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Autore: martaparrilla    06/04/2014    9 recensioni
"Non voglio più che mi odi per quello che stai provando. Non voglio più che guardi i miei occhi senza sapere che mi sveglio presto solo per guardarti uscire di casa e prender il tuo cornetto al bar. Che mi piace l'odore dei tuoi capelli. Mi piace il calore della tua mano. E se devi impazzire, voglio che impazzisca con me, non per me".
Una Emma e Regina in una città senza nome, si scontrano come solo loro sanno fare. Ben presto capiscono che il loro odio cela qualcosa di più grande. Ma Regina questo già lo sapeva. Gli occhi di quella bionda erano terribilmente somiglianti a qualcuno che aveva perso e questo la incuriosiva. Emma dal canto suo non riusciva a spiegarsi i brividi che sentiva quando la vedeva.
Regina ed Emma racconteranno sensazioni e sentimenti in prima persona, alternandosi tra i vari capitoli. Non dubitate della mia sanità mentale quando leggerete le stesse frasi in capitoli diversi, il motivo è semplice: una volta sarà Emma a parlare (o ascoltare), una volta Regina.
Riusciranno insieme a superare i traumi passati?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Regina ha un figlio. In fondo lo sapevo ma sentire quella vocina pronunciare la parola “mamma” mi ha letteralmente scioccata.

E lei non mi ha guardata.

Non ha avuto la necessità di spiegarmi.

Non mi ha ringraziata.

E' stato come se non ci fossi. Ha preso il bambino in braccio e l'ha stretto a se come un tesoro prezioso. Il bambino è visibilmente bagnato e infreddolito. E' meglio non dare spettacolo nel corridoio, la gente avrebbe sicuramente fatto domande.

Raccolgo la borsa di Regina che è caduta per terra, lei nemmeno se ne accorge. Prendo le chiavi e apro il portoncino, cercando di non spaventare il bambino e anche Regina. Trascino dentro la sua valigia e il mio borsone, così da liberare il pianerottolo. Chiudo piano la porta e mi metto in un angolino a osservarli.

Lo tiene stretto per qualche minuto, mentre lui continua a piangere e singhiozzare. Mi sento totalmente fuori luogo in quella casa. Sono un'estranea che osserva un momento troppo intimo. Mi sento in colpa.

Appoggia il bambino per terra, cercando di calmarlo e dopo alcune frasi incoraggianti, con una dolcezza degna della miglior mamma del mondo, lo convince ad andare a farsi un bel bagno prima di decidere sul da farsi. Continuo a fissarli mentre si spostano verso il bagno. E solo allora lei si ferma, quasi come se si fosse ricordata solo in quel momento della mia presenza.

«Emma credo ci vorrà un po' per risolvere la questione. Ti chiamo appena posso, ok?».

Annuisco prima di dire un “ok” striminzito. Ma lei è già dentro il bagno con Henry. Afferro il borsone, perfettamente consapevole che tutte le parole e i sentimenti espressi quel fine settimana avrebbero avuto un peso insignificante nella sua vita ora che il bambino è di nuovo con lei.

Esco da quella casa quasi in trance, incapace di controllare la sensazione di smarrimento che si fa strada in me. Salgo le scale che mi separano da casa mia trascinando il borsone che sbatteva a ogni gradino.La perfezione di un amore dura solo una settimana nella mia vita. Lei mi ha fatto cadere, rialzare e ora sono di nuovo a terra e lei non sarebbe tornata indietro a salvarmi perché un piccolo fagottino di otto anni (credo), dipende totalmente da lei. Io sono una donna adulta e come tale ci si aspetta che sopravviva da sola. Le borsa finisce accanto alla porta.

Mi siedo sulla poltrona e rimango a fissare il vuoto per quasi un'ora col telefono in mano. So che non mi avrebbe chiamata, non dopo solo un'ora almeno. Il tempo non sarebbe mai passato se fossi rimasta li impalata, così decido di svuotare il borsone e lavare tutto quello che c'è dentro.

Avvicino il borsone al bagno, apro e capovolgo il tutto sul pavimento. Divido attentamente capi delicati da quelli non delicati...in questo modo avrei perso un sacco di minuti preziosi e non sarei impazzita nell'attesa di quella chiamata che forse non sarebbe mai arrivata.

Dopo avere minuziosamente lavato a mano tutti i completini delicati, averli stesi, avere steso gli indumenti lavati nella lavatrice, avere stirato tutta la biancheria in arretrato, comprese mutande, calze, asciugamani e lenzuola, alzo lo sguardo verso l'orologio. Sono ancora le 10.

Che altro posso fare? Ma certo! Una doccia.

Mi infilo sotto il getto d'acqua calda, pensando alle parole che Regina avrebbe potuto usare per mettermi da parte, per stare dietro al suo amato figlio, perso e ritrovato. Mi metto nei suoi panni. Che avrei fatto io al suo posto? L'avrei allontanata? Porto le mani sul viso, tirando indietro i capelli.

Quando decido di chiudere l'acqua sono ormai le 11 di notte.

Un'ora sotto il getto dell'acqua e mi sento esattamente come prima.

Anzi, più passa più in me si fa strada l'idea che avrei perso la donna che amo. Non valgo lo sforzo di un tentativo?

Asciugo perfettamente i miei capelli, ho ancora del tempo da perdere. Devo accorciarli, le punte sono rovinate e il biondo è assolutamente pessimo. Non più luminoso. Magari sarei tornata al castano, il mio colore naturale, si può essere un'idea.

Mezzanotte. Mi metto di fronte alla finestra.

La macchina è di nuovo nel parcheggio: è a casa e ancora non mi ha chiamata. Meglio bere qualcosa. Prendo una tazza con mani tremanti e riscaldo dell'acqua al microonde per farmi una camomilla. Il bip del timer suona a vuoto per qualche minuto prima che trovi in me le forze per alzarmi. Il cellulare non da alcun segno di vita.

Mezzanotte e un quarto. E' una tortura. Non è mai stato così devastante aspettare qualcuno, mai.

Picchietto nervosamente le unghie sul tavolo mentre sorseggio la camomilla.

Mezzanotte e mezza. Ancora niente. Ormai senza speranza, mi trascino in camera e mi lascio cadere stanca sul mio letto, sopra le coperte. Afferro un cuscino e lo abbraccio.

Il silenzio è insopportabile. L'unico rumore che sento è quello delle lancette dell'orologio sul muro, e quello non fa altro che innervosirmi e sbattermi in faccia la realtà. Decido di alzarmi un'ultima volta prima di provare a dormire.

Mi avvio al bagno per lavarmi i denti. Dieci minuti per spazzolare le nostre dentiere è da considerarsi eccessivo? Decisamente si.

Faccio per togliermi il maglione quando un piccolo squillo fa illuminare il cellulare.

  • Sei sveglia? -

Oddio mi ha scritto. Non ci posso credere.

  • Certo che sono sveglia, com'è andata? - invio.

Digito velocemente.

  • Ti prego vieni a casa, subito –

Vuole me. Mi sta chiedendo aiuto? Forse mi sono sbagliata. Prendo le chiavi e scendo velocemente le scale, fino a trovarmi di fronte alla sua porta.

  • Sono fuori dalla porta, apri – invio.

Un minuto interminabile di fronte a quella porta. Il cuore galoppa.

Finalmente la porta si apre.

Lei di fronte a me si scioglie in lacrime.

Varco la soglia ancora una volta senza dire una parola.

La stringo subito in un abbraccio mentre sento i singhiozzi che partono dal suo petto e accosto piano la porta, fino a chiuderla. E' stata dura per lei affrontare il bambino e tutto il resto. Probabilmente non ha versato una lacrima per tutto il giorno, per non spaventare il bambino. Preferisce affrontare tutto da sola pur di non farsi vedere debole, da chiunque le passi accanto.

Le sue mani circondano i miei fianchi, per poi risalire in alto, verso il mio viso, che prende e bacia, disperata. Rispondo al bacio, grazie al quale i miei dubbi hanno conferma.

«Andiamo a sederci» dico in un sussurro.

La prendo per mano e mi dirigo verso il divano, dove mi siedo dopo di lei, prendendole le mani. E allora inizia a parlare, senza mai fermarsi.

«Ho adottato Henry quando aveva solo pochi mesi. La madre l'aveva lasciato in un istituto perchè diceva che non poteva prendersi cura di lui. Io avevo la tua età a quell'epoca, non volevo aspettare un uomo che non sarebbe arrivato mai per poter avere un figlio. E così tramite dei contatti con degli amici avvocati che si occupano di minori, riuscii a prendere Henry. Mi innamorai immediatamente di quel bambino....riusciva a tirarmi fuori il meglio. Riusciva a farmi piangere di gioia e Dio solo sa quanto ne avevo bisogno. Passarono gli anni...Henry cresceva, e un giorno mi arrivò una lettera da parte di un avvocato dicendo che la madre biologica voleva vederlo. Mi crollò il mondo addosso, lui era mio figlio e una donna che l'aveva solo messo al mondo me l'avrebbe portato via. Cerco di spiegare a Henry la situazione...lui sapeva che io l'avevo adottato ma non ne era rimasto sconvolto, anzi in qualche modo se l'aspettava. Ha un sesto senso sensazionale quel bambino» sorrido per incoraggiarla e lei si illumina ogni volta che nomina il figlio: orgogliosa, felice e ferita allo stesso tempo.

«E prima un incontro, poi due, poi uno a settimana. Vidi quella donna agli incontri e a primo impatto aveva qualcosa che non andava. Sentivo che non era una bella persona. E dopo sei mesi, di processi e appelli, riuscì a portarmelo via. Ma lui era mio! E poi sei arrivata tu» mi sistema una ciocca dietro le orecchie.

«E stavo ancora male per lui nonostante fossero passati quasi due anni. E ho ripreso a sorridere. E oggi lui è tornato e mi ha detto che la madre lo picchiava. E siamo andati a far la denuncia. Loro pensano che vincerò io e non me lo porteranno più via».

Non ci ho mai creduto, ma gli occhi di una madre che parla del proprio figlio sono i più belli del mondo. Non ci sarei mai riuscita a farle splendere gli occhi in quel modo. L'amore che posso darle non l'avrebbe mai riempita come fa lui. Per questo le parole che si formano nella mia mente sono semplici da pronunciare: non avrei mai potuto distruggere o mettermi in mezzo a tale meravigliosa fortuna le è ricapitata.

«E ora tu devi far sorridere lui, giusto? Mi hai chiamata per questo?».

Nel suo viso scende un velo di tristezza. Io parlo e lei diventa triste.

«Sai tu...mi hai mandata via senza nemmeno voltarti indietro» le lascio lentamente la mano «E io sarò anche romantica ma non sono stupida. E credimi, ti capisco. Un figlio è un figlio, niente e nessuno potrà mai competere. E sarai una madre eccezionale, lo sei già. E tu ora devi pensare a riportarlo a casa da te, giustamente. E tutte le attenzioni dovranno essere per lui, e tutte le tue energie serviranno per farlo riprendere, per guarirlo».

Le lacrime che ho ricacciato indietro per tutta la sera fanno capolino sui miei occhi e decido di mettermi in piedi, pronta ad andare.

«Io ti amo, ma ora devo pensare a lui. Non posso...non posso spiegargli anche quello che siamo. Ha bisogno di tranquillità, di attenzioni. Ha bisogno di me al 100%».

«Regina lo so. Anche io ti amo ma...non chiedermi di far finta che tra noi non ci sia mai stato niente. Non farlo» mi mordo il labbro. Posso sopportare tutto ma non di essere delle estranee. Piuttosto preferisco il niente. A volte è meglio in niente piuttosto che le briciole.

Si alza anche lei. I suoi occhi neri come la notte pugnalano i miei. Stringe di nuovo le mie mani

«Ti chiedo solo di aspettarmi per un po'. Ci sarà il processo, e le sedute dallo psicologo...».

Scuoto la testa.

«Non dire qualcosa che non sai nemmeno tu se accadrà mai».

E' così chiaro ora. La sua forza è suo figlio. Sorrido mentre una lacrima cade. D'istinto le prendo il viso tra le mani e la bacio.

«Tu saresti stata la mia forza in una situazione del genere, non un ostacolo. Ciao Regina».

Mi volto e come ha fatto lei poche ore prima, non torno indietro.

Chiudo piano la porta, certa che qual bambino fosse già in quella casa, sotto la sua protezione e improvvisamente sono gelosa di lui.

Ero certa di avere in casa dei sonniferi, delle gocce, niente di eccessivamente forte, solo quel po' che basta per dormire due giorni interi. Trovo il farmaco incriminato nella scatola dei medicinali e metto venti gocce direttamente sotto la lingua. Mi sistemo sul letto quasi in stato catatonico, non tolgo nessun indumento. Pochi minuti dopo la sonnolenza vince i pensieri...e le lacrime.

 

Una fitta lancinante alla testa interrompe il mio sonno tormentato. Completamente intontita, cerco di aprire gli occhi, inutilmente. Le palpebre sembrano pesanti come un mattone e così anche la sensazione che ho sul petto. Ma decido di non pensarci.

Con l'aiuto delle dita, cerco di aprire le palpebre. Ci riesco. Strizzo gli occhi alla ricerca di una sveglia o del telefono, o di qualunque cosa segnasse l'orario...le 5 e mezza. Del mattino? Del pomeriggio? Che giorno è?

Non c'è motivo di scaldarmi, ho tutto il tempo del mondo. Mi metto in piedi, ancora barcollante, cercando di dimenticare il motivo del mio mal di testa. Prendo il telefono, che ho lasciato sul mobile vicino alla porta della camera. Cinque messaggi e sei chiamate. Non ho intenzione di sapere di chi sono e tanto meno di leggere. Sono passati due giorni. Ho dormito 18 ore e mi sento più stanca che mai. Ma stavolta non sarei rimasta a casa a piangermi addosso.

In quella casa tutto mi ricorda lei. Devo uscire.

Chiamo la mia amica Isabella, devo necessariamente uscire, ballare, ubriacarmi fino a dimenticare il mio nome. Grazie a Dio Isabella quando si tratta di bere è sempre disponibile.

Tacchi vertiginosi, vestito attillato e corto, nero. Trucco che avrebbe fatto invidia alle migliori make up artist e si va in scena.

 

DUE MESI DOPO.

Sono ormai due settimane che mi sveglio in preda alle nausee e con dei bruciori di stomaco fastidiosissimi. Sono ingrassata di almeno tre kg (lo dimostrano i jeans troppo stretti e i reggiseni inutilizzabili), colpa delle serate a base di alcol, che ormai sono diventate il mio pasto principale. Almeno quello serale.

Insieme a un numero indefinito di ragazzi che mi sono portata a letto. A letto non è proprio la definizione più corretta: li ho portati in macchina. Ed erano oltremodo incapaci nel sesso, niente a che vedere col sesso fantastico di Regina.

E probabilmente se avessi provato con qualche altra donna avrei avuto per lo meno un tornaconto soddisfacente da quelle avventure, ma toccare una donna che non fosse lei era troppo.

Nonostante questo, non mi fa male come prima pensarla. Riesco anche a incrociarla senza dar di matto.

Qualche settimana prima, mentre rientravo da una serata in discoteca (le serate del venerdì notte erano le migliori, e solitamente si rientrava il sabato mattina. Alle 9 del mattino più o meno) avevo avuto la sfortuna (o la fortuna), di incrociare Regina e Henry che uscivano dall'ascensore.

Ricordo perfettamente il suo sguardo sconcertato. E le mie gambe improvvisamente incerte sui tacchi. Cercavo inutilmente di trovare un po' di contegno mentre mi squadrava da capo a piedi.

Lei era sempre impeccabile: tailleur nero, camicia azzurra, cappotto nero. Non le si spostava un capello. Il viso di Henry era rifiorito dall'ultima volta che l'avevo visto, e sembrava veramente più sereno.

«Ciao» aveva detto Henry senza peli sulla lingua.

«Ciao ragazzino» avevo risposto io un po' stupita.

Si erano spostati per lasciarmi libero l'ingresso dell'ascensore. Avevo abbassato lo sguardo, imbarazzata dal modo che aveva di guardarmi. Il suo modo, il nostro modo.

Le porte si erano chiuse mentre lei era ancora intenta a fissarmi. E Henry fissava lei.

Mi tolgo le scarpe mentre riprendevo a respirare in modo normale. Ero sopravvissuta a quell'evento, non dovevo per forza trasferirmi. Amavo quella casa e il mio lavoro e gli amici. Non me ne sarei andata solo perché lei viveva li.

Ma qualcosa mi fa necessariamente cambiare i piani.

Le solite compresse che prendo contro i bruciori di stomaco e le nausee non bastano più, così decido di andare al più vicino ambulatorio medico a farmi dare qualcosa di più adeguato. Prendo qualche asciugamano pulito dal mobile sotto il lavandino e erroneamente faccio cadere un pacco di assorbenti. Lo sistemo e mi lavo la faccia. Sono gonfia come poche volte lo sono stata in vita mia.

Mi infilo un paio di pantaloni della tuta, i jeans non ne vogliono sapere di entrare e vado in cucina a bere un bicchiere d'acqua.

Distrattamente controllo la data sul calendario. Siamo a fine maggio e non fa per niente caldo.

Fine maggio.

Fine maggio.

E aprile??? Quando è passato aprile?

«O merda».

Improvvisamente ricordo una cosa fondamentale che ho totalmente dimenticato negli ultimi due mesi. Corro in bagno e apro lo sportello sotto il lavandino. Il pacco di assorbenti è intatto dal giorno in cui Regina mi fasciò la mano insanguinata.

Erano intatti allora ed sono intatti anche ora.

Non è possibile.

Corro in camera e apro l'anta dell'armadio. Dentro, il mio specchio mi avrebbe detto la verità.

Alzo la felpa della tuta e poi anche la maglia a maniche corte. Il basso ventre non è piatto come al solito. Ho un piccolo rigonfiamento. I seni sono...spropositati e mi fanno maledettamente male. E i fianchi....e la faccia.

«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA» urlo.

«Oddio sono incinta».

Cado a peso morto sul bordo del letto.

Ripercorro velocemente gli ultimi due mesi. Regina, Henry, lei che mi lascia. Io che faccio sesso con qualunque essere di sesso maschile mi capiti sottomano, solo per cercare di addolcire l'amaro della decisione di Regina.

Sesso, sesso, sesso, sesso.

Ho solo fatto sesso e bevuto per due mesi interi.

Non è l'alcol o il cibo spazzatura ad avermi fatto lievitare.

Sono davvero incinta? Devo capirlo, immediatamente.

Prendo al volo le chiavi, la borsa, la testa che ho buttato da due mesi.

La testa che è rimasta a quei tre giorni fantastici e irripetibili che ho passato con lei.

Ho fatto di tutto, ho allontanato con tutte le mie forze il suo ricordo, il suo odore, i suoi occhi e le sue mani. Ma è stato assolutamente inutile.

L'ascensore improvvisamente sembra troppo stretto, povero di ossigeno. Il panico rende la sua discesa lentissima.

Salgo in macchina e per la fretta mi cade la chiave sul tappetino.

«E che palle».

Colpisco il volante con le mani. Infilo la mano sotto il sedile sperando di prenderle senza dovere spostare il sedile all'indietro, dando le spalle al finestrino.

Qualcuno bussa improvvisamente al finestrino e sbatto la testa al volante.

«Chi diavolo è ora»

Massaggiando la testa, mi metto diritta per vedere. Due occhi neri come la notte mi fissano preoccupata.

E' lei.

Le labbra sono colorate col solito rossetto infuocato. Pelle liscia e perfetta. Capelli impeccabili. Bellissima.

Abbasso il finestrino con la manopola.

«Ciao» mi dice incerta.

«Ciao Regina, è successo qualcosa?».

«No io...» si tocca nervosamente il bordo della manica della giacca «volevo solo sapere come stavi».

«Oh...io... sto bene grazie» il bruciore allo stomaco ora aumenta.

«Sono contenta».

Silenzio imbarazzante. La guardo negli occhi ma lei non ne ha il coraggio.

«Henry sta bene?».

«Oh si, lui sta benissimo. E' a scuola, sono passata a casa a prendere delle carte per l'ufficio e ho visto che eri appena salita in macchina e...».

«Capisco. Sono contenta che vada tutto bene, ora avrei un po' di fretta, devo andare».

«Io...» lascia la frase a metà.

«Volevi dirmi qualcos'altro?» avanti Regina.

Dimmi che hai sbagliato e che mi ami ancora. So che è così, lo leggo nei tuoi occhi.

«No, vai pure. Ciao Emma».

Fugge via, ancora una volta senza voltarsi indietro. L'istinto mi diceva di seguirla e baciarla, ma non posso. Ho un problema ben più grave da risolvere, in fondo me l'ha insegnato lei: i figli vengono sempre al primo posto.

Compro velocemente un test di gravidanza e una bottiglietta d'acqua in un supermercato.

La scolo come se non ci fosse un domani e in pochi minuti arriva lo stimolo. Apro la confezione con i due test e facendo attenzione a non sporcarmi con la mia stessa urina, bagno gli stick, in due momenti diversi. Mi rivesto e attendo sulla sedia accanto al lavello. Per fortuna l'ambulatorio è quasi vuoto e il bagno ancora pulito e senza puzze irrespirabili.

Per ingannare l'attesa leggo le istruzioni dei test: una linetta negativo, due positivo. Non è molto complicato. E in fondo l'ho già fatto quasi due anni prima. L'idea mi fa mancare la terra sotto i piedi.

Do un'occhiata all'orologio. Sono passati due minuti, è sufficiente.

Prendo i due test e li affianco: ci sono linette.

Due in uno e due nell'altro. C'è poco da sbagliare.

Prendo un profondo respiro e esco dall'ambulatorio.

Non è quello giusto. Non mi servono visite generiche.

Il mio ginecologo, al quale mi sono rivolta dopo l'aborto solo un anno prima, è ancora al solito posto. Non mi avrebbe mai visitata subito, ma almeno potevo prendere un appuntamento.

Mi accoglie la sua segretaria che mi fa accomodare nella sala d'aspetto. Altre tre donne col pancione, decisamente in stato più avanzato rispetto al mio, siedono accanto a me. Mi sorridono felici.

Perché le mamme sorridono sempre?

Tengo nervosamente i test in mano, dando ogni tanto un'occhiata, come se il risultato potesse magicamente cambiare.

Il medico spunta dal suo studio e mi precipito da lui.

«Dott. Ross? Emma Swan, si ricorda di me?».

Mi scruta da dietro i suoi occhiali messi a metà del naso. I capelli bianchi e rughe sul viso hanno fatto si che potessi fidarmi di lui nonostante fosse un uomo.

«Signorina Swan, certo che mi ricordo di lei».

«Mi scusi se piombo così, so che non ho appuntamento, posso chiederle di parlare due minuti?».

«Certo, mi segua»

Percorro il breve corridoio che separa la sala d'aspetto dai vari studi.

«Prego».

«No non voglio sedermi»

Poggio rumorosamente i due test sulla sua scrivania.

«Sono positivi e non so che cosa fare. Ho bevuto alcol, molto alcol, per tutti questi due mesi. Potrebbe essere successo qualcosa al bambino»

Eccoli gli ormoni. Lacrime copiose riempiono i miei occhi.

«Ora si calmi. Si ricorda quando ha avuto l'ultimo ciclo?».

«Non lo so, più di due mesi fa. Io...non ricordo, non sono stata bene ultimamente, non facevo caso alle date».

Mi sorride incoraggiante. E' stato lui ad assicurarmi che avrei potuto avere altri figli.

«Faremo un'ecografia rapida e le do un appuntamento per la prossima settimana se per lei va bene».

Non riesco a muovermi. Fisso il vuoto. Posso aver ucciso il mio bambino.

«Emma» mi sfiora il braccio.

«Sdraiati sul lettino, andrà tutto bene».

Come un automa seguo i suoi ordini. Slaccio i pantaloni e li abbasso un po', giusto per scoprire il basso ventre.

«Quanti kg hai preso?»

«Non saprei, almeno cinque, i jeans non mi entrano più».

Maledetto gel per le ecografie, sempre gelato.

«Siamo pronti, stai tranquilla»

«Certo, come sono stata tranquilla l'ultima volta quando ho dovuto partorire un bambino che non ho mai stretto tra le braccia»

Ho alzato un po' la voce.

«Mi scusi...mi dica solo che va tutto bene»

La sonda tocca il mio addome e rabbrividisco. Guardo lo schermo come se dalle figure e dal rumore dipendesse la mia vita. Devo sentirlo. Il dottore osserva attentamente il monitor, cliccando qualche tasto, ingrandendo e rimpicciolendo l'immagine. Mette le mani su una manopola e il suono più bello del mondo arriva alle mie orecchie. Mi metto sui gomiti e subito ruota il monitor verso di me. Il suo battito.

«Sembra in forma il campione. Dalle misure dovrebbe essere di 9 settimane o poco più».

L'emozione di quel momento vale tutte le sofferenze passate.

E mi fa maledettamente paura. Le lacrime scendono lentamente sul mio viso e ricado sul lettino portandomi le mani sul viso.

E l'unica cosa a cui pensa è che avrei voluto dirlo a Regina o meglio avrei voluto che lei fosse li con me a stringermi la mano.

La mia vita sembrava distrutta poche ore prima. La donna che amavo mi aveva abbandonata e gli errori commessi nei mesi successivi mi avevano dato questo. Forse non è stato sbagliato, forse quello è un segno che la mia vita può avere un senso anche da sola, con mio figlio.

«Me ne può stampare una?» chiedo asciugandomi le lacrime con la manica della felpa.

«Certamente» sorride.

Afferro un pezzo di carta pretagliato poggiato sul tavolino accanto al letto, mi pulisco l'addome dal gel appiccicoso e scendo dal letto.

«Tra una settimana allora?».

«Non mancherò»

«Sta meglio ora?»

«Mai stata meglio»

«Niente alcol, dorma molto, niente farmaci e prenda acido folico e ferro, da oggi».

«Conosco le regole anche se forse sono troppo su di giri per ricordarle».

Allungo la mano per salutarlo e prendere l'appunto per la prossima visita.

 

10 settimane + 3 giorni.

Il mio piccolo aveva 10 settimane e io sto molto meglio fisicamente. Le nausee sono insopportabili ma il mio peso si è stabilizzato. Ma una cosa mi perseguita.

Nonostante tutto mi sento in colpa verso Regina. Lei mi ha lasciato e io sono andata con il primo che è capitato solo per colmare il vuoto. E' decisamente quello che avrei fatto prima di conoscerla ed è anche quello che ho ripetuto una volta che mi ha abbandonata.

Ho tradito lei e me stessa. Nessuna delle avventure avute è stata soddisfacente dal punto di vista fisico e quando li mandavo via mi sentivo più vuota di prima, ma le notti passavano più velocemente in compagnia.

Guardo continuamente l'ecografia, seguendo il profilo del mio piccolo fagiolino e tutte le volte mi immagino con lei, che felice mi abbraccia e sfoglia il libro dei nomi per sceglierlo insieme a me. E' quello che immagina....quello sarebbe stato il mio lieto fine.

Io lei e il bambino. E Henry.

Non voglio che lei mi guardi con disprezzo. Voglio che mi ricordi come la donna che l'ha amata di più, non come quella che si è fatta ingravidare (involontariamente) solo per disperazione.

Prendo l'ultimo scatolone, leggero stavolta. Guardo per l'ultima volta la casa che mi ha accolto per solo un anno, su cui sono impazzita e rinata, tutto grazie a lei. Afferro il barattolo di marmellata vuoto che mi ha regalato. Forse un giorno sarei tornata e saremo riuscite a parlare come due vecchie amiche, per ora preferisco chiudere definitivamente quella storia, insieme alla porta, dietro di me.

  
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