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Autore: aniasolary    31/03/2014    4 recensioni
(Storia da revisionare)
Young Adult con elementi sovrannaturali e di Mistero.
In un pomeriggio assolato, le urla di una bambina oscurano il cielo; lei è un'arma, lei non potrà mai vivere, lei non può fare altro che nascondersi.
Anni dopo, un ragazzo trova la sua fotografia fra i documenti di suo padre. Un padre assente, troppo lontano da tutto e da tutti, così preso dai documenti fra cui c'è quella fotografia.
Sei appena venuto a conoscenza della presenza di un burrone. Vai a vederlo. Non ti aspetti che ci cadrai dentro.
Quella ragazza.
Quell'arma.
Quel ragazzo.
Il suo mondo.
Sogni spezzati.
L'amore difficile.
Vite in sospeso.
Amicizie distanti.
Vite rimaste indietro.
Vite in pericolo.
Buio.
Speranza.
Ed un uomo nell'ombra.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo extra di until
h 
Dopo un grande dolore
viene un sentimento solenne,
i nervi siedono cerimoniosi come tombe,
il cuore irrigidito si chiede
se proprio lui ha sopportato,
e se fu ieri, o secoli fa.
I piedi meccanici
  vagano su una strada arida
di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
indifferenti ormai: 
una pace di quarzo, come un sasso. 
Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati 
rammentano la neve: 
prima il freddo, poi lo stupore, infìne
l'abbandono.

Emily Dickinson




Anno 2005

Nell’istituto Saint Vincent, c’è la stanza del cuore di Yvonne Grace, nove anni, lunghi capelli ramati e occhi color nocciola splendenti, meteore stanche cadute sulla terra, ma con la forza di brillare ancora.

La stanza del cuore di Yvonne Grace è fredda, dai muri alti alti, con casse piene di giochi, anche se cinque su dieci sono rotti, e un camino spento con davanti un tappeto di spugna, di quelli che si mettono insieme come dei pezzi di puzzle. Nell’angolo, una busta di carta con vecchi libri illustrati. È lì che Yvonne corre, e le sue mani incontrano quello che, a scritte dorate, è chiamato “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, con tanti bei gattini ed un gabbiano…

La piccola Yvonne si volta e un urletto le scappa dalla sua gola.

«Shhh!» fa il bambino ricciolino steso sul tappeto, posando il dito indice sulle labbra. «Se urli le suore ti sentono e lo sai che alle dieci dobbiamo già essere a letto!»

«Hans. » Yvonne sbuffa. «Mi hai seguito! Di nuovo!»

Hans sbuffa allo stesso modo di Yvonne, i grandi occhi grigi dalle ciglia lunghe e nere. «Ma tutti dormono… mi sentivo escluso.»

Yvonne si sposta i capelli lisci con fare da principessa bellissima e raffinata. «Va bene, puoi restare.»

Gli occhi di Hans si fanno più grandi, luminosi, e il suo sorriso gli spacca il viso in una geometria asimmetriche, stramba, unica. «Grazie, Vonnie. Adesso continui a leggere?»

Sguardo in alto, mento sollevato, libro stretto al petto, Yvonne cammina verso il tappetino e, una volta arrivata, ci si siede a braccia conserte. «Certo. Vuoi che legga ad alta voce?»

«Potresti?» Hans sembra quasi implorarla.

«Certo, sciocchino.»

«Grazie, Vonnie.»

Yvonne stira le labbra, si sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio per stabilire la giusta concentrazione.

«"Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come  una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L'umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.» Yvonne continua a leggere. « “La pioggia. L'acqua. Mi piace!” stridette.

“Ora volerai” miagolò Zorba.

“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.

“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.

“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.

“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena.

Fortunata scomparve alla vista, e l'umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. “Volo! Zorba! So volare!”»

Un respiro pesante la distoglie dall’attenzione. Fa un respiro profondo, volta la testa e incontra la testa ricciuta di Hans, disteso su un fianco. Lo spintona leggermente. «Hans?» Nessuna risposta. Yvonne si morde le labbra e si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Hansie? » Un altro spintone ed Hans cade completamente disteso sulla schiena, addormentato con entrambe le mani sotto l’orecchio sinistro quasi a volersi abbracciare da solo e una buffa espressione con la bocca aperta. «Oh, Hansie,» sospira Yvonne. «Sei il solito dormiglione… La gabbianella ha appena imparato a volare! Ti sei perso una scena fantasmagorica… Dopo tutte le volte in cui ci ha provato forse nessuno ci sperava più che avrebbe volato! Ma io sì.» Chiude il libro, lo solleva e colpisce, leggermente, la testa di Hans, che mugugna un po’. 

«Ti stavo sognando,» risponde lui con la voce impastata dal sonno. Forse sta ancora sognando.

Yvonne Grace sorride, anche se adesso è solo Vonnie accanto ad Hans Renton, nove anni e mezzo, grandi occhi grigi, pelle chiara e morbida come il pane bianco la mattina a tavola, Hans che canticchia tante canzoni con in mezzo la parola “love” e “Come on”, e il sorriso asimmetrico come tante rette che convergono a  formare quello può essere solo e soltanto il suo Sorriso.

Vonnie si addormenta accanto ad Hans Renton.

Sognerà di essere una gabbianella che non sa ancora volare, ma lei sarà forte abbastanza.

Lei avrà speranza. 

Il mio nome è Joshua Silvers e sono addormentato dentro di me. Prego. Prego che mia figlia possa salvarsi.

*** 

Settembre 2014

Hans Renton

Sento un fruscio contro le gambe, e non riesco ancora a capire se sto ancora dormendo o no, se questo è uno di quei sogni che si fanno all’alba e che si dimenticano appena apri gli occhi.

Un fiato caldo contro le mie palpebre chiuse.

«Hans, oh mio Dio… » No, non sto dormendo, perché nei sogni è tutto evanescente, sbiadito, e vorresti che restasse per sempre ma poi scompare. Quando apro gli occhi, Yvonne è vera e una macchia di colore forte e accesa, marrone chiaro dei suoi occhi, il biancore della pelle, le ciocche bionde che si confondono fra i suoi capelli castano ramati.

«’Giorno.»

«Ci siamo addormentati qui sul tappeto, se le suore ci scoprono…»

«Vonnie, dai…»

«E ora? E se ci scoprono?»

«Non ci scopriranno. Non ci scoprono nemmeno quando vengo a dormire nella tua stanza. »

«E se si arrabbiassero e ti facessero andare via… »

«Von… »

«Ti farebbero andar via… »

«Ma no…» 

«Hans...» 

«Yvonne, ascoltami.»

«... Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre.»

Ho le corde del cuore attorcigliate, tese, e non riesco ad emettere alcun suono. Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre Piano piano le corde del cuore si sbrogliano, e nasce una strana melodia mai imparata, improvvisata, piena di parole assurde che vengono dalla notte, dai giorni d’infanzia passati a correre, dai libri che Yvonne mi leggeva con la sua voce di bambina

Vonnie coi capelli ramati, non ti ho mai persa. Sei il nodo che blocca le corde che ho nel cuore, lo stesso che non ho toccato per anni perché sapevo che non sarei mai riuscito a scioglierlo. Sei la mia canzone incompiuta, poesia mai finita, una risata cristallina a metà, una storia di cui non ricordo il finale. Sei un sogno spezzato, come me.

Con le mani che tremano estrae un accendino e si accende una sigaretta, frenetica, con gli occhi chiusi, soffiando il fumo verso l’alto da sdraiata.

Ma sei il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei una storia amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti per non dirti addio. 

Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te.

E per questo, io le prendo la sigaretta dalle labbra e la spengo sul marmo del pavimento e la bacio.

Ha le labbra secche; profumano di bagnoschiuma al gelsomino e fumo e mi cercano ed io la abbraccio, stringo Yvonne a me come se qualcosa stesse per separarci per sempre ed io non voglio, io voglio finire la mia canzone, trovare una parola per questa poesia, continuare questa storia. Le accarezzo i capelli, la mia mano scende sulla sua schiena. Trovo l’elastico dei pantaloncini e la sua pelle, la sua pelle e…

«Perché… perché, Hans, perché? » Yvonne si stacca delle mie labbra e lascia tutto, tutto di me per mettersi in piedi. Cammina avanti e indietro per la stanza e le lacrime scendono sul suo viso e non capisco. Sono innamorato di lei e non capisco.

«Vonnie…»

«Perché devi rovinare tutto, eh, Hans? » Singhiozza.

«Yvonne.» Mi alzo dal tappeto e la raggiungo, veloce. E odio quelle lacrime e odio che siano sue e odio non capire. Ci sono poche cose capisco di quello che mi accade o ed è accaduto. Mia madre mi ha abbandonato. Il mio migliore amico mi accetta per quello che sono. La mia chitarra è la mia casa. E poi...

«Sono innamorato di te.»

«No.»

«Sono innamorato di te e dormo con te e sono il tuo amico, sono le tue spalle quando il peso è troppo, sono i tuoi occhi quando non riesci più a piangere, sono tutto quello che non si è spezzato di te e tu sei tutto quello che non si è spezzato di me ed io ti amo. »

«Smettila,» mi urla contro.

«No, Yvonne, ascolta…»

«Vattene via.»

«Vonnie.»

«Vattene via, ti prego.»

«No, no, non posso.»

«Hans, ti prego.» Cammina a grandi falcate verso la porta ed apre senza nemmeno controllare fuori. «Vattene, se non vuoi che ti vedano. Mi inventerò una scusa, dirò che ho perso la chiave della stanza e non sapevo dove andare… devo aprire la finestra se no si sentirà la puzza del fumo e oddio, perché…»

«Che cosa senti?» Non mi interessa di chi ci sentirà. «Che cosa senti, Yvonne? »

«Sento nel profondo che voglio solo e soltanto che tu vada via!» Scoppia.

Voglio odiarla. Voglio odiare mia madre, che quando avevo quindici anni mi è venuta a trovare con la sua nuova famiglia di cui non posso fare parte, perché io sono il suo errore più grande. Odio Phil che mi conosce troppo bene per lasciarmi stare ed odio lei. Voglio che l’amore sia solo una parola che fa rima nelle canzoni, niente di più. 

Chiuso nella mia stanza, con la chitarra sulla pancia, cerco un modo per salvarmi, per salvarla, per salvarci. Ma forse non esiste e questo mi dà la prova che quello che sento è disperatamente vero. La seguirei ovunque, anche nell’orrore peggiore che  potrebbe mai capitarci, per poi cercare di riportarla su. Perché è lei, è Yvonne, è Vonnie. Per un attimo, ho pensato che amarla come sogno di fare ci avrebbe salvati per sempre. Ho pensato che amarla l'avrebbe aiutata a volare via dal dolore che le si è radicato dentro, volare via per sempre, come la gabbianella di cui leggeva quando era bambina. Amarla è la forza della mia rassegnazione, amarla è l’unica costante che io abbia mai avuto, è l’unica cosa che sono sempre stato, anche quando per poco l’ho dimenticato. E mentre lo dimenticavo, si radicava sempre più in me stesso, diventava parte di ogni mio pensiero senza che io me ne accorgessi; ogni volta che suono sento lei, ogni volta che una ragazza mi sorride vedo lei.

Sono io, e c’è sempre lei, anche da solo, e non riesco a pentirmi di questo. 

***

Yvonne Stewart/Silvers

 

In questa sera calda di settembre, metto il grembiule rosa da cameriera mentre corro verso il bar dove lavoro ogni giovedì. Mi danno pochi dollari, ma è abbastanza per comprare la tinta e le sigarette che nascondo fra il materasso e la testiera del letto. È tutto quello che mi accontento di avere, è tutto quello che posso meritare.

«Yvonne.» Il proprietario del Ofeil Bar dice il mio nome appena mi vede entrare, sbatto la porta sul retro alle spalle e ne nasce un vento che mi fa muovere i capelli.

«Buonasera, signor Hayden.»

Il signor Hayden sorride con la sua abituale malizia negli occhi, quella di chi ha visto tanto, ha visto troppo; con i capelli brizzolati e i grandi e infossati occhi azzurri.

«Puntuale, eh?»

Lo disprezzo con una forza tale che mi fa tremare, come il tetto di una casa mal costruita in preda ad un uragano; è semplicemente uno dei tanti.

«Come sempre,» gli rispondo.

Tutto quello che sento è fastidiosamente forte, esige che io vi presti attenzione con tutta la degenerante cura possibile. Forse un giorno cambierò.

«Be’, meglio che tu lo sia. Da oggi abbiamo una nuova cameriera, se ti comporti male abbiamo già la tua sostituta.»

Continuerò a sperare. Mia madre è il mio più bel ricordo d’infanzia; aveva splendidi capelli lunghi, castani e dai riflessi color rame; non dimenticherò mai il giorno in cui, portandosi una mano alla testa, ho visto ampie ciocche cadere sul pavimento ed io ho temuto solo per la sua dolce bellezza, non per la sua vita. E quando è morta, con le mie mani strette alle sue, un fazzoletto giallo sulla testa e gli occhi nocciola colmi di lacrime troppo deboli per cadere, mi ha ripetuto di non avere mai paura, di non perdere mai la speranza.

Qualcuno in fondo ride: è un suono animalesco e senza contegno, di chi si crede migliore, di chi è sicuro di sapere tutto, soprattutto di me, solo per il fatto che tento ogni giorno di nascondere me stessa sotto uno spesso strato di fondotinta.

«Dici che ci mette cinque ore per venire a lavoro così sistemata senza mai fare ritardo? » dice una ragazza che sorpasso velocemente, senza guardare.

Ci metterei anche tutta la vita, se servisse a cancellare tutto.

Arrivo in cucina, dove l’odore di fritto e di dolce mi arriva alle narici intenso e familiare; un posto dove devo solo rispondere agli ordini, e quasi le persone che lavorano con me smettono di fissarmi per pensare a qualcosa di più importante. Dove nessuno, anche se volesse, potrebbe mai lamentarsi di quello che faccio.

Vedo dell’immondizia lasciata in un angolo, un sacco verde, dico che vado a buttarla via io. Lavorare mi aiuta a non pensare. Muovermi senza pause atrofizza i ricordi e riesco, per pochi attimi, a sentirmi buona a qualcosa per quello che faccio e non per quello che sono, anche se si tratta di spazzare per terra, lavare vetri della finestre, portare le ordinazioni ai tavoli; buttare via la spazzatura, come faccio adesso nella stretta strada grigia con i rumori dei clacson e le risate lontane.

«Pensi davvero che si arrabbierebbe?» È una voce maschile, quella che sento, e la conosco.

«Arrabbiarsi? Oh, impazzirebbe. E cercherebbe in ogni modo di farmi cambiare idea.» E la voce femminile, squillante e allo stesso tempo delicata, emerge dal presente e dalla memoria.

«E poi?»

«Ed io gli direi: sì, hai ragione.» Silenzio. Una risata nervosa. «E poi tornerei da te.»

Premo con il piede l’asta per alzare il coperchio della spazzatura; ne viene fuori un rumore metallico che, inevitabilmente, interrompe sul nascere il bacio dei due che sono proprio qui, stretti contro il muro in mattoni sul retro del bar, nascosti.

Mi guardano, ma io ho già visto loro. Butto la busta nel cesto apposito ed alzo di nuovo lo sguardo, mi stanno entrambi fissando.

«Va’, Holly,» le dice Phil, il migliore amico di Hans, con gli occhi verdi socchiusi e i tatuaggi su entrambe le braccia scoperte. La lascia andare sfiorandole appena i fianchi su cui ricade il suo grembiule rosa da cameriera. Lei è la ragazza nuova.

La sorella di Cameron.

«Ci vediamo domani,» continua lui.

«Non volevo interrompervi,» dico, e un grande fastidio mi travolge, un fastidio che non voglio spiegare. «Io torno dentro.»

Corro via e quando rientro il caos in cucina è tipico del fine settimana, anche se è solo giovedì. Ma l’Ofeil Bar è sempre strapieno, ed io non posso fare a meno di sentirmi sollevata per questo, per non pensare, per non pensare a…

«Yvonne, questo al tavolo nove,» mi dice la cuoca.

Meccanico. Non pensare. Respiro. Afferro il vassoio con entrambe le mani, guardando per un solo attimo il contenuto. 

«Yvonne!» Sento Holly che mi chiama. Devo lavorare, sbrigarmi, non pensare. Non pensare mai più, chiudere le porte a quel pensiero, non sentirlo. Non mi fermerò. «Yvonne!»

Trattengo il respiro.

Martin Scott e Sarah Pierce sono seduti lì, in fondo, al tavolo nove. Se ne stanno abbracciati; lei racconta qualcosa e lui la ascolta, interessato, giocherellando con una ciocca dei capelli di lei. E non c’è nulla che non dica che in tutto questo c’è amore, anche solo nel guardarsi, nell’ascoltarsi.

Qualcosa che non posso avere.

«Yvonne.» Holly mi raggiunge, con il fiatone. «Per favore, non dire niente a Cameron di me e Phil.»

Solo ora mi accorgo che quel ragazzo bruno seduto accanto a Sarah è proprio Cameron Dixon, che ride con Julia Moore, la ragazza con i folti capelli rossi.

«Non dirò niente,» dico, e Martin bacia Sarah e riesco a vederli, riesco a sentirli, insieme sono felici. Mi si contrae lo stomaco al pensiero che quel ragazzo, che ora sembra un altro, mi ha baciata e toccata, ed io ho lasciato che mi baciasse e mi toccasse per qualcosa che è troppo radicata nel passato per scomparire nel presente. Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani sotto la gonna. Scuoto la testa. «Porta tu l’ordinazione, così lo saluti.»

Mi somigliavi così tanto, Martin Scott. Ti fingevi felice così bene, con tutta la vita che ti scorreva davanti e i dubbi sbagliati.

Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani sotto la vodka. Pensa all’amore, cos’è l’amore? Devi farlo, Yvonne. Devi lasciarglielo fare. 

Darmi a un ragazzo che non ricordava nemmeno il mio nome per guardare cosa aveva nelle tasche...

Non pensare, Vonnie.

Stringo gli occhi, il ricordo sale in superficie, non sono abbastanza forte da farlo restare sommerso e mi arriva addosso in tutta la vergogna che ho per me stessa.

Hans.

È tutto spezzato: il cuore, la vita, i sogni. Non riesco a far restare in piedi niente, altrimenti crollo io.

Sono già corsa fuori, e la sigaretta sembra scivolare dalle mie dita tremanti, la mia bocca  freme mentre aspetta quel contatto che forse potrà  darmi sollievo. Come quando a quindici anni il mostro mi picchiò tanto da lasciarmi chiazze violacee sulle braccia. E quando fuori da un negozio di sapone in cui avevo cercato qualche crema per lenire il dolore uno sconosciuto mi offrì una sigaretta con lo sguardo vacante di chi non ha niente per cui star male, accettai. Il sapore era pessimo, lo odiai subito: lo odiai così tanto che per un istante dimenticai i lividi, riuscii a ricordare meglio mia madre con la speranza negli occhi. E riuscii a salvarmi.

Inspiro ed espiro il fumo, almeno riesce a rendere evanescente il volto di Hans, i suoi occhi grigi che splendono, il viso incastonato nei ricordi e al risveglio di ogni giorno della mia vita. Per un attimo, lui scompare.

«Ti dispiace se ti scrocco una sigaretta?»

È ancora Phil ed io faccio un’altra boccata, magari riesco a far scomparire anche lui.

«Scordatelo.»

«Che acida.»

«È uno dei miei appellativi migliori.»

«Si vede che non hai mai sentito Hans parlare di te.»

«Te l’ha raccontato, non è così?»

«Mi è bastato guardarlo.» Phil si avvicina e il fumo gli arriva addosso; gli occhi verdi sono intensi e scavati sul viso pallido, i capelli corti da militare e la bocca stirata in un’espressione affranta che mi trapassa, come se il mio dolore non bastasse, come se oltre il disprezzo dovessi ricevere anche questo, da chi non sa niente. Da chi crede di sapere. «Lo so, Yvonne.»

Continua a parlare. «Lo so perché Hans ha perso la testa per te. Sai, quando sei andata via, tre anni fa,  io ero arrivato da poco, ed ho visto Hans incassare il colpo. Hans incassa sempre tutti i colpi possibili, anche quando non sono solo colpi ma peggio, spade. Ogni dolore gli rimane conficcato dentro come una lama, e per questo Hans resta a distanza di sicurezza da tutti, con gentilezza, la gentilezza con cui è nato, credo, perché se fossi in lui manderei molta più gente a fanculo. Ma lui è diverso. Lui ha le lame che gli escono fuori dal corpo e non si lamenta con nessuno. Se si deve avvicinare lo fa con calma, per non ferire gli altri con le spade che hanno trafitto lui… Ma allora, Yvonne, perché è così vicino a te?» mi chiede, e nella voce ha una rabbia e una stanchezza che può avere solo chi è vicino a una persona malata, a una persona che non vuole guarire. «Perché, Yvonne? Perché sei come lui. Perché hai le lame di tutte le cose brutte che ti sono successe che ti escono dal corpo, e combaciano con quelle di Hans. Voi vi incastrate. Lui si è incastrato e ti è stato vicino come non lo è stato con nessun' altra. Ed il rifiuto che gli hai dato l'altro giorno è stata una lama in più.»

E allora io mi sono trafitta da sola. Mi giro e spengo la sigaretta contro il muro, ci appoggio la fronte anche se è sporco perché io sono sporca dentro.

«Applausi.» E applaude davvero. «Che cos’hai nella testa? Si vede da un chilometro che muori per lui, anche non potresti essere più viva.»

La lacrime coprono il sapore del fumo.

Sento il suo fiato contro il mio orecchio e la sua voce sembra un’implorazione, con tutta la dignità possibile. «Smettila di trafiggerlo.»

Rido nelle mie lacrime, perché ho pietà di me, perché la speranza che ho visto negli occhi di mia madre è rimasta, per mio padre è rimasta, l’Yvonne figlia è rimasta, ma la ragazza di diciassette anni è distrutta. 

«Ed Hans non aveva paura di trafiggere te?» gli chiedo.

Phil ride. «Io ero già ferito mortalmente.» Si allontana. Scalcia via qualcosa, forse una bottiglia di birra. «Ma al saint Vincent stiamo tutti messi molto male, giusto?»Sento il suo sospiro. «Avere un amico come Hans per un po’ te ne può fare dimenticare, però.»

Le lacrime scendono. «Lo capisco.»

«Torna all’istituto, Yv. Sei un disastro. Chiamo Holly e ti copre lei.»

***

Aspetto nascosta in giardino fino all’una di notte, mi ricordo che fra tre giorni potrò andare a trovare mio padre. Mio padre, che vive nei momenti in cui gli racconto le mie giornate, rigido nella sua compostezza sofferente. 

Apro il portone con le chiavi; chi lavora di sera può usarle, anche se solo nei giorni autorizzati. Percorro le scale correndo, e il solo ritornare qui mi riporta ad Hans in ogni sua immagine conosciuta; la sua memoria infallibile mentre giocavamo a memory, i broccoli che lasciava sempre nel piatto, il forte abbraccio che ci siamo dati quando gli ho promesso che sarei tornata a trovarlo, gli sguardi ostili quando ci siamo rivisti dopo tre anni e le notti serene in cui ha dormito con me... io che lo spingo via dopo il suo bacio.

Perché… perché devi rovinare tutto, eh, Hans?

Mi porto le mani al viso, ritrovandolo di nuovo bagnato di lacrime.

Perché è così facile parlarti come se parlassi con me stessa allo specchio? Accusarti come io accuso me?

Ancora qualche altro scalino.

Perché sono io quella che ha rovinato tutto, non tu. E così sto distruggendo te. Un singhiozzo. Non voglio distruggerti, Hans.

E lì lo vedo. 

Seduto sull’ultimo scalino, il più alto, per entrare nel dormitorio femminile. Mi si mozza il respiro come se non ci fosse più aria, perché mi sta guardando. Con i capelli morbidi di un riccio discreto, gli occhi grigi assonnati ma incredibilmente accesi sul volto di una bellezza che non tutti possono capire. Si alza dal suo posto e mi sovrasta con la sua altezza imponente. 

«Von,» mormora. «Dov’eri finita?»

Deglutisco. «Ero a lavoro.»

«E per il resto?»

«Oh… be’…» Ho semplicemente cercato di evitarti. «Ho avuto da fare.»

Il suo sguardo è attraversato da un guizzo, la pietra appuntita della mia bugia sull’acqua dei suoi occhi, perché sa che cosa nascondo, lo sa come se a pensarlo fosse lui stesso.

«Capito,» dice invece. Si passa una mano fra i capelli e vedo la sua incertezza, qualcosa di spossante che trattiene con una smorfia di fastidio, come se si sentisse responsabile. Ma responsabile di cosa? Smette di guardarmi e si mette le mani nelle tasche dei jeans, scende qualche scalino. Ha quell’espressione triste e allo stesso tempo dolce che gli sta addosso da quando era bambino, un bambino che ora non è più. È alto e ha le mani grandi dai polpastrelli duri ed ha diciassette anni. 

«Buonanotte, Yvonne.» Mi sfiora passandomi accanto.

«Hans,» lo chiamo, voltandomi verso di lui. Si gira verso di me, in attesa, con le labbra sottili e rosee leggermente dischiuse. «Quella mattina… quella mattina io…»

«Non c’è bisogno di parlarne,» dice Hans, sicuro, anche se le sue guance si colorano e pare tremare anche se resta immobile, come se fosse l’aria, invece, a tremare per lui. «Scusami. Vado a letto adesso… ma posso restare con te, se vuoi.»

È come se mi avessero buttato addosso dell’acqua ghiacciata per farmi svegliare da un sonno pericoloso, perché vorrei correre da Hans ed abbracciarlo e non so cos’altro perché mi spaventa il nome delle cose, il nome delle cose le rende di un’intensità che non riuscirei a sopportare.

 «Certo,» sospiro, come in un sogno. «Lascio socchiuso il cancelletto con la chiave, e poi…»

«… poi arrivo, chiudo a chiave, la prendo, torno indietro, busso tre volte con tre secondi di differenza. Sveglia alle cinque all’orologio.» Sorride.

Il suo sorriso diventa mio, sembra nascere da me, un albero con le radici nelle mie arterie.

***

Hans bussa tre volte.

Io sono qui ad aspettarlo come se non facessi altro da sempre, sapere che lui è dall’altra parte della soglia mi ridà la facolta di respirare normalmente. Quando lo vedo, però, il respiro va via di nuovo. Entra veloce, guardandomi appena, con le sopracciglia arcuate per la tensione, perché finora nessuno l’ha mai scoperto ma la preoccupazione c’è sempre.

Mi porge la chiave, facendola ciondolare di fronte al mio viso. 

«Fatta anche stavolta,» dico.

«Meglio di una spia.»

Rido, piano. Nella notte, nel silenzio solo nostro, nel pensiero che mi starà accanto.

Mi corico dal lato sinistro, quello dove dormo da una vita, ed Hans mi si mette accanto, supino. Alza di poco il viso per guardarmi, il suo sorriso è una linea tremula dettata dalla stanchezza, qualcosa che mi riserva ancora.

Come puoi, Hans? Come fai? Mi carezza il viso con la punta delle dita, i suoi duri polpastrelli da chitarrista, l’unico regalo che gli ha dato la vita: la sua anima pura anche nel dolore. È per questo che non mi odi, Hans. Sei troppo puro per questo. Quella sporca sono io.

«’Notte, Vonnie.»

«’Notte, Hans.»

Si volta dall’altra parte. Nel buio, mi ritrovo ad immaginarlo come l’ho appena visto. La maglia blu del pigiama che gli va lenta, i capelli scompigliati, la luce argentea che gli viene da dentro e che mi travolge ogni volta. È, forse, la polvere del suo sogno spezzato? Il pulviscolo che ci resta intorno, l’esperienza che riesce a vedere solo chi già sa? 

E vorrei tanto chiamare per nome quello che sento, quel non riuscire a respirare, il sorriso che cerco di nascondere, la sicurezza assoluta che mi salva dalla solitudine, perché Hans è questo. Hans è costante, forte, invincibile anche quando sente di morire. C’era la vita, nei suoi occhi, quando cadde a terra dopo lo sparo. Aveva quello sguardo che diceva “ho imparato resistere da quando sono nato”. Lo stesso sguardo con cui mi ha raccolto da terra tante sere fa, nel bagno delle ragazze. Ho imparato a resistere da quando sono nato ed ora lo faremo insieme. Mi sono addormentata fra le sue braccia, quella notte. Ho bisogno di te, Hans. Avrò sempre bisogno di te. 

Se dessi a tutto questo quel nome sarebbe impossibile tornare indietro. Sarebbe impossibile non spezzarmi di nuovo, e non spezzare lui.

«Ehi… ti muovi sempre, non riesci a dormire?»

Sei così bello. E così dolce, e gentile, e maturo, e incredibilmente tenace. Te l’ha fatta pagare, la vita, ma tu dai a lei guadagno, perché hai coraggio, un orgoglio sottile che non ti fa prostrare alle umiliazioni, ti fa accettare per quello che sono le cose che non possono cambiare. Come me. Come me, Hans.

Me ne sto con gli occhi chiusi.

«Vonnie… stai bene? » Sento la sua mano che mi scuote la spalla.

Bene? Mi sono persa, di nuovo. Mi salverei con una sigaretta, ma ormai ho imparato che in realtà non mi salva da niente. Mi sono persa, Hans, perché la cosa a cui non voglio dare un nome mi stordisce, mi scorre nel sangue, non mi fa dormire.

Sei tu.

Sento il suo respiro sul viso; odore di neve e muschio.

Apro gli occhi e lo scopro così vicino che se solo mi innalzassi di poco potremmo combaciare perfettamente, come due incastri di metallo, due spade che si toccano. Lo guardo, e sento gli occhi umidi, il cuore mi batte forte, e il mio respiro si trasforma in un leggero affanno e la mia pancia sfiora il suo fianco con il solo movimento di vivere, inspirare ed espirare. E lui mi guarda e aspetta. Io aspetto di calmarmi, ma non succede perché non voglio dare un nome a tutto questo, ma tutto questo un nome ce l’ha già, senza il mio battesimo.

E così, nell’onda travolgente di una consapevolezza che ho respinto con la diga della mia paura, mi sollevo leggermente e le mie labbra toccano le sue.

Nel buio tutto diventa vivido come non l’ho mai guardato alla luce del sole. Con le palpebre chiuse percepisco il suo corpo rigido, sorpreso, perché questo bacio è inaspettato, non lo aspettavo io, non lo aspettava lui. Ma nel tempo di qualche lento secondo lo sento sciogliersi contro di me in tutto il suo calore, e così lui bacia me. Sento la sua mano accarezzarmi i capelli, sorreggermi sulla nuca, baciarmi spirando tutta la forza che può avere.

Quanto vorrei essere capace di spiegargli che sto sbagliando. Che quello che Hans desidera non è quello che merita.

«Mi dispiace così tanto…»

Scuote la testa contro di me, i riccioli dei suoi capelli mi sfiorano. «Dispia... Dispiacerti?»

Gli sfioro le labbra con le dita. «Se continui così non sarai mai felice, Hans. Con me non lo sarai mai.»

«Ma Von...»

«Ho distrutto tutto.»

«Non è vero.»

«Lo è...»

«Quello che ti è successo ti rende quello che sei. Io amo quello che sei.»

«No! Non puoi!» gli sibilo contro. Chiudo di nuovo gli occhi. «Quando mi hai baciata ho ricordato gli unici baci che mi sono mai stati mai dati... avevano il sapore del liquore e nient'altro. E quando mi hai toccata… ho ricordato lo squallore di tutte le volte in cui l'ho fatto... Ho lasciato che Martin e chissà chi altro prima si sfinisse con il mio corpo mentre fingevo che andasse tutto bene ma niente andava bene, volevo solo morire... come ho fatto a resistere? Così io ho ucciso l'amore facendo l'amore, ho distrutto tutte le possibilità di amare che potevo avere perché è stato come rivivere tutto anche se ero con te, con te che non c'entri niente. Meriti questo, Hans? Lo meriti?» Mi stringe contro il suo petto, sono al sicuro, sono in un posto che non potrò mai lasciare, in cui lui mi raggiunge sempre. «Lo meriti?»

Hans che mi bacia, il fuoco che esplode dentro di me. Le sue mani sui fianchi, il fuoco che diventa cenere, nella mia mente mani estranee, bocche estranee, corpi estranei...

«Dio… la mia Yvonne…» Mi stringe ancora di più, mi bacia sui capelli, sulla fronte, tremo. «Yvonne…» 

Mi sembra di aver gettato a terra un peso che mi portavo sulle spalle da sempre, ed Hans mi sfiora e nessuno squallore riemerge dal fondo, ci siamo solo io e lui. 
Hans mi bacia sulle labbra, pianissimo, una ventata calda mi scuote in tutto il corpo, e poi la sua bocca scende sul mento, pianissimo, scivola sul collo, pianissimo, perché ha paura del passato che può portarmi via se mi stringe troppo forte. Ma io non lo fermo. Mi mordo le labbra e lui scende ancora, bacia ovunque la pelle sia scoperta, con le sue dita che sfiorano i bottoni e li fanno venir via. Scende ancora, mi mordo le labbra, stringo la sua testa contro il mio petto. Non voglio credere ai miei occhi chiusi, al fatto che lo sto permettendo, ma la camicia da notte è completamente aperta ed Hans scende ed io riesco a pensare solo ad Hans… Hans, Hans, Hans…

Muove le mani in qualcosa di meravigliosamente sconosciuto, e la lucidità scompare e conosco solo un abbandono, l’unico abbandono in un cui è possibile essere ancora più uniti a qualcuno. Respiro piano, per non far rumore, per non tradirmi, per riuscire a riafferrare i pensieri ora scomparsi con il corpo di Hans contro il mio.

«A cosa hai pensato?» mi chiede Hans, soffiando sul mio orecchio, ed io riesco a mala pena a capire il senso della sua domanda, anche se niente arriva veloce come la mia risposta.

«A te.» Il cuore palpita, il cuore mi scoppierà e morirò. Morirò in questo sogno.

«Allora non hai ucciso l'amore.» Hans mi accarezza la fronte con le labbra, mi respira.«C'è ancora qualcosa.» 

Sento una lacrima bagnarmi la guancia, arrivare fino alla mia bocca e, per la prima volta, il suo sapore non è amaro di dolore. Viene solo dal mio sollievo, dalla mia gioia, perché mi rendo conto che Hans ha ragione. Perché l’amore non l’avevo mai provato prima ed è questo,  covava dentro di me nella bambina che ero ed è esploso adesso nella ragazza spezzata di diciassette anni. Diciassette anni? Mi sembra di aver vissuto anni e anni di più per tutto il peso che entrambi ci portiamo dentro, e mi sembra di aver vissuto molto meno perché non riesco a controllare cose semplici come qualunque mio sentimento. Hans mi copre con la camicia da notte e mi abbraccia, sollevandomi contro il suo petto; le mie ciglia sfiorano il suo collo, le mie lacrime sulla sua pelle. E in un attimo in cui riesco ad aprire gli occhi, e guardarlo in questa sua bellezza che mi cura dentro, mi ribello al fatto che mi abbia coperta. 

«Baciami ancora,» gli sussurro. Il suo amore è volato a me ed ora il mio volerà a lui. Perché ha già la mia anima, ma io voglio donargliela ancora.Lascio scivolare la camicia dalle spalle con un sospiro e così anche tutti i suoi vestiti, e nel buio lo vedo – la luce dei lampioni ci raggiunge dalla tapparella abbassata solo di poco – ma io riesco a vederlo perché lui ha la sua luce, lui ha qualcosa di argento e grigio che mi riempie di meraviglia. Lui, con la pelle così chiara, la cicatrice dello sparo sull’addome teso, prova di di una delle tante cose che l'hanno segnato sul corpo perfetto. I suoi capelli che mi sfiorano la fronte e il respiro pesante per il solo sfiorarci.

Dai nostri corpi vengono fuori le lame dei nostri dolori, lame che nei loro scontri si scheggiano fino a diventare sempre più sottili, sgetolandosi all'esterno, ma rimanendoci dentro. Ed ora l’amore è nelle mie mani, sulle mie labbra, in ogni parte di me, per lui; in ogni parte di lui, per me.

E so che ricorderò questa notte come la mia prima volta, perché per me lo è davvero.

Hans mi culla, io lo cullo; i suoi capelli mi sfiorano, il fiato caldo sulla mia pelle, stringo più forte le gambe intorno al suo bacino, come se potesse mai lasciarmi adesso, adesso che l’aria non basta e sfugge dalla gola, e le labbra si toccano appena e gli sono vicina e mai abbastanza, mai abbastanza, mai abbastanza ed allaccio le mani al suo collo e siamo stretti, sempre più stretti, e lui si fa vicino e lontano, vicino e lontano, lontano. Lontano, per l’ultima volta.

Si si lascia cadere su di me ed io lo accolgo fra le braccia, in uno scontro stanco in cui sento di essere completa, di stare bene.

«Von?» mi chiama, con l’impazienza nella voce.

«Va tutto bene.»Annuisco sicura. Le sue palpebre si assottigliano, le ciglia lunghe e scure a fare ombra sul suo volto. 

«Tu volerai, Yvonne… non importa quante volte sei caduta, tu volerai, come la gabbianella…» Hans mi bacia le palpebre chiuse, mi accarezza i capelli, la guancia, le braccia, apro gli occhi, mi guarda come se non mi avesse mai vista prima… come ogni giorno in cui apre gli occhi accanto a me.

«La gabbianella?»

«Il libro che leggevi da piccola.»

L’immagine di me che leggeva sul tappeto di spugna con lui accanto mi torna alla mente. «Credevo dormissi.»

«Ma ti sognavo.» Sorride di sghembo. «Vonnie coi capelli ramati… non ti ho mai persa.  Sei il nodo che blocca le corde che ho nel cuore, il nodo che non ho toccato per anni… sapevo che non sarei mai riuscito a scioglierlo…» Mi posa un bacio sulla guancia ed io sorrido, non riesco a fare altro.

«Che cosa dici, Hans?»

«Una canzone.» I suoi occhi grigi mi scavano dentro la felicità. «Devo scriverla! Hai carta e penna?»

«Nel cassetto del comodino.» Si precipita ad aprirlo, la sua schiena bianca che riluce nell’oscurità. Accende la lampada, torna vicino a me e scrive, parlando a voce. « Sei un sogno spezzato, come me. Sei la mia canzone incompiuta… la mia poesia mai finita, una risata cristallina a metà, una storia di cui non ricordo il finale.

Ma sei il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei la storia troppo amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti, per non dirti addio. Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te. Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te… »

Mi bacia, sorride sul mio sorriso. 

Gli prendo la mano e lascio che scorra sulla mia guancia, a raccogliermi le lacrime. Chiudo gli occhi ed è come se fossi solo anima e non più corpo, non più una ragazza spezzata. 

*

*

*

*

Ciao a tutti, eccomi di nuovo qui! Ecco a voi questo capitolo extra *-* All'inizio credevo che le dinamiche per la storia di Yvonne ed Hans sarebbero state più semplici, ma il passato dei personaggi, soprattutto di lei, ha condizionato moltissimo il tutto. Yvonne è rimasta segnata non solo da quello che è accaduto con le pietre nere ma anche dagli eventi da cui si è fatta travolgere, forte abbastanza per continuare a sperare ma abbastanza debole da poter sbagliare. Mentre lo scrivevo, ho pensato che potrebbe funzionare proprio come capitolo all'interno della storia, prima dell'epilogo. Voi cosa ne dite? :3 Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia fatto piacere leggere di Yvonne ed Hans *.*

Il capitolo è introdotto da una poesia di Emily Dickinson. Se notate, tutta Until richiama quello che ha scritto la poetessa, non solo per la questione dei fantasmi di se stessi ma per diversi temi. Le sue poesie sono davvero bellissime *-*

Il libro citato all'inizio è "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare" di Luis Sepùlveda. Un libro per bambini e ragazzi con un bellissimo significato, commuovente e dolce. 

Grazie a tutti voi che leggete *.* Ed un grazie speciale a tutti coloro che mi hanno lasciato le loro parole per l'epilogo :) 

Un bacio,

Ania :3

 


   
 
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