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Autore: Jay_Myler    21/02/2014    1 recensioni
Racconto originale, che si ambienta in una cittadina che ricorda il londinese, all'incirca nell'Ottocento, in uno scenario un po' catastrofista governato da intrighi ed inganni dai signori dell'epoca, ma sopratutto da Lui, una figura enigmatica che si staglia contro i nostri protagonisti; eroi della nostra storia sono una ex contessina costretta a nascondere la sua vera natura ed un ex mercenario con cui condivide il suo segreto.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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POV: Joey
Martedì, 27 ore 12:00 am
Prigione di stato, cella 246


Non potevo crederci; ancora non ci credo. Ripensandoci continuo a riflettere sulla situazione e al suo essere imprevedibile. Eppure c'è stato, è avvenuto; lo rivivo ancora nella mia mente, continuo a riascoltarlo nelle orecchie, lo sento ancora addosso, sulla mia pelle.
Sarebbe davvero surreale se non fosse per la visione d'insieme che ho avuto il tempo di elaborare, anche se avrei preferito evitare tutto questo, ed avere avuto meno tempo per pensare, meno tempo per ricordarmi di essermi dannata l'anima. Più tento di scordarlo, più ritorna vivido davanti ai miei occhi, senza darmi il tempo né il coraggio di sopportarlo o di ignorarlo. Eccolo qua che torna, imperterrito, per rovinarmi ogni secondo della mia vita.
Mi trovavo nella mia stanza, seduta sulla mia sedia preferita, a pettinarmi i capelli, davanti allo specchio appeso di fronte al mio letto. Da dietro le tende solo un filo di luce argentea che a malapena sfiorava i miei capelli, passando per una fessura tra le due tende chiuse; l'unica fonte di luce veniva dalla candela davanti a me. I miei capelli continuavano ad arricciarsi nonostante le forti spazzolate che gli davo, come se mi stessero dicendo di non voler essere domati. Davanti a me solo la toletta che mi era stata regala da mio padre tanti anni prima, piena zeppa di cosmetici, tra i quali un rossetto rosso ciliegia che mi piaceva tanto e che usavo spesso, per non dire sempre.
Questo era quello che ci si sarebbe aspettati da una ragazza come me; ma nessuno doveva sapere la mia vera identità. Non sarebbe stato sicuro continuare a vivere nella casa, che era appartenuta da secoli alla mia famiglia, ma dopo essermi creata la mia nuova identità, non vedevo alcun problema nel continuare a soggiornare in quel covo di ricordi, che riaffioravano dai posti più incredibili. Avevo deciso di non cambiare l'arredamento che avevano scelto i miei genitori un tempo, per far rimanere un alone della mia “famiglia”; di quella che un tempo era la mia famiglia.
Mi trovavo davvero nella mia stanza davanti allo specchio:
Faccia a faccia con me stessa, senza trucchi, senza veli. La mia toletta era piena di cosmetici e polvere. Chissà se i trucchi hanno una scadenza. Infondo tutto con il tempo si deteriora, come ha fatto esattamente la mia vita. Le dita di polvere ricoprivano tutto, si faceva fatica a distinguere gli oggetti sopra riposti, la candela non illuminava molto. Però quella spazzola color oro, cesellata a mano, con setole morbidissime, era impossibile non riconoscerla. Ma non avevo motivo di usarla; i miei capelli non erano lunghi come portavano tutte le ragazze della mia età. A dire la verità non erano neanche abbastanza lunghi per essere spazzolati, o questa almeno era la scusa che mi davo. In realtà non volevo guastare ciò che la spazzola poteva raccontare: una volta spazzolava i capelli più belli mai visti, lunghi e di un colore quasi dorato; guardando adesso, la figura davanti a me, con capelli così corti e più scuri, capivo che non erano assolutamente in grado di competere, lo trovavo indegno, come trovavo altrettanto sgarbato lasciarla mimetizzare sotto tre dita di polvere.
Non vedevo il bisogno di pulire quella camera; erano anni che non la usavo più, ma non me la sentivo neanche di rinunciare a quei pochi bei ricordi che erano rinchiusi in quei pochi metri quadri.
Tutto era rimasto nel posto proprio, senza alcun minimo spostamento.
Nel riflesso oltre a vedere un'altra persona, un'altra me, intravedevo alle mie spalle il mio vecchio letto a baldacchino, dove anni prima c'erano delle bellissime tende color rosso ciliegia, proprio come il rossetto che stava ammuffendo davanti a me. Mi spaventava l'idea di essere qualcun altro, così diverso da me poi, o meglio, dalla me stessa che ero una volta. Ora non c'era più tempo di ripensare al passato, ma non avevo neanche la voglia di pensare al presente, figurarsi al futuro, che ben sapevo essere incerto. Non volevo smettere di sentire addosso di nuovo quelle sensazione di calore e di affetto che echeggiavano ancora nella camera, che mi ricordava ancora la mia vita precedente.
Mi girai, dando le spalle a quella persona che mi fissava a sua volta nello specchio, e diedi piena attenzione al letto. Non era più sontuoso e ricco come una volta, quello che rimaneva della ricchezza di un tempo erano due cuscini imbottiti di piuma d'oca con i bordi ricamati con del merletto rosso. Odiavo il rosso, ma non avevo il coraggio di dirlo a mia madre, che con tanto amore aveva arredato la mia stanza; quel rosso porpora e quel rosa confetto, facevano della mia stanza una perfetta casa delle bambole. E di me una bambola.
Anche i miei vecchi vestiti rafforzavano l'ideale della bambola, che mia madre mi aveva fatto diventare. Corpetti, fiocchi, gonne ampie, tanto tulle e pizzo; seta a non finire. Avrebbe iniziato anche ad insegnarmi a truccarmi se non fosse finita prematuramente la nostra infanzia. Nostra, perchè non era più la mia, era eternamente decisa da lei, completamente condizionata; potrei definirla la sua seconda infanzia.
Non che mi volesse male, mi concedeva tutte le cure del mondo; ero il suo piccolo passatempo. Ogni giorno curava la mia pelle e i miei capelli; bagni caldi con petali di rosa o latte, a secondo del tipo di giornata, e i capelli rigorosamente lavati con una lozione preparata con le sue mani per lisciare i mie capelli ribelli, che lei definiva sintomo di poca eleganza. Nelle giornate di metà primavera lavati con della birra per farli brillare come il granoturco. Queste erano altre cose che detestavo, anzi che in seguito avrei scoperto di detestare. Ero la sua esatta copia. Rivedendo i quadri appesi che ci ritraggono, mi vengono i conati dal ribrezzo. Eppure, da quando non avevo più queste cure la mia pelle non era più lucente e i miei capelli non erano più quelli di una volta. Corti, castani, ribelli, erano in quel momento.
Quante emozioni ritornavano.
Anche il letto era ricoperto di polvere. Ma non mi interessava. Dovevo poggiare la testa su quella infinita morbidezza; sentivo il suo richiamo.Mi misi sul lato sinistro, dove avevo sempre dormito, e appoggiai la testa su un cuscino, per un secondo. O almeno a me parve un secondo. Mi sembrò di aver appena appoggiato la testa, quando udii il mio nome. Sapevo che non era mia madre. Sapevo che non era stato tutto un brutto sogno, ma in cuor mio lo speravo. La porta cigolò, sentii la sua presenza sulla soglia, ma non alzai la testa per guardarlo negli occhi. Così come era entrato, uscì, con il medesimo cigolio; ma sentii benissimo le sue parole prima che uscisse.
«Stiamo per cenare, ma ha tutto il tempo che vuole per prepararsi»
Prepararmi? Come se fossi una donna. Un tempo lo ero, ora non più. Mi alzai a malavoglia e sentii che uno strato di polvere mi si era attaccato alla faccia. Passai di nuovo davanti allo specchio: c'era sempre quella solita figura che mi perseguitava da qualche anno.
Avevo l'aspetto di un bambino, sembravo più piccola, sembravo meno donna... sembravo uomo; ero un uomo per tutti gli altri. I miei vestiti non facevano che rafforzare questa illusione. Non era facile nascondere la mia femminilità, ma con un certo tipo di abbigliamento riuscivo a nasconderla. Per fortuna avevo la possibilità di spendere tutti i soldi che volevo, e di permettermi tutti i vestiti che mi occorrevano, fatti su misura e come volevo. Le misure erano prese rigorosamente dalla mia sarta. Da sempre lo era stata, fin da quando mi cuciva vestiti da bambola, anche se non se lo ricordava. Ormai era anziana e non ci vedeva più bene da lontano, e se evitavo di avvicinarmi troppo riuscivo a farle credere di essere chi non ero. Ma immancabilmente lei era a conoscenza di uno dei miei segreti più infimi, e così come me, manteneva gelosamente il segreto per sé. Era stata la mia salvezza per anni, e speravo che sarebbe continuata ad esserlo per molto ancora. In mancanza sarei dovuta ricorrere a qualcun altro, che con un dovuto compenso avrebbe tenuto la bocca chiusa; ma la fedeltà che mi dava la signora Muriel non poteva darmela nessuno.
In un certo senso mi fidavo anche di quel ragazzo che mi era venuto a chiamare per la cena, ma i nostri destini non erano ancora legati come lo sono oggi. Era il maggiordomo di Lukas , che lo considerava più come parte della sua famiglia che come un inserviente.
Fin dal principio con quel maggiordomo non c'era stata molta simpatia; eravamo legati da un patto di reciproco rispetto, che molto spesso veniva violato lasciandoci andare a frecciatine e stupide battute. Non lo avrei mai incontrato se non fosse stato per quel giorno di tanti anni fa; il nostro non era stata un incontro creato dal destino ma quello con Lukas si, il ragazzo che avevo conosciuto per strada, quando né io né lui avevamo ancora una casa, una famiglia, una vita. Queste cose le avevamo avute una volta, di questo ne eravamo sicuri, ma questa sicurezza era crollata insieme alle nostre vite tanti anni prima. Ricordo ancora il giorno in cui lo incontrai per la prima volta. Era un notte molto fredda, di sicuro invernale, ma non saprei dire in che giorno, o in che mese esattamente.
Stavo girando per i vicoli delle casa di periferia, dove aleggiava un clima di benessere, seppure a malapena sostenuto. Di certo rispetto a me erano le persone più ricche del mondo. Non c'era modo di sfuggire alla tormenta che stava lentamente prendendo corso, in particolar modo per una personcina piccola com'ero, senza panni pesanti per coprirmi e senza scarpe. I panni che indossavo li avevo rubati da una casa circa tre mesi prima, e ormai erano al massimo dell'usura.
Avevo trovato vari ripari, ma erano già occupati e chi le occupava non si felicitò della mia visita, tanto che fui cacciata via in malo modo. Mi rivolsero degli insulti di cui tutt'ora ne ignoro il significato. Ero allo stremo, il freddo era sempre più intenso, non c'era modo che io riuscissi a sopravvivere ad un altro inverno in quelle condizioni. La tempesta era nel suo momento migliore, la neve cadeva senza sosta, ed un vento gelido mi ghiacciava le ossa. Capii che la mia ora era arrivata e mi accasciai a terra, di fronte ad un vicolo che avrebbe potuto essere la mia salvezza, se non avessi sentito il gravare della morte su di me. Ormai avevo perso la sensibilità degli arti, e sentivo la faccia più gelida che mai.

Fu allora che venne la vera salvezza, che non era solo un riparo, un tozzo di pane, o un capo di vestiario. Era lui, in carne ed ossa, davanti a me, spaventato e allo stesso tempo determinato. Non ricordo molto di quegli istanti; ricordo solo che ero molto stanca, che la neve mi stava congelando il cervello oltre che il corpo e che stavo per rinunciare a tutto. Fu Lukas che mi diede una mano per riprendermi; letteralmente. Mi tese una mano, spaventatissimo dal fatto che potesse essere arrivato troppo tardi, ed io con le ultime forze mi aggrappai a lui, unica ancora della mia salvezza e lo seguii tra vicoli e botole dietro uno stabile che in seguito riconobbi come l'osteria.
Improvvisamente il clima cambiò, non mi trovavo più al gelo, sentivo lentamente il tepore di una fonte di calore, che mi pervase ogni parte del mio corpo. La luce era completamente diversa: non era quel bianco lucente che aveva arrossato fino a poco prima i miei occhi, era di un arancione caldo e rassicurante, proveniente dalle candele che si trovavano nella stanza.
Il mio salvatore andò dietro una tendina e per un po' sparì. Intanto ebbi il tempo di guardare il posto dove mi aveva portato quello sconosciuto.
Era una stanza abbastanza piccola, se stanza vogliamo definirla. Sembrava un cantina riadattata, per farci soggiornare qualcuno. Non mi interessava ora come ora ,come mai fosse così piccola o se un tempo fosse stata una cantina, mi premeva solo sapere come mai uno sconosciuto avesse rischiato la vita per me. Il ragazzo tornò con una ciotola di zuppa calda per mano. Si avvicinò e me ne offrì una. Vide lo scetticismo e la paura ancora vivida sul mio viso e mi sorrise. Quel sorriso mi scaldò molto di più del tepore che avevo avvertito appena entrata nel rifugio. Ricambiai il sorriso a mia volta, anche se penso che il risultato finale sia stata una smorfia. Accettai la ciotola ed incominciai a magiare, sorso dopo sorso, la zuppa calda che mi era stata offerta. Ci fu un silenzio di tomba fino a quando la persona davanti a me, alzò lo sguardo e mi disse:
«Io sono Lukas, tu come ti chiami?»
Non mi chiese cosa ci facevo fuori in una giornata come quella, non mi chiese di ringraziarlo, non mi chiese del mio passato.
«Joey»
«Joey, sei stato davvero fortunato che con quel freddo fossi ancora vivo. Se vuoi puoi restare qui, se non hai una famiglia intendo. Magari si stanno preoccupando per te adesso!»
Aveva usato il maschile. Potevo capirlo, a quell'età non avevo ancora forme femminili da nascondere, e per come ero ridotta non potevo biasimarlo.
«Non ho nessuno» mormorai a bassa voce.
«Benissimo! Cioè... non intendevo questo... ma visto che sei da solo puoi stare qui con me e lavorare di sopra all'osteria. Il padrone è davvero buono, mi fa lavorare il meno possibile e mi da vitto e alloggio. Non è un granché ma ci si abitua. Sarà bellissimo avere un amico con cui stare, con cui dividere la camera e parlare e... sempre se vuoi»
La sua faccia, che un'istante prima sprizzava allegria da tutti i pori, si fece cupa. Avevo capito che temeva un rifiuto da parte mia. Ma non ci tenevo a deluderlo e non avrei comunque avuto altro posto dove andare.
«Se non sono di disturbo...»
Lukas saltò letteralmente dal cuscino su cui stava seduto dando un urlo di gioia, e mi abbracciò.
«Sarà bello stare con un amico»
Di nuovo quel maschile; non avrei perso che dieci secondi a correggerlo, ma non lo feci. Non so ancora il perché ma lasciai che credesse che fossi un ragazzo. Continuammo a mangiare e vidi la sua faccia più radiosa che mai.
Alle sue spalle per la prima volta, mi accorsi che c'era una finestrella; era da lì che probabilmente mi vide: quella finestra fu la mia salvezza.
Ero al sicuro, ero in salvo; avevo un posto dove dormire, dove mangiare e dove lavorare. Solo in futuro scoprii che quel ragazzo sarebbe stato davvero il mio più grande e unico amico.
Lukas si poteva definire un mio amico di vecchia data, anche se la data non era poi così vecchia. Eravamo come fratelli, inseparabili e uniti da un sentimento reciproco di affetto; un legame di sangue che in realtà non c'era. Con lui non avevo segreti; o quasi. Non gli avevo mentito mai, tranne per quella grande, enorme, colossale bugia su cui era stata costruita la nostra amicizia. All'inizio non mi interessava molto che sapesse la verità su chi io fossi, ma con il trascorrere dei giorni, dei mesi, degli anni, mi ero accorta di quanto ci tenessi in realtà a lui e di quanto fossi in difetto nel tenergli nascosta questa grande verità. Ma con il passare del tempo, aumentava anche la mia paura di perderlo, e per questo ero sempre meno convinta di dirgli tutto.
Se le cose avessero continuato ad andare come sempre oggi non sarebbe andata così. Ci sarebbe stato un altro risvolto, ma non so dirmi se sarebbe stato migliore o ancora più infimo.
Ogni minuto della mia vita era caratterizzato da un ricordo del passato, e più si andava avanti, peggio era. Finalmente riuscii a togliere gli occhi di dosso al ragazzo riflesso nello specchio ed uscii dalla porta senza neanche voltarmi indietro. Non sapevo che sarebbe stata la penultima volta che avrei messo piede in quella vecchia stanza.
Mi incamminai per il corridoio, tenendo lo sguardo basso, senza guardare i quadri appesi che mi ricordavano un infanzia interrotta. L'unica cosa che fissavo era il tappeto rosso che abbelliva il corridoi della casa. Si notava che era stato pulito da poco; sicuramente si vedeva una netta differenza tra il pulito della casa dove vivevamo e lo sporco di quella stanza che aveva smesso di vivere circa un decennio fa. Alzai lo sguardo solo per un secondo, e notai che anche quadri e mobilio erano completamente privi di polvere; era vero che ci detestavamo, ma quel maggiordomo era davvero impeccabile e non ci si poteva fare alcun tipo di critica. Svolgeva i suoi lavori egregiamente senza discutere gli ordini impartiti.
Ricordo il primo giorno che lo incontrai. Era il primo giorno di autunno e qualcuno bussò alla mia porta. Quando l'aprii di fronte a me c'era lui Lukas, il mio amico. Erano anni che non lo vedevo, da quando lavoravamo insieme all'osteria. Non gli chiesi cosa lo portava da me, come lui il primo giorno che ci incontrammo non mi chiese cosa ci facevo nella tormenta. Mi disse che aveva avuto dei problemi, finanziari soprattutto e che quel poco di soldi che era riuscito a mettersi da parte era sparito, aveva bisogno di un annetto per riprendersi e ricominciare da capo; come potevo negargli una mano? A lui, il ragazzo che anni prima mi salvò la vita?
Fu allora che da dentro la carrozza alle sue spalle uscì lui, Castiel. Non lo guardai neanche in faccia, gli diedi le spalle ed invitai Lukas ad entrare. Rimpiango quel giorno in cui eravamo due estranei, mentre invece ora era parte integrante della mia vita, così come lo era diventato anche Lukas.
Smisi di guardare i mobili, tornando a guardare il pavimento, ma la mia mente non smise di continuare a rimuginare su quella persona che potevo definire quasi fastidiosa. Erano ormai sei mesi che Lukas e il suo maggiordomo, Castiel, vivevano con me. Che nome angelico che aveva, eppure tutto mi ricordava, tranne che un angelo. Sarà stato che subito abbiamo riscontrato l'uno nell'altra un carattere molto forte e dominante, o sarà stato che non ci siamo mai sopportati, ma non c'era un attimo che non utilizzavamo per punzecchiarci a vicenda; questo però solo lontano dagli occhi di Lukas, davanti al quale eravamo due perfetti gentleman.
Era un personaggio che mi incuriosiva molto; aveva un aspetto così etereo ed un carattere così insopportabile; intelligente al massimo e con un arguzia infinita. Non mi avrebbe di certo stupito se si fosse accorto che in realtà ero una donna. Ma lo escludevo a priori: ero stata troppo attenta a non far intendere niente, che ero sicurissima. Sapevo però che la convivenza con loro avrebbe portato misure di sicurezza ancora più drastiche; non volevo che nessuno sapesse il mio segreto, ma sapevo che con due ragazzi così attenti avrei dovuto dormire con un occhio aperto.
Ecco finalmente la mia porta. Entrai cercando di non fare rumore; sapevo benissimo che anche se la casa era davvero grande lui mi avrebbe sentito. Con tutto che feci più delicatamente possibile, neanche due secondi dopo me lo trovai alle spalle.
Erano i primi periodi in cui mi chiedevo come facesse, oggi invece questa domanda non me la pongo più, e non perché abbia scoperto la risposta, ma per la semplice abitudine.
Mi girai a incrociai il suo sguardo, cercando di fargli capire che non mi andava di conversare proprio con lui. Infondo su di lui stavo facendo delle riflessioni.
Ma lui imperterrito mi fissava con i suoi occhi blu, cercando di scavare nei miei, che al suo confronto sembravano pallidi. Il mio stupido celeste non sarebbe mai riuscito a competere con l'intensità del suo blu oltremare. Più lo guardavo, più mi chiedevo come facesse ad essere così maledettamente perfetto: mai un capello in disordine. I suoi capelli mori stavano perfettamente al posto loro, senza muoversi di un millimetro. Facevo fatica a guardarlo in faccia, visto che ero nettamente più bassa di lui, così calai lo sguardo, finendo a guardargli il petto. Era perfetto anche fisicamente, con i suoi muscoli appena accennati che gli davano un aspetto salutare, e i suoi addominali perfetti, non un solo filo di pancia; lo detestavo sempre di più ogni secondo che passava. Distolsi nuovamente lo sguardo e lo posai sulla maniglia della porta.
«Si è svegliato finalmente.»
«Già...»
«Il signorino desidera qualcosa?»
Si notava una nota sardonica nella sua voce.
«No, grazie Castiel. Non ho mai avuto migliore risveglio che il tuo starmi tra i piedi»
Mi stavo spazientendo più che mai, come ogni volta che mi stava tra i piedi.
«Non mi dica così, signorino. O penserò che lei non ami la mia presenza. Non ho mai sentito nessuna lamentarsi della mia compagnia»
Aveva qualcosa in mente, lo vedevo. Era come se sapesse che pochi istanti prima stavo studiando la sua figura. E mi stava parlando al femminile. Se non ci avessi riflettuto la cosa sarebbe passata senza alcun problema, ma dovevo ricordarmi di essere un uomo ai suoi occhi.
«Pensi bene Castiel, pensi bene. Non mi importa se le donne cadono ai tuoi piedi, non devi paragonarmi alle ragazze del tuo fan club»
«Il signorino ha tutto il tempo che vuole per prepararsi; lo attenderemo con piacere per la cena. Sappiamo che ci vuole il tempo che ci vuole per prepararsi»
Era una seconda buttata sulla mia femminilità latente.
«Oggi hai voglia di paragonarmi ad una donna? Bhè Castiel, il tempo di una doccia e verrò, non preoccuparti per me. Fai il tuo lavoro principale, il maggiordomo, e non quello che fai a tempo perso, il cascamorto»
Sul suo viso si accese un enorme sorriso.
«Come potrei fare il cascamorto con lei, se è un uomo?»
Mi ero data la zappa sui piedi da sola, ma sapevo che questo era solo lo stupido gioco che facevamo tutti i giorni: quello di stuzzicarci e darci fastidio.
Un gioco che mi dava fastidio, ma che senza il quale non avrei saputo come rapportarmi con lui. Non durò molto il silenzio imbarazzante che si era creato tra noi due, visto che mi guardò come se avesse capito che per me la discussione era finita lì e disse:
«Le lascio il tempo che le serve, noi l'attendiamo giù nel salone. Faccia con comodo signorino e scusi ancora il disturbo. E sappia che non è male; se fosse stato una donna e ci fossimo conosciuti in altre circostanze, magari ci avrei anche provato, signorino»
Quanto mi dava sui nervi quell'espressione che aveva sul viso in quel momento; era convinto di aver vinto, di aver detto l'ultima parola. Non dovevo dargliela vinta, dovevo ignorare il suo ultimo commento.
«Sai che detesto essere chiamato così... eppure continui... sei detestabile»
«Mi perdoni... signorina»
Gliela avevo servita su un piatto d'argento. Rassegnata che per il momento fosse lui ad aver chiuso la conversazione entrai in camera senza dire più niente. Da fuori si sentivano i passi di Castiel e il suo canticchiare odioso. Stava cantando vittorioso, aveva avuto la meglio; ma aveva vinto una battaglia non la guerra. Qualunque cosa facesse mi dava sui nervi, era una cosa più forte di me. Ma non dovevo mica sposarlo, dovevo solo sopportarlo. Decisi di farmi la doccia più veloce della mia vita solo per dare fastidio a Castiel; non immaginavo cosa più bella dell'umiliarlo e di farlo sentire uno stupido. Mi iniziai a spogliare: ecco quello che nascondo da sempre a tutti. Ecco quello che non voglio far vedere a nessuno, il mio più infimo segreto. Anche nella mia nuova camera ho uno specchio di fronte al mio letto e qui finalmente mi vedo per come sono, senza inganni, senza trucchi, senza segreti. Qui posso essere chi sono. Solo qui lo posso essere, solo nello specchio. Sapevo che quelli erano gli unici momenti della giornata che potevo considerarmi fuori dal mondo per un po', fuori dalle vesti di un uomo; potevo tornare me stessa per almeno un quarto d'ora senza pensare a tutti i problemi che potevo avere durante la giornata.
Andai nella stanza adiacente dove si trovava il mio bagno personale.
Davanti a me lo spettacolo più bello che avessi mai visto. Il bagno era pieno di candele che davano al bagno un'aria così calda e quasi romantica, e un'essenza di vaniglia che aleggiava per la stanza.
La vasca stava lì che mi aspettava, pronta per essere utilizzata. L'acqua era calda al punto giusto, lo si vedeva da lontano, e in superficie galleggiavano dei petali di rose rosse. Mi immersi, e per qualche strano motivo arrossii.
«Castiel...»
Era come se mi stesse osservando e se la stesse ridendo sotto i baffi a mia insaputa. Un'altra cosa che mi dava sui nervi; questo suo prendere iniziative.
Ne sapeva una più del diavolo. Si era addirittura occupato di prepararmi il bagno; ciò andava oltre le competenze di un maggiordomo, visto che non era il mio personale. Da donna vidi il gesto come una cosa carina, ma da uomo, che dovevo essere, a bagno finito avrei dovuto fare una sfuriata colossale per la mancanza di rispetto nei miei confronti. Mi aveva preso per una donna che utilizzava fiori e candele? Si stava prendendo troppe confidenze, o meglio si stava avvicinando troppo alla verità con il suo subdolo gioco. Che avesse capito per davvero tutto e che le sue frecciatine fossero mirate nel farmelo capire? No, non poteva essere così, non ora che le cose iniziavano a prendere la piega giusta. Eppure il nostro detestarci era una cosa così ovvia, che non avrei saputo vederci complici di un tale segreto. Chissà cosa sarebbe successo se lo avessi mai incontrato sotto vesti di donna che sono. Forse ci sarebbe stato complicità, forse saremmo stati amici o addirittura amanti. Per un attimo la cosa non mi sorprese: Castiel tutto sommato non era male, e in altre circostanze forse ci sarebbe stata l'opportunità di conoscersi meglio, senza l'uso di battute e frecciate. Ebbi come la visione di noi due vicini, come amanti, mano per la mano a ridere e scherzare. La cosa mi fece sussultare lo stomaco. Due erano le cose: o avevo fame, o la cosa mi disgustava. Visto che di fame non ne vedevo ancora l'ombra esclusi l'ipotesi a priori e continuai a detestare quel maggiordomo così impiccione. Avevo ancora un po' di tempo a disposizione, potevo concedermi un attimo di relax e mi lasciai avvolgere dal tepore dell'acqua.

Fu un attimo. Balzai in piedi dalla vasca con una rapidità inaudita, schizzando lo specchio di fronte alla vasca. Non poteva andare così, non ora, né mai. La maniglia della porta iniziò ad abbassarsi, mi lanciai su di essa e girai la chiave nella toppa, sentii uno scatto, ma non sapevo se ero riuscita a fare in tempo. Restai davanti alla porta, gocciolante ed infreddolita, senza niente addosso, sperando di aver chiuso la porta. Furono cinque secondi di pura follia, dove non sentivo niente tranne il cigolare della maniglia che si abbassava. Poi sentì fare pressione, e vidi che la porta non si apriva. Tirai un respiro di sollievo. Ci era mancato poco, davvero poco, per far si che la mia identità fosse svelata. Sentii subito la sua voce. Chi altro poteva essere.
«Miss tutto a posto? Ha chiuso la porta?»
«CASTIEEEEL!»
Il mio urlo avrebbe echeggiato per tutta la casa se la porta non fosse stata chiusa; infatti rimbombò per due minuti per la stanza. Non so che espressione avesse assunto Castiel dietro la porta, ma non parlò finché l'eco della mia voce non terminò. Pensai di aver esagerato e che se ne fosse andato dispiaciuto. Non lo finii di pensare che subito non perse occasione di smentirmi.
«Signorina, aveva paura di essere vista senza niente addosso? Non si preoccupi poteva dirmelo pure»
La mia collera non fece che incrementare gradualmente. Avevo voglia di sfondare la porta a calci e di assestargli un bel pugno dritto su quella faccia tosta.
«Castiel, cosa diamine vuoi?»
«Le volevo dire che la cena è pronta per essere servita; quando vuole. Noi stiamo di sotto che l'attendiamo»
«Potete incominciare a mangiare senza di me, forse dopo vi raggiungerò»
«Non ha fame?»
«VAI!»
Sentii l'allontanare dei suoi passi, ma aspettai che ci fosse silenzio totale per muovere un passo. Mi avvicinai alla porta.
Era aperta.
Come mai non era entrato allora? Che avesse davvero scoperto la verità? Dopo sei mesi in fondo poteva averlo scoperto senza alcun problema. Non poteva essere, non ora. Mi appoggiai con la schiena vicino alla porta che non si chiudeva per via del chiavistello che avevo inserito.
Lui non poteva sapere, lui non doveva sapere. Eppure era da tre mesi che mi stava lanciando dei segnali forti e chiari. Il suo prendermi in giro non era casuale dunque. Ma come poteva averlo scoperto? Dovevo saperlo, e dovevo chiudergli la bocca, con o contro la sua volontà. Trovai un asciugamano vicino al lavandino, lo presi e lo indossai. Uscii di corsa dal bagno, poi dalla camera e iniziai ad attraversare il corridoio. Ero al limite, dovevo capire cosa sapeva, e cosa voleva fare. Poteva andare da Lukas e raccontargli tutto, così avrei perso il mio unico frammento di famiglia che mi ero creata; non doveva permettersi altrimenti lo avrei picchiato fino a quando non avesse dimenticato anche il suo nome. O poteva ricattarmi, chiedermi soldi, o qualcos'altro in cambio per avere il suo silenzio. Mi aveva in pugno se sapeva una cosa simile.
Ma da più di tre mesi non aveva detto niente, probabilmente non era interessato a ricattarmi o a farmi qualche torto, o forse non sapeva proprio niente. Quando pensai a questa eventualità, mi resi conto che non c'era da perdersi d'animo, si poteva ancora sperare; non tutto era perduto, potevo ancora fare finta di niente e sperare bene che le cose si sistemassero da sole, lasciando correre questo stupido gioco tra di noi. Ritornai in me e feci un respiro profondo. Solo allora mi accorsi che stavo girando quasi svestita per casa; niente di particolare, ma se vuoi fare credere di essere un uomo non puoi girare così conciata quando hai due ficcanaso per casa. Dovevo correre, più veloce che potevo. Iniziai ad indietreggiare lentamente, sapevo bene che quel maledetto Castiel aspettava questa occasione da tempo, mi aspettavo che saltasse fuori da dietro una statua, dovevo assolutamente correre ai ripari. Arrivai davanti alla porta di camera mia, guardai a destra a sinistra: nessuno. Entrai e chiusi la porta a chiave; finalmente ero al sicuro. Mi tolsi l'asciugamano e aprii l'armadio; dovevo trovare qualcosa da mettermi addosso e alla svelta. Proprio mentre cercavo qualcosa udii dei rumori nel bagno. Non di nuovo. La situazione si era invertita, ora c'era qualcuno nel bagno ed io ero nella camera. Mi avvicinai alla porta in punta di piedi e abbassai la maniglia. Chiusa. Perché l'avevo chiusa? Se ora giravo la chiave si sarebbe sentito un rumore infernale, come prima. Già, se prima non lo aveva sentito magari avendo un po' di fortuna potevo uscirmene. Questa speranza svanì in un millesimo di secondo.
«Signorino Joey, ma cosa ha combinato qua? C'è un lago per terra»
Maledetto Castiel, lui e le sue manie da maggiordomo; anche se sapevo che era più la sua passione ad infastidirmi che lo aveva portato ad entrare nella mia camera senza permesso, piuttosto che la sua dedizione al lavoro.
Sapevo che stava per uscire da quel bagno, non aspettava altro che venire a curiosare in giro, quindi afferrai l'asciugamano che avevo lanciato a terra e corsi verso il balcone per chiudere le tende; speravo che al buio si potesse evitare l'inevitabile. Per quanto perfetto non poteva avere anche la vista notturna come i gatti; anche se non mi sarei stupita più di tanto nel sapere che avesse qualcosa di anomalo e bestiale. Mi misi quasi a correre, senza far caso per la prima volta in vita mia al non fare il minimo rumore. Arrivai davanti al balcone, con il cuore sollevato, consapevole che ce l'avevo fatta, che ero riuscita nell'impossibile, nel salvaguardare la mia identità.
Qui le cose cambiarono del tutto.
Il cigolare della porta adiacente.
La paura e il timore che avevo accumulato per tutti quegli attimi, delle settimane, degli anni si rifecero vivi tutti insieme, senza darmi il tempo di reagire attivamente, ma lasciandomi solo ad un palmo di naso dalla tende con in mano ancora il lembo che stavo per tirare. La porta del bagno scivolò in un modo così armonioso dopo il primo scricchiolio, che sembrava quasi non toccare terra. Castiel uscì dal bagno ed eccolo, girarsi verso di me. Sbiancai completamente.
Lui aveva in mano altri asciugamani che probabilmente aveva preso per rifornire il bagno. Vidi il suo viso più chiaro che mai: aveva un'espressione così criptata, così strana, che nemmeno sua madre sarebbe stata capace di capire cosa potesse esprimere. I suoi occhi si erano sgranati; un sopracciglio alzato, e stava completamente immobile. Io continuavo a fissarlo senza dire niente; ormai non c'era più tempo per parlare, per spiegare; cosa avrei dovuto spiegare a lui infondo? Non erano che pochi mesi che ci conoscevamo. Non avevo detto niente a Lukas, figurarsi a lui, il suo maggiordomo, con il quale non avevo neanche un rapporto di amicizia, o di confidenza.
La sua espressione cambiò; la sua faccia si rilassò improvvisamente e non mi guardava più come un qualcosa di strano ed imprevedibile.
Non disse niente; a piccoli passi mi si avvicinò e mi guardò negli occhi.
Erano più blu che mai quella sera, o era la sua faccia che era più bianca del solito; forse era la luna che gli sbatteva così violentemente in faccia che lo faceva sembrare talmente pallido, o forse era stata la sorpresa ad averlo fatto sbiancare, non saprei. Nel mio cuore capii che era tutto finito, che non c'era più niente da recuperare e che quella minima meta che avevo raggiunto stava sfumando nel blu dei suoi occhi. Ma ero comunque un suo superiore, dovevo mantenere la mia fierezza e continuare ad essere forte, doveva comunque vedermi ancora come il Signor Joey, padrone di casa.
Alzai la testa, come se fossi stato un condottiero pronto a scatenare il suo esercito contro il nemico, pur sapendo della ovvia sconfitta, con quel minimo di orgoglio che poteva ancora conservare. Spalle in dentro e petto in fuori: era questo che insegnavano quando volevano dare il giusto esempio di compostezza. Cercavo di fissarlo con intensità, quasi cattiveria, come se volessi minacciarlo di non parlare; ma non credo di essere riuscita a fare nemmeno una di queste cose a dovere; mi limitai a cercare di tenere un'espressione calma e pacata, evitando di crollare. Buoni propositi che svanirono quando sentii un nodo alla gola. Conoscevo bene quella sensazione, era quella che provavo quando mi veniva da piangere. Era come se mi avessero messo un peso enorme tra la gola e il petto, che pesa e brucia. Ha lo stesso effetto lacrimogeno che possiedono le cipolle quando vengono tagliate; moltiplicato per dieci però.
Non dovevo piangere, non ora, non di fronte a lui, non potevo farmi vedere debole. Dovevo dire qualcosa di fermo, di deciso, che chiarisse la situazione e chiudesse l'argomento per sempre.
Riuscii solo a mugugnare.
Castiel continuava a guardarmi negli occhi, senza proferir parola. Poi si girò, lasciò cadere tutti gli asciugamani sul letto tranne uno, quello più grande, che aprì e me lo passò sulle spalle, coprendomi. Fece tutto con una rapidità estrema che quando mi aveva coperta, gli asciugamani dovevano ancora toccare le coperte; si posarono con estrema grazia a terra, ai piedi del lenzuolo blu, come i suoi occhi, senza scomporsi, proprio come lui. Perché nella mia testa giravano sempre frasi ed argomenti con lui presente? Su dieci parola una era Castiel, che ne parlassi bene o male.
Sentivo il nodo che premeva, più pesante in gola, era arrivato a bruciarmi, a lacerarmi, sentivo la gola in fiamme.
«Ca-Castiel...»
Lui mi strinse al petto e il nodo arrivò a lacerarmi la gola di netto e le lacrime uscirono da sole. Tentai di trattenerle, ma loro imperterrite continuavano a uscire e il nodo continuava a straziarmi.
Sentivo il calore del suo petto sulla mia guancia, accompagnato da quelle lacrime che stavano scendendo contro la mia volontà; sentivo il suo cuore battere ad un ritmo molto rassicurante. Batteva all'unisono con il mio. Sentivo quel calore più che mai, ma non riuscii a distinguere se era il calore del suo corpo o quello della tranquillità che mi stava trasmettendo in quel momento.
Decisi di lasciarmi andare; in quel momento lui non era il maggiordomo delle frecciatine e delle battute, ma era Castiel, l'unica persona che condivideva il mio segreto e che teneva tra le braccia Joelle.
Detesto ancora pensare a quel momento; l'unico nella mia vita in cui mi sono sentita davvero indifesa.
Così come mi aveva stretta al petto, tra le sue braccia sicure e amorevoli, mi lasciò. Si chinò a raccogliere la pila di asciugamano che era finita a terra. Ora ero io quella sconvolta. Mi aveva lasciato così, senza un perché, senza una spiegazione, senza chiarire quello che era successo. Ero preoccupata per come la cosa potesse finire, o forse stavo rimpiangendo quell'abbraccio dal quale ero stata strappata. Non sapevo cosa aspettarmi ora; eravamo ritornati al maggiordomo delle frecciatine, o era ancora il mio Castiel?
Mio? Quando mai era stato mio... nella testa mi stavano passando tanti di quei pensieri che non so neanche io che cosa pensavo in realtà. Di una cosa ero sicura: faceva più freddo ora, senza lui accanto a me. Non si girò, non mi guardò negli occhi; non mi guardò nemmeno in faccia se è per quello. Una volta raccolti gli asciugamani tirò dritto, verso la porta. Mentre stava uscendo mi disse:
«Tra dieci minuti servirò la cena; la prego di essere puntuale signorino Joey» E uscì.
Uscì dalla porta proprio come uscì dalla vita di Joelle. Ci aveva messo pochissimo per entrare nella vita di quella ragazza, quella ragazza che soffocavo ogni giorno, e ancor di meno ci aveva messo ed uscirne. Quindi era tutto finito. Tutto qui? Niente muri che crollano, grandi rivolte o i miei infimi segreti svelati? Era ancora tutto da vedere, ma per il momento le cose erano in stallo.

C. Jay Myler
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