Disclaimer: i personaggi sono copyright di Fujimaki Tadatoshi.
Note: questa cosa è rimasta a
prendere polvere, perché l’avevo totalmente dimenticata 8D
Conterà di tre capitoli, massimo tre + epilogo, per lo più già scritti, quindi
conto di risparmiare a chi leggerà l’agonia dei miei
aggiornamenti lunghissimi.
Attenzione, il rating potrebbe
passare da arancione a rosso in corso d’opera; sto vivendo un momento
conflittuale tra il “ma ci sta che arrivi al rosso?” e il “ma io odio scrivere
rating rosso”. Pace.
1.
The day I met the human
boy
Quando guardava davanti a
sé, sistemandosi su uno dei rami più alti – e per questo più isolati – della
quercia secolare su cui era solito rintanarsi in cerca di un po’ di
tranquillità, il panorama mutava di rado.
Da quel lato della montagna non vi erano costruzioni di fattura umana a violare
brutalmente il verde naturale della foresta; il proprio sguardo abbracciava
solo un rilassante paesaggio incontaminato.
Di luoghi di montana Junpei ne aveva visti diversi, ma – vuoi per una questione
di abitudine o, come i più giovani a cui piaceva fantasticare dicevano, per
affetto – quella che lo ospitava da più di un secolo e mezzo gli era
particolarmente cara, quasi quanto quella che aveva ospitato la sua nascita e
fanciullezza.
A rendergliela poi ancora più gradita era l’assenza di città umane nelle
immediate vicinanze: l’unico insediamento degno di nota era un paesino di
piccole dimensioni dal lato opposto a quello verso cui stava volgendo lo
sguardo. Esso contava un numero davvero esiguo di abitanti rispetto alle
odierne “grandi città” e il grosso della popolazione era adulta abbastanza da
non potersi permettere una gita di almeno un’ora per raggiungere il tempietto
ai piedi della montagna, dove si offriva cibo per ingraziarsi le divinità o chi
per loro. Oppure, se erano sufficientemente giovani da poterlo fare, era il
totale scetticismo ad impedirglielo.
A Junpei la cosa andava a genio: troppo a lungo aveva avuto modo di osservare
gli umani che, di per sé, erano creature affascinanti solo se non le conoscevi
troppo; era come i misteri del mondo o della vita, che una volta svelati nella
loro totalità perdevano completamente quel qualcosa che li aveva resi
interessanti.
Aveva visto di loro i lati peggiori e – sebbene più raramente – quelli
migliori; tuttavia, con il passare degli anni erano degenerati, non sapeva se
perché la riverenza di un tempo nei confronti delle forze della natura e delle
divinità fosse venuta meno o se i motivi erano altri, ma il risultato era
comunque una razza capace delle più infime bassezze e macchiata di un cieco,
istintivo, naturale egoismo.
Nauseanti.
«Junpei-dono!»
Aveva imparato fin troppo bene che a quell’appellativo e a quella voce agitata
non seguivano mai comunicazioni interessanti; anzi, era quasi sempre una
seccatura, e altrettanto spesso l’errore di qualche tengu
giovane a cui lui avrebbe dovuto rimediare.
Sospirò stancamente, facendo una lieve pressione con le mani sul tronco dove
sedeva, come per alzarsi; l’istante dopo era a terra.
«Dimmi.» incalzò il giovane di fronte a lui, che sembrava visibilmente
sollevato dall’averlo trovato: «Junpei-dono, poco distante dal piccolo spiazzo
vicino al torrente è stato avvistato…» deglutì, in ansia per quanto sarebbe
seguito.
Junpei inarcò un sopracciglio: quale calamità si erano attirati addosso i suoi
stupidi sottoposti, stavolta? O qualcuno di sgradito – di qualche altro clan,
magari – stava per fargli visita?
«Ebbene?» lo incalzò.
«Un cucciolo.»
Junpei sentì di stare perdendo ogni volontà di ascoltare oltre, ma sapeva di
non potersi sottrarre: «…un cucciolo.» ripeté osservando il più giovane,
scettico.
«D’uomo, signore. Un bambino umano.» chiarì quello.
Ah, ecco. Un bambino.
Lo sbraitare di Junpei
aveva animato per dieci minuti abbondanti la normale quiete del santuario che
fungeva loro da casa; i più giovani tra i tengu avevano temuto una punizione
collettiva ma, alla fine, sembrava se la fossero cavata con quello sfogo fatto
di insulti sulla stupidità della nuova generazione e l’inaffidabilità di chi
avrebbe dovuto istruirli a dovere.
Dopodiché si era diretto nel luogo dove il piccolo umano era stato avvistato.
I tengu non erano creature famose per la loro spiccata pazienza, ma Junpei
emergeva per averne anche meno del normale, il che suonava strano dato il suo
essere uno dei più anziani del clan subito dopo i gradi più alti della
gerarchia su cui si basava la loro società.
C’era stato un tempo in cui la presenza di un bambino umano nel loro territorio
non sarebbe stata considerata strana e, soprattutto, non pericolosa; in
antichità non di rado alcuni bambini venivano smarriti dai propri genitori, e
ritrovati poi distanti da casa, in stato confusionale. Era uno scherzo tipico
della sua razza, una pratica a cui gli umani avevano persino dato un nome.
Poi un giorno, tanti anni prima, quando Junpei stesso era ancora poco più che
fanciullo, la cosa si era ritorta contro di loro: un gruppo di umani
particolarmente coraggioso – o furioso, aveva pensato all’epoca – aveva
risposto all’ennesima sparizione con il fuoco; e non in senso metaforico, ma
appiccando un incendio ad uno dei loro santuari, mietendo numerose vittime tra
i tengu del clan che vi abitava.
Era stato un duro colpo per la loro comunità e per la razza generale, un lutto
che aveva portato tutti loro a riflettere e ad essere più prudenti; a distanza
di secoli, quella pratica si era via via persa fino
ad essere considerata non proibita, ma caldamente sconsigliata.
Non erano più tanti come una volta e soprattutto non possedevano più quella
spavalderia che li portava ad un insaziabile desiderio di stuzzicare le altre
creature.
A parte i novizi: loro sembravano sempre in vena di cose stupide, non importava
in quale epoca o sotto quali regole vivessero. E quando ciò succedeva toccava
ai più grandi – come in quel momento stava succedendo a Junpei – rimediare; non
era un compito particolarmente gravoso in verità, giacché consisteva in un
semplice individuare la vittima, addormentarla se aveva già ripreso conoscenza
e portarla ai piedi della montagna o in un punto dove i suoi compaesani
avrebbero potuto ritrovarla senza troppi inconvenienti.
Nessun contatto, nessuno scambio di parole, nessuna scoperta riguardo la loro
esistenza.
«Mh…» mormorò piano a se stesso, non appena fu
atterrato sul ramo di un albero ed ebbe occhieggiato la piccola radura indicata
dalla comunicazione che aveva ricevuto in merito al posto in cui il bambino
avrebbe dovuto trovarsi.
Peccato non ci fosse ombra di essere vivente o di spirito; solo il rumore del
piccolo ruscello poco distante.
«Signore?»
Per un attimo nella mente di Junpei passarono molte cose, dalla più brutale
delle imprecazioni – che avrebbe fatto vergognare di sé il capo del loro clan –
ad un brivido di terrore, non dato tanto dalla paura per sé che sapeva
certamente difendersi contro un umano ma per la propria comunità, che teneva
nascosta la propria esistenza per un motivo preciso ed intuibile. Tuttavia non
fece movimenti bruschi, voltandosi lentamente ed inquadrando infine la figura
che aveva parlato: erano anni, secoli
che non guardava così da vicino un bambino umano.
A dire il vero, di primo acchito non reputò particolarmente intelligente la sua
espressione: aveva tratti comuni che non lo rendevano certamente speciale ai
suoi occhi, se non per un unico dettaglio da ricercare tanto nello sguardo
quanto nell’espressione, ossia la totale assenza di confusione e paura. Ciò lo
rendeva vagamente interessante, e al tempo stesso problematico; a Junpei,
nemmeno a dirlo, i problemi non erano mai piaciuti.
«Ti sei perso?»
«Hai le ali?» chiesero simultaneamente, l’uno rivolto all’altro; il tengu
inarcò un sopracciglio – non gli piacevano nemmeno i bambini e, in generale,
gli umani curiosi: non portavano nulla di buono. D’altra parte non poteva
nemmeno rimproverarsi di essere stato poco cauto, perché chi mai si sarebbe
aspettato un bambino sperduto che si
arrampica su un albero?
Quello si sedette con attenzione a non scivolare, dandogli l’impressione di
movimenti tutto sommato metodici di chi è abituato a compierne di simili quasi
ogni giorno. Quando fu comodo, si vide rivolgere un ampio sorriso: «Stavo
cercando la strada dall’alto! Nonno dice sempre che se ti perdi devi guardare
da sopra, perché è più facile trovare la via.» spiegò con un certo orgoglio.
Junpei mise da parte il fatto di avere ancora le ali visibili, reputando
inutile nasconderle a quel punto quando erano state viste comunque, e si
concentrò sulle parole pronunciate dal ragazzino: si era perso. Questo
presupponeva che non lo avesse portato qualcuno della sua razza lì per dispetto,
ma che il piccolo umano vi si fosse diretto per conto suo, per chissà quale
motivo.
Ciò non era una consolazione, tutt’altro: avrebbe dovuto confondere la sua
memoria prima che l’immagine dello stesso Junpei prendesse una forma troppo
precisa nella sua mente.
«Allora sono ali vere, quelle?» lo sentì chiedere nuovamente, nella voce e
nello sguardo un entusiasmo facile da individuare; sospirò rassegnato: «Sì, sì,
quello che vuoi.»lo blandì, pronto ad operarsi per sbrigare la faccenda in
fretta e tornare alla sua contemplazione silenziosa dell’altro versante della
montagna, quando il ragazzino decise che era un’idea intelligente – sempre
detto che quelli della sua razza erano immancabilmente stupidi – alzarsi di scatto pieno di entusiasmo.
Su un ramo.
«Davvero?!» esclamò incredulo, con un ampio sorriso e nel breve tempo che
impiegò a scivolare giù rischiando di rompersi qualche osso Junpei si era
proteso in avanti di riflesso, afferrandolo per un braccio e attutendone la
caduta galleggiando in aria d’istinto.
Quando posò i piedi a terra e il suo sguardo incrociò quello meravigliato e
felice del piccolo umano, comprese di aver appena fatto un’idiozia persino più
grande di quel moccioso suicida che aveva appena salvato.
Non c’era stato alcun
seguito strappalacrime in cui lui e quel ragazzino diventavano amici seppur di
età e razze diverse, dopo quell’episodio. Junpei aveva fatto ciò che doveva:
l’aveva stordito, gli aveva confuso i ricordi e lo aveva riportato
personalmente ai piedi della montagna.
Fine della storia, o così era si era convinto sarebbe stato.
L’anno seguente l’accaduto si era ripetuto e lui si era ritrovato davanti lo
stesso ragazzino, forse qualche centimetro più alto ma innegabilmente lo stesso
sorriso, lo stesso sguardo entusiasta e la stessa aria beota.
Succedeva che a volte i ricordi degli umani confusi dai tengu tornassero nitidi
abbastanza da dargli un vago sentore di cosa fosse successo ma, generalmente,
più erano giovani quando venivano confusi e meno tutto riacquistava un senso, o
lo faceva in modo nebbioso abbastanza da non fargli tornare la voglia di
avventurarsi lì. Senza contare che dopo una prima sparizione e conseguente
ritrovamento, gli adulti tenevano i bambini lontani abbastanza perché questi
rimuovessero dalla loro memoria l’intero incidente, così come la paura
instillata in loro dai più grandi; a quel punto nessuno di loro ricordava mai.
Il terzo anno consecutivo in cui se lo ritrovò vicino al ruscello, perse la
pazienza.
«Forse dovrei lasciare che gli altri spiriti ti mangino: mi creerebbe meno
problemi!» sbottò irritato mentre si ritrovava a guardare l’espressione allegra
di quel ragazzino strambo. Gli umani non ricercavano mai la compagnia degli
spiriti o dei “mostri”, come li definivano alcuni di loro: se la prima volta
poteva essere stato troppo piccolo e sorpreso per provare timore, e la seconda
confuso, la terza era stupidità o qualcosa di negativo senza dubbio.
«Urgh… che cosa cattiva.» disse abbozzando un sorriso
meno disteso, ma ugualmente e inspiegabilmente fiducioso che fece storcere il
naso di Junpei.
Sembrava proprio che non si potesse evitare un ulteriore contatto con lui come
chiedergli cosa volesse, il che era sinonimo dell’immischiarsi nelle faccende
umane, cosa che aveva sempre evitato accuratamente di fare; d’altra parte
temeva che una nuova manipolazione della sua memoria sarebbe stata inutile.
Ogni volta che essa tornava intatta abbastanza da permettergli di recarsi di
nuovo lì a cercarlo, era come un anticorpo che si forma contro il virus di
turno: la possibilità che quella tecnica funzionasse era sempre minore.
«Devi smettere di venire qui. Non è un posto per quelli come te.» chiarì, non
senza una sfumatura di antipatia nella voce, senza fare nulla per nascondere
anche solo vagamente il suo astio nei confronti della razza umana; non che il
ragazzino gli avesse fatto qualcosa. Era solo una pessima sensazione a pelle.
«Lo so, lo dice anche il nonno.» ammise con un sorriso impacciato, come tutti i
ragazzini – in questo gli ricordava vagamente i novizi del suo clan – che sanno
di aver fatto qualcosa di sbagliato, sono stati sgridati, ma loro malgrado lo
hanno fatto nuovamente: «È solo che» riprese approfittando di non essere stato
ancora interrotto dal tengu «non so ancora come ti chiami.» concluse, tirando
un sospiro di sollievo che Junpei non seppe interpretare.
Tre anni di seguito a ritrovarsi su una montagna il tempo necessario a farsi
manipolare i ricordi da lui, solo per chiedergli il nome?
«…ma sei stupido?» ribatté incredulo, fissandolo. Non importava quanto avesse
avuto modo di osservare gli umani, quello era troppo persino per lui: erano
imprevedibili, certo, ma sempre in accezione negativa e a quell’età – che tra i
tengu lo avrebbe reso coetaneo di un piccolo appena uscito dall’uovo – non
aveva mai visto nulla di diverso dalla paura negli sguardi che si erano
casualmente posati su creature come lui.
Gli era estranea quella curiosità semplice e genuina; specialmente perché
“innocenza” era qualcosa che aveva smesso di accostare agli uomini: maggiore
era stato nel tempo il potere che avevano acquisito, i mezzi che avevano fatto
propri, più evidente era stata la perdita di ciò che un tempo avrebbero
definito “valori”.
L’ingenuità e la bontà d’animo disinteressata erano fra queste.
«Junpei.» borbottò infine, burbero.
«…è così che ti chiami?»
«Così pare.» ribatté, già pentito per quella debolezza. Non che ci fosse un
particolare pericolo a rivelare il suo nome… non più di quello insito
nell’instaurare un legame.
Abbassare la guardia solo perché si trattava di un bambino non era una scusa
sufficiente o che avrebbe accettato se qualunque tengu gliel’avesse propinata;
eppure ora la stava rivolgendo a se stesso come giustificazione a quello che –
dovette ammetterlo a malincuore – era un guizzo di curiosità nei confronti di quello
strano esemplare di umano.
«Aaah, Junpei-san!» esclamò come se si fosse reso
conto solo in quel momento di aver finalmente ottenuto il nome che tanto aveva
desiderato, facendosi avanti e prendendo la sua mano nelle proprie, più piccole
e dalla pelle liscia e morbida. Notò che gli occhi gli brillavano di vivace e
puro entusiasmo.
Distolse lo sguardo, come se fosse troppo da guardare, dopo anni di lerciume e
animi lordi.
«Allora?» lo incalzò burbero «Com’è che ti chiameresti, tu?» chiarì la domanda,
notando il sorriso che il più piccolo gli rivolgeva farsi persino più ampio.
«Teppei!» replicò senza perdere tempo «Kiyoshi Teppei!»
Con il senno di poi,
Junpei ammise con se stesso – mai con altri – che era stato disonesto affermare
di aver creduto anche solo per un istante che far contento quel ragazzino,
dicendogli il proprio nome, avrebbe messo fine a quelle visite annuali.
Non solo Teppei si era fatto vedere di nuovo, aspettando sempre nello stesso
posto, ma vi si era recato sempre più spesso; l’intervallo di tempo molto lungo
che le volte precedenti aveva coperto quasi un anno tra una visita e l’altra
era stato dovuto alla confusione dei suoi ricordi, che impiegava mesi a
placarsi e a rimettere insieme tutti i pezzi fino a suggerirgli – se non
l’intento vero e proprio delle sue visite – il bisogno di muoversi e la
curiosità di andare a cercare qualcosa.
In assenza d’intervento da parte di Junpei, tutto quello era venuto a mancare:
Teppei veniva fermato principalmente dall’inverno particolarmente rigido dei
luoghi come quello, quando la neve ricopriva la montagna – e il piccolo paese
ai suoi piedi – divenendo un posto poco consono ad una passeggiata.
Ma all’infuori di quello e della pioggia, nessuna stagione teneva l’umano
lontano da quello che era diventato il loro posto per incontrarsi.
Non che Junpei vi si fosse recato subito e sempre: era capitato più volte che
impegni nella sua comunità lo esigessero, e in molte altre occasioni non si era
mosso per pura testardaggine, conscio della presenza di Teppei vicino al
ruscello e del suo attendere a volte anche per ore.
Dentro di sé assecondava al tempo stesso l’istinto di avvicinarlo e quello di
scacciarlo.
Le volte in cui però gli concedeva la propria compagnia – non senza essere
profondamente irritato proprio da quella sorta di resa da parte propria a non
lasciarlo per l’ennesima volta solo ad aspettare per chissà quanto tempo –
Teppei parlava senza sosta, e raramente gli chiedeva delle cose; se faceva
domande, non insisteva mai troppo, dimostrandosi meno molesto di quanto Junpei
lo avesse di volta in volta giudicato in base a niente più di un pregiudizio
sulla sua razza.
A volte portava con sé del cibo che gli offriva, cose semplici come delle
polpette di riso o pranzi leggeri e pratici da portare fin lì: gli alimenti che
assaggiava sapevano di tempi passati e raccolti, di ricette vecchie che nessuna
spezia odierna sapeva eguagliare.
«Lo ha preparato la nonna.» aveva detto una volta, notando forse che il cibo
era stato particolarmente apprezzato dal tengu, e in quell’occasione Junpei
aveva appreso che il ragazzino era originario del paese e vi abitava, con i
nonni. Non aveva mai domandato dei genitori, perché non gli interessava e
avrebbe creato uno scomodo legame basato su un vicendevole scambio di
confidenze che non era sua intenzione instaurare.
Di contro era stato molto più facile capire perché tanta ostinazione nel
recarsi lì: il paese non ospitava molti umani della sua età, tanto che non era
sede nemmeno di scuole da un certo anno d’età in su, per le quali – così gli
aveva raccontato – dovevano spostarsi nella piccola città che distava un
discreto quantitativo di tempo e di strada che lui percorreva principalmente
con mezzi pubblici, non potendo coprire l’intera distanza con la sola
bicicletta che usava invece per spostarsi dal paese alla montagna.
Così ogni volta Teppei andava lì e lo aspettava, e Junpei non sempre lo
raggiungeva oppure lo faceva ma non subito, quasi cercando di scoraggiarlo; le
prime volte aveva perso anche diverso tempo ad essere interrogato dai giovani
tengu del suo clan, ben consci non solo della sua avversione agli umani in
generale, ma alla sua scarsa pazienza con i giovani e i bambini, a prescindere
dalla razza cui essi appartenevano.
Junpei si irritava, perché non era in grado di dare una risposta.
In quel modo erano passati sei anni.
Durante quel periodo di
tempo così lungo per gli umani e così breve e insignificanti per le creature
come i tengu, Junpei aveva finito
per tradire l’unico proposito che si era posto nel momento in cui aveva scelto
di accordare la propria compagnia a Teppei: quel bambino gli era diventato
caro.
Di per sé non vi era nulla di tragico come una regola della sua comunità che
gli impedisse di relazionarsi ad un umano, pena qualche atroce tortura o
terribile punizione; Junpei aveva piuttosto cercato di preservare se stesso
autolimitandosi in qualche modo. Mantenersi scostante, però, era stato più
difficile di quanto avesse mai creduto possibile. Non avrebbe saputo spiegare
in cosa stesse la difficoltà, almeno finché il capo del suo clan non aveva
voluto parlare con lui a proposito “dell’umano che gli gironzolava intorno”,
com’era stato definito – e non a torto.
La chiacchierata si era rivelata piuttosto informale per la verità: l’anziano
aveva raccontato di quando, un tempo lontano secoli tanto che nemmeno Junpei
era ancora nato, lui stesso aveva avuto a che fare con gli uomini. Anche prima
di allora li aveva sempre definiti creature a loro modo affascinanti, senza che
il tengu più giovane riuscisse mai a comprenderne appieno le motivazioni o a
dirsi completamente d’accordo con esse e con il pensiero generale.
«Certo è strano saperti attaccato ad uno di loro.» aveva ammesso con un sorriso
divertito, pur nella sua solita calma; Junpei in sua presenza si era sempre sentito
come un tengu che ha preso da poco coscienza di come va il mondo, e quella
sensazione si era ripresentata intatta in quella stessa occasione.
«Deve essere speciale.»
«Non particolarmente, signore. È umano come tutti gli altri.» aveva
bofonchiato, poco sicuro delle proprie stesse parole, ma certo che fossero più
ingannevoli di quanto fosse stato nelle sue intenzioni renderle.
L’anziano aveva riso: «Junpei, ti ho visto uscire dall’uovo e diventare un
tengu saggio. Incline all’irritazione e con meno pazienza di quanto ci si
potrebbe aspettare, ma sei una buona guida per i novizi e un accorto compagno.
Ma nessuno meglio di me sa quanto poco ti siano mai interessati gli umani, se
escludiamo il volergli trovare dei difetti.» aveva osservato acutamente, sorseggiando
il tè che aveva avuto la funzione di scusa per quell’incontro.
Junpei si era ritirato nei propri pensieri, cercando di darvi un senso più di
quanto nel tempo e fino a quel giorno fosse riuscito a fare.
«Mi è solo sembrato diverso. Dà quasi l’impressione di aver risparmiato a se
stesso quella corruzione che generalmente anima la sua specie.» aveva ammesso
infine, anche se non era esattamente tutta la verità, benché rappresentasse
forse la ragione più importante.
«Nessun bambino nasce corrotto, Junpei, non nella loro specie più che nella
nostra. È la via che intraprendono – che tutti noi scegliamo – che ci porta al
male o al bene. È un delicato equilibrio che esiste già dentro di noi, questo
lo sai.» aveva fatto notare, rivolgendogli un’occhiata eloquente sebbene
bonaria e priva della sfumatura di un rimprovero.
Allora Junpei aveva pensato agli incontri di quegli anni, alle volte in cui
Teppei era tornato come un fedele suddito nel luogo d’incontro, sempre
fiducioso e come se nemmeno lo sfiorasse il dubbio di non dover essere lì o che
avrebbe atteso inutilmente qualcuno che non si sarebbe presentato. A volte il
tengu era rimasto ad osservarlo in cima a qualche albero, pur arrivando prima
del ragazzino, curioso di vedere se si sarebbe stancato di aspettare e se si
sarebbe arreso, tornando sui propri passi.
Non era mai successo.
Non soltanto quando Teppei era stato bambino, ma anche crescendo e raggiungendo
gli anni dell’adolescenza, in cui tutt’ora si trovava; nulla lo aveva mai
scoraggiato, e quando alla fine Junpei finalmente si mostrava a lui come se
fosse arrivato in quel momento, c’era sempre un sorriso ad accoglierlo; quello
e un incomprensibile ottimismo.
Il ragazzino andava a trovarlo quando poteva, tranne che in inverno: con la
neve era troppo pericoloso addentrarsi nei sentieri di montagna non solo perché
si rischiava di perdere la via, ma anche perché il freddo era pungente e il
tempo variava fin troppo facilmente. Una sola volta quell’umano aveva azzardato
tanto e Junpei lo aveva recuperato davvero per un pelo in mezzo agli alberi e
alla neve, intirizzito e con le guance e il naso rossi, da tutt’altra parte
rispetto al solito spiazzo vicino al torrente. Aveva visto per la prima volta
una legittima paura nel suo sguardo e occhi lucidi che preannunciavano il
pianto – e aveva pianto, specie dopo che Junpei gli aveva gridato contro di
essere troppo stupido per meritarsi di essere salvato, perché nessuno sano di
mente avrebbe fatto una cosa del genere e quella era stata l’unica volta che
Teppei aveva alzato la voce contro di lui.
Per tutto il tempo, tra le mani aveva tenuto una sciarpa per lui – per Junpei –
aspettando, per paura che il freddo della montagna fosse troppo persino per un
tengu.
Junpei la teneva ancora, sebbene non la usasse granché e dal momento in cui
l’aveva accettata, posando una mano fra i capelli castani in un gesto gentile
che aveva sorpreso lui stesso, non era stato più capace di odiare quell’essere
umano così piccolo e già così testardo.
«Ah, Junpei-san!» lo sentì
prima ancora di individuarlo, seduto all’ombra di un albero vicino al corso
d’acqua, una mano levata in aria
per farsi notare. Non che servisse davvero: in sei anni di incontri – durante i
quali erano stati più i racconti di Teppei sugli umani, che non i suoi sulla
propria razza – lo aveva visto crescere ad una velocità sconvolgente per lui,
che con gli uomini aveva sempre avuto poco a che fare, fino a superarlo in
altezza di tutta la testa. In ogni caso, non c’erano così tante persone in
quella zona da non essere fin troppo facile da individuare in mezzo al verde.
Scese, fluttuando come se fosse la cosa più normale del mondo, fino a toccare
terra con i piedi: era passato il periodo in cui Teppei si stupiva di tutto
come era ovvio che un umano facesse. Ora era abituato a quasi tutto ciò che di
sovrannaturale c’era in Junpei: fluttuare in aria, le ali dal piumaggio scuro
che non sempre nascondeva visto che ormai non ce n’era davvero bisogno con lui,
alcune vecchie usanze dei tengu e così via. Su richiesta una volta gli aveva accennato
qualcosa della loro società di tipo gerarchico, senza mai andare troppo nello
specifico comunque; Teppei sembrava sempre farsi bastare ciò che diceva, senza
lamentarsi quando si interrompeva come se oltre ciò che pronunciava vi fossero
segreti inconfessabili.
Al contrario, Junpei quando l’altro era bambino non lo aveva frenato troppo nei
suoi racconti – quando si era abituato al fatto che chiacchierasse più di lui
di tutti i novizi tengu messi assieme, per il semplice fatto che Teppei non era
in soggezione in sua presenza a causa di un rapporto di subordinazione.
Aveva appreso da lui molto più di quanto avrebbe davvero voluto sapere degli
umani in quell’epoca, ma fortunatamente i racconti avevano sempre avuto quel
qualcosa di personale da renderli non un riassunto su una razza che a conti
fatti non amava granché, ma più una narrazione di ciò che Teppei vedeva,
sentiva.
Così era venuto a conoscenza del fatto che vivesse con i nonni – e non aveva
mai chiesto dei suoi genitori di proposito – in quel paesino, fatto di troppi
adulti e troppi pochi bambini della sua età; che l’educazione dei due anziani
però era probabilmente ciò che aveva reso quel ragazzino meno sgradevole di
molti altri della sua specie, ciò che aveva conservato in lui quell’innocenza che
aveva notato fin dall’inizio, seppure inconsciamente.
Ogni volta Teppei gli raccontava qualcosa di nuovo, ma sempre dall’atmosfera
quotidiana e personale: della scuola degli umani, non poi così diversa
dall’ambiente di prima formazione dei tengu, degli amici, del tempo libero, dei
cibi che gli piacevano e quelli che non amava mangiare, di quelli che imparava
a cucinare e di quelli che erano ancora troppo ostici da fare. Gli aveva
raccontato della volta in cui in un tema scolastico aveva parlato di Junpei,
anche se non aveva detto che era un tengu, e di come lo avessero preso in giro
quando si era rifiutato di portare i compagni da lui perché aveva promesso di
non dire mai dove il tengu vivesse e per questo era stato considerato un
bugiardo. Del giorno in cui suo nonno si era arrabbiato con lui perché Teppei
aveva portato in casa un cucciolo abbandonato e sua nonna gli aveva insegnato,
con pazienza e dolcezza, che prendersi cura di un altro essere vivente era
difficile e comportava grandi responsabilità; che non era un impegno che si
potesse prendere a cuor leggero, perché se poi non si era in grado di portarlo
a compimento l’altra parte avrebbe sofferto.
In quell’occasione – come in altre seguite negli anni – Junpei aveva guardato
quello che era poco più di un bambino parlare di cose tanto complicate come
prendersi cura di un’altra persona e gli aveva rivolto un raro gesto gentile,
notando come il viso di Teppei si illuminasse di un sorriso felice e grato,
qualcosa a cui Junpei non era mai stato abituato.
«Quando mi chiami in quel modo mi ricordo che sei ancora un moccioso, solo più
grosso.» pronunciò quando fu ad un paio di passi da lui, incontrando sul suo
viso niente di diverso dal solito incurvarsi di labbra allegro e gentile che lo
accoglieva sempre. Lo vide spostarsi leggermente di lato, per fargli spazio
all’ombra; Junpei si sedette a gambe incrociate.
«Ma ho sempre usato ‘Junpei-san’ da quando ci conosciamo.» fece notare, mentre
dal proprio lato sinistro recuperava una borsa e tirava fuori da essa un contenitore
per il bentou, posandolo davanti a sé e aprendolo.
Junpei aveva smesso di considerarla un’offerta di quelle che gli umani facevano
agli spiriti o alle divinità molto tempo prima, limitandosi a servirsi quando
Teppei gli diceva di farlo senza problemi.
«Non dovresti proprio avere a che fare con i tengu, a dirla tutta. L’avrai pure
qualche amico della tua età, ormai, no?» proruppe con fare burbero; non era la
prima volta che cercava di spingere Teppei a frequentare gli umani più che
quelli come lui, ma fino a quel momento la testardaggine dell’altro si era
rivelata quasi al livello della
propria.
«Certo che ne ho. A scuola, e anche al lavoretto part-time che sto facendo
quest’estate.» replicò allegro «Ma sono due discorsi diversi.» aggiunse – ecco,
si disse Junpei, aveva cantato vittoria troppo presto.
Sbuffò sonoramente, recuperando le bacchette che nel frattempo Teppei gli aveva
porto, prendendo con esse una delle piccole omelette
del bentou; se non altro, era sempre tutto buono.
Passarono diverso tempo in silenzio, limitandosi ad assaporare il pranzo. Solo
ogni tanto Teppei chiedeva se questo o quello gli piaceva – inutilmente, perché
dopo sei anni sospettava che conoscesse fin troppo bene i suoi gusti – e poi
taceva di nuovo.
Junpei con il tempo aveva imparato che il silenzio di Teppei poteva essere
interpretato solo in alcuni modi e sempre gli stessi: o dormiva, o pensava. Il
secondo caso non era mai un bene.
«Junpei-san, mi stavo chiedendo» esordì, l’espressione pensierosa «una volta mi
hai spiegato che i tengu depongono uova e nascono da quelle, giusto? Quindi non
vi sposate? O c’è una cerimonia simile?» domandò con quella sfumatura di
curiosità che aveva sempre avuto, affiancata dalla capacità – che sembrava
profondamente e tragicamente radicata
nel suo essere – di fare domande scomode o indiscrete.
Junpei sorrise, in modo diverso dal più giovane: non sarebbe stata quella la
prima volta che gli rifilava informazioni assurde o esagerate, anche se lo
aveva fatto soprattutto quando era ancora un bambino, capace di credere a tutto
ed entusiasmarsi con poco, per quanto irreale suonasse.
«Ci sono anche matrimoni, certo.» iniziò quindi «Per prima cosa, si va dal
tengu più anziano del clan e si chiede la sua benedizione. Poi si va a proporsi
alla famiglia e generalmente il padre o il fratello maggiore sottopone il
pretendente ad una prova sulla montagna che dura tre giorni e tre notti. Se
all’alba del quarto giorno il pretendente ha superato la prova ed è ancora vivo» sottolineò,
sogghignando appena e guardando Teppei con la coda dell’occhio «la proposta
vera e propria può essere fatta, e il fidanzamento diviene ufficiale. A quel
punto il matrimonio è questione di tempo.» concluse.
L’assenza di una replica sorpresa da parte dell’altro, però, lo indusse a portare
completamente lo sguardo su di lui, perplesso nel trovarlo serio, quasi
impensierito.
«Ohi.» lo richiamò, pronto a spiegargli che non c’era granché di vero in quanto
aveva appena raccontato, inventando di sana pianta, che Teppei inspirò e si
voltò in sua direzione: «Junpei-san, tuo padre è ancora vivo? O hai un fratello
maggiore?» domandò.
«Eh?»
«La persona che deciderà la prova per il tuo pretendente, chi è?» chiarì meglio
guardandolo, serio in volto.
Solo quando non lo vide sorridere e non riuscì a scorgere nemmeno l’ombra della
curiosità infantile che aveva sempre animato il suo sguardo, Junpei comprese.
Quella domanda non era interesse per una razza.
Era una questione personale.
Note utili:
1. –dono: versione
"superiore" al -san (ma non corrisponde al -sama),
molto formale e utilizzato quando si ha un rispetto davvero elevato verso una
persona. (wikipedia) Generalmente, aggiungo,
utilizzato da un sottoposto ad un superiore volendo, in tempi antichi.
2. Tengu:
creatura fantastica dell’iconografia popolare giapponese. Generalmente sono
raffigurati come uomini-uccello. Siccome riassumerlo in una nota è un suicidio,
vi rimando a wikipedia.
3. Bentou:
il pranzo al sacco giapponese.