CAPITOLO
OTTO
Quando
Connie rientrò a casa quel pomeriggio, trovò
Sherlock e John seduti sulle loro poltrone, come al solito, e una donna
che lei
non aveva mai visto accomodata su una sgangherata sedia di legno di
fronte ai
due uomini. Sembrava piuttosto sconvolta, cercava di trattenere le
lacrime con
un fazzolettino di cotone in mano. Di aspetto era piuttosto
insignificante, era
una di quelle donne di cui ti scordi appena smetti di guardarla, e
parlava, o
meglio, singhiozzava, di un cane dalmata a cui lei voleva bene come ad
un
figlio.
Sherlock non la stava guardando e pareva che non la stesse nemmeno
ascoltando.
John sembrava essere nella stessa situazione; aveva un braccio
appoggiato al
bracciolo della poltrona e con la mano si reggeva la testa. fissava la
donna, ma
sembrava non vederla.
Connie
si diresse quatta quatta verso la cucina e
rimase ad osservare la scena. Nessuno si voltò verso di lei,
il che le fece
dedurre di non essere stata notata o quantomeno di non aver attirato
l’interesse. Meglio così, voleva godersi lo
spettacolo e capire che cosa
esattamente stesse succedendo.
Ad
un tratto la sconosciuta tirò un singhiozzo
decisamente più lungo e più fastidioso degli
altri, il che fece spazientire
parecchio Sherlock che si riscosse tutto d’un colpo ed
esclamò: “Non mi
interessa! Il prossimo!”
L’espressione
che assunse la donna era forse la più
comica che Connie avesse mai potuto vedere e sarebbe scoppiata a ridere
se non
avesse espresso così tanta drammaticità. Era
rimasta a fissare il detective con
la bocca spalancata e le mani a mezz’aria.
Con qualche scusa molto gentile e dispiaciuta, John riuscì a
mandarla via
facendo accomodare subito dopo un altro ospite, un uomo sulla trentina
ma già
calvo in cima alla testa ed evidenti problemi di alitosi.
“Cinque
anni fa la mia fidanzata è morta”,
iniziò
l’uomo non appena si fu seduto sulla sedia ed ebbe ricevuto
tutta l’attenzione
dei due. “Tutti dicono che si sia trattato di suicidio ma io
non ci credo. La
mia Betty non l’avrebbe mai fatto. È vero, aveva
qualche problema di fiducia e
piangeva spesso ma non si sarebbe mai suicidata. Qualcuno
l’ha uccisa, ne sono
sicuro, ma la polizia non ha voluto indagare”.
“Forse
si è uccisa per non dover sopportare il suo
alito”, commentò Sherlock sottovoce e solo John
riuscì ad udirlo.
“Come?”
chiese l’uomo che l’aveva sentito
borbottare.
“Niente,
niente. Vada avanti”.
“Betty
è stata uccisa”, ripeté
l’altro cercando di
mostrare un’espressione convinta. Poi non aggiunse altro e
Sherlock rimase ad
osservarlo aspettandosi che parlasse ancora.
“Quindi?” gli intimò.
“Betty,
la mia Betty è stata uccisa”.
“Sì,
questo lo ha già detto”.
L’uomo
abbassò il capo, imbarazzato.
“Che
cosa glielo fa credere, che sia stata uccisa?”
chiese John a quel punto.
“Ecco…
niente di concreto a dire il vero. Solo il
mio sesto senso”.
“Il
suo sesto senso?” ripeté Sherlock quasi
istericamente. Poi prese un grosso sospiro e cercò di
calmarsi. “Per caso la
sua fidanzata andava da un analista?”
“Sì,
ma…”.
“E
prendeva degli antidepressivi?”
“Sì,
ma…”.
“Allora
si è trattato di un suicidio. Mi dispiace.
Il caso è chiuso”.
“Ma…”.
Sherlock
mostrò all’uomo il palmo aperto della sua
mano e con uno scatto la chiuse a pugno, al che l’altro
ammutolì di colpo.
John lo accompagnò alla porta e rientrò di nuovo,
ma questa volta da solo.
“Non
ci sono altri clienti, Sherlock”.
“Maledizione!”
esclamò il detective alzandosi dalla
poltrona. “Possibile che non accada niente di interessante?
Che me ne faccio di
cani scomparsi e fidanzate suicide? Mi annoio!” Si
buttò sul divano e rimase a
fissare il soffitto.
Il
dottore raggiunse Connie in cucina e si versò il
tè ormai freddo in una tazza. “Che cosa
succede?” chiese la ragazza. “Chi era
tutta quella gente?”
“Possibili
clienti. Ma ora non più. Mettiamo degli
annunci su internet e a volte la gente gli chiede se può
risolvere qualche
crimine a cui sono andati incontro e che non si sono mai risolti. Ma i
più
vengono solo per incontrare Sherlock”.
“Capisco…”,
annuì la ragazza mettendo enfasi sulla
parola.
Raramente
però capitava che, tra i clienti che
venivano nel loro appartamento, riuscissero a trovare qualche caso
interessante. E adesso la situazione si faceva preoccupante
perché era da un
po’ che Sherlock non si trovava con qualcosa di interessante
tra le mani e John
temeva che si sarebbe messo a sparare al muro per la noia, o magari a
qualcos’altro.
“E
tu?” gli chiese ad un tratto Connie, guardandolo
con un’espressione che sembrava intenderla lunga.
“Io
cosa?”
“Incontrare
Sherlock?” disse a voce bassa.
“Di
che stai parlando?”
“Lo
sai benissimo”. La ragazza lo guardò maliziosa e
l’uomo voltò immediatamente il capo. Preferiva
evitare quel discorso, non
sapeva quanto fosse buono che proprio la sorella dell’uomo di
cui era
innamorato sapesse questa cosa.
“Vado
a farmi una doccia”, concluse John, lasciando
la tazza nel lavello e dirigendosi in bagno.
Connie
sospirò e andò dal fratello, sedendosi
accanto a lui sul divano.
“Ti
piace John?” gli chiese ad un tratto, col tono
più innocente possibile. Voleva farla passare come una
domanda casuale, ma
stava parlando con Sherlock, colui che deduceva sempre tutto. Infatti
il
fratello aprì gli occhi e la guardò perplesso.
“Perché mi chiedi questo?”
“Così,
tanto per parlare”.
Il
detective attese un attimo prima di rispondere.
“Sì, mi piace”.
“Ti
piace… quanto?”
L’uomo
si mise a sedere si scatto e reclinò il capo
osservando la sorella. “Mi piace. E’ mio amico. Non
ho voglia di rispondere a
domande inutili”. Non hai voglia di
rispondere a domande compromettenti, Sherlock. La
verità era che sì, John
gli piaceva, ma non sapeva come, né quanto. O meglio, non
voleva saperlo. Era
un pensiero che cercava di evitare il più possibile, ma
risultava sempre più
difficile farlo, specialmente quando John gli stava
d’attorno. Eppure voleva
sempre averlo attorno. Se ne era reso conto già da un
po’, da quella sua finta
morte, quando l’aveva dovuto lasciare. Prima si era abituato
alla sua presenza,
era diventato normale, quotidiano, una di quelle cose che lo
rassicuravano. Ma
poi… poi qualcosa era cambiato… e….
Il
suo cellulare squillò. Era un messaggio di
Lestrade: “Stiamo interrogando l’uomo che ha ucciso
quel ragazzo. Non vuole
parlare. Nasconde qualcosa”.
Il
detective alzò lo sguardo sulla sorella. “Vieni
con me?”
A
Sherlock non piaceva stare chiuso negli uffici
investigativi di Scotland Yard, non tanto per la presenza di tutte
quelle
persone che considerava inutili o stupide, quanto più
perché gli parevano
angusti e mal arieggiati. Non che soffrisse di claustrofobia, ma era
solo una
sensazione psicologica poco piacevole.
Perciò
ora, mentre parlava con
Lestrade, non vedeva l’ora di andarsene da lì e
non cercava nemmeno di evitare
di farlo capire. Passeggiava avanti e indietro per la stanza e lanciava
occhiate alla porta ogni trenta secondi.
“Avete
risolto il vostro caso. Non riesco a vedere
il motivo per cui io dovrei stare qui”.
Greg
sbuffò appoggiandosi contro lo schienale della
sedia. “Certo, l’omicidio è stato
chiaramente un incidente, ma…”.
“Ma
tu credi che ci sia dell’altro”, concluse
Sherlock per lui. Il detective investigativo allargò le
braccia facendogli
capire che aveva indovinato. In quel momento Sally Donovan
entrò nella stanza
portando una tazza di carta piena di tè che pose davanti al
viso di Connie,
seduta alla scrivania di Lestrade.
“E
hai bisogno del mio aiuto, come sempre”, aggiunse
il moro con un sorrisetto tronfio.
“Il
geniaccio ha parlato”, commentò Sally acida.
“Non
capisco perché continui a rivolgerti a lui”,
sospirò in direzione del suo capo.
“Donovan,
torna a leccare il culo ad Anderson. Nessuno
ha chiesto la tua opinione”.
Sally
lo guardò sconvolta e aprì bocca per
ribattere, ma venne interrotta da Connie che lo rimbrottò:
“Non essere
scortese, Sherlock!”
“Ha
iniziato lei”, si difese il fratello in tono
quasi infantile.
“La
vogliamo smettere con questi giochetti?” si
intromise Lestrade prima che la ragazza avesse il tempo di dire altro.
“Mettiamoci
a lavorare piuttosto”.
Sherlock
allora si parò di fronte al detective, a
qualche passo di distanza dalla scrivania e, con il tono più
autoritario che
gli uscì e uno sguardo glaciale, pronunciò:
“Fammi parlare con il tizio che
avete preso”.
“Non
capisco come tu abbia fatto a sopravvivere
tutto quel tempo con Sherlock”, sbottò Donovan
mentre lei, Connie e Lestrade
aspettavano fuori dalla stanza degli interrogatori che Sherlock finisse
di
parlare con l’uomo che era stato arrestato quella mattina.
“Non dirmi che da
piccolo era uguale”.
Connie
ridacchiò divertita. “No, non era
così”.
“Ah,
meno male. Ma che trauma ha subito per diventare
uno psicopatico?” La domanda di Sally era retorica e ironica,
ma la mora
abbassò lo sguardo e cercò di non far trapelare
quello che stava pensando,
ovvero che una risposta a quella domanda in verità
c’era, ben chiara e precisa.
Ma la detective non era certo la persona giusta a cui raccontarla.
“Comunque,
con Mycroft e lui non ci si annoiava mai.
Era sempre una competizione tra loro”.
“Povera
signora Holmes”.
Calò
il silenzio per qualche minuto, interrotto
soltanto dal ronzio del riscaldamento e dal vocio che proveniva dalla
stanza
affianco.
“Senti,
Connie…”, iniziò a un certo punto Greg,
avvicinandosi alla ragazza e abbassando la voce. “Non
è che… sì, insomma… mi
chiedevo se ogni tanto, quando hai tempo, ti andrebbe di bere qualcosa.
Dico così,
tanto per passare il tempo”.
Connie
restò a guardare il detective per qualche
attimo, poi gli sorrise teneramente. “Sì,
perché no? Tanto non ho niente da
fare”.
“Davvero?”
L’espressione di Lestrade mostrava una
certa sorpresa e forse anche un pochino di sollievo.
“Sì.
Ti lascio il mio numero, così mi chiami, se
vuoi”. La ragazza tirò fuori dalla borsa un foglio
di carta e una penna e si
mise a scrivere. Sally lanciò loro un’occhiata, ma
era parecchio distante per
udire di cosa stessero parlando. “Ma dimmi una
cosa…”, continuò Connie,
consegnando il foglietto all’uomo. “E’ un
caso difficile, questo?”
“Non…
non saprei. Abbastanza. Ma non posso parlarne
con te, mi spiace, sono informazioni riservate”.
“Oh,
certo, certo. Non volevo intromettermi. Solo…”.
La ragazza restò a fissare un punto di fronte a
sé, come incantata, poi sorrise
di nuovo al detective. “No, niente. Lascia
perdere”.
“C’è
qualcosa che ti preoccupa?”
“No,
non è niente”. Greg avrebbe voluto investigare
di più, ma in quel momento Sherlock uscì dalla
stanza con un’espressione di
pura soddisfazione.
“Allora,
che ti ha detto?” chiese Sally.
“Tasso”.
“Tasso?
Cosa vuol dire?”
“Non
lo so”.
Connie,
seduta sul sedile posteriore di un taxi
assieme al fratello, controllò l’ora sul cellulare
e lo ripose in borsa. Poi si
avvicinò di più a Sherlock e gli
appoggiò la testa sulla spalla.
“Sherly?”
chiamò.
“Hmm?”
“Sei
sicuro di voler lavorare su questo caso? È
pericoloso”.
“Ho
lavorato su casi più pericolosi”, le
ricordò il
detective, gli occhi chiusi e la mente concentrata.
“Sì,
ma… qui c’è di mezzo la
droga”.
Sherlock
capiva la preoccupazione della sorella, ma
era assolutamente infondata. Non sarebbe successo niente, non
più, glielo aveva
promesso. Non poteva deluderla. E non poteva nemmeno farsi sfuggire un
caso
così. Si prospettava qualcosa di difficile, di esaltante,
forse persino meglio
del caso Moriarty.
“Non
ti preoccupare, sorellina”.
E
allora Connie si
rilassò. Sì, ora poteva stare tranquilla,
perché glielo aveva detto Sherlock. Ma
soprattutto perché l’aveva chiamata sorellina.
MILLY’S
SPACE
Buonasera…
finalmente riesco ad aggiornare qualcosa. Purtroppo
la scuola mi porta via un sacco di tempo ed è difficile
destreggiarsi tra le
varie cose. Spero non avervi fatti arrabbiare troppo.
Ancora non siamo arrivati al clou della storia, ma non preoccupatevi,
ci sarà e
si scopriranno un sacco di scheletri nell’armadio ^^.
Voi
però, nel frattempo, lasciatemi qualche commento che
mi fa sempre piacere.
Un
bacione,
M.
MONKEY_D_ALYCE:
eh, Sherlock è bravo a dedurre l’esterno delle
persone, ma quando si parla di
sentimenti… mah, chissà ^^ vedremo. Sono contenta
che lo scorso capitolo ti sia
piaciuto. Fammi sapere cosa pensi di questo. Baci…