viene un sentimento solenne,
i nervi siedono cerimoniosi come tombe,
il cuore irrigidito si chiede
se proprio lui ha sopportato,
e se fu ieri, o secoli fa.
I piedi meccanici
vagano su una strada arida
di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
indifferenti ormai:
una pace di quarzo, come un sasso.
Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati
rammentano la neve:
prima il freddo, poi lo stupore, infìne
l'abbandono.
Emily Dickinson
Anno 2005
Nell’istituto Saint Vincent, c’è la stanza del cuore di
Yvonne Grace, nove anni, lunghi capelli ramati e occhi color nocciola
splendenti, meteore stanche cadute sulla
terra, ma con la forza di brillare ancora.
La
stanza del cuore di Yvonne Grace è fredda, dai muri alti
alti, con casse piene di giochi, anche se cinque su dieci sono rotti, e
un
camino spento con davanti un tappeto di spugna, di quelli che si
mettono
insieme come dei pezzi di puzzle. Nell’angolo, una busta di carta
con vecchi
libri illustrati. È lì che Yvonne corre, e le sue mani
incontrano quello che, a
scritte dorate, è chiamato “Storia di una gabbianella e
del gatto che le insegnò a volare”, con tanti bei gattini
ed un gabbiano…
La piccola Yvonne si volta e un urletto le scappa dalla sua
gola.
«Shhh!» fa il bambino ricciolino steso sul tappeto, posando
il dito indice sulle labbra. «Se urli le suore ti sentono e lo sai che alle
dieci dobbiamo già essere a letto!»
«Hans. » Yvonne sbuffa. «Mi hai seguito! Di nuovo!»
Hans sbuffa allo stesso modo di Yvonne, i grandi occhi grigi
dalle ciglia lunghe e nere. «Ma tutti dormono… mi sentivo escluso.»
Yvonne si sposta i capelli lisci con fare da principessa
bellissima e raffinata. «Va bene, puoi restare.»
Gli occhi di Hans si fanno più grandi, luminosi, e il suo
sorriso gli spacca il viso in una geometria asimmetriche, stramba, unica.
«Grazie, Vonnie. Adesso continui a leggere?»
Sguardo in alto, mento sollevato, libro stretto al petto,
Yvonne cammina verso il tappetino e, una volta arrivata, ci si siede a braccia
conserte. «Certo. Vuoi che legga ad alta voce?»
«Potresti?» Hans sembra quasi implorarla.
«Certo, sciocchino.»
«Grazie, Vonnie.»
Yvonne stira le labbra, si sposta una ciocca di capelli
dietro l’orecchio per stabilire la giusta concentrazione.
«"Ora
volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai
molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si
chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la
pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori
la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L'umano e il
gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.» Yvonne continua a leggere. « “La pioggia. L'acqua. Mi piace!” stridette.
“Ora volerai” miagolò Zorba.
“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette
Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.
“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti”
stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come
dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli
equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola
appena.
Fortunata scomparve alla vista, e l'umano e il gatto
temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si
affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando
il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della
banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata
volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con
energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito
dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della
chiesa. “Volo! Zorba! So volare!”»
Un respiro pesante la distoglie dall’attenzione. Fa un
respiro profondo, volta la testa e incontra la testa ricciuta di Hans, disteso
su un fianco. Lo spintona leggermente. «Hans?» Nessuna risposta. Yvonne si
morde le labbra e si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Hansie? » Un altro spintone ed Hans cade
completamente disteso sulla schiena, addormentato con entrambe le mani sotto
l’orecchio sinistro quasi a volersi abbracciare da solo e una buffa espressione
con la bocca aperta. «Oh, Hansie,» sospira Yvonne. «Sei il solito dormiglione…
La gabbianella ha appena imparato a volare! Ti sei perso una scena
fantasmagorica… Dopo tutte le volte in cui ci ha provato forse nessuno ci sperava più che
avrebbe volato! Ma io sì.» Chiude il libro, lo solleva e colpisce, leggermente, la testa
di Hans, che mugugna un po’.
«Ti stavo sognando,» risponde lui con la voce impastata
dal sonno. Forse sta ancora sognando.
Vonnie si addormenta accanto ad Hans Renton.
Sognerà di essere una gabbianella che non sa ancora volare, ma lei sarà forte abbastanza.
Lei avrà speranza.
Il mio nome è Joshua Silvers e sono addormentato dentro di me. Prego. Prego che mia figlia possa salvarsi.
***
Settembre 2014
Hans
Renton
Sento un fruscio contro le gambe, e non riesco ancora a
capire se sto ancora dormendo o no, se questo è uno di quei sogni che si fanno
all’alba e che si dimenticano appena apri gli occhi.
Un fiato caldo contro le mie palpebre chiuse.
«Hans, oh mio Dio… » No, non sto dormendo, perché nei sogni
è tutto evanescente, sbiadito, e vorresti che restasse per sempre ma poi
scompare. Quando apro gli occhi, Yvonne è vera e una macchia di colore forte e
accesa, marrone chiaro dei suoi occhi, il biancore della pelle, le ciocche
bionde che si confondono fra i suoi capelli castano ramati.
«’Giorno.»
«Ci siamo addormentati qui sul tappeto, se le suore ci scoprono…»
«Vonnie, dai…»
«E ora? E se ci scoprono?»
«Non ci scopriranno. Non ci scoprono nemmeno quando vengo a
dormire nella tua stanza. »
«E se si arrabbiassero e ti facessero andare via… »
«Von… »
«Ti farebbero andar via… »
«Ma no…»
«Hans...»
«Yvonne, ascoltami.»
«... Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre.»
Ho le corde del cuore attorcigliate, tese, e non riesco ad emettere alcun suono. Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre Piano piano le corde del cuore si sbrogliano, e nasce una strana melodia mai imparata, improvvisata, piena di parole assurde che vengono dalla notte, dai giorni d’infanzia passati a correre, dai libri che Yvonne mi leggeva con la sua voce di bambina.
Vonnie coi capelli ramati, non ti ho mai
persa. Sei il nodo che blocca le corde che ho nel cuore, lo stesso che non ho
toccato per anni perché sapevo che non sarei mai riuscito a scioglierlo. Sei la
mia canzone incompiuta, poesia mai finita, una risata cristallina a metà,
una storia di cui non ricordo il finale. Sei un sogno spezzato, come me.
Con le mani che tremano estrae un accendino e si accende una
sigaretta, frenetica, con gli occhi chiusi, soffiando il fumo verso l’alto da
sdraiata.
Ma sei il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei una storia amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti per non dirti addio.
Sei un
sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te.
E per questo, io le prendo la sigaretta dalle labbra e la
spengo sul marmo del pavimento e la bacio.
«Perché… perché, Hans, perché?
» Yvonne si stacca delle mie labbra e lascia tutto, tutto di me per mettersi in
piedi. Cammina avanti e indietro per la stanza e le lacrime scendono sul suo viso
e non capisco. Sono innamorato di lei e non capisco.
«Vonnie…»
«Perché devi rovinare tutto, eh, Hans? » Singhiozza.
«Yvonne.» Mi alzo dal tappeto e la raggiungo, veloce. E odio quelle lacrime e odio che siano sue e odio non capire. Ci sono poche cose capisco di quello che mi accade o ed è accaduto. Mia madre mi ha abbandonato. Il mio migliore amico mi accetta per quello che sono. La mia chitarra è la mia casa. E poi...
«Sono innamorato di te.»
«No.»
«Sono innamorato di te e dormo con te e sono il tuo amico,
sono le tue spalle quando il peso è troppo, sono i tuoi occhi quando non riesci
più a piangere, sono tutto quello che non si è spezzato di te e tu sei tutto
quello che non si è spezzato di me ed io ti amo. »
«Smettila,» mi urla contro.
«No, Yvonne, ascolta…»
«Vattene via.»
«Vonnie.»
«Vattene via, ti prego.»
«No, no, non posso.»
«Hans, ti prego.»
Cammina a grandi falcate verso la porta ed apre senza nemmeno controllare
fuori. «Vattene, se non vuoi che ti vedano. Mi inventerò una scusa, dirò che ho
perso la chiave della stanza e non sapevo dove andare… devo aprire la finestra
se no si sentirà la puzza del fumo e oddio, perché…»
«Che cosa senti?» Non mi interessa di chi ci sentirà. «Che
cosa senti, Yvonne? »
«Sento nel profondo che voglio solo e soltanto che tu vada
via!» Scoppia.
Voglio
odiarla. Voglio odiare mia madre, che quando avevo quindici anni mi
è venuta a trovare con la sua nuova famiglia di cui non posso
fare parte, perché io sono il suo errore più grande. Odio
Phil che mi conosce troppo bene per lasciarmi stare ed odio lei. Voglio
che l’amore sia solo una parola che fa rima nelle canzoni, niente
di più.
Sono io, e c’è sempre lei, anche da solo, e non riesco a pentirmi di questo.
***
Yvonne
Stewart/Silvers
«Yvonne.» Il proprietario del Ofeil Bar dice il mio nome
appena mi vede entrare, sbatto la porta sul retro alle spalle e ne nasce un
vento che mi fa muovere i capelli.
«Buonasera, signor Hayden.»
Il signor Hayden sorride con la sua abituale malizia negli
occhi, quella di chi ha visto tanto, ha visto troppo; con i capelli brizzolati
e i grandi e infossati occhi azzurri.
«Puntuale, eh?»
Lo disprezzo con una forza tale che mi fa tremare, come il
tetto di una casa mal costruita in preda ad un uragano; è semplicemente uno dei tanti.
«Come sempre,» gli rispondo.
Tutto quello che sento è fastidiosamente forte, esige che io
vi presti attenzione con tutta la degenerante cura possibile. Forse un giorno cambierò.
«Be’, meglio che tu lo sia. Da oggi abbiamo una nuova
cameriera, se ti comporti male abbiamo già la tua sostituta.»
Continuerò
a sperare. Mia madre è il mio più bel ricordo d’infanzia; aveva
splendidi capelli lunghi, castani e dai riflessi color rame; non dimenticherò
mai il giorno in cui, portandosi una mano alla testa, ho visto ampie ciocche
cadere sul pavimento ed io ho temuto solo per la sua dolce bellezza, non per
la sua vita. E quando è morta, con le mie mani strette alle sue, un fazzoletto
giallo sulla testa e gli occhi nocciola colmi di lacrime troppo deboli per
cadere, mi ha ripetuto di non avere mai paura, di non perdere mai la speranza.
Qualcuno in fondo ride: è un suono animalesco e senza
contegno, di chi si crede migliore, di chi è sicuro di sapere tutto,
soprattutto di me, solo per il fatto che tento ogni giorno di nascondere me
stessa sotto uno spesso strato di fondotinta.
«Dici che ci mette cinque ore per venire a lavoro così sistemata
senza mai fare ritardo? » dice una ragazza che sorpasso velocemente, senza
guardare.
Ci
metterei anche tutta la vita, se servisse a cancellare tutto.
Arrivo in cucina, dove l’odore di fritto e di dolce mi
arriva alle narici intenso e familiare; un posto dove devo solo rispondere agli
ordini, e quasi le persone che lavorano con me smettono di fissarmi per pensare
a qualcosa di più importante. Dove nessuno, anche se volesse, potrebbe mai
lamentarsi di quello che faccio.
Vedo dell’immondizia lasciata in un angolo, un sacco verde,
dico che vado a buttarla via io. Lavorare mi aiuta a non pensare. Muovermi
senza pause atrofizza i ricordi e riesco, per pochi attimi, a sentirmi buona a
qualcosa per quello che faccio e non per quello che sono, anche se si tratta di
spazzare per terra, lavare vetri della
finestre, portare le ordinazioni ai tavoli; buttare via la spazzatura, come
faccio adesso nella stretta strada grigia con i rumori dei clacson e le risate
lontane.
«Pensi davvero che si arrabbierebbe?» È una voce maschile,
quella che sento, e la conosco.
«Arrabbiarsi? Oh, impazzirebbe. E cercherebbe in ogni modo
di farmi cambiare idea.» E la voce femminile, squillante e allo stesso tempo
delicata, emerge dal presente e dalla memoria.
«E poi?»
«Ed io gli direi: sì, hai ragione.» Silenzio. Una risata
nervosa. «E poi tornerei da te.»
Premo con il piede l’asta per alzare il coperchio della
spazzatura; ne viene fuori un rumore metallico che, inevitabilmente, interrompe
sul nascere il bacio dei due che sono proprio qui, stretti contro il muro in
mattoni sul retro del bar, nascosti.
Mi guardano, ma io ho già visto loro. Butto la busta nel
cesto apposito ed alzo di nuovo lo sguardo, mi stanno entrambi fissando.
«Va’, Holly,» le dice Phil, il migliore amico di Hans, con
gli occhi verdi socchiusi e i tatuaggi su entrambe le braccia scoperte. La
lascia andare sfiorandole appena i fianchi su cui ricade il suo grembiule rosa
da cameriera. Lei è la ragazza nuova.
La sorella
di Cameron.
«Ci vediamo domani,» continua lui.
«Non
volevo interrompervi,» dico, e un grande fastidio mi travolge, un
fastidio che non voglio spiegare. «Io torno dentro.»
Corro via e quando rientro il caos in cucina è tipico del
fine settimana, anche se è solo giovedì. Ma l’Ofeil Bar è sempre strapieno, ed
io non posso fare a meno di sentirmi sollevata per questo, per non pensare, per non pensare a…
«Yvonne, questo al tavolo nove,» mi dice la cuoca.
Meccanico. Non
pensare. Respiro. Afferro il vassoio con entrambe le mani, guardando per un
solo attimo il contenuto.
«Yvonne!» Sento Holly che mi chiama. Devo lavorare,
sbrigarmi, non pensare. Non pensare mai più, chiudere le porte a quel pensiero,
non sentirlo. Non mi fermerò. «Yvonne!»
Trattengo il respiro.
Martin Scott e Sarah Pierce sono seduti lì, in fondo, al
tavolo nove. Se ne stanno abbracciati; lei racconta qualcosa e lui la ascolta,
interessato, giocherellando con una ciocca dei capelli di lei. E non c’è nulla
che non dica che in tutto questo c’è amore, anche solo nel guardarsi,
nell’ascoltarsi.
«Yvonne.» Holly mi raggiunge, con il fiatone. «Per favore,
non dire niente a Cameron di me e Phil.»
Solo ora mi accorgo che quel ragazzo bruno seduto accanto a
Sarah è proprio Cameron Dixon, che ride con Julia Moore, la ragazza con i folti
capelli rossi.
«Non dirò niente,» dico, e Martin bacia Sarah e riesco a vederli, riesco a sentirli, insieme sono felici. Mi si contrae lo stomaco al pensiero che quel ragazzo, che ora sembra un altro, mi ha baciata e toccata, ed io ho lasciato che mi baciasse e mi toccasse per qualcosa che è troppo radicata nel passato per scomparire nel presente. Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani sotto la gonna. Scuoto la testa. «Porta tu l’ordinazione, così lo saluti.»
Mi somigliavi così tanto, Martin Scott. Ti
fingevi felice così bene, con tutta la vita che ti scorreva davanti e i dubbi
sbagliati.
Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani sotto la vodka. Pensa all’amore, cos’è l’amore? Devi farlo, Yvonne. Devi lasciarglielo fare.
Darmi a un ragazzo che non ricordava nemmeno il mio nome
per guardare cosa aveva nelle tasche...
Non
pensare, Vonnie.
Stringo gli occhi, il ricordo sale in superficie, non sono abbastanza forte da farlo restare sommerso e mi arriva addosso in tutta la vergogna che ho per me stessa.
Hans.
È tutto spezzato: il cuore, la vita, i sogni. Non riesco a
far restare in piedi niente, altrimenti crollo io.
Sono già corsa fuori, e la sigaretta sembra scivolare dalle
mie dita tremanti, la mia bocca freme mentre aspetta quel contatto che
forse potrà darmi sollievo. Come quando
a quindici anni il mostro mi picchiò tanto da lasciarmi chiazze violacee
sulle braccia. E quando fuori da un
negozio di sapone in cui avevo cercato qualche crema per lenire il dolore uno sconosciuto mi
offrì una sigaretta con lo sguardo vacante di chi non ha niente per cui star
male, accettai. Il sapore era pessimo, lo odiai subito: lo odiai così tanto che
per un istante dimenticai i lividi, riuscii a ricordare meglio mia madre con la
speranza negli occhi. E riuscii a salvarmi.
«Ti dispiace se ti scrocco una sigaretta?»
È ancora Phil ed io faccio un’altra boccata, magari riesco a
far scomparire anche lui.
«Scordatelo.»
«Che acida.»
«È uno dei miei appellativi migliori.»
«Si vede che non hai mai sentito Hans parlare di te.»
«Te l’ha raccontato, non è così?»
«Mi è bastato guardarlo.» Phil si avvicina e il fumo gli
arriva addosso; gli occhi verdi sono intensi e scavati sul viso pallido, i
capelli corti da militare e la bocca stirata in un’espressione affranta che mi
trapassa, come se il mio dolore non bastasse, come se oltre il disprezzo
dovessi ricevere anche questo, da chi non sa niente. Da chi crede di sapere.
«Lo so, Yvonne.»
Continua a parlare. «Lo so perché Hans ha perso la testa per
te. Sai, quando sei andata via, tre anni fa, io ero arrivato da poco, ed ho visto Hans
incassare il colpo. Hans incassa sempre tutti i colpi possibili, anche quando
non sono solo colpi ma peggio, spade. Ogni dolore gli rimane conficcato dentro
come una lama, e per questo Hans resta a distanza di sicurezza da tutti, con
gentilezza, la gentilezza con cui è nato, credo, perché se fossi in lui
manderei molta più gente a fanculo. Ma lui è diverso. Lui ha le lame che gli
escono fuori dal corpo e non si lamenta con nessuno. Se si deve avvicinare lo
fa con calma, per non ferire gli altri con le spade che hanno trafitto lui… Ma allora, Yvonne, perché è
così vicino a te?» mi chiede, e nella voce ha una rabbia e una stanchezza che può avere
solo chi è vicino a una persona malata, a una persona che non vuole guarire.
«Perché, Yvonne? Perché sei come lui. Perché hai le lame di tutte le cose
brutte che ti sono successe che ti escono dal corpo, e combaciano con quelle di
Hans. Voi vi incastrate. Lui si è incastrato e ti è stato vicino come non lo è
stato con nessun' altra. Ed il rifiuto che gli hai dato l'altro giorno è stata una
lama in più.»
E
allora io mi sono trafitta da sola. Mi giro e spengo la sigaretta
contro il muro, ci appoggio la fronte anche se è sporco perché io sono sporca
dentro.
«Applausi.» E applaude davvero. «Che cos’hai nella testa?
Si vede da un chilometro che muori
per lui, anche non potresti essere più viva.»
La lacrime coprono il sapore del fumo.
Sento il suo fiato contro il mio orecchio e la sua voce
sembra un’implorazione, con tutta la dignità possibile. «Smettila di
trafiggerlo.»
Rido nelle mie lacrime, perché ho pietà di me, perché la speranza che ho visto negli occhi di mia madre è rimasta, per mio padre è rimasta, l’Yvonne figlia è rimasta, ma la ragazza di diciassette anni è distrutta.
«Ed Hans non aveva paura di trafiggere te?» gli chiedo.
Phil ride. «Io ero già ferito mortalmente.» Si allontana.
Scalcia via qualcosa, forse una bottiglia di birra. «Ma al saint Vincent stiamo tutti messi molto
male, giusto?»Sento il suo sospiro. «Avere un amico come Hans per un po’ te ne può fare
dimenticare, però.»
Le lacrime scendono. «Lo capisco.»
«Torna all’istituto, Yv. Sei un disastro. Chiamo Holly e ti
copre lei.»
***
Aspetto nascosta in giardino fino all’una di notte, mi ricordo che fra tre giorni potrò andare a trovare mio padre. Mio padre, che vive nei momenti in cui gli racconto le mie giornate, rigido nella sua compostezza sofferente.
Apro
il portone con le chiavi; chi lavora di sera può usarle, anche
se solo nei
giorni autorizzati. Percorro le scale correndo, e il solo ritornare qui
mi
riporta ad Hans in ogni sua immagine conosciuta; la sua memoria
infallibile
mentre giocavamo a memory, i broccoli che lasciava sempre nel piatto,
il forte
abbraccio che ci siamo dati quando gli ho promesso che sarei tornata a
trovarlo,
gli sguardi ostili quando ci siamo rivisti dopo tre anni e le notti
serene in
cui ha dormito con me... io che lo spingo via dopo il suo bacio.
Perché…
perché devi rovinare tutto, eh, Hans?
Mi porto le mani al viso, ritrovandolo di nuovo bagnato di lacrime.
Perché è così facile parlarti come se parlassi con me stessa allo specchio? Accusarti come io accuso me?
Ancora
qualche altro scalino.
Perché
sono io quella che ha rovinato tutto, non tu. E così sto distruggendo te. Un
singhiozzo. Non voglio distruggerti,
Hans.
E lì lo vedo.
Seduto sull’ultimo scalino, il più alto, per entrare nel dormitorio femminile. Mi si mozza il respiro come se non ci fosse più aria, perché mi sta guardando. Con i capelli morbidi di un riccio discreto, gli occhi grigi assonnati ma incredibilmente accesi sul volto di una bellezza che non tutti possono capire. Si alza dal suo posto e mi sovrasta con la sua altezza imponente.
«Von,» mormora. «Dov’eri finita?»
Deglutisco. «Ero a lavoro.»
«E per il resto?»
«Oh… be’…» Ho semplicemente cercato di evitarti. «Ho avuto
da fare.»
Il suo sguardo è attraversato da un guizzo, la pietra
appuntita della mia bugia sull’acqua dei suoi occhi, perché sa che cosa
nascondo, lo sa come se a pensarlo fosse lui stesso.
«Capito,» dice invece. Si passa una mano fra i capelli e vedo la sua incertezza, qualcosa di spossante che trattiene con una smorfia di fastidio, come se si sentisse responsabile. Ma responsabile di cosa? Smette di guardarmi e si mette le mani nelle tasche dei jeans, scende qualche scalino. Ha quell’espressione triste e allo stesso tempo dolce che gli sta addosso da quando era bambino, un bambino che ora non è più. È alto e ha le mani grandi dai polpastrelli duri ed ha diciassette anni.
«Buonanotte, Yvonne.» Mi
sfiora passandomi accanto.
«Hans,» lo chiamo, voltandomi verso di lui. Si gira verso
di me, in attesa, con le labbra sottili e rosee leggermente dischiuse.
«Quella mattina… quella mattina io…»
«Non c’è bisogno di parlarne,» dice Hans, sicuro, anche se
le sue guance si colorano e pare tremare anche se resta immobile, come se fosse
l’aria, invece, a tremare per lui. «Scusami. Vado a letto adesso… ma posso restare con
te, se vuoi.»
È come se mi avessero buttato addosso dell’acqua ghiacciata
per farmi svegliare da un sonno pericoloso, perché vorrei correre da Hans ed
abbracciarlo e non so cos’altro perché mi spaventa il nome delle cose, il nome
delle cose le rende di un’intensità che non riuscirei a sopportare.
«Certo,» sospiro,
come in un sogno. «Lascio socchiuso il cancelletto con la chiave, e poi…»
«… poi arrivo, chiudo a chiave, la prendo, torno indietro,
busso tre volte con tre secondi di differenza. Sveglia alle cinque
all’orologio.» Sorride.
Il suo sorriso diventa mio, sembra nascere da me, un albero
con le radici nelle mie arterie.
***
Hans bussa tre volte.
Io sono qui ad aspettarlo come se non facessi altro da
sempre, sapere che lui è dall’altra parte della soglia mi ridà la facolta di
respirare normalmente. Quando lo vedo, però, il respiro va via di nuovo. Entra
veloce, guardandomi appena, con le sopracciglia arcuate per la tensione, perché
finora nessuno l’ha mai scoperto ma la preoccupazione c’è sempre.
Mi porge la chiave, facendola ciondolare di fronte al mio viso.
«Fatta anche stavolta,» dico.
«Meglio di una spia.»
Rido, piano. Nella notte, nel silenzio solo nostro, nel
pensiero che mi starà accanto.
Mi corico dal lato sinistro, quello dove dormo da una vita, ed Hans mi si mette accanto, supino. Alza di poco il viso per guardarmi, il suo sorriso è una linea tremula dettata dalla stanchezza, qualcosa che mi riserva ancora.
Come puoi, Hans? Come fai? Mi carezza il viso con la punta delle dita, i suoi duri polpastrelli da chitarrista, l’unico regalo che gli ha dato la vita: la sua anima pura anche nel dolore. È per questo che non mi odi, Hans. Sei troppo puro per questo. Quella sporca sono io.
«’Notte, Vonnie.»
«’Notte, Hans.»
Si volta dall’altra parte. Nel buio, mi ritrovo ad
immaginarlo come l’ho appena visto. La maglia blu del pigiama che gli va lenta,
i capelli scompigliati, la luce argentea che gli viene da dentro e che mi
travolge ogni volta. È, forse, la polvere
del suo sogno spezzato? Il pulviscolo che ci resta intorno, l’esperienza che riesce
a vedere solo chi già sa?
E
vorrei tanto chiamare per nome quello che sento, quel non
riuscire a respirare, il sorriso che cerco di nascondere, la sicurezza
assoluta
che mi salva dalla solitudine, perché Hans è questo. Hans
è costante, forte, invincibile anche quando sente di morire.
C’era la
vita, nei suoi occhi, quando cadde a terra dopo lo sparo. Aveva quello
sguardo che
diceva “ho imparato resistere da quando sono nato”. Lo
stesso sguardo con cui
mi ha raccolto da terra tante sere fa, nel bagno delle ragazze. Ho imparato a resistere da quando sono nato
ed ora lo faremo insieme. Mi sono addormentata fra le sue braccia, quella
notte. Ho bisogno di te, Hans. Avrò
sempre bisogno di te.
Se dessi a tutto questo quel nome sarebbe impossibile
tornare indietro. Sarebbe impossibile non spezzarmi di nuovo, e non spezzare
lui.
«Ehi… ti muovi sempre, non riesci a dormire?»
Sei
così bello. E così dolce, e gentile, e maturo, e incredibilmente tenace. Te
l’ha fatta pagare, la vita, ma tu dai a lei guadagno, perché hai coraggio, un
orgoglio sottile che non ti fa prostrare alle umiliazioni, ti fa accettare per
quello che sono le cose che non possono cambiare. Come me. Come me, Hans.
Me ne sto con gli occhi chiusi.
«Vonnie… stai bene? » Sento la sua mano che mi scuote la
spalla.
Bene?
Mi sono persa, di nuovo. Mi salverei con una sigaretta, ma ormai ho imparato
che in realtà non mi salva da niente. Mi sono persa, Hans, perché la cosa a cui
non voglio dare un nome mi stordisce, mi scorre nel sangue, non mi fa dormire.
Sei tu.
Sento il suo respiro sul viso; odore di neve e muschio.
Apro
gli occhi e lo scopro così vicino che se solo mi innalzassi
di poco potremmo combaciare perfettamente, come due incastri di
metallo, due
spade che si toccano. Lo guardo, e sento gli occhi umidi, il cuore mi
batte
forte, e il mio respiro si trasforma in un leggero affanno e la mia
pancia
sfiora il suo fianco con il solo movimento di vivere, inspirare ed
espirare. E
lui mi guarda e aspetta. Io aspetto di calmarmi, ma non succede
perché non voglio dare un nome a tutto questo, ma tutto questo
un nome ce
l’ha già, senza il mio battesimo.
Nel buio tutto diventa vivido come non l’ho mai guardato
alla luce del sole. Con le palpebre chiuse percepisco il suo corpo rigido,
sorpreso, perché questo bacio è inaspettato, non lo aspettavo io, non lo
aspettava lui. Ma nel tempo di
qualche lento secondo lo sento sciogliersi contro di me in tutto il suo calore,
e così lui bacia me. Sento la sua mano accarezzarmi i capelli, sorreggermi
sulla nuca, baciarmi spirando tutta la forza che può avere.
Quanto vorrei essere capace di spiegargli che sto
sbagliando. Che quello che Hans desidera non è quello che merita.
«Mi dispiace così tanto…»
Scuote la testa contro di me, i riccioli dei suoi capelli mi
sfiorano. «Dispia... Dispiacerti?»
Gli
sfioro le labbra con le dita. «Se continui così non sarai
mai felice, Hans. Con me non lo sarai mai.»
«Ma Von...»
«Ho distrutto tutto.»
«Non è vero.»
«Lo è...»
«Quello che ti è successo ti rende quello che sei. Io amo
quello che sei.»
«No! Non puoi!» gli sibilo contro. Chiudo di nuovo gli occhi. «Quando mi hai baciata ho ricordato gli unici baci che mi sono mai stati mai dati... avevano il sapore del liquore e nient'altro. E quando mi hai toccata… ho ricordato lo squallore di tutte le volte in cui l'ho fatto... Ho lasciato che Martin e chissà chi altro prima si sfinisse con il mio corpo mentre fingevo che andasse tutto bene ma niente andava bene, volevo solo morire... come ho fatto a resistere? Così io ho ucciso l'amore facendo l'amore, ho distrutto tutte le possibilità di amare che potevo avere perché è stato come rivivere tutto anche se ero con te, con te che non c'entri niente. Meriti questo, Hans? Lo meriti?» Mi stringe contro il suo petto, sono al sicuro, sono in un posto che non potrò mai lasciare, in cui lui mi raggiunge sempre. «Lo meriti?»
Hans
che mi bacia, il fuoco che esplode dentro di me. Le sue mani sui
fianchi, il fuoco che diventa cenere, nella mia mente mani estranee,
bocche estranee, corpi estranei...
«Dio… la mia Yvonne…» Mi stringe ancora di più, mi bacia sui capelli, sulla fronte, tremo. «Yvonne…»
Mi
sembra di aver gettato a terra un peso che mi portavo sulle spalle da
sempre, ed Hans mi sfiora e nessuno squallore riemerge dal fondo, ci
siamo solo io e lui.
Hans
mi bacia sulle labbra, pianissimo, una ventata calda mi scuote in tutto
il corpo, e poi la sua bocca scende sul mento, pianissimo, scivola sul
collo, pianissimo, perché ha paura del passato che può
portarmi via se mi stringe troppo forte. Ma io non lo fermo. Mi mordo
le labbra e lui scende ancora, bacia ovunque la pelle
sia scoperta, con le sue dita che sfiorano i bottoni e li fanno venir
via.
Scende ancora, mi mordo le labbra, stringo la sua testa contro il mio
petto.
Non voglio credere ai miei occhi chiusi, al fatto che lo sto
permettendo, ma la
camicia da notte è completamente aperta ed Hans scende ed io
riesco a pensare
solo ad Hans… Hans, Hans, Hans…
Muove le mani in qualcosa di meravigliosamente sconosciuto,
e la lucidità scompare e conosco solo un abbandono, l’unico abbandono in un cui
è possibile essere ancora più uniti a qualcuno. Respiro piano, per non far
rumore, per non tradirmi, per riuscire a riafferrare i pensieri ora scomparsi con il corpo di Hans contro il mio.
«A cosa hai pensato?» mi chiede Hans, soffiando sul mio
orecchio, ed io riesco a mala pena a capire il senso della sua domanda, anche
se niente arriva veloce come la mia risposta.
«A te.» Il cuore palpita, il cuore mi scoppierà e morirò.
Morirò in questo sogno.
Sento una lacrima bagnarmi la guancia, arrivare fino alla mia bocca e, per la prima volta, il suo sapore non è amaro di dolore. Viene solo dal mio sollievo, dalla mia gioia, perché mi rendo conto che Hans ha ragione. Perché l’amore non l’avevo mai provato prima ed è questo, covava dentro di me nella bambina che ero ed è esploso adesso nella ragazza spezzata di diciassette anni. Diciassette anni? Mi sembra di aver vissuto anni e anni di più per tutto il peso che entrambi ci portiamo dentro, e mi sembra di aver vissuto molto meno perché non riesco a controllare cose semplici come qualunque mio sentimento. Hans mi copre con la camicia da notte e mi abbraccia, sollevandomi contro il suo petto; le mie ciglia sfiorano il suo collo, le mie lacrime sulla sua pelle. E in un attimo in cui riesco ad aprire gli occhi, e guardarlo in questa sua bellezza che mi cura dentro, mi ribello al fatto che mi abbia coperta.
«Baciami ancora,» gli sussurro. Il suo amore è volato a me ed ora il mio volerà a lui. Perché ha già
la mia anima, ma io voglio donargliela ancora.Lascio scivolare la camicia dalle spalle con un sospiro e così anche tutti i suoi vestiti, e nel buio lo vedo – la luce dei
lampioni ci raggiunge dalla tapparella abbassata solo di poco – ma io riesco a
vederlo perché lui ha la sua luce, lui ha qualcosa di argento e grigio che mi
riempie di meraviglia. Lui, con la pelle così chiara, la cicatrice dello sparo
sull’addome teso, prova di di una delle tante cose che l'hanno segnato sul corpo perfetto. I suoi capelli
che mi sfiorano la fronte e il respiro pesante per il solo sfiorarci.
Dai nostri corpi vengono fuori le lame dei nostri dolori, lame che nei loro scontri si scheggiano fino a diventare sempre più sottili, sgetolandosi all'esterno, ma rimanendoci dentro. Ed ora l’amore è nelle mie mani, sulle mie labbra, in ogni parte di me, per lui; in ogni parte di lui, per me.
E so che ricorderò questa notte come la mia prima volta, perché per me lo è davvero.Hans mi culla, io lo cullo; i suoi capelli mi sfiorano, il
fiato caldo sulla mia pelle, stringo più forte le gambe intorno al suo bacino, come se
potesse mai lasciarmi adesso, adesso che l’aria non basta e sfugge dalla gola,
e le labbra si toccano appena e gli sono vicina e mai abbastanza, mai
abbastanza, mai abbastanza ed allaccio le mani al suo collo e siamo stretti,
sempre più stretti, e lui si fa vicino e lontano, vicino e lontano, lontano.
Lontano, per l’ultima volta.
Si si lascia cadere su di me ed io lo accolgo fra le braccia,
in uno scontro stanco in cui sento di essere completa, di stare bene.
«Von?» mi chiama, con l’impazienza nella voce.
«Va tutto bene.»Annuisco sicura. Le sue palpebre si assottigliano, le ciglia lunghe e scure a fare ombra sul suo volto.
«Tu volerai, Yvonne… non importa quante volte sei
caduta, tu volerai, come la gabbianella…» Hans mi bacia le palpebre chiuse, mi
accarezza i capelli, la guancia, le braccia, apro gli occhi, mi guarda come se
non mi avesse mai vista prima… come ogni giorno in cui apre gli occhi accanto a
me.
«La gabbianella?»
«Il libro che leggevi da piccola.»
L’immagine di me che leggeva sul tappeto di spugna con lui
accanto mi torna alla mente. «Credevo dormissi.»
«Ma ti sognavo.» Sorride di sghembo. «Vonnie coi capelli ramati… non ti ho mai persa. Sei il nodo che blocca le corde che ho nel
cuore, il nodo che non ho toccato per anni… sapevo che non sarei mai riuscito a
scioglierlo…» Mi posa un bacio sulla guancia ed io sorrido, non riesco a
fare altro.
«Che
cosa dici, Hans?»
«Una
canzone.» I suoi occhi grigi mi scavano dentro la felicità. «Devo scriverla!
Hai carta e penna?»
«Nel cassetto del comodino.» Si
precipita ad aprirlo, la sua schiena bianca che riluce nell’oscurità. Accende
la lampada, torna vicino a me e scrive, parlando a voce. « Sei un sogno spezzato, come
me. Sei la mia canzone incompiuta… la mia poesia mai finita, una risata
cristallina a metà, una storia di cui non ricordo il finale.
Ma sei
il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che
cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei
la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei la storia troppo
amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti, per non dirti addio.
Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te. Sei un
sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te… »
Mi bacia, sorride sul mio sorriso.
Gli prendo la mano e lascio che scorra sulla mia guancia, a raccogliermi le lacrime. Chiudo gli occhi ed è come se fossi solo anima e non più corpo, non più una ragazza spezzata.
*
*
*
*
Ciao a tutti, eccomi di nuovo qui! Ecco a voi questo capitolo extra *-* All'inizio credevo che le dinamiche per la storia di Yvonne ed Hans sarebbero state più semplici, ma il passato dei personaggi, soprattutto di lei, ha condizionato moltissimo il tutto. Yvonne è rimasta segnata non solo da quello che è accaduto con le pietre nere ma anche dagli eventi da cui si è fatta travolgere, forte abbastanza per continuare a sperare ma abbastanza debole da poter sbagliare. Mentre lo scrivevo, ho pensato che potrebbe funzionare proprio come capitolo all'interno della storia, prima dell'epilogo. Voi cosa ne dite? :3 Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia fatto piacere leggere di Yvonne ed Hans *.*
Il capitolo è introdotto da una poesia di Emily Dickinson. Se notate, tutta Until richiama quello che ha scritto la poetessa, non solo per la questione dei fantasmi di se stessi ma per diversi temi. Le sue poesie sono davvero bellissime *-*
Il libro citato all'inizio è "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare" di Luis Sepùlveda. Un libro per bambini e ragazzi con un bellissimo significato, commuovente e dolce.
Grazie a tutti voi che leggete *.* Ed un grazie speciale a tutti coloro che mi hanno lasciato le loro parole per l'epilogo :)
Un bacio,
Ania :3