IL Mio Professore è uno Scorpione Gigante assassino!
Mi appoggia ad una colonna ai lati della pista da ballo, mentre tutti
si
divertivano, ballando come dei pazzi in pista. Dovetti fare un bello
sforzo per
non scappare via, mentre il mio udito fin troppo fine urlava disperato
di
uscire da quella stanza dove la musica mi feriva come un ago
arroventato. Poco
lontano mia sorella Kate si trovava nella stessa situazione. I suoi
capelli
neri, così simili ai miei (Solo più lunghi) gli
ricadevano disordinati sul
volto. Gli occhi argentei (Anche quelli identici ai miei) brillavano di
luce
folle. Sapevo che, se le regole di quella dannata scuola militare
l’avessero
permesso, avrebbe spaccato lo stereo a mani nudi e ucciso il DJ.
Peccato non
potessimo farlo senza essere considerati dei criminali.
Sospirai.
Mi
persi ad osservare una ragazzina poco
lontano che conoscevo appena di vista, così come il
fratello: Nico e Bianca, mi
sembrava si chiamassero. Come me e mia sorella erano gli esclusi della
scuola,
quelli da evitare. Eravamo entrambi spuntati all’improvviso,
qualche anno prima
ci eravamo letteralmente svegliati. Non ricordavamo nulla di noi
stessi, solo
che io mi chiamavo Jake e che lei era mia sorella Kate.
Le
autorità ci mandarono in diversi college
per farci aiutare, ma noi non eravamo adatti a quella roba: scappavamo
sempre.
I medici ci avevano diagnosticato una dislessia e
un’iperattività, disturbi
dell’attenzione che ci impedivano di rimanere tranquilli e
fermi ai nostri
posti. Inoltre non riuscivamo mai a scrivere o leggere in maniera
corretta.
Il
che era strano, visto che io ci vedevo
più che bene. Anzi, vedevo quasi meglio di notte che di
giorno. In più avevo
una mira incredibile: la corsa e il tiro con l’arco erano gli
unici sport che
io e mia sorella praticavamo. (Credetemi, c’era gente che mi
chiamava Robin
Hood ed un motivo c’è).
L’ultima
scuola in cui ci avevano spedito
era quella (La peggiore di tutte): Westover Hall. Una scuola militare
dove le
regole andavano seguite alla lettera e spesso alla virgola.
Secondo
voi quanto ci mettevano degli
iperattivi come noi a finire nei guai? Nemmeno cinque secondi
lì dentro ed
eravamo già davanti al preside che si infuriava per aver
distrutto un
armadietto, incendiato una tenda e fatto a botte con un altro ragazzo.
La
cosa ancora più strana era che eravamo
riusciti ad arrivare a natale senza essere ancora espulsi, il che era
un bene.
“Vuoi
uscire!?” Chiesi a mia sorella, o
meglio, urlai, visto che quasi non sentivo me stesso.
Kate
scosse il capo: di regola non si
poteva uscire dopo le otto, ma io e mia sorella uscivamo sempre di
notte. Di
solito ci sedevamo sul tetto delle scuole a guardare la luna. Provavamo
un’attrazione incredibile per l’astro notturno, la
sua luce argentea
rischiarava le nostre notti e sembrava quasi che ci chiamasse.
Quella
sera, però, eravamo legati ed
eravamo costretti a rimanere lì per tutta la festa.
Che
cavolo, non avevo nemmeno una dama con
cui mettermi in coppia (Anche se non è facile ballare con le
orecchie che ti
esplodono) e mia sorella non era il tipo per queste cose. Non sapevamo
fare
solo due cose che ci rilassavano: Tirare con l’arco e
correre.
Quando
mi concentravo su quell’unico punto
che era il centro del bersaglio, il mondo si scioglieva, il cuore
pareva
fermarsi, lasciandomi solo, concentrato, come se esistesse solo il
bersaglio. E
di solito non beccavo mai qualcosa al di fuori del centro.
L’unica che poteva
competere con me era mia sorella, che era un cecchino, praticamente.
Sospirai
di nuovo, cercando di non pensare
all’arco sportivo che tenevo in camera mia. Avrei voluto
averlo con me. Il mio
sguardo passò sulla folla, scorrendo volti che mi stavano
fin troppo antipatici
finché non scorsi un’imperfezione in quella massa.
C’era qualcosa di nuovo, diverso e strano, in quella festa.
(Credetemi, ero in
grado di farlo, non sapevo come, ma avevo
un’intuitività incredibile). Feci di
nuovo avanti e indietro tra la folla con gli occhi finché
non vidi due ragazzi
fermi in mezzo alla pista: uno era un ragazzo di quattordici anni dai
lunghi
capelli scuri mossi e gli occhi verde mare. Accanto a lui
c’era una ragazza,
abbastanza carina, che doveva avere la sua stessa età. Aveva
capelli biondi e
occhi grigi e doveva essere californiana, a giudicare
dall’abbronzatura.
Ancora
una volta mi stupii della mia stessa
intuitività e di come riuscivo a cogliere particolari
così precisi come il
colore degli occhi, dalla distanza da cui mi trovavo.
“Li
hai visti, vero?” Chiese Kate, con lo
sguardo fisso verso di loro.
Annuii, anche lei era come me: sensi sviluppatissimi e
iperattività al massimo.
Anche lei riusciva a notare quei particolari che sfuggivano agli altri.
“Sì…
nuovi?”
“Improbabile,
non trovi?” Mi fece notare
lei. “è Natale, l’anno è
iniziato da un po’ troppo tempo.”
Vero,
un punto a suo favore, ma allora che
ci facevano lì? Perché stavano parlando con una
ragazza dai vestiti e lo stile
punk e con un ragazzo abbronzato che aveva l’odore di una
capra di montagna?
Scossi la testa, ignorando il mal di testa e i dubbi: era un
po’ troppo tempo
che mi affollavano la mente.
Era
questo il problema di quando ti svegli
a nove anni, senza memoria. Io e mia sorella non ricordavamo
assolutamente
nulla, della nostra infanzia. Non sapevamo nemmeno chi fosse nostro
padre o
nostra madre, nemmeno dove vivevamo, prima della scuola.
L’unica cosa che
sapevamo era che eravamo lì per via del tribunale: in quanto
orfani avevamo un
piccolo contributo statale che ci permetteva di vagare per le scuole.
“Ho
una gran voglia di uscire da qui.”
Borbottò mia sorella all’improvviso. Aveva
l’aria di una pazza e gli occhi
d’argento sgranati accentuavano la leggera
luminosità che li avvolgeva.
“Tranquilla…
ce la faremo a finire anche
sta’ notte. Poi ce la diamo a gambe.”
Così ci ritrovammo a passare il tempo, cercando di non
impazzire per la musica
sempre più alta o per le luci che brillavano a ripetizione,
ferendoci le
retine. Spesso mi voltavo verso il vicepreside Thorn che continuava a
rimanere
fermo poco lontano da fratelli Di Angelo.
Non
sapevo perché, ma lui mi piaceva sempre
meno. Forse era per gli occhi bicolore?
Ero
così stanco di quella festa che stavo
per accasciarmi sul posto, quando mia sorella mi scosse, indicandomi
con un
cenno del capo, le scale su cui erano seduti i due fratelli.
Ma
loro non c’erano più, erano spariti,
proprio come il Dottor Thorn e il ragazzo che avevo visto prima si
stava
avviando proprio al piano di sopra, tenendo in mano una
penna… no, era una
spada.
“Stanno
succedendo troppe cose strane, sta’
sera…” Borbottò Kate, inarcando le
sopracciglia, pensierosa.
Di
regola nessuno avrebbe ficcato il naso
negli affari altrui, ma noi due non eravamo normali: se sentivamo odore
di
guai, per noi stessi o per altri, non potevamo fare a meno di dare un
occhiata,
soprattutto quando l’istinto ci diceva che stava succedendo
qualcosa di
pericoloso.
La
cosa brutta era che, di solito, ci
azzeccavamo: come due anni prima che avevamo scoperto che il nostro
primo
professore di storia voleva ucciderci con un’ascia e che
aveva un occhio solo.
Oppure l’anno prima, quando abbiamo scoperto un covo di
serpenti nei
sotterranei della nostra decima scuola. (Serpenti lunghi come un uomo e
grandi
come tronchi di albero).
Ovviamente
tutto spariva quando noi lo
dicevamo, così finivamo per essere considerati i pazzi di
turno che devono fare
gli egocentrici che non vanno bene a scuola.
Così,
in quel momento, il nostro istinto
vibrava anche più forte che in passato. C’era
qualcosa di pericoloso, in giro,
e noi non intendevamo starcene con le mani in mano.
Mentre
il ragazzo dai capelli scuri
procedeva cautamente, come un soldato, mi rivolsi a mia sorella:
“Ti controlla
in giro, magari c’è un altro monocolo con
l’ascia o qualche altra colonia di
anaconde.”
“Stai
tranquillo… tanto so che hai paura
dei serpenti.” Ridacchiò lei, facendomi la
linguaccia.
Avevamo
solo tredici anni, ma ogni tanto
lei si comportava come una bambina di cinque. Adorava fare scherzi,
trappole,
come quando aveva scavato una buca, facendoci cadere la professoressa
di
ginnastica.
“Ok…
andiamo…” Mi dissi, salendo le scale.
Per
fortuna era sparito anche Thorn, che
aveva la terribile capacità d riuscire a fiutare
l’infrazione di regole a
decine di metri di distanza. I miei piedi non facevano quasi rumore e
seguivo
il ragazzo come un ombra, quasi invisibile. Mi accucciavo dietro le
colonne o
le teche. Un'altra cosa su cui potevo contare era che, quando seguivo,
o mi
nascondevo, sembravo riuscire a mimetizzarmi quasi per natura, con
ciò che mi
circondava, soprattutto se ero all’aperto, ma me la cavavo
bene, anche in un
corridoio.
Per
fortuna quel tipo non sembrava
interessato a me e continuò tenendo in mano la spada puntata
davanti a sé,
illuminando con la sua strana lama il percorso quasi del tutto scuro,
dopodiché
si infilò oltre una porta, lasciandola semiaperta.
“Cosa
diavolo succede?” Mi domandai,
sottovoce, accostandomi alla porta per spiare l’interno.
C’erano
i Di Angelo, il ragazzo e, in un
angolo, completamente in ombra, il Dottor Thorn. Era così al
coperto che non
capii nemmeno io come potessi vederlo in
quell’oscurità opprimente.
“Mi
chiamo Percy, state calmi e vi porterò
in un posto sicuro.” Sussurrò il ragazzo riccio,
avvicinandosi per
tranquillizzarli.
Ebbi
una strana sensazione, e avrei voluto
gridare aiuto, ma l’istinto mi diceva di tacere. Infatti vidi
qualcosa che mi
spaventò a morte: il Dottor Thorn aveva avuto uno spasmo e
dal suo didietro era
spuntata un enorme coda corazzata simile a quella di una scorpione,
irta di
spine affilatissime, una delle quali partì senza preavviso,
colpendo il ragazzo
più grande alla spalla.
La
spina nera si era conficcata nella sua
giacca inchiodandola al muro. Il ragazzo tentò di menare un
fendente, ma era
troppo lontano dal vicepreside per poterlo colpire.
Io
ero paralizzato dalla sorpresa e dal
terrore, ma mi imposi di non urlare, mentre il tipo che non credevo mio
professore si avvicinava, entrando nel circolo di luce.
“So
chi sei, Perseus Jackson.” Sussurrò con
un accento strano che storpiò la J del cognome.
Quello,
intanto, sembrava fare uno sforzo
immani per non svenire, quasi la ferita gli bruciasse.
“CHE
CAVOLO SUCCEDE QUI!!??” urlai nella
mia stessa mente, trattenendomi dal farlo nella realtà.
Sembrava di spiare una
specie di raduno dell’orrore.
“Grazie
per essere uscito dalla palestra,
odio i balli delle medie.” Mentre parlava notai che il
professore si era quasi
trasformato: i suoi denti candidi si erano allungati diventando zanne.
I suoi
occhi brillavano, riflettendo la luce della spada e il volto si era
fatto più
feroce e affilato.
Un
altro aculeo partì dalla sua coda nera e
si piantò sul muro a pochi centimetri dal viso di Bianca di
Angelo che strillò
terrorizzata.
“Ora
verrete tutti con me!” Annunciò
trionfante. “In silenzio, da bravi… se proverete
ad opporre resistenza o a
chiamare aiuto, vi mostrerò quanto può essere
precisa la mia mira.”
Ebbi
appena il tempo di nascondermi dietro
un angolo, prima che aprissero la porta. Benedii la mia
abilità di nascondermi.
Il vicepreside fece procedere i tre a passo sostenuto ed io li seguii,
pur
essendo spaventato a morte.
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[Angolo dell’Autore]
Salve gente di Percy Jackson. Qualche tempo fa con la mia storia
ufficiale,
tutta mia, su questo fandom, avevo detto che avrei lavorato ad una
storia del
tutto personale, long è direttamente legata a Percy Jackson.
Questa storia
riprende l’arco narrativo da “La Maledizione del
Titano.” Con l’aggiunta di
alcuni personaggi di mia invenzione ricreando la storia, portando altre
cose
interessanti.
Questa storia non è del tutto mia, l’idea base
viene da questa bellissima
storia, scritta da Anna Love
(http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2285210
) che io consiglio a tutti voi di leggere perché scritta
molto bene e
comprendere come il cacciatore batté Artemide. (Ho
preferito, inoltre,
mantenere l’anonimato del ragazzo per rispettare le scelte
dell’autrice
originaria).
Quindi ringrazio in anticipo Anna Love che mi ha dato una mano e ha
accettato
di farmi scrivere questa storia, grazie davvero.
Quindi, è il momento di salutarci. Vi prego di recensire,
perché mi è sempre
utile avere le vostre impressioni.