi originari, molto confusi, a dire il vero, la ragione, erano sfumati in una nebbia rossa e viscosa, e il trauma da poco subìto, lo spettacolo dei cadaveri martoriati di Hugo e Viktor gli lampeggiava nel cervello come un’insegna al neon.
Ursula si contorse come un’anguilla e riuscì a liberarsi, poi balzò in piedi, calciando via la scarpa rimasta, e scavalcò agilmente il guard-rail, sfilacciandosi l’orlo della gonna e correndo tra gli alberi del bosco. Una figurina piccola, esile, indifesa tra gli alberi lividi, affusolati e aguzzi come quelli dipinti da Friedrich.
Una bionda Cappuccetto Rosso che fuggiva dal lupo cattivo.
Ma lui era solo Jesper, cazzo, solo Jesper, e non voleva farle del male, voleva solo che lo accontentasse, che esaudisse i suoi desideri, come sua madre aveva sempre fatto con suo padre!
“Torna qui, lurida troia!” gridò tra i singhiozzi strozzati che gli squassavano le spalle, raddrizzandosi e seguendola in mezzo ai tronchi.
“Aiuto!” le grida di Ursula erano meno terrorizzate di quanto si sarebbe aspettato, suonavano potenti, rabbiose: “Qualcuno mi aiuti, per favore!”
“Smettila!” urlò di rimando, scostando uno scarno ramo e affondando gli stivali nella neve fresca, compatta, che gracchiava sotto le sue suole; le impronte della sua ex, stagliate sul manto bianco, erano un filo di Arianna che lo conduceva sicuro alla meta: “Non sono un fottuto mostro come Raphael, non devi chiedere aiuto!”
Gli alberi s’innalzavano come pallide ombre tutt’intorno, oscurandogli la visuale, e i cespugli gli ferivano le ginocchia. In lontananza echeggiò l’ululato di un lupo, un verso triste, melanconico, funereo, e Jesper allontanò con un gesto impaziente i capelli umidi dal volto, distinguendo a fatica la silhouette di Ursula che incespicava nella natura insidiosa. Il suo passo era incerto, sbilanciato: quando l’aveva agguantata e l’aveva fatta cadere, doveva averle procurato una lieve distorsione alla caviglia. E quella stupida, invece di fermarsi, continuava a correre, a strillare aiuto al nulla!
“Sei una stupida, Ursula!” gridò nel tono infantile e costernato di un bambino che si vede privato dei regali che gli spettano di diritto: “Sei proprio una stupida! Io non sono mio fratello, porca puttana! Non sono lui!”
“Sei proprio come lui!” replicò la ragazza con odio e paura, ormai sempre più vicina, la coda disfatta e i capelli fluttuanti nel vento: “Vattene via, vattene via!”
“No! No, no, no!”
Si gettò in avanti con disperazione e collera isterica e la placcò, afferrando tra le braccia quel corpo che aveva sfiorato e amato; urlando, caddero entrambi nella neve, che sollevò un ventaglio di zolle e li ricoprì di un pulviscolo immacolato, e rotolarono, avvinghiati, mentre il profumo della fanciulla penetrava nelle narici di Jesper. Finalmente poteva abbracciarla di nuovo, essere confortato dal suo calore, dal suo…
Unghie laccate calarono sul suo volto e lo graffiarono, strappandogli un gemito. Ursula si dimenava come impazzita, contorcendosi, scalciando, gridando.
“Lasciami!”
La fissò incredulo, per un attimo inerte di fronte a quella gragnola di colpi, schiaffi e calci. Perché si comportava così? Perché reagiva come se l’avesse aggredita? Lui voleva soltanto che si fermasse, che lo ascoltasse, e che gli desse la possibilità di spiegarsi! Era un Lawrence, una persona d’onore! E l’amava!
Gli occhi azzurro pervinca di Ursula, bagnati di lacrime, scintillavano di una furia sconfinata: “Toglimi le mani di dosso, porco, bastardo, psicopatico!”
La foresta era un luogo isolato, ma comunque, se qualcuno fosse passato in macchina, avrebbe potuto sentire le sue strilla e insospettirsi, e Jesper non poteva permetterlo, la famiglia veniva prima di tutto ed era già stata lordata abbastanza dal duplice omicidio, se avessero pensato che era lui stesso un assassino, che aveva assalito una fanciulla indifesa nel bosco, il buon nome dei Lawrence sarebbe finito definitivamente nel fango…lo doveva a suo padre, a Viktor, alla loro memoria!
“Zitta!” sibilò, concitato, tappandole la bocca e guardandosi intorno con occhi frenetici e ansiosi: “Zitta, cazzo, lasciami spie…”
Continuando a divincolarsi, Ursula gli morse la mano e lui la ritrasse con un’imprecazione soffocata, mentre le urla penetranti tornavano a spaccare l’aria, riempiendogli il cervello di panico.
“Smettila!” ansimò, terrorizzato, sbatacchiandola sulla neve in una fontana di spruzzi: “Non sai con chi hai a che fare, sgualdrina che non sei altro, non sai chi sono, cosa succederebbe se…”
Una voce nella sua testa, una voce fredda e curiosamente ragionevole, gli domandò: “Cosa vuoi fare? Sei impazzito?”
Jesper non ne aveva idea, sapeva solo che doveva farla smettere di urlare, che doveva proteggere la famiglia.
Credeva di essere stato abbastanza chiaro, di averle fatto intendere il suo messaggio, eppure quell’idiota non accennava a calmarsi, era una furia scatenata, gli aveva riempito le braccia e il collo di graffi e pareva liquida sotto le sue dita, inconsistente e pronta a sfuggirgli da un momento all’altro. Ma se fosse scappata, avrebbe raccontato in giro un sacco di bugie, che lui l’aveva aggredita con l’intento di ucciderla, che era pericoloso quanto suo fratello, avrebbe distorto la realtà a suo piacimento e lo avrebbe rovinato…
“No!” urlò Ursula: “No, lasciami, lasciami su…”
Lo schiaffo di Jesper interruppe immediatamente le sue strilla. Il ragazzo, perso ormai ogni barlume di raziocinio, cieco e convulso come un animale braccato, la sbatteva con forza contro il terreno, ancora e ancora e ancora, e sulla neve rimaneva impressa la sua sagoma, in un macabro gioco dell’angelo.
“Vuoi che sia uguale a lui?” ringhiò senza sapere nemmeno cosa stava dicendo, le lacrime che gli rotolavano sulle guance e cadevano sul corpo della fidanzata: “Eh, puttana?! È questo che vuoi?!”
Quelle che Ursula urlava non erano più parole, ma semplici suoni disarticolati di terrore. C’era qualcosa di orrendo, di innaturale in quella scena, perché Jesper non avrebbe voluto sbatacchiarla a quel modo, avrebbe voluto abbracciarla ed essere abbracciato, confortarla ed essere confortato, era tutto sbagliato, tutto quanto! Amava Ursula, la sua sofferenza lo faceva inorridire e cercava in ogni modo di porvi rimedio, e invece adesso era lui a procurargliela e non riusciva a capire come potessero essere arrivati a quel punto, un punto da cui era impossibile tornare indietro.
È colpa di Raphael, Raphael, Raphael…
Se solo lei si fosse tranquillizzata, porca puttana!
“Sta’ calma!” gemette: “Non voglio farti del male, io…”
Lei tentò di dargli un’ennesima ginocchiata ma stavolta la anticipò e un secondo schiaffo le fece volare la testa sul suolo; il pellicciotto e la gonna erano inzuppati di sangue, sangue che le aveva impiastricciato anche i capelli chiari.
Esasperato ed esausto, Jesper le diede uno scossone più forte degli altri e la sbatté nella neve con forza spropositata, sperando di metterla finalmente a tacere. Il capo di lei sbatté ancora una volta a terra e stavolta si udì un orrido, fievole crack, il crack dell’osso del collo che si spezzava.
Poi il silenzio. Niente più urla né contorcimenti. Solo il silenzio. Un magnifico, riposante, pacificante silenzio.
Ansimando, Jesper lasciò andare Ursula, che si era fatta improvvisamente docile ed immobile nella sua stretta, e cadde su un fianco, nella neve fredda che gli asciugava il sudore dalla pelle, traendo respiri rauchi e ascoltando il battito forsennato del cuore che pian piano rallentava e l’adrenalina che si estingueva. Provava sollievo. Perché, a parte tutto, era finita. E si sentiva stanco, prosciugato, svuotato.
“Non voglio farti del male” mormorò, beandosi del contatto con la neve: “Voglio solo che mi ascolti. Mi ascolterai, adesso?”
La ragazza non rispose.
Anche se il corpo protestava, Jesper si costrinse a sollevarsi sui gomiti e a volgersi nella sua direzione, curvandosi per guardarla più da vicino. Nel corso della lotta, il bel viso di lei era stato contratto dalla rabbia, il terrore e la foga, ma adesso i lineamenti si erano rilassati ed era tornata bellissima, come la Bella Addormentata, come una piccola Cappuccetto Rosso. I capelli dorati, sciolti, si spargevano in ciocche disordinate sul seno e sulle spalle e l’incarnato diafano era baciato dai fiocchi candidi che s’infiltravano tra i rami degli alberi. Gli occhi azzurri guardavano in alto, vitrei, calmi, assenti.
Era splendida e malinconica come un’Ofelia.
“Ursula” la invocò, piano, quasi avesse timore di svegliarla, scuotendola delicatamente.
Lei non reagì. Il collo era piegato in un’angolazione strana, sbagliata.
Un guizzo di panico pervase Jesper. “Ursula!” la scosse con più vigore, poi le prese un braccio, lo alzò, lo lasciò a lo osservò ricadere inerte a terra, come quello di una bambola.
Il fiato gli mancò di colpo, il cuore si strinse in una morsa atroce.
“Ursula!” boccheggiò, scrollandola con violenza, mentre il capo della fanciulla ciondolava e gli occhi ruotavano innaturalmente verso il basso: “Ursula, cazzo, svegliati! Svegliati!”
Un movimento impercettibile, un fruscio elegante sul suolo innevato lo spinse ad alzare la testa, e lo spettacolo che si ritrovò davanti lo paralizzò sul posto, tingendogli il viso di un pallore mortale.
Il lupo aveva forme sinuose, aggraziate. Il manto di un bianco argenteo punteggiato di grigio sui fianchi e sulla gorgiera. Se ne stava ritto e fiero come una divinità della foresta, ad appena qualche centimetro di distanza da lui e dal cadavere di Ursula, e li contemplava con sottili, insondabili occhi giallo arancio, gli unghielli piantati a terra e il muso proteso verso di loro. Le orecchie erano ritte, la coda frustava l’aria.
Jesper lo fissò, immobile, pietrificato dalla paura, con i muscoli gelati e il sangue che martellava nelle orecchie, e il lupo ricambiò il suo sguardo, studiandolo con un’intelligenza che mai si sarebbe aspettato da una bestia. Il suo odore, un odore pungente, inebriante, giungeva ad ondate. Piano, con grazia, abbassò la testa e si accinse a leccare il sangue dai capelli di Ursula, ma il ragazzo, senza riflettere, la allontanò dalle fauci dell’animale, levando una protesta rauca: “No!”
Gli occhi gialli del predatore lo inchiodarono. Per un attimo, fu sicuro che lo avrebbe assalito, e si sorprese a non provare timore. Doveva pagare per ciò che aveva fatto.
Ma poi, come decidendo che non ne valeva la pena, che sarebbe stato più spietato lasciarlo in vita a convivere con il suo rimorso, il lupo argenteo si ritrasse, silenzioso, e scomparve tra i tronchi lividi come un’ombra inconsistente, abbandonandolo lì, con il corpo di una giovane donna da seppellire tra le braccia.
 
Una lacrima, una sola, colò lungo la guancia di Jesper e cadde sulle pagine dell’antico libro, formando un cerchio perfetto. Il giovane serrò le labbra, imponendosi di mantenere un contegno, di essere Lawrence fino in fondo, e riprese a cercare febbrilmente l’informazione di cui aveva bisogno. Aveva vissuto con quella colpa piantata sullo stomaco per anni, ma adesso avrebbe rimesso le cose a posto. Non sarebbe stato certo Raphael ad impedirglielo. Quel volume era la chiave di ogni cosa, e fintantoché l’aveva in suo possesso, era il più avvantaggiato tra i giocatori.
All’interno di un salottino al piano superiore, Christine cessò di spiarlo dal buco sul pavimento che aveva fabbricato apposta mesi prima e lo coprì con un pregiato tappeto di damasco, mentre le labbra rosse si piegavano in una rigida, brutale smorfia di conquista.
Jesper aveva finalmente portato la chiave con cui si apriva il tomo. Una svolta era prossima.
Sedette ad un tavolino di legno laccato, scostandosi i capelli rossi dal viso, e con un’unghia appuntita riprese a scorrere il catalogo dei volumi contenuti nella biblioteca del maniero, che ne specificava scaffale e collocazione, sicura che prima o poi avrebbe trovato quello che cercava, una mappa di Lawrence Borg che le illustrasse tutti i passaggi segreti del castello. Jesper era troppo preso dalla sua ossessione per pensarci – inoltre, era convinta da tempo che fosse dotato di un’intelligenza piuttosto scarsa, era solo impulsività – e Berg era appena giunto.
Sarebbe arrivata al mostro e alla ragazza prima di loro. Avrebbe messo le mani sul libro segreto dei Lawrence. E avrebbe ottenuto la sua vendetta, sua e di sua madre.
 
Henrik aveva scoperto il passaggio nel camino per puro caso. Lavorava come domestico a Lawrence Borg da anni, ma prima d’ora non aveva mai dovuto pulire la camera da letto della signorina Harriet. Da quando Eva era morta, tuttavia, le direttive erano cambiate, e si era dovuto accollare quarantamila mansioni in più di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Perché, sinceramente, ne aveva le scatole piene, di sgobbare dalla mattina alla sera per quegli stronzi ricchi e ricevere in cambio da loro nient’altro che occhiate di sufficienza e ulteriori ordini.
Ne aveva in generale le scatole piene di essere considerato una nullità, un essere umano insignificante, un elemento di arredamento. E di spaccarsi la schiena in quel maniero enorme solo per guadagnare i soldi necessari ad accudire suo fratello Morgan.
Morgan, che invece di spazzare il pavimento e lavare le finestre ad una ragazzina che era pure assente, in viaggio a Londra, a quanto pareva, se ne stava al calduccio a casa, con Maud a lavarlo e profumarlo. Si poteva pensare che la sorte fosse stata benevola con lui, ad una prima occhiata. Lui aveva avuto tutto ciò che era mancato a Morgan. Una mente acuta e intelligente, la possibilità di andare a scuola, di istruirsi, un corpo sano e scattante, anche se non propriamente splendido, un lavoro e la possibilità di portarsi il pane a casa, una moglie carina e degli amici.
Ma chi lo pensava non aveva guardato bene. Perché non avevano capito che Morgan aveva molto di più, lo aveva sempre avuto. Intanto i suoi genitori. Loro non avevano mai dato retta a lui.
Quando tornava a casa da scuola, percorrendo da solo tutta la strada lunghissima e pericolosa anche a cinque anni, a malapena si accorgevano della sua presenza. Perché Morgan aveva una crisi.
Quando aveva preso il suo primo A in matematica suo padre gli aveva rivolto una breve pacca sulla spalla, e sua madre non lo aveva nemmeno sentito. Perché Morgan aveva ingoiato una cucchiaiata di minestra da solo, senza sbavarsi.
Quando era rimasto bloccato a casa di un amico per l’incidente alla metro avevano chiamato solo sei ore dopo, niente affatto preoccupati, per informarlo che Morgan doveva andare dal medico e che quindi a casa non avrebbe trovato nessuno.
I suoi amici, prima ancora di informarsi della sua salute, gli chiedevano di Morgan. Persino quando aveva proposto a Maud di sposarlo lei, dopo aver acconsentito con le lacrime agli occhi, aveva aggiunto: “Possiamo prendere Morgan in casa. Così i tuoi genitori possono riposare, ormai stanno invecchiando”.
Insomma, tutto era un Morgan, Morgan, Morgan. Morgan e i suoi bisogni, Morgan e il suo umore, Morgan e i suoi problemi. Se Henrik era andato a lavorare dai Lawrence era stato principalmente per lo stipendio, più alto di tutti gli altri, malgrado il carico di lavoro logorante, e perché suo fratello necessitava di attrezzature che non potevano permettersi. Maud lo aveva lodato a lungo per il suo spirito di sacrificio, ma l’avrebbe volentieri mandata al diavolo. Non aveva idea di quanto si sentisse inutile, insignificante come uomo, umiliato dal contegno altezzoso dei “padroni”, e tutto per prendersi cura di un fratello handicappato che gli aveva usurpato l’affetto dei genitori e le comodità. Sapeva che era un discorso egoistico, che Morgan non aveva colpa, eppure era una tentazione fortissima mollare scopa, spolverino e spazzolone e licenziarsi in tronco, fuggire dall’isola e dall’aura soffocante che gravava su Lawrence Borg a gambe levate.
Nell’infilare la testa nel camino per rimuovere la cenere e la fuliggine, lo aveva colpito un fortissimo attacco di tosse e si era imbrattato da capo a piedi, cosa che aveva accresciuto il suo malumore e la sua frustrazione. Perché pulire quella camera, se la sua occupante non c’era? Erano giorni, ormai, che la signorina Harriet Ullmann era assente dal castello, ma anche se molti tra i domestici dubitavano della veridicità della versione fornita dal signor Jesper e dalla signora Christine, a Henrik non fregava assolutamente nulla. Per lui, quella ragazza avrebbe potuto anche cadere in mare e affogare. Cosa gli cambiava? E poi Eva era morta in modo a dir poco sospetto, era arrivato alla conclusione che quello che non sai non ti danneggia. Si mormorava da un pezzo che i Lawrence non avevano le mani pulite.
Ecco, i Lawrence sì che erano persone realizzate! Soldi a palate, potere e carisma. Henrik aveva sperato di farsi notare dal signor Jesper, magari di riuscire a convincerlo di possedere un acume fuori dal comune e di diventare un suo aiutante, ma il giovane l’aveva a malapena degnato di un’occhiata distratta. Ovvio, perché non era altro che un omuncolo insignificante!
E qui, rovistando tra le ceneri, aveva tastato involontariamente la L in rilievo, una forma sinuosa che aveva istintivamente schiacciato, facendo pressione con il polpastrello.
E gli si era aperto il passaggio, con un rombo sommesso, mentre il pavimento scompariva in una stretta scala a chiocciola che scendeva nelle profondità della terra sotto i suoi occhi strabuzzati e increduli.
Per un po’, era rimasto immobile a fissare la scala, tremante, con le mani serrate sullo spolverino e la bocca dischiusa in un’espressione di sciocca meraviglia. Un…passaggio segreto? Aveva veramente scoperto un passaggio segreto? Aveva sentito alcune chiacchiere al riguardo, voci secondo le quali Lawrence Borg abbondava di misteri e zone proibite, ma non si era mai immischiato più di tanto in quelle faccende. Eppure la scala a chiocciola c’era, impossibile negarlo! Cosa nascondevano là sotto? E perché nessuno là dentro s’era mai accorto della…
…Eva, quel vecchio pipistrello. S’era sempre occupata lei di quella camera in passato, sicuramente sapeva e non aveva detto niente. Si raccontava che fosse stata in rapporti intimi con l’antica padrona, Ingrid Lawrence, chissà cosa s’erano bisbigliate quelle due…magari la signora le aveva fatto promettere di non rivelare alcunché e la mummia avvizzita aveva giurato. Fatto stava che lui adesso il passaggio lo aveva trovato. Ma che doveva fare? Andare a dirlo al signor Jesper? E se i Lawrence avevano nascosto al suo interno qualcosa di scottante e il giovane lo considerava uno sgradito testimone da eliminare? Non ci teneva a fare la fine di Eva, grazie. Ma allora doveva forse fingere che non fosse successo niente, richiudere il passaggio e tornare ai suoi doveri?
La prospettiva lo lasciava fortemente insoddisfatto.
Cose del genere non capitano alle persone insignificanti come lui, è la regola. Eppure era capitato, il passaggio si era aperto per lui, e sentiva che se non avesse colto l’occasione, se avesse lasciato correre, sarebbe rimasto per sempre prigioniero dei bisogni e degli acciacchi di Morgan, intrappolato in una vita insoddisfacente. Il buio oltre la scala, benché inquietante, lo chiamava a sé, e non poteva fare a meno di chiedersi cosa ci fosse al di là di quei gradini. Un tesoro, forse? Documenti che attestavano atti illegali compiuti dalla famiglia, prove della loro colpevolezza?
Si immaginò mentre andava alla polizia, mentre esponeva la sua avventura e veniva inneggiato come un eroe, come colui che aveva finalmente battuto i Lawrence, il Robin Hood dell’isola di Gotland, l’unico che era stato in grado di distruggere la loro fama inossidabile e gettarli nel fango. Al paese tutti li disprezzavano, avrebbero accolto con entusiasmo spropositato la sua impresa. E Maud lo avrebbe finalmente guardato come una donna guarda un uomo, avrebbe potuto spedire Morgan in una di quelle cliniche costosissime dove non gli sarebbe mancato mai nulla e godersi una vita vera.
Indugiò ancora qualche istante, fissando la scala a chiocciola e mordendosi le labbra, poi lasciò bruscamente lo spolverino e corse a prendere una pistola dalla vetrinetta d’esposizione del defunto Hugo Lawrence, un maestro al poligono di tiro, e una torcia, con tre parole a risuonargli nel cervello.
Cogli l’attimo, Henrik.
 
Harriet non si mosse per parecchi minuti, prigioniera del buio soffocante che regnava nella sua cella e delle parole colme di minaccia che il suo carceriere le aveva indirizzato prima di partire all’inseguimento dell’intruso. Avvertiva uno strano, insensato senso di freddo, quasi di paura, anche se la novità avrebbe dovuto riempirla di speranza.
C’era stata una voce, su questo non poteva assolutamente sbagliarsi. Una voce umana. Qualcuno, chissà come, chissà perché, era riuscito a penetrare nei sotterranei, ma R si era accorto della sua presenza, e aveva avuto modo di vedere, quando aveva tentato di scappare, che nel buio e nelle ombre egli si muoveva come un pesce nell’acqua, al contrario di qualsiasi altro individuo. Inoltre sapeva dell’intruso, mentre l’intruso, forse, non sapeva di lui. E questo lo avvantaggiava enormemente. Conosceva quei cunicoli come le sue tasche, prova ne era lo scarso lasso di tempo che aveva impiegato a raggiungerla mentre lei provava a destreggiarsi nel dedalo, e al contrario il suo salvatore (?) sarebbe stato impedito dalle tenebre e dall’insidiosità del luogo.
Era spacciato.
E lei certo non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione, rimanersene buona buona lì mentre il suo carceriere ammazzava qualcuno! Era stata impotente per giorni, aveva covato odio, rabbia, risentimento, e adesso un messaggio la ricolmava di nuove energie, di incuranza del pericolo.
Cogli l’attimo, Harriet.
A farla esitare, a instillarle un improvviso e sgradevole dubbio, era la natura dei suoi sentimenti contrastanti per R. Se da una parte, infatti, lo odiava e desiderava con tutto il cuore vendicarsi di ciò che le aveva fatto, dall’altra le sue parole, il suo comportamento, la disperazione che, nonostante tutto, si portava appresso, la colpivano e non la lasciavano indifferente. Fino a poco tempo prima lo avrebbe denunciato senza pensarci due volte e avrebbe guidato la giustizia fino a lui, ma adesso…voleva sfuggirgli, era ovvio, ma non era più così pronta a bramare la sua morte e la sua disfatta. Forse era più semplice lasciarlo svanire tra le ombre…
Sì, e credi che lui accetterebbe la cosa?
In ogni modo, il suo rapitore l’aveva lasciata incustodita e c’era forse qualcuno disposto ad aiutarla, solo questo doveva importarle. La sorte di R non era affar suo. Era già abbastanza assurdo pensarci, anziché augurargli di finire nel peggiore dei modi.
Si sporse a contemplare con una smorfia la raggiera di cocci che circondava il letto su cui era seduta. Non c’era da dire, il mostro aveva fatto proprio un bel lavoro! E le aveva anche tolto calze e scarpe, lasciandola a piedi nudi, con quello scomodissimo abito rosso. Grugnì, rimboccandosi la gonna fino alle ginocchia; doveva saltare, non c’era alternativa, se provava a camminare in quel labirinto di frammenti taglienti si sarebbe messa fuori uso i piedi in un attimo. R aveva dato per scontato che non ci avrebbe provato, che la paura l’avrebbe frenata, ma si sbagliava.
Si era sbagliato tantissimo, sul suo conto.
Si mise in piedi sul materasso, la gonna ancora sollevata, e fronteggiò i cocci prendendo dei lunghi respiri e preparandosi emotivamente alla prova. Non era in ottima forma, aveva ancora la gola in fiamme e i muscoli indolenziti, ma si sentiva abbastanza lucida da tentare.
Coraggio, Harriet, puoi farcela!
Peggio di così non poteva andare, giusto? Era stata promessa in sposa ad un bastardo, rapita da un folle non meglio identificato, tenuta segregata in dei sotterranei, aveva rischiato di affogare in un fiume di melma ed era stata ricoperta di insulti e invettive. Ormai era la normalità, per lei.
La voce, nel silenzio profondo, tornò a farsi sentire. Le parole erano ancora indistinte, ma si trattava chiaramente di un uomo. Il cuore di Harriet mandò un palpito di emozione e paura. Avrebbe voluto gridare all’intruso di stare attento, che il pericolo stava arrivando, ma in quel caso avrebbe rivelato la sua presenza ad R. E l’elemento sorpresa era la sua unica possibilità di salvare se stessa e quell’altro.
Chiuse gli occhi, strizzando le palpebre, tagliò la testa al toro e saltò, dandosi una spinta poderosa coi piedi.
Avvertì lo spostamento d’aria che le scompigliava i riccioli, rabbrividì pensando alla distesa di cocci appuntiti che si stendeva sotto di lei, e un attimo dopo atterrò pesantemente, senza grazia – ma non era mai stata un tipo sportivo, diceva sempre di avere una mens sana in un corpore poco sano – sul pavimento di pietra, barcollando in avanti e risucchiando l’aria in una sorsata ansiosa, preparandosi al dolore…
…che non venne.
Aprì gli occhi, sbalordita, e si fissò i piedi nudi: erano illesi. Non un graffio né una scalfittura li deturpava. Guardandosi dietro le spalle, scorse i frammenti di vetro e porcellana, ormai lontani e inoffensivi. Ce l’aveva fatta. Li aveva attraversati. Si chiese se l’intensità del suo desiderio di riuscirci glielo avesse permesso davvero, come in una magia, e si sorprese a crederci. Nulla era impossibile, a questo punto.
La voce dell’intruso, in lontananza, continuava incautamente a risuonare. Doveva salvarlo. Doveva uscire di lì.
Si osservò intorno, abituata all’oscurità e quindi capace di distinguere gli oggetti disposti nella camera, e si soffermò su un vassoio appoggiato sul tavolino da notte, probabilmente quello su cui R aveva posto la scodella di zuppa in seguito mandata in frantumi. Non propriamente il massimo come arma di autodifesa, ma si era ridotta ad usare uno spazzolino da denti, un vassoio era più di quanto potesse desiderare.
 
“Ehi, c’è qualcuno?” chiamò Henrik per l’ennesima volta, sicuro, ormai, di non ricevere risposta.
Aveva deciso che se c’erano persone là sotto, impegnate in chissà quale losca e sporca attività, tanto valeva rivelarsi subito e accampare una scusa; aveva capito, dopo aver girato a vuoto per un po’ ed aver perso l’orientamento in quei cunicoli tutti uguali, di non aver modo di nascondersi o passare inosservato, semplicemente non sapeva come muoversi in quel posto maledetto, e si stava maledicendo per aver dato retta all’istinto e per essersi cacciato in quella situazione. S’era aspettato una sorta di camera blindata, di antro ricolmo di ricchezze o di libri proibiti, invece la scala a chiocciola l’aveva condotto in quelli che apparivano chiaramente i sotterranei del maniero, sotterranei abbandonati a se stessi, a giudicare dallo stato di degrado che vi regnava. Polvere, sporcizia e una disgustosa mucillagine verdastra avevano ricoperto tenacemente pareti e soffitto in pietra, e piante atrofizzate e pallide crescevano tra i lastroni, proliferando nelle crepe come serpi avviluppate. Uno sgocciolio costante gli echeggiava nelle orecchie e vi erano un freddo e un’umidità tali che si sentiva battere i denti.
Inoltre, quel posto era un vero e proprio labirinto, cunicoli, corridoi, cellette si succedevano gli uni agli altri in un intrico incomprensibile e l’oscurità, dilatandosi intorno a lui, li rendeva ancor più impenetrabili; il fascio di luce elettrica che scaturiva dalla torcia era troppo flebile per illuminare qualsiasi cosa si trovasse oltre qualche centimetro di distanza da lui. E via via che andava avanti, che tentava inutilmente di ritrovare la strada per la scala, l’angoscia, la tensione, l’isteria avanzavano a loro volta verso la sua mente.
Era fottuto. Una conclusione pura e semplice. Le persone come lui non facevano i conti con situazioni del genere e ci doveva essere un motivo! Quel labirinto era al di fuori delle sue capacità, al di fuori delle capacità di chiunque, e come un perfetto idiota, un frustrato, era andato ad infilarcisi millantando di diventare un eroe, di mandare al diavolo Morgan, Maud e i Lawrence ed uscire dalla propria mediocrità.
Ogni azione audace aveva un prezzo, e questo era il suo. Lì dentro non c’era alcun tesoro, né alcuna prova che potesse mandare i Lawrence davanti ad un giudice. C’erano solo topi, puzza e oscurità. Quando aveva compreso senz’ombra di dubbio di essersi perso e il panico aveva iniziato a farsi sentire aveva provato ad invocare aiuto, ma naturalmente non era giunta risposta.
Tastò, in un gesto quasi inconscio, il manico della calibro 38 che aveva trovato tra i vari fucili e carabine della collezione dei Lawrence, l’unica arma da fuoco che sapesse in teoria usare, e che aveva riposto dietro la schiena, e un fiotto di sollievo lo travolse. La presenza della pistola lo rassicurava, lo faceva sentire un po’ meno impotente e inutile. Se lì intorno ci fosse stato…qualcosa, beh, perlomeno avrebbe saputo come fronteggiarla.
Quasi l’avesse evocato con i suoi pensieri, con la sua paura, qualcuno si mosse nelle tenebre. Fu un movimento sinuoso, quasi impercettibile. Ma lo captò ugualmente.
Gli si ghiacciò il sangue nelle vene. Un fiotto denso e acido di timore, avviso, tensione gli riempì la bocca di bile amarissima. Ruotò la testa a destra e a sinistra nel buio totale: “Chi c’è?!” la voce venne fuori spezzata, ma forte. Una piccola esplosione nel silenzio.
Non ci fu replica.
Forse se l’era solo immaginato. Non sarebbe stata la prima volta. Il buio l’aveva sempre innervosito e spinto ad autosuggestionarsi. Quando era piccolo, si era autoconvinto, tramite un ragionamento meticoloso, che le chiazze di saliva che trovava sul cuscino la mattina – saliva rigorosamente sua – appartenevano invece al mostro sotto al letto che, desideroso di papparselo in un sol boccone, sbavava come un cammello. Chissà perché, Henrik si ritrovò a pensare nuovamente proprio al mostro sotto al letto e tornò a stringere il metallo gelido della pistola, la fronte imperlata di sudore.
Lo avvertì di nuovo. Il fruscio di un corpo che si spostava, fendendo le tenebre. Troppo sonoro, troppo evidente per essere frutto della sua immaginazione.
C’era qualcuno. Lì. In quel cunicolo. Qualcuno che si muoveva nell’oscurità. Qualcuno che gli voleva male.
Aspetta, aspetta, non è detto, stabilisci un contatto…
“Chi c’è?” ripeté, in un fievole bisbiglio strozzato: “Chi sei?”
La creatura che si nascondeva nelle ombre conservò il silenzio. Ora la sentiva respirare. Respiri lenti, misurati, umani. Cazzo, cazzo, cazzo! Perché era sceso in quei maledetti sotterranei?! Perché non se n’era rimasto a pulire i suoi pavimenti? Ognuno aveva il suo ruolo e il suo era quello del fallito. E adesso c’era un essere…un uomo…che…non aveva mai creduto alle storie di fantasmi che si sussurravano a Lawrence Borg, ma se…se…
“Chi sei?” urlò a voce più alta, una voce che sapeva di pianto e terrore: “Che cosa vuoi da me? Lasciami stare!”
Una risata agghiacciante, roca, sibillina esplose nello spazio intorno a lui, rimbalzando in decine di echi e strappandogli un urlo soffocato.
“Chi sono io?” sibilò una voce raschiante in tono quasi divertito: “Un idiota viene nei miei sotterranei e sono io la presenza sgradita?”
Henrik si voltò di scatto, cieco di panico, estraendo la pistola dai pantaloni, e sparò nel punto da cui la voce proveniva, ma captò il proiettile che urtava inoffensivo contro una delle pareti di pietra e realizzò di aver mancato l’avversario, che nuovamente diede in quella sua risata terribile, da demonio.
“Glielo hanno mai detto, signore, che non si entra nella dimora altrui senza chiedere il permesso?” proseguì l’uomo, garbato, eppure la minaccia trapelava dalla gentilezza apparente, come una lama nascosta in un mazzo di fiori: “E ha portato anche un’arma con sé…ma bene, molto, molto bene!”
Henrik aveva solo cinque colpi in canna e non vedeva assolutamente niente, per cui non osò sparare ancora, ma spostava freneticamente quest’ultima da una zona all’altra del cunicolo e faceva lo stesso con il raggio della torcia, sudato e pallidissimo. Come faceva quell’individuo a nascondersi tanto bene?! E chi accidenti era?
“Sei venuto a scoprire se le leggende erano vere?” sussurrò, alle sue spalle, vicino, più vicino di quanto si sarebbe mai aspettato: “Se qui sotto c’era un mostro?”
Con un grido, Henrik fece per girarsi, il dito già pronto sul grilletto, ma un calcio fortissimo, quale non ne aveva mai presi in vita sua, lo colse all’improvviso in mezzo alla schiena e lo proiettò in avanti, sul gelido pavimento di pietra. La torcia e la calibro 38 gli sfuggirono dalle mani e il cuore ebbe una fitta di orrore puro mentre cadeva in ginocchio, senza fiato, e si sbucciava i palmi e le ginocchia. Gli salirono le lacrime agli occhi, più per lo sconforto che per il dolore, e lo stomaco si contorse e si lamentò.
“Ah-ah-ah” ammonendolo con fare quasi giocoso, la presenza celata dal buio avanzò verso di lui, udì i suoi passi agili che strisciavano sul suolo e percepì il suo ghigno anche senza vederlo: “Sai, di norma tengo l’ospitalità in gran conto, ma ho degli affari da sbrigare ultimamente e non ho intenzione di gestire seccatori. Tu mi capisci, vero?”
“Chi cazzo sei?” strillò Henrik, trascinandosi all’indietro e distinguendo a fatica una sagoma che incombeva su di lui, una sagoma che pareva confondersi con le tenebre circostanti, e un paio di baluginanti occhi azzurri, frementi di emozioni incontrollate.
“Chi sono?” gli occhi azzurri vennero attraversati da un luccichio: “Sono il figlio più piccolo dei Lawrence”.
“Cosa?” boccheggiò Henrik: “Il figlio più piccolo dei Lawrence era Viktor!”
“Davvero?” quel pazzo si chinò su di lui ed ebbe l’impressione di scorgere una pelle sfigurata e violacea, un naso aguzzo e un paio di labbra livide, ma forse era il terrore a giocargli brutti scherzi…o forse no. “Le tue informazioni, mio caro, sono un tantino datate…”
La mano di Henrik trovò il manico della calibro 38 proprio mentre le dita magre dell’aggressore gli si serravano intorno alla gola in una morsa d’acciaio, e afferrò l’arma come se fosse la salvezza, alzandola e premendola contro quelle che risultarono essere le costole dell’uomo, le sentì attraverso gli abiti e la carne. Gli occhi azzurri si dilatarono appena, colti di sorpresa, ed Henrik, in un’ondata repentina di trionfo e godimento, pensò che in fondo lo sarebbe stato davvero, un eroe, che quelli come lui tendevano ad essere sottovalutati, ma che proprio per questo potevano vincere.
“Hai fatto male i tuoi calcoli, bastardo!” esultò, preparandosi a premere il grilletto.
 
Harriet, paralizzata, inchiodata sul pavimento da una mescolanza incomprensibile di paura, indecisione, stupore, fissava, a pochi metri di distanza, la scena che aveva davanti: lo sconosciuto che, da inginocchiato, si alzava in piedi, paonazzo ed esultante, la pistola stretta nel suo pugno, la canna premuta contro l’addome di R, ed R, sagoma indistinta nel buio, che guardava l’altro con occhi spalancati e quasi…quasi…
…smarriti.
Sì…smarriti. Smarriti come quelli di un bambino che credeva di essere sul punto di ottenere un successo e che invece lo vede sgretolarsi e mutarsi in polvere, come quelli di un uomo che non vuole morire. Ed era uno sguardo umano, così umano, troppo umano per uno come lui. Quando aveva seguito le urla, gli spari, i rumori, si era preparata ad assistere allo spettacolo opposto, al suo carceriere che uccideva brutalmente l’intruso, al bianco e al nero, ed era stata sicura di come si sarebbe comportata.
Ma aveva trovato, invece, il grigio. Perché quello che stava per essere ucciso era il suo rapitore, il mostro che l’aveva privata della libertà e minacciata, ma era pur sempre un uomo, e nessun uomo merita di morire. Perché lo sconosciuto non si limitava a gambizzarlo, a ferirlo in modo da poter fuggire? Perché aveva intenzione di ammazzarlo a sangue freddo, lì, in quei sotterranei? Si era fermata alle spalle dell’intruso, eppure R, che pure le era di fronte, non l’aveva ancora vista. Era troppo preso a fissare la canna della pistola prossima a sparargli, con quello sguardo da ragazzo spaurito.
Harriet si chiese all’improvviso quanti anni avesse e le tornarono in mente le parole che le aveva rivolto poco prima, cariche di astio e di dolore.
“Prima mi comportavo come un mostro…e questo la tua mente lo riesce a gestire. Ora che mi sto comportando come un uomo, non lo accetti”.
Le tempie le pulsavano impazzite, il cuore batteva ad un ritmo selvaggio e le mani si serravano convulse sul vassoio che teneva stretto al petto come uno scudo.
Poteva scappare. Poteva passare non vista intorno ai due contendenti e dileguarsi, e sarebbe stata salva. Lei odiava R…e in ogni caso, era una situazione più grande di lei.
Ma al tempo stesso c’era qualcosa, qualcosa di assurdo ma di forte, che le ripeteva che sarebbe stato sbagliato.
Poi R parlò, e la sua voce, di solito così demoniaca e spaventosa, venne fuori malsicura, spaventata, incredula, una voce che rispecchiava pienamente lo sguardo dei suoi occhi azzurri: “No…”
Harriet agì senza pensare. Si lasciò andare all’istinto. Gettandosi in avanti, levò il vassoio alto sopra la testa, mentre una scarica di adrenalina le percorreva le braccia, raggiunse Henrik un attimo prima che potesse premere il grilletto e liberarsi del più piccolo dei Lawrence e glielo abbatté sulla nuca con tutta la forza che aveva. Il colpo fu brutale, vigoroso, e colse lo sconosciuto impreparato. La sua mano lasciò la presa sulla pistola e il corpo cadde a terra con un tonfo sordo, inerte.
Boccheggiante, sudata, con le guance che scottavano e le iridi luminose, Harriet abbassò il vassoio e fissò, sgomenta, la figura dell’uomo prona sul pavimento, la protuberanza violacea che iniziava a gonfiarsi nel punto in cui l’aveva colpito, quindi alzò lo sguardo su R, immobile, pietrificato quanto lei, che la fissava di rimando, con lo stesso sguardo smarrito di prima…anzi, ancora più smarrito.
Le si mozzò il fiato in gola mentre continuavano a guardarsi, increduli.
Oh mio Dio…che cosa ho fatto?
 
Angolo autrice: Hola, todos! Eccomi ritornata dalla Costa Concordia :’) ho scritto un capitolo lungo nella speranza di farmi perdonare dell’immenso ritardo, so di essere un disastro, ragazzi…ma ve lo giuro, in un certo mio modo incomprensibile e bislacco amo questa storia, e sono anche felice quando la scrivo…spero che il chapter non vi abbia delusi! Si è fatta chiarezza sulla questione-Jesper: ricordo che quando pubblicai il primo flashback su di lui, ovvero quello in cui Ursula lo lasciava, alcuni dissero giustamente che una storia adolescenziale andata male non costituiva di per sé un trauma…ecco svelato l’arcano: a traumatizzarlo e a farlo “ossessionare” (si scoprirà in seguito a cosa) non è stato l’abbandono di Ursula, ma il fatto che l’abbia uccisa. Ho paura che quella scena sia stata un mezzo disastro…coomunque, di per sé quest’essere spregevole non è cattivo (nel senso che fa cose orribili ma non prova piacere a farle…ha uno scopo e lo persegue, non gliene frega nulla se implica il sacrificio di qualche vita) la vera anima nera, come parecchi hanno notato, è Christine…che continua a tramare nell’ombra ;)
Per la scena Rarriet devo ringraziare uno dei più bei film di tutti i tempi, V per Vendetta, a cui mi sono liberamente ispirata. Ricordate quando Evey sorprende un poliziotto qualunque nell’atto di arrestare V e difende il terrorista anche se allora lo crede malvagio? Ecco, ho reinterpretato la cosa. I sentimenti che Harriet nutre per Raphael sono alquanto contraddittori…al momento non li capisce neanche lei ;) comunque, come avrete sicuramente capito, abbiamo “passato l’angolo”…da qui si va in salita con loro due! Per la figura di Henrik ho preso ad esempio una vasta gamma di film horror o thriller, lì c’è sempre un povero sfigato che, mosso da desiderio di rivalsa o pura e semplice stupidità, va’ incontro al pericolo. È un cliché che ho voluto fare mio : )
Ringrazio tantissimo tutti coloro che recensiscono e che leggono e senza i quali questa storia navigherebbe nella mia mente, senza costrutto e senza uno scopo di vita, la sto creando insieme a voi ragazzi, che con il vostro sostegno e i commenti mi fornite la linfa necessaria ad andare avanti malgrado l’ispirazione altalenante e l’incostanza genetica : )
Un bacione!

 
  
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