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Autore: Alkimia    03/04/2014    7 recensioni
[Post-TheWinterSoldier]
"La voce dell’uomo con lo scudo grida di nuovo quel nome. Dentro a un ricordo che sa di neve e paura, il Soldato sente lo sferragliare di un treno coprire le parole del suo amico, un addio che è la somma di tanti inverni.
Amico, il suo 'migliore amico', è questo che ha detto di essere. Se fosse vero, quello che al Soldato resta da provare è un sentimento che impiega qualche minuto a definire: vergogna.
Ma ciò che gli urla nella testa ora ha la voce della vendetta."

Steve ha promesso che ritroverà Bucky. Fury ha promesso che darà la caccia a ciò che è rimasto dell'Hydra. Entrambe le promesse richiedono l’aiuto dei pochi alleati di cui ci si può ancora fidare.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
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(Contro)Indicazioni:
Per la fanfiction ho preso qualche riferimento dai numeri di Captain America del 2005 a cui è in parte ispirato il film, ma per il resto sono quasi a digiuno di fumetti e il mio headCanon si basa interamente sul movieVerse. 
Sono previste piccole “intrusioni” da parte dei personaggi di altri film e quindi riferimenti a The Avengers, Iron Man 3 e Thor - The dark World.
Il titolo della storia e le citazioni presenti in questo primo capitolo appartengono a una canzone di Tom Waits. 
Pareri, osservazioni e critiche sono sempre ben accetti. 
Per curiosità sulla fanfiction, o domande su la vita, l’universo e tutto quanto: ASK.  

*

 

Overture

LONDRA

Why be a fool when you can chase away
your blind and your gloom,
I have blessed each one of these bullets
and they shine just like a spoon.

Le avventure stancano, ecco un’altra cosa che non ricordava. 
Certo, avventura è un termine troppo romantico per lui, la parola che userebbe al momento è casino. Uno sfiancante casino del cazzo.
Prende un grande respiro e sente il bisogno impellente di accendersi un sigaro.

«Dopo questo disastro non vedrai sigari per un bel po’, al tuo polmone collassato non piacerebbe, Nick»
«Se lo dici tu, dottore».

In effetti non ha più fumato da quando è partito da Washington. Nella tasca tiene un cubano e un taccuino con degli indirizzi, nei file mentali del suo piano non esattamente brillante entrambi sono catalogati come “da usare solo in caso di emergenza”. 
Quella è un’emergenza, questo lo ha già stabilito, adesso resta da capire se può rivelarsi più utile il sigaro o il taccuino.
Se fosse un romantico come quelli che usano la parola “avventura”, ora sentirebbe una vocina nella sua testa dire qualcosa del tipo: «Come ai vecchi tempi, eh!». Ma Nick Fury è un uomo pragmatico, i vecchi tempi non gli instillano alcun palpito di nostalgia e in quanto alle vocine nella testa c’è un posto adatto per chi le trova davvero gradevoli, si chiama Centro di Igiene Mentale.
Borbotta qualcosa contro l’aria umida di Londra che trasforma il suo respiro e le sue parole in fumo. Con una mano si fruga nella tasca ed estrae il taccuino, con l’altra fa un cenno per chiamare un taxi. 
Dannazione, aveva scordato quanto fossero placidi i tassisti nel caro Vecchio Continente. E no, la nebbia che sta cominciando a calare non è un’attenuante per l’andatura da funerale del guidatore. 
«Non c’è bisogno di gettare l’ancora per fare la curva» mormora in un ringhio basso. L’imprecazione si perde nell’abitacolo odoroso di benzina e patchouli. Poi finalmente il taxi si ferma accanto al marciapiede, di fronte a una palazzina dal portone di alluminio che qualcuno ha lasciato aperto.
Fury non ha bisogno di leggere le targhette sul citofono per sapere a che piano si trova la casa in cui abita la dottoressa Foster insieme al suo fidanzato piovuto dal cielo.
Bussa con insistenza e alla fine qualcuno si degna di aprire. La ragazza mora, che non è la dottoressa Foster, ha un iPod in una mano e un sacchetto di cibo da asporto nell’altra - evidentemente ha aperto la porta con i piedi. Lei lo guarda per un secondo e poi fa una faccia intenerita.
«Mi spiace, amico, sono solo una stagista e questo vuol dire che non ho un centesimo da darti. Ma puoi avere il mio cheesburgher, non l’ho ancora toccato. Ecco, tieni».
Ma è scema? 
Fury sposta lo sguardo tra il sacchetto macchiato di unto e la faccia amichevole della ragazza. Poi sospira, molto lentamente. 
«La ringrazio, signorina Lewis, ma ho già cenato. Se mi lascia entrare senza essere molesta, non dirò ad anima viva che ha truccato i risultati del suo esame di Economia Politica».
Non sembra impressionata: il viso della ragazza si illumina e nel suo sguardo si accende una scintilla di furbizia. 
«Thor! Vieni qui un attimo, c’è il tuo amico spione» esclama, scansandosi per lasciar passare l’uomo. 
Thor, dio del tuono, figlio di Odino, erede al trono di Asgard, ha i capelli tenuti raccolti sulla nuca da un elastico e degli abiti da terrestre - un terrestre daltonico a giudicare da come ha messo insieme i vestiti. La vita di coppia gli giova, sembra sereno come qualsiasi giovane uomo innamorato. Evidentemente a casa sua le faccende famigliari vanno meglio dell’ultima volta; Fury non vuole indugiare nel chiedersi cosa ne è stato di Loki, il solo ricordo di quel bastardello megalomane basta a fargli venire la pelle d’oca.
Il viso disteso e sorridente del dio si incupisce appena quando riconosce Nick Fury nell’uomo dagli abiti smessi in piedi sulla soglia di casa. 
«Non credevo fossi tu» dice, la sua voce suona sospettosa ma non aspra. Evidentemente il ragazzone ha un altro amico spione da qualche parte. 
È comunque un benvenuto migliore di quanto l’uomo avesse previsto.
«Darcy, chi era alla porta?». Questa è la dottoressa Foster, la giovane donna minuta in accappatoio e ciabatte, con un telo di ciniglia raccolto a turbante in cima alla testa, dal quale sfugge qualche ciocca di capelli bagnati.
Fury sospira di nuovo, inalando una boccata d’aria che in quella casa ha odore di caffè e pareti tinteggiate di fresco. È questo il profumo che hanno le vite normali? 
Non sa perché se lo stia chiedendo ma sa che è una domanda pericolosa da farsi, soprattutto adesso che sulle sue spalle sente il peso delle macerie di tutto ciò per cui si è sacrificato. 
Anche questa gli sembra una riflessione troppo romantica e inopportuna. Le sue dita tastano il sigaro scivolato in fondo alla tasca del pesante cappotto scuro velato da una patina sbiadita. 
«Oh, lei è un altro degli amici che Erik ha conosciuto in manic… in ospedale?» chiede la scienziata, stringendo meglio la cintura dell’accappatoio.
No, decisamente la normalità non è una cosa che Nick Fury è in grado di affrontare.
«Jane, lui è il comandante dello SHIELD» spiega Thor.
La stagista fa uno strano sbuffo, poi si siede in cucina e comincia a mangiare il suo cheesburgher mormorando qualcosa a proposito del suo vecchio iPod. Il viso della dottoressa Foster perde qualsiasi traccia di cordialità. 
«Se è venuto qui per un’altra delle vostre confische, voglio che lei sappia…». 
La scienziata spara parole come proiettili di un kalashnikov. Fury smette di ascoltarla quasi subito, attraversa l’ingresso del piccolo appartamento e va a sedersi sul divano,
«Non sono più il comandante dello SHIELD» dice. 
La frase si confonde in mezzo alla sfuriata della padrona di casa, ma Thor sembra averlo udito. Cosa diavolo è, pena quella nel suo sguardo? Ah, certo, chi meglio di lui sa come ci sente ad essere destituiti.
«Sei stato congedato? Mi dispiace»  mormora il dio del tuono, sembra sincero. 
Fury fa un sorriso tirato. «Non voglio il tuo dispiacere, quello che voglio è che il mondo continui a credermi morto quando sarò andato via da qui, e voglio chiedere alla dottoressa Foster di poter usufruire per qualche minuto della sua strumentazione, devo poter fare una telefonata ed essere sicuro che non venga rintracciata. E, se è possibile, non mi dispiacerebbe un caffè». 
Thor e Jane Foster si scambiano una lunga occhiata, poi lui annuisce e le lancia uno sguardo rassicurante. 
Il dio è in debito con lui per avergli consegnato il Tesseract e Loki dopo il disastro di New York. Fury ha parecchi favori da riscuotere in giro per il mondo e, se non altro, il figlio di Odino è uno dei pochi creditori di cui si può ancora fidare. 
La dottoressa Foster si veste in fretta e torna dopo qualche minuto con i capelli ancora bagnati, cominciando a disporre sul tavolo computer, trasmittenti satellitari e valigette piene di cavi e attrezzi.
«Se tu non sei più al comando dello SHIELD, allora…». Thor ha sempre avuto quella loquacità un po’ sfrontata, quella per cui Nick Fury non ha mai avuto pazienza. 
«Lo SHIELD è andato a puttane, non esiste più. A dirla tutta, è come se non fosse mai esistito». 
Il dio del tuono è un guerriero, sa fiutare il furore e la voglia di rivalsa anche quando è celato sotto un volto impenetrabile. Forse sa fiutare anche il sangue delle ferite, anche quelle dell’orgoglio. 
«Contro chi stai andando a combattere, comandante?».
L’uomo pensa un attimo prima di rispondere. «Topi. Topi che non sono affondati con la nave» 
«Posso darti una mano?». 
Sì, sarebbe utile
Fury guarda gli occhi di Thor, limpidi e azzurri come il cielo sotto cui è nato, poi sposta lo sguardo su Jane Foster che sta armeggiando con un interruttore. 
Sarebbe utile, ma anche profondamente ingiusto e lui ha altre soldati da poter richiamare alle armi.
«Non è la tua guerra, non stavolta, amico mio».

***

 

NEW YORK

It takes much more than wild courage
or you'll hit the tattered clouds,
you must have just the right bullets
and the first one's always free

 

New York è diventata una bolla di luce e rumore, ecco un’altra cosa che non ricordava. 
La sera è una cappa violetta che incombe sul caos ordinato di una città in cui Steve cerca di sentirsi a casa, ma finisce quasi sempre per sentirsi solo a disagio. Si è risvegliato in quella città, sopravvissuto alla guerra, e ci è tornato per combattere un’altra guerra che pioveva dal cielo attraverso uno squarcio aperto sull’altro capo dell’universo.
Ora che ci pensa, andare via da lì dopo la battaglia contro i chitauri è stata una vera e propria fuga. Bisogna essere molto disperati o molto coraggiosi per tornare in un posto dal quale si è fuggiti. 
Steve preferisce definirsi speranzoso, ma non sa fino a che punto sia una bugia. 
Sam tamburella le dita sul ginocchio tradendo un’euforia che tenta inutilmente di dissimulare. Ha quasi spiccato il volo quando il Capitano gli ha detto dove erano diretti, e non ha più le sue ali. Le sue ali sono uno dei motivi per cui si trovano lì, ma il dispositivo di Falcon non è l’unica cosa per la quale Steve sa di aver bisogno di aiuto, dell’aiuto di qualcuno in particolare.
Hanno preso una macchina a noleggio; nelle tre ore di viaggio da Washington Steve ha parlato quasi ininterrottamente, parlato di cose comuni, di quelle cose che gli danno l’illusione di essere ancora una persona come tutte le altre, e Sam ha ascoltato, cambiando di tanto in tanto la stazione radio. Non gli capitava da moltissimo tempo, non parlava così con qualcuno da quando… 
«No, dai… davvero, figo!». Sam si sporge in avanti, come se i suoi occhi fossero affamati dello spettacolo che si riflette sul vetro scuro dell’auto. 
Per Steve si tratta solo di una improponibile quantità di cemento. E di una discreta quantità di ricordi. 
La Stark Tower illumina a giorno tutto l’isolato.
C’è una colonnina per il riconoscimento facciale all’entrata dei parcheggi. Il Capitano non fa in tempo ad abbassare il finestrino e a sporgersi all’esterno che la voce di Jarvis sta già trillando un saluto. Il padrone di casa saprà del suo arrivo ancora prima che lui abbia tempo di dire «Shawarma».
Il parcheggio sotterraneo è quasi vuoto, illuminato dalla luce azzurrina e fredda di lunghe file di neon che formano una grande S contro il soffitto. Come se la megalomania di chi ha progettato quel posto avesse bisogno di essere ribadita ancora una volta, come se i visitatori potessero mai dimenticare a chi appartiene l’edificio più alto e antiestetico della città.
La borsa nel bagagliaio è pesante ma Steve la solleva senza nessuno sforzo. Lui e Sam imboccano l’ascensore; appena le porte scorrevoli si chiudono dagli altoparlanti parte la musica di “You are my sunshine” di Jimmie Davis. 
Steve si preme una mano sugli occhi. 
«È il suo modo di darti il benvenuto?» commenta Sam, la risata trattenuta che gli arriccia le labbra. 
«Mi sembra più un modo per farmi pentire di essere venuto». 
Le porte dell’ascensore si aprono sull’ultimo piano dell’edificio, direttamente sul grande attico in penombra.
Le tracce della guerra non ci sono più, se non nella mente di Steve e sicuramente in quella dei suoi compagni.
«You are my sunshine, my only sunshine… Capitano, vedo che hai svecchiato il guardaroba…» . Tony Stark è in piedi sul divano davanti alla televisione accesa, si dondola di lato al ritmo della canzone. « You make me happy when sky is grey…».
Steve lascia cadere il borsone sul pavimento con deliberata malagrazia; una mano misericordiosa stoppa la musica. 
«Ciao, Steve. È un piacere rivederti». Bruce Banner sembra voglia trincearsi dietro il piano del bar. 
«E invece no, stavamo facendo la maratona di Breaking Bad».
Il Capitano annuisce enfatizzando un’aria convinta, come se capisse l’importanza vitale della cosa, poi si guarda attorno.
«E dov’è Pepper?» 
«In viaggio, a Portland. E prima è stata a Miami»
«Ah, ecco, ora capisco molte cose». Steve si sente in dovere di lanciare un’occhiata solidale alla volta di Bruce. «Sì, lo so, avrei dovuto telefonare». 
Tony Stark scavalca lo schienale del divano e balza a terra, avanzando scalzo verso i suoi ospiti. 
«Non mi dire, Batman ha trovato il suo Robin» mormora, notando Sam rimasto ancora sull’uscio. 
L’ex soldato si decide a farsi avanti e tende la mano al padrone di casa. «Signor Stark, lei non sa che onore sia conoscerla. Oh, wow, questo è davvero dove… è proprio il posto in cui avete abbattuto L-»
«No!» Steve sussulta.
«Non dire quel nome! Banner si innervosisce. Io mi innervosisco. Tutti ci innervosiamo a sentir parlare di Bambi, ok?» Stark solleva le mani come per proteggersi da un crollo improvviso, poi ricambia la stretta del suo ospite. «Piuttosto, tu un nome ce l’hai?»
«Sam. Sam Wilson».
Bruce decide di uscire dall’angolino in cui si è rintanato e di avvicinarsi per socializzare. Steve lo guarda sorridere cordiale a Sam e si chiede se la permanenza alla Stark Tower sia più benefica o nociva, ma non si hanno più avuto notizie di Hulk dopo la battaglia di New York, è più di quanto potessero sperare e la compagnia di Stark è sempre meglio della solitudine più totale, forse.
«Vi fermate a cena?» chiede lo scienziato.
«Ordino lo shawarma. E guardiamo qualcuno dei film che hai scritto su quel tuo quadernino».
Steve alza l’indice con fare ammonitore. La maniacalità di Stark aumenta quando la signorina Pots passa troppo tempo lontano da casa. 
«Siete molto gentili, ma siamo qui perché ho bisogno del tuo aiuto» dice, prima che Tony si faccia venire qualche idea che abbia a che fare con bottiglie di champagne e spogliarelliste con cui chiuderlo in una stanza. 
«Questo lo avevo capito, Frozen». 
Steve sente Sam cercare di soffocare un’altra risata. 
«Non abbiamo molto tempo, Tony, speravo di poter ripartire domani, non vorrei sembrarti scortese ma ho da fare» mormora.
«So già tutto. La Hill ci teneva così tanto a farsi assumere… comunque sia, cosa posso fare per te, mio vetusto amico?»
«Spero che tu sia in grado di riparare una cosa», dice Steve. E ora viene la parte peggiore, la parte in cui Tony Stark darà fondo a tutta la sua verve e forse a qualcosa di peggio. Ma se sa già tutto, saprà anche che le ali di Falcon non sono l’unica cosa importante che lui ha con sé in quel viaggio.
Il Capitano si china, apre il borsone e tira fuori il fascicolo che gli ha lasciato Natasha. Gli occhi di Stark si illuminano di un lampo di curiosità e lui è costretto a perdonarglielo: non sarebbe il genio che è se non fosse curioso in modo così molesto e a volte indelicato. 
«E spero che Jarvis sappia tradurre il cirillico» conclude, porgendogli la cartellina di cartoncino liso. 
«Cos’è?» 
«Puoi guardare da te»
«Potrei, ma odio che mi si porgano le cose». 

***

 

PHILADELPHIA

There is a light in the forest
there's a face in the tree,
I'll pull you out of the chorus
And the first one's always ree

I fari delle auto gettano fasci di luce attraverso le finestre, lampi che durano una manciata di secondi e poi spariscono. Lasciano appena il tempo di indovinare la sagoma di un pilastro, il profilo di un tavolo e poi di nuovo il buio fatto di nulla. 
Proprio come nella sua testa, dove la memoria è un gorgo di imbuto. La luce sembra arrivare se si sforza molto, ma non fa in tempo a mettere a fuoco le immagini che i colori si mischiano e restituiscono nient’altro che il nero muto e indistinto. 
Quando gli occhi si abituano alla penombra, il Soldato trova una sedia, l’imbottitura che cade da uno strappo sullo schienale simile a una ferita, simile a tutte le ferite che la sua mente piagata dall’oblio riesce a contare. 
Si siede e sospira. I pensieri stancano, ecco un’altra cosa che non ricordava.
La parola “eroe” rimbalzava da una didascalia all’altra nella sala dello Smithsonian Museum e il Soldato quasi non riesce a darle un senso forse perché ci vuole troppa saggezza o troppa ingenuità per credere agli eroi e lui le ha smarrite entrambe nel vortice di ghiaccio che ha ridotto in polvere la sua coscienza. Quelle foto raccontavano la guerra come una favola, il Soldato non ha memoria di favole, ma rammenta molte guerre, rammenta odore di fumo, polvere e sudore lì dove la sua mente si è assottigliata fino a quando il mondo è diventato una linea diritta che va dal ricevere un ordine all’eseguirlo, una linea affilata come una lama dove i nomi si sfaldano e le persone diventano Obiettivi, Nemici… Missioni.
E lui che cos’è? 
La domanda è una scheggia incandescente che si pianta sotto la carne abituata a non riconoscere altro che la morsa del gelo e la frusta dell’elettricità. 
Lui chi è
Il Soldato di Inverno. Parole che valgono tanto quanto la scritta “eroe” sotto le foto dell’uomo con lo scudo. 

«Bucky!» 
«Chi diavolo è Bucky?» 

La memoria non trova subito una risposta, deve mordere e graffiare una corazza di metallo e di tempo e alla fine, la risposta che intravede è sfocata, lontana, una fiammella flebile assediata da ombre indecifrabili.
Eppure la voce dell’uomo con lo scudo sembra abbattere muri dentro di lui. Dietro quei muri i ricordi sono fantasmi che non sanno darsi tregua, il loro lamento fa male fin dentro le ossa. 
Nelle foto in bianco e nero alle pareti del museo anche tutti gli altri sembravano fantasmi, carne e sangue sbiaditi all’ombra di una leggenda. 
Eroi, la storia fa in fretta a macinarne.
Il Soldato si volta di colpo, messo in guardia da un fascio di luce troppo forte che spezza pensieri e penombra, ma è solo un’altra auto che passa e va via.
La voce dell’uomo con lo scudo grida di nuovo quel nome. Dentro a un ricordo che sa di neve e paura, il Soldato sente lo sferragliare di un treno coprire le parole del suo amico, un addio che è la somma di tanti inverni.
Amico, il suo migliore amico, è questo che ha detto di essere. Se fosse vero, quello che al Soldato resta da provare è un sentimento che impiega qualche minuto a definire: vergogna. 
Si alza di scatto, gettando via la sedia e poi voltandosi ad afferrarla al volo con un movimento rapido, prima che cada a terra e faccia rumore nei grandi stanzoni vuoti di quell’edificio che tutti credono fatiscente e abbandonato, uno degli archivi dell’HYDRA.
Per il momento può zittire i ricordi insieme alla vergogna; ciò che gli urla nella testa ora ha la voce della vendetta. 

 

 

 

Credits

Soundtrack: 
“Just the right bullets” 
“You are my sunshine”

Un grazie di cuore, una fetta di casatiello e la ricetta della pasiera di mia madre va a EvilCassy per aver letto in anteprima il capitolo. 
Grazie a Alley che mi ha raccontato per ben due volte la seconda scena dopo i titoli di coda che i bastardi del cinema dove sono stata non hanno dato. 
Un abbraccio a tutti quelli che nella settimana post-visione del film hanno sopportato e supportato i miei vaneggiamenti sulla pellicola e sulla nascita di questa storia dopo tanti mesi di assenza dal fandom. 
E grazie a voi, che avete avuto la pazienza di arrivare in fondo a questo primo capitolo, spero di avervi incuriosita abbastanza e di ritrovarvi al prossimo aggiornamento, venerdì prossimo :)

   
 
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