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Autore: martaparrilla    30/03/2014    8 recensioni
"Non voglio più che mi odi per quello che stai provando. Non voglio più che guardi i miei occhi senza sapere che mi sveglio presto solo per guardarti uscire di casa e prender il tuo cornetto al bar. Che mi piace l'odore dei tuoi capelli. Mi piace il calore della tua mano. E se devi impazzire, voglio che impazzisca con me, non per me".
Una Emma e Regina in una città senza nome, si scontrano come solo loro sanno fare. Ben presto capiscono che il loro odio cela qualcosa di più grande. Ma Regina questo già lo sapeva. Gli occhi di quella bionda erano terribilmente somiglianti a qualcuno che aveva perso e questo la incuriosiva. Emma dal canto suo non riusciva a spiegarsi i brividi che sentiva quando la vedeva.
Regina ed Emma racconteranno sensazioni e sentimenti in prima persona, alternandosi tra i vari capitoli. Non dubitate della mia sanità mentale quando leggerete le stesse frasi in capitoli diversi, il motivo è semplice: una volta sarà Emma a parlare (o ascoltare), una volta Regina.
Riusciranno insieme a superare i traumi passati?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A una media di 100 km/h circa, percorro la strada del rientro, scorgendo ogni tanto quella macchia gialla che è la sua macchina, dallo specchietto retrovisore.

Siamo totalmente diverse. Io sono ordinata, lei disordinata. Lei ama i jeans e io i tailleur. Ma in fondo non dobbiamo vestirci allo stesso modo. Sa essere assolutamente sexy anche con un maglione enorme e dei calzini di lana ai piedi.

Probabilmente è molto più romantica di me. Ma so che il romanticismo è qualcosa che col tempo ci avrebbe abbandonate, almeno quella versione sdolcinata che colpisce le giovani coppie nei primi tempi della relazione.

Ok, sto pensando troppo. Regina rilassati andrà tutto bene.

Eppure non riesco a togliermi dalla testa quegli occhioni tristi e preoccupati per il rientro a casa. Per riprendere la vita quotidiana. Potevamo fare qualunque cosa in qualunque giorno. Non potevamo stare tutti i giorni sempre a letto. Non che fare sesso con lei mi dispiacesse, anzi...era brava. Molto brava. Ed ero rimasta sorpresa di quanto fosse senza inibizioni qualunque cosa facessi.

Ma di tutto il week-end il momento migliore è stata la colazione a letto. La rosa sul vassoio. La sua espressione visibilmente imbarazzata e dolcissima.

Ed è con queste immagini nella testa che le prime gocce di pioggia bagnano il vetro della macchina.

«Ci mancava solo la pioggia» sbuffo, improvvisamente consapevole della quotidianità che ci avrebbe travolto dal giorno successivo.

Ma forse con lei non sarebbe stato pesante. Le nostre giornate sarebbero volate e la sera sarebbe stato bello mangiare insieme o dormire insieme. Abbiamo due case a due piani di distanza. Non c'è da preoccuparsi.

Finalmente a casa. Mi fanno male le gambe a furia di stare seduta. Imbocco il vialetto del parcheggio del nostro palazzo. La pioggia scende ormai copiosa. Mi sarei bagnata completamente i piedi solo per fare quei tre passi e arrivare dentro.

Lei è già fuori dalla macchina che prende il suo borsone e apre il mio portabagagli per prendere la mia valigia. La gentilezza in persona.

«Niente ombrello, ce la fai a correre con quei tacchi?».

«Amore io sono nata con i tacchi, attenzione a non mangiare la mia polvere».

Mi tuffo sotto la pioggia senza darle il tempo di replicare e, nonostante la valigia al seguito, arrivo prima di lei.

«Quanto sei scorretta?» mi dice entrando in ascensore.

«Ah, non sai perdere».

Mi guarda insistente.

Una strana sensazione percorre il mio stomaco appena l'ascensore inizia a muoversi.

«Credo che ti accompagnerò fino alla porta di casa e io poi salirò a piedi» si avvicina a me, dandomi dei baci sul collo.

«Allora dovresti tipo lasciarmi scendere quando si aprono le porte no?» le mie mani sono già sotto la sua maglia.

«Non lo so, devo pensarci».

«Quanto sei scema» dico mentre le porte si spalancano di fronte a noi. Prendo la valigia dietro di me e faccio un passo oltre l'ascensore. La scena che mi si presenta davanti non è assolutamente ciò che mi aspetto.

Henry.

Rimango qualche secondo a osservarlo mentre lui alza la testa che fino a poco prima aveva poggiata sulle ginocchia. E' bagnato. I vestiti sporchi. Il viso rigato di lacrime e un livido sulla guancia.

«Mamma» la sua voce mi riporta alla realtà. Una realtà che improvvisamente mi sta stretta.

«Henry» mi precipito su di lui e dopo averlo aiutato ad alzarsi mi butta le braccia al collo e inizia a singhiozzare continuando a ripetere la parola mamma.

Lo stomaco fa male e gli occhi iniziano a bruciare.

«Sono qui Henry, sono qui, stai tranquillo».

Silenziosa, Emma apre la mia porta, senza fare nemmeno una domanda. Rimane in silenzio tanto che per un attimo penso che non ci sia più. Trascina la mia valigia in casa e io la seguo. La guardo con occhi spaventati, mentre il suo sguardo è totalmente comprensivo.

La mia attenzione torna su Henry.

Mi inginocchio poggiando i suoi piedi sul pavimento. Trema visibilmente.

Lo osservo da vicino. E' magro. Ha sul labbro il segno di un taglio non ancora ben rimarginato e sull'occhio destro un livido.

«Amore...dimmi che è successo» qualcuno l'ha picchiato. E qualcosa mi diceva che sapevo esattamente chi fosse.

Tra le lacrime che tento di asciugare con i miei palmi, lui scuote la testa in segno di negazione. Non ne vuole parlare. Non è il bambino felice che ho lasciato solo due anni prima a quella donna. Non era più lui

«D'accordo me lo dirai dopo. Ma come hai fatto ad arrivare qui? Amore ti prego smetti di piangere».

Si sfregava gli occhi con le sue manine bagnate.

«Mamma non farmi...tor..tornare in quella casa..ti prego».

Un sentimento di rabbia percorre il mio corpo mentre lo abbraccio di nuovo.

Quella donna. L'avevo capito dal primo istante che non avrebbe trattato Henry come avrebbe dovuto. Ma la genetica è ancora un valido strumento a cui aggrapparsi quando le madri si ricordavano di avere procreato.

Non glielo avrei fatto riavere.

Mai più.

Devo pensare. Lo devo portare subito alla polizia per denunciare il fatto? O posso tenermelo una notte a casa? E se poi mi avessero denunciato per sottrazione di minore? Non me l'avrebbero più restituito. No devo fare la cosa giusta.

Lo allontano di nuovo da me per guardarlo negli occhi.

«Henry senti, ora facciamo una cosa. Facciamo un bel bagno caldo e ci mettiamo dei vestiti asciutti altrimenti ti prenderai un malanno. Poi andremo dalla polizia e ti prometto che non ti lascerò andare più via da qui, mai più, chiaro?».

I suoi occhioni verdastri mi guardano smarriti e spaventati e gli stampo un bacio sulla fronte. Quanto mi è mancato quel gesto.

Sussurra un “si” quasi impercettibile. Mi alzo in piedi e stringendo la mano mi dirigo verso il bagno.

Mi blocco improvvisamente. Mi sono di nuovo dimenticata di lei. Mi sembrano talmente stupidi i problemi che mi mettevo mentre guidavo ora che ho mio figlio con me. Mi volto verso di lei, che tristemente aspetta una parola da parte mia. Forse si aspetta qualcos'altro, ma in questo momento l'unica cosa che conta è il benessere di Henry e non posso sconvolgerlo con qualsiasi altro evento o presentazione.

«Emma credo ci vorrà un po' per risolvere la questione. Ti chiamo appena posso, ok?».

Le sue spalle prendono quasi una posizione di sconfitta. Afferra il borsone accanto a lei.

«Ok».

Ancora prima che possa aprire la porta, torno su Henry e lo accompagno verso il bagno.

Apro l'acqua della vasca mentre lo aiuto a togliere quei vestiti bagnati.

Sento la porta chiudersi. Emma è andata via.

Sfilo la maglietta e quello che mi sono immaginata non è neanche a metà dell'orrendo spettacolo che mi si presenta dinanzi.

Il suo corpicino, magro come non mai, è totalmente pieno di lividi. Alcuni viola e recenti, altri meno. Lo faccio girare su se stesso. La schiena è un campo di battaglia. Ho lasciato mio figlio a una squilibrata che lo picchiava, non ci potevo credere.

Mi fissa con quei suoi occhioni, preoccupato.

«Andrà tutto bene Henry, stai tranquillo» gli sfioro il livido più grande sul torace e si ritrae.

«Ti fa male vero?» infilo distrattamente la mano dentro la vasca, per valutarne la temperatura e lui risponde di si.

Sorrido per incoraggiarlo.

«Ti ricordi come facevamo? Tu toccavi l'acqua e poi ti tuffavi dentro come un pesciolino».

«Non ne ho voglia però di tuffarmi».

Che tristezza sentirgli dire certe cose.

«Non importa. Togli i pantaloni e entra nell'acqua, vado a portarti una cosa».

Lo bacio sulla guancia. Mi alzo in piedi col cuore pesante e dopo essermi sfilata le decoltè, mi dirigo veloce nella sua cameretta. Ho comprato il suo bagnoschiuma preferito e lì era rimasto, per tutto questo tempo.

Lo trovo seduto con le gambe incrociate a fissare il vuoto.

«Henry, guarda che ti ho portato?».

Alza lo sguardo sul bagnoschiuma. Lo prende in mano e ne versa un pochino sulla spugna. Poi si insapona senza dire nulla.

«Henry, mi racconti cosa è successo? Così sapremo cosa dire alla polizia. Chi è stato a farti questo?».

«Anna. E' stata Anna».

Anna era sua madre. O meglio, quella che l'ha messo al mondo.

Alzo il suo visino per far si che mi guardi negli occhi.

«Io non volevo chiamarla mamma, e lei si arrabbiava. E poi non volevo mangiare e non volevo fare i compiti» sospira e a me manca il respiro.

«Quando venivano quelle signore a controllarla mi minacciava dicendomi che se avessi detto qualcosa mi avrebbe picchiato ancora di più. Così stavo zitto. Poi stamattina ha lasciato per sbaglio la chiave di casa sul tavolo, di solito la nascondeva sempre...e sono scappato mentre lei era in bagno. E sono venuto da te. Perché sei tu la mia mamma non lei!».

Non voglio piangere di fronte a lui. Ma le lacrime non vogliono sapere di fermarsi.

«Mamma non piangere....» la sua manina umida si posa sulla mia guancia.

«Hai ragione Henry» gli accarezzo i capelli «non piango più. E risolveremo tutto. Ora ti risciacqui e poi mangiamo qualcosa. Poi andiamo a riprenderci la nostra vita».

Affonda così la testa sotto l'acqua, tappandosi il naso, per sciacquarsi dalla schiuma. Prendo l'asciugamano più grande che trovo e lo avvolgo, facendo attenzione a non toccargli i lividi e fargli male. Mi inginocchio di nuovo di fronte a lui mentre tampono il suo viso con l'angolo dell'asciugamano.

«Hai fame?» chiedo sfoggiando il mio sorriso più incoraggiante.

«Un pochino».

«Bene, vieni in camera, vediamo se troviamo qualcosa che ti sta ancora».

Con i piedini nudi mi segue lentamente in quella che è la sua cameretta e che non ho mai avuto intenzione di smontare. Si siede sul letto e inizio a cercare qualcosa di adatto tra le sue cose.

«Ho freddo».

«Accendo il riscaldamento ora, Henry».

Afferro il telecomando sul comodino e clicco il tasto “on”. Chiudo poi la porta così che il calore si concentri su quella stanza.

«Ora si scalderà».

I cassetti sono ordinati anche con le cose che ho comprato dopo che lui se n'era andato. Mutande, calzini, magliette...compravo vestiti per lui, pur sapendo che non sarebbe tornato.

«Prova un pochino queste tesoro» gli passo un paio di slip azzurro cielo e lui lentamente, alzando una gamba per volta, li indossa.

«Sono troppo strette?».

«No» risponde rimettendosi addosso l'asciugamano.

«Ok vestiamoci in fretta fretta frettissima» trovo una maglia in cotone a maniche corte, i calzini, una felpina con spiderman e dei jeans.

Lo aiuto a vestirsi e finalmente il mio bambino assume un aspetto normale.

Mancano le scarpe. Quelle nell'armadio non gli sarebbero state di sicuro. Lo prendo per mano, diretti in cucina e faccio tappa nel bagno a controllare il numero delle vecchie scarpe da tennis con cui era arrivato. Sono numero 30. Saremo andati immediatamente a prenderle.

«Allora cosa vorresti mangiare?».

«Voglio un panino con la tua marmellata. Di mele...».

«Te la ricordi ancora?».

«Mi ricordo che era buonissima».

Quanto è dolce il mio bambino. E qualcuno l'ha ridotto in quello stato e avrebbe pagato per questo, quella donna avrebbe pagato per avere fatto sparire la luce dai suoi occhi.

Lo fisso addentare lentamente le due fette di pane con la confettura di mele. Parla poco e Henry è stato sempre uno che parla a raffica, di tutto e tutti. Sarebbe stato doloroso per lui andare a raccontare ai poliziotti l'accaduto. Ma almeno avrebbe dormito a casa con me.

«Tesoro è bene che ora andiamo a denunciare quello che è successo».

I suoi occhi si spalancano per il terrore.

«Devi stare tranquillo. Non ti riporteranno da lei. Ma se ora non ti porto alla polizia, passerò dalla parte del torto. Fidati di me...ok?».

Una parte di me vuole essere sicura di quel che dice, ma dall'altra non posso lasciarlo con quello sguardo impaurito, devo tranquillizzarlo in qualche modo, e tranquillizzare me stessa. Sono ormai le 8 di sera. I centri commerciali stanno per chiudere e devo sbrigarmi se voglio trovare un paio di scarpe nuove a Henry.

Un vecchio giubbino trovato nel suo armadio ci permette di uscire in fretta e furia di casa, con ombrello al seguito, anche se ormai la pioggia è poca e debole.

Il traffico si è diradato ma al centro commerciale sembra sia la vigilia di Natale: il parcheggio straripante di macchine ci fa perdere quarti d'ora preziosi per la ricerca delle nostre scarpe nuove.

Henry non ha voglia di fare shopping. E' stanco e assonnato, per nulla interessato alle scarpe o ad andare alla polizia. Continua a chiedermi di tornare a casa. Scelgo le prime scarpe da tennis che penso possano piacergli, la misura va bene e quasi impazziti per il traffico, alle 9 di sera, arriviamo alla polizia.

Scendo nervosamente mentre Henry se ne sta preoccupato sul sedile posteriore.

«Forza tesoro andiamo».

Allunga la mano per stringere la mia.

Mi sembra di essere sulla strada di un altissimo precipizio e a breve mi sarei buttata di mia spontanea volontà. E se mi avessero impedito di riportarlo a casa? Lui non me l'avrebbe perdonato, ne sono certa.

I miei piedi si fanno improvvisamente pesanti mentre percorro i tre gradini dell'ingresso della stazione di polizia. Al gabbiotto, una poliziotta con i capelli raccolti mi chiede di cosa avessi bisogno.

«Devo fare una denuncia» rispondo decisa.

Mi scorta fino all'ufficio denunce dove un uomo dall'aria poco affidabile se ne sta seduto a leggere un fumetto.

«Buonasera» dico cercando di attirare la sua attenzione.

«Siediti Henry».

«Buonasera» mi risponde il poliziotto quasi sbuffando. «in cosa posso esserle utile?».

«Vorrei denunciare una donna per maltrattamenti su minore».

Il suo sguardo si posa istintivamente su mio figlio.

«Il minore sarebbe lui?» chiede mettendosi composto e incrociando le braccia al petto.

«Si».

«Lei è la signora?».

«Mills, Regina Mills. Lui è mio figlio e vorrei denunciare la madre biologica. Ho delle prove che il bambino è stato picchiato. Ma sottoporrò mio figlio a tutte le domande e vi permetterò di fare le indagini solo con il mio avvocato, l'assistente sociale e un medico. Quest'ultimo sarà una figura fondamentale».

Mi avvicino a Henry che intanto aveva stretto la mia mano e guarda il poliziotto con occhi terrorizzati.

«Ciao ragazzino» dice il poliziotto.

«Ciao» risponde timido Henry.

«Ti va una cioccolata calda? Io e la mamma dobbiamo parlare».

«No..».

«Signora non possiamo parlare di certe cose con lui davanti. Chiami il suo avvocato, io farò partire la denuncia e arriverà immediatamente l'assistente sociale e il medico. Chiamo la nostra poliziotta psicologa che prenderà la testimonianza del bambino».

Da quel momento in poi è stato un viavai di persone e telefonate, e Henry che non vuole staccarsi da me nemmeno per un minuto. Cerco sempre di mettermi in una posizione consona così che lui possa sempre vedermi.

Dalla porta vedo il mio bambino parlare con la poliziotta e poi con l'assistente sociale e io cerco di raccontare nel modo più dettagliato possibile in che condizioni era quando l'hoo raccolto dal corridoio.

«C'era una persona con me, potrebbe testimoniare se dovesse servire».

Emma non si sarebbe di certo tirata indietro. Avrei bisogno di lei ora. Ma Henry ha bisogno di me e non voglio assolutamente che pensi che possa dare meno attenzioni a lui per via di Emma.

Dopo due ore di interrogatori e domande e la visita del medico effettuata in mia presenza, siamo finalmente liberi di andare. L'assistente sociale ci l'ok per far trascorrere a Henry i giorni che sarebbero seguiti a casa mia.

«Con tutta questa documentazione potrebbe riavere indietro il bambino definitivamente. Quella donna non lo vedrà mai più. Mi assicurerò che ciò avvenga».

Non riesco a crederci. Henry sarebbe tornato a casa con me.

Per sempre.

Le mie gambe cedono per l'emozione. Chiedo un bicchiere d'acqua e cerco di regolarizzare il respiro.

Non me lo avrebbero più tolto.

«Mamma» dice Henry dopo esser uscito dalla stanza a fianco, mano nella mano con la psicologa.

Corre verso di me per abbracciarmi.

«E' andato tutto bene?».

«Mi hanno fatto tante domande. Sono stanco, possiamo andare a casa?».

Alzo lo sguardo verso la psicologa per avere conferma.

«Si, possiamo andare tesoro».

 

Rimango a guardarlo per mezz'ora addormentato sul mio letto. Mi è mancato il suo respiro e il suo abbraccio. Il suo calore e il suo amore incondizionato verso di me.

Sono l'una del mattino. Chissà se Emma è ancora sveglia. Le mando un messaggio.

  • Sei sveglia? - invio.

Probabilmente dorme già da tanto.

  • Certo che sono sveglia, com'è andata? -

Le forze e il sangue freddo che ho accumulato fino a qual momento crollano.

  • Ti prego vieni a casa, subito – invio

Esco lentamente e silenziosamente dalla mia camera, avvolta nella mia vestaglia e con ai piedi solo delle pantofole poco sexy. La tensione inizia a sciogliersi in lacrime.

  • Sono fuori dalla porta, apri -

Percorro i dieci metri che separano la mia camera dalla porta d'ingresso. La spalanco e le lacrime scendono giù copiose, inarrestabili.

Chiude piano la porta e si ferma ad abbracciarmi mentre lacrime pesanti mi bagnano il viso. Non mi dice una parola: si limita ad abbracciarmi e accarezzarmi la schiena come un bambino tra le braccia della mamma. Come ho fatto io con Henry poco prima.

Il suo profumo mi tranquillizza, eppure i pensieri che avevano iniziato a farsi strada appena gli occhi di Henry hanno incrociato i miei, mi spezzano il cuore.

Lei che sa amarmi con un solo sguardo, lei che è impazzita per me...lei che mi tranquillizza prendendomi per mano.

Le prendo il viso e la bacio, cercando di trovare il coraggio per raccontarle tutto e per confessarle la decisione che ho preso.

«Andiamo a sederci» dice sussurrando.

La seguo. Ho il cuore leggero per Henry e pesante per lei.

Stupenda nel suo maglione bianco e i capelli lisci sulle spalle, prendo fiato.

«Ho adottato Henry quando aveva solo pochi mesi. La madre l'aveva lasciato in un istituto perché diceva che non poteva prendersi cura di lui» stringo le sue mani, e in cambio ricevo il più bello dei sorrisi, quello che riserva solo a me.

«Io avevo la tua età a quell'epoca, non volevo aspettare un uomo che non sarebbe arrivato mai per potere avere un figlio. E così tramite dei contatti con degli amici avvocati che si occupano di minori, riuscii a prendere Henry. Mi innamorai immediatamente di quel bambino....riusciva a tirarmi fuori il meglio. Riusciva a farmi piangere di gioia e Dio solo sa quanto ne avevo bisogno. Passarono gli anni...Henry cresceva, e un giorno mi arrivò una lettera da parte di un avvocato dicendo che la madre biologica voleva vederlo. Mi crollò il mondo addosso, lui era mio figlio e una donna che l'aveva solo messo al mondo me l'avrebbe portato via. Cerco di spiegare a Henry la situazione...lui sapeva che io l'avevo adottato ma non ne era rimasto sconvolto, anzi in qualche modo se l'aspettava. Ha un sesto senso sensazionale quel bambino» sorrido orgogliosa.

«E prima un incontro, poi due, poi uno a settimana. Vidi quella donna agli incontri e a primo impatto aveva qualcosa che non andava. Sentivo che non era una bella persona. E dopo sei mesi, con processi e appelli, riuscì a portarmelo via. Ma lui era mio!».

Mi sistema una ciocca dietro alle orecchie.

«Poi sei arrivata tu. E stavo ancora male per lui nonostante fossero passati quasi due anni. E ho ripreso a sorridere. E oggi lui è tornato e mi ha detto che la madre lo picchiava. E siamo andati a far la denuncia. Loro pensano che vincerò io e non me lo porteranno più via».

Ma il mio viso in questo momento non vuole sorridere. E lei lo capisce.

«E ora tu devi fare sorridere lui, giusto? Mi hai chiamata per questo?».

Corrugo la fronte e apro la bocca, stupita.

«Sai tu...mi hai mandata via senza nemmeno voltarti indietro» mi lascia la mano, lentamente.

«E io sarò anche romantica ma non sono stupida. E credimi, ti capisco. Un figlio è un figlio, niente e nessuno potrà mai competere. E sarai una madre eccezionale, lo sei già» inclina leggermente la testa verso sinistra, per guardarmi meglio.

«E tu ora devi pensare a riportarlo a casa da te, giustamente. E tutte le attenzioni dovranno essere per lui, e tutte le tue energie serviranno per farlo riprendere, per guarirlo» si alza in piedi, la sua voce era roca, pronta a piangere.

«Io ti amo, ma ora devo pensare a lui. Non posso...» mi manca il fiato «non posso spiegargli anche quello che siamo. Ha bisogno di tranquillità, di attenzioni. Ha bisogno di me al 100%».

«Regina lo so. Anche io ti amo ma...non chiedermi di far finta che tra noi non ci sia mai stato niente. Non farlo».

Mi alzo e le prendo le mani.

«Ti chiedo solo di aspettarmi per un po'. Ci sarà il processo, e le sedute dallo psicologo...».

Stava scuotendo la testa.

«Non dire qualcosa che non sai nemmeno tu se accadrà mai».

Mi prende il viso tra le mani e mi bacia.

«Tu saresti stata la mia forza in una situazione del genere, non un ostacolo. Ciao Regina».

Si volta e raggiunge la porta d'ingresso. La chiude alle sue spalle, senza girarsi.

La donna che mi ha fatto sorridere, che mi ha salvata e che io ho salvato a mia volta se n'è andata e non sarebbe più tornata. Henry non era previsto nella mia vita, non avevo previsto il suo ritorno ma sono sua madre e la sua felicità viene prima di qualunque cosa, di chiunque altro. Anche della mia.

La testa pulsa dolorosamente, insieme al cuore. Entro nella mia camera e la vista di mio figlio mi da la consapevolezza che forse ho fatto la cosa giusta. Mi infilo sotto le coperte con lui. Fisso i suoi occhi sognanti prima di cedere alla stanchezza e seguirlo nei suoi sogni.

 

 

  
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