Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Bloomsbury    11/03/2014    11 recensioni
Ognuno ha un tarlo o una fissazione, tranne me. Sì, perché io non ambisco a nulla, non spreco la mia vita per nessun talento. Io dormo. Vivo dormendo, pensare mi annoia, così ho scelto di vivere la mia esistenza imprigionato in quattro mura, aspettando di trovare, alla fine, l'unica cosa che mi importi davvero: schiattare.
Questa OS partecipa al contest: "SETTE VIZI CAPITALI: QUANDO QUESTI DIVENTANO OSSESSIONE"
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 
Ognuno ha un tarlo o una fissazione, tranne me. Sì, perché io non ambisco a nulla, non spreco la mia vita per nessun talento. Io dormo. Vivo dormendo, pensare mi annoia, così ho scelto di vivere la mia esistenza imprigionato in quattro mura, aspettando di trovare, alla fine, l'unica cosa che mi importi davvero: schiattare.
Qualcuno ha provato a tirarmi fuori dal mio letto, ma la risposta è stata sempre la stessa: un lieve sorriso rassegnato, incrostato dalle troppe sigarette e dalla lordura mai lavata via. Fondamentalmente non mi piace fumare, ma bisogna pur passare il tempo e se questa abitudine può accorciare le distanze dall'Ade, ben venga. Non è che io desidero morire, solo non mi interessa particolarmente l’atto in sé di vivere la vita e se, come tutti, prima o poi, dovrò trapassare, allora preferisco raggiungere il mio obiettivo in pessimo stato. Non me ne faccio niente di un corpo immacolato nella tomba. A pensarci bene: io adoro la vita, ma questo non significa che io voglia viverla come fanno tutti. A me piace sopravvivere, sentire i morsi della fame, avvertire la debolezza e la stanchezza anche dopo ore di sonno, perché gli effetti dell'indolenza ti fanno sentire vivo. Sto talmente tanto in compagnia di me stesso che, ormai, sono in grado di riconoscere ogni piccolo segnale del mio corpo, per questo ci si sente vivi quando si soffre, perché è l’unico momento in cui ti senti, ti ascolti, ti percepisci. Al diavolo se la gente crede che io sia pazzo, io amo crogiolarmi nel mio fisico, nel mio letto, in silenzio, protetto dalle mura della mia casa.
La pigrizia ha un odore.
Puzza di cadavere, di stantio, di marcio.
L’accidia è mal di vivere, è inerzia e profuma di acido.
Da bambino collezionavo batterie scariche. Mi piaceva la loro forma, l'odore acido che emanavano prese dalla stanchezza. Osservandole pensavo fossero un chiaro esempio della vita dell'uomo: ordinate e precise nel loro involucro e poi, come oggetti, vengono sfruttate fino a consumarsi, fino a diventare inservibili, tanto da meritare la pattumiera. Adesso non parlo delle batterie, ma delle vite. È così che va a finire, sempre. Fino a che sono stato un bimbo pacioccone, bello come un bambolotto da vestire, profumare e ammirare, ho meritato la preservazione, come gli animali in via d’estinzione, mantenuto intatto nell’involucro plastificato della mia innocenza e dopo essermi liberato della scatola, sono stato sfruttato, gettato via, costretto a marcire.
Mia madre non era nata per essere una mamma, la sua vocazione era sfornare bambini come una cagna, in continuazione. Teneva noi dieci figli ordinati e puliti, chiusi in una stanza a giocare, messi in bella mostra ogniqualvolta un estraneo desiderava vedere il risultato dei suoi sforzi in sala parto. Ecco, noi eravamo questo: il prodotto di nove mesi di gestazione e qualche ora di travaglio. Ci fissava con orgoglio, nostra madre, congratulandosi continuamente con se stessa per il lavoro svolto. Quando, poi, da adolescenti, abbiamo iniziato a pensare con la nostra testa, alcuni di noi, soprattutto io, tendevamo a ribellarci, desiderosi di vivere una vita nostra e non in funzione della nostra amata, odiata madre. Il risultato di tanta ribellione fu l'abbandono. A cosa servivamo se lottavamo per una nostra identità e per raggiungere un nostro scopo personale? Per lei non eravamo più funzionali. Così ci ha consegnati, pochi di noi, come dei pacchi, a mia zia materna: una donna straordinaria di ottanta anni con la mania di conservare tutto, anche le cose più inutili.
Una volta per favore, un'altra volta per tre giorni, poi i giorni sono diventate settimane, poi mesi e anni, fino a che l'abitudine di trattenersi da zia Lara è diventato un vizio, poi uno stato naturale delle cose.
Casa di zia Lara diventò lo spiazzo desolato nel quale parcheggiarci e non ce ne andammo più.
Mi affezionai a lei e alle sue cose. La casa era un tempio colmo di roba inservibile: uno spremi agrumi degli anni ottanta, scatole piene di nastri colorati dei pacchi di natale, foni per capelli rotti ma troppo cari per essere gettati via.
Un cestino pieno di batterie consumate: diventarono il mio gioco preferito. Mi divertiva infilarle negli apparecchi elettronici, soprattutto nei registratori e mi piaceva osservare il nastro delle musicassette incepparsi, sempre di più, fino a che l'ultimo sprazzo di energia delle batterie non regalava gli ultimi colpetti di vita, fermando il susseguirsi di suoni gravi e cupi di chissà quale canzone antica. Mi dava un certo senso di soddisfazione vederle perdere le forze, per poi fermarsi completamente.
Mi piaceva consumare le batterie fino alla fine, fino a che poi mi sono reso conto di essere io stesso una batteria. Correvo come un folle per casa, saltando tutti gli ostacoli. Lo facevo per ore e ore, senza mai fermarmi e come i nastri delle cassette, a fine serata mi inceppavo e poi, dopo anni di corse e di batterie consumate, mi sono adagiato nel mio letto, nella stanza che era stata di zia Lara. I miei fratelli sono partiti, lasciandomi la responsabilità di zia che pian piano si è spenta e consumata. Eravamo adagiati sul nostro letto quella notte e mi sono accorto due giorni dopo della sua morte, quando ormai era diventata troppo fredda per essere umana e troppo fetida per essere mia zia. Da quel giorno la mia pigrizia è diventata cronica e la cosa più bella dell'essere pigri con coscienza, è la costante percezione che si ha di se stessi. Il tempo passa e non te ne accorgi, perché per me il tempo non è un insieme di attimi, ma un tempo unico e circolare, che ruota ininterrottamente su se stesso e nonostante non mi accorga del suo avanzare dagli orologi, dal giorno e dalla notte, sento su di me il suo effetto, perché conosco il mio corpo meglio di chiunque altro. Percepisco il tempo che passa su ogni osso del mio corpo, in ogni recesso del mio animo e vivo così la vita: gustandomi ogni acciacco, godendo ogni attimo di interminabile silenzio. C'è chi bussa alla porta, ogni tanto, forse sono i miei fratelli tornati in città, ma non apro, non mi faccio vedere. Non rispondo. Mi beo della mia pigrizia, chiudendo gli occhi insudiciati dalle lacrime mai asciugate, mai lavate via e mi addormento, cullato dai colpi dati sulla porta da chi ha pensato che una visita avrebbe potuto farmi piacere. “Andate via”, penso, e questi se ne vanno, senza disturbarmi lungamente.
Sembra che a nessuno importi di me ma, d'altronde, se non mi interesso io di me stesso, perché dovrebbero farlo gli altri?
Una volta dipingevo.
I miei soggetti erano i pensieri.
Coloravo pensieri, non avevano una forma precisa, ma cercavo di riportarli sulla tela attraverso i colori.
L’ho fatto per qualche anno ma la pigrizia ha preso in ostaggio anche quelli e se prima i colori erano tanti, a volte troppi, le tele sono diventate nere; completamente nere e poi bianche, perché mi sono accorto che le opere prodotte non valevano lo sforzo.
Troppa fatica, troppo sacrificio. A che serviva?
La mia casa è diventata una topaia e non mi importa più dividere il mio pranzo e la mia vita con gli insetti e i ratti, abbiamo un rapporto di reciproca indifferenza ma di totale condivisione.
E così, dopo aver passato i miei ultimi anni di vita in compagnia dei topi, mi sento cedere, mi sento scivolare verso una stanchezza cronica che odora di morte e me ne compiaccio, perché ho sempre e solo sognato di essere come una delle mie pile.
Non mangio, bevo poco, non mi ricarico come una di quelle moderne batterie le cui reazioni chimiche interne sono reversibili e, sarà ironico, ma le pile si scaricano quando le reazioni al loro interno trovano l’equilibrio e cessano di scambiarsi elettroni tra sostanze ed io, già da qualche tempo, mi accorgo che il mio processo di scambio si sta stabilizzando; così mi stendo sulle lenzuola sudicie del mio letto, guardo il soffitto e inizio a cantare.
Il nastro esausto del mio canto produce parole e suoni sempre più trascinati.
Ultimo un suono per dare vita all’altro, ma è un mugugno, un lamento e lentamente seguito a cantare, come quelle musicassette infilate nei registratori.
Canto, canto e, infine, mi inceppo e sento fuoriuscire dal mio corpo un odore familiare, lo stesso che amavo da bambino. Il mio corpo ha finalmente quell’odore.
L’odore della morte.
L’aroma del torpore.
Il profumo dell’accidia.


Angolo autrice:
Questa OS partecipa al contest:

"SETTE VIZI CAPITALI: QUANDO QUESTI DIVENTANO OSSESSIONE" indetto nel gruppo di facebook La Créme de la créme.
Ovviamente, il vizio da me scelto è: l'accidia.
   
 
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Bloomsbury