CAPITOLO 1: A chance to change my lonely world
New York al tramonto
era qualcosa che riusciva ancora a
sorprenderla, nonostante la Grande Mela fosse diventata la sua nuova
casa da
almeno quattro mesi: il Sole si stava tuffando dietro quel mare di
grattacieli
e cemento armato, facendo risplendere le infinite distese di vetro come
cristalli d’ambra. Ma nonostante
l’oscurità stesse progressivamente avanzando
dall’Oceano, le milioni di luci che pian piano stavano
prendendo vita, facevano
apparire le strade come in pieno giorno: una fiumana di gente si
affrettava da
un capo all’altro delle immense avenue; i tipici taxi gialli
sfrecciavano per
quanto possibile nel traffico, perennemente imbottigliato. Non
c’era posa per
la città e per i suoi abitanti, se n’era resa
conto dal primo momento: quando
era arrivata la prima volta alla Central Station era rimasta
disorientata dall’infinità
di persone che le passavano accanto senza degnarla di uno sguardo,
ognuna persa
nel proprio microuniverso personale. Era partita con il sogno di vivere
una
grande avventura nella città più famosa del
mondo, la città che non dorme mai,
quella stessa città che aveva da offrirle tutto e niente.
Aveva fantasticato
tante volte di voler andar via da casa, vivere la sua vita, libera
dalla
costante e asfissiante presenza dei suoi genitori, lontano
dall’aria
provinciale della piccola cittadina del Colorado dov’era nata
e quando
finalmente era stata accettata all’NYU, il suo sogno si era
realizzato: aveva
messo otto stati tra sé e il suo passato. Avrebbe avuto
quello che aveva sempre
desiderato, nuove amicizie, una laurea in una prestigiosa
università e, tempo
permettendo, ci sarebbe stato anche spazio per una grande storia
d’amore, come
quelle delle commedie romantiche che tanto la facevano piangere. New
York le
sembrava lo scenario ideale per la sua nuova vita. Ma dopo il primo
mese di
permanenza, aveva cominciato a sentire la mancanza di qualcuno con cui
parlare
o fare una passeggiata sulla quinta strada; insomma, era in una
megalopoli con
migliaia di divertimenti e party ad ogni angolo, ma non aveva nessuno
con cui
godere di tutto quello. Era davvero sola e in quattro mesi non aveva
fatto
grandi passi avanti, se si escludeva la comparsa della sua nuova
coinquilina
Merida, una scozzese psicopatica che dormiva con un arco appeso sul
letto, e la
ragazza della tavola calda dove andava a fare colazione ogni giorno da
almeno
due mesi, Ashley.
Ma non aveva mai
instaurato un vero rapporto di amicizia con
loro due, nonostante fosse la persona più socievole del
mondo: Ashley era una
ragazza un po’ più grande di lei così
dolce e carina, con cui scambiava
volentieri quattro chiacchiere; ma non rimaneva mai molto tempo in sua
compagnia, perché troppo pressata dalla proprietaria del
locale, che le urlava
dietro ordini su ordini. Merida invece era una causa persa in partenza:
i loro
dialoghi si limitavano ai semplici saluti. A volte la sua coinquilina
la
portava sull’orlo della sopportazione, molte volte avrebbe
voluto urlarle
contro che avrebbe dovuto tenere le sue cose nei posti a loro
designate, che
avrebbe dovuto lasciare la biancheria sporca nel cesto apposito, non in
giro
per l’appartamento, che rivolgerle la parola più
di una volta al giorno non l’avrebbe
uccisa, e cosa più importante, avrebbe dovuto dirle quando
un bene di prima
necessità finiva, non farglielo scoprire in ritardo, come
quando aveva trovato
il cartone del latte vuoto nel frigo. Avrebbe voluto ammazzarla. Ma non
le
aveva mai detto nulla di tutto ciò, troppo preoccupata per
la sua incolumità.
Durante una delle
tante telefonate settimanali, la madre le
aveva consigliato di stringere amicizia con i suoi colleghi di corso.
Le aveva
detto che ci avrebbe provato, ma i suoi tentativi erano miseramente
falliti:
nessuno sembrava essere interessato a fare amicizia in quel posto, le
loro vite
scorrevano come tante rette parallele incapaci di trovare un punto di
contatto.
Era una situazione scocciante e pesante, a cui non aveva ancora trovato
soluzione.
Anche ora che si
trovava schiacciata nella metro, tra
centinaia di persone, si sentiva sola. Mai come in quel momento avrebbe
avuto
bisogno di qualcuno con cui parlare, con cui sfogarsi: aveva appena
chiuso una
chiamata e la rabbia che le aveva lasciato addosso le parole della sua
interlocutrice, ancora la scuoteva. Stringeva forte la sbarra della
metro per
tenersi ferma, mentre lo sferragliare ritmico e metallico delle rotaie
la
calmavano pian piano: cosa si aspettava? Perché avrebbe
dovuto ricevere una
risposta differente rispetto ai mesi precedenti? Ancora si ostinava a
non
volerla vedere, ma perché?
-“Elsa,
dimmi solo perché?”- l’aveva supplicata.
-“Lasciami
in pace Anna...”- glielo aveva sussurrato quasi,
ma quelle parole l’avevano colpita come un pugno nello
stomaco.
Non
s’incontravano da tre anni e sentiva terribilmente la
mancanza
della sua unica sorella, l’unico legame con il passato che
avesse in quella
città. In tre anni aveva ricevuto solo sporadiche chiamate e
cartoline di New
York imbiancata dalla neve, per Natale. Non era mai tornata a casa per
le feste
o in estate, non aveva mai accennato ai suoi studi o alla sua
situazione finanziaria.
Anche lei frequentava la NYU, ma nella sede di Brooklyn: ogni tanto
aveva fatto
un salto per chiedere di lei e le avevano indicato il numero del suo
appartamento. Aveva bussato fino a farsi male alle mani e poi una
ragazza le
aveva aperto, ma non era Elsa, era una certa Megara, la sua
coinquilina, una
tipa altezzosa, che le aveva intimato infastidita di togliersi di
mezzo, che
Elsa non c’era e che non sarebbe tornata prima di sera.
-“Ritenta,
sarai più fortunata la prossima volta!”- le aveva
detto con voce piatta.
L’aveva
salutata sgarbatamente e poi aveva atteso all’esterno
dell’edificio il ritorno della sorella, ma quando il freddo
della notte ormai
le era entrato fin nelle ossa, di Elsa non s’era vista
nemmeno l’ombra.
Era tornata
sconfortata al suo piccolo appartamento e aveva
trovato Merida che giocava alla PS, con una fetta di pizza in bocca e i
piedi
poggiati sul tavolino da caffè davanti a lei. In un altro
momento le avrebbe
detto di mettersi composta, ma non aveva nemmeno la forza per
arrabbiarsi: si
era rinchiusa in camera sua a piangere e non ne era uscita se non il
mattino
successivo, con gli occhi gonfi e rossi.
Uscire dal vagone
della metro era sempre un’impresa e quella
sera non fece eccezioni: spintonò per uscire e si
guadagnò una sfilza di
occhiatacce e imprecazioni che si lasciò alle spalle, troppo
sconfitta nello
spirito per potervi prestare anche la minima attenzione.
Per fortuna
l’appartamento era a pochi passi dalla fermata
della metro e non dovette indugiare molto ancora tra le strade grigie
del
quartiere. Scivolò come un fantasma tra i corridoi della
struttura, non facendo
molto caso alle decine di studenti che chiacchieravano davanti alle
porte degli
appartamenti, lanciandole occhiate strane: doveva essere davvero uno
spettacolo
pietoso, pensò.
Aprì la
porta e la richiuse con un sospiro, sperando che
Merida non avesse fatto nulla per farla arrabbiare ulteriormente. Le
stanze
erano stranamente silenziose, di solito a quell’ora la
scozzese era sempre in
piena attività.
-“Sono
tornata.”- gridò con poco entusiasmo, al nulla.
Niente. Nessuna risposta o nessun rumore che rivelasse la presenza
della
ragazza. Si diresse in camera sua e gettò la borsa a terra;
si buttò a peso
morto sul letto e scalciò via le scarpe che le avevano
massacrato i piedi per l’intera
giornata. Sentì la porta d’ingresso sbattere e poi
dei rumori concitati
provenire dalla camera della coinquilina. La vide, o meglio, vide la
sua chioma
rossa fiammeggiante passare davanti alla sua porta semiaperta e poi
fermarsi e
tornare indietro.
Chiuse gli occhi,
stanca: non aveva voglia di scoprire cosa
stesse macchinando quella testa calda.
-“Ehi!
Tutto bene?”-
Sobbalzò
colta di sorpresa: da quando in qua, Merida le
chiedeva come stava?
-“S-sono
solo stanca, grazie.”- mugugnò.
-“Sicura?
Perché non hai una bella cera.”-
-“Senti,
non è serata, chiaro? Quindi se devi prenderti
gioco di qualcuno va altrove!”- le disse col tono di voce
più acido che avesse
mai usato in vita sua, inchiodandola con lo sguardo.
-“Qualcuno
è stato morso da una vipera, a quanto vedo. Sai
in casi come questi l’antidoto ideale è una buona
dose di svago. Hiccup da una
festa stasera, che ne dici, ti va di venire?”-
La fissò
per un minuto buono, senza parole: Merida le aveva
appena rivolto la parola di sua spontanea volontà, le aveva
detto una frase con
più di tre parole e l’aveva invitata ad una
festa…qualcosa non andava, forse era
morta in un incidente della metro oppure si era addormentata sul letto.
Si tirò
su a sedere e si schiarì la voce:
“Perché me lo stai chiedendo? Noi non siamo
amiche, giusto? Di solito a stento mi saluti e ora salta fuori
addirittura un invito!
Cosa hai rotto? Su, avanti puoi dirmelo, prometto di non
arrabbiarmi.”- si fece
una x sul cuore.
-“Non ho
rotto niente! Ma per chi mi hai presa, per una
poppante? Era solo per essere gentili; insomma so di non essermi
comportata al
meglio in questi mesi e volevo farmi perdonare: la scelta era tra un
invito ad
una festa o una cena preparata da me. Ma la cena sarebbe stata un
tantino
ambigua, non credi?”-
Continuava a non
risponderle.
-“Senti se
non ti va, puoi tranquillamente rimanere qui a
macerarti nella tua depressione. Non sono problemi miei, ma sappi che
sei vuoi
parlare sono qui, nella stanza accanto alla tua o schiacciata sul
divano a fare
zapping.”- Merida aveva fallito, ma almeno lo aveva fatto
tentando.
-“Perché?”-
quella parola le sfuggì di bocca, mentre la
scozzese le girava le spalle.
-“Perché,
cosa?”- le rispose scocciata.
-“Perché
proprio adesso, insomma perché aspettare tanto per
instaurare uno straccio di rapporto?”-
-“Semplicemente
perché sei la mia coinquilina e lo rimarrai
per almeno altri sette mesi; e perché per quanto tu possa
essere fastidiosa a
volte, non mi va di continuare ad ignorarti. Siamo entrambe sole e
lontane da
casa: morale della favola potremmo diventare amiche.”- Merida
si avviò nella
sua camera e la lasciò lì a riflettere su quello
che le aveva detto.
Quella pazza
l’aveva lasciata senza parole. Forse qualcosa
era cambiato quel giorno; forse il karma la stava premiando per averla
sopportata ogni giorno di quei quattro lunghi mesi; forse la vita le
stava
aprendo una nuova porta davanti, dopo che sua sorella
gliel’aveva bellamente
sbattuta in faccia. Forse, forse…se avesse accettato
l’invito, quella sera la
sua vita sarebbe cambiata! Forse era la svolta che avrebbe cambiato il
suo
solitario mondo fatto di libri, corse per arrivare in orario a lezione,
metro
piene di persone e sere spese a guardare i vecchi episodi di
‘una mamma per
amica’.
Saltò
giù dal letto e corse nella camera della rossa,
trovandola intenta a rovistare nei cassetti: “A che ora hai
detto che è questa
festa?”-
NDA:
piccolo esperimento senza pretese che mi è saltato in
mente una notte che non riuscivo a dormire. Ovviamente è un
AU/crossover, ce n’è
bisogno su questo fandom. Il piano iniziale era quello di inserire
tutte le
disney princess, ma mi sono resa conto che sarebbe un po’
difficile gestire così
tanti personaggi, ma vedrò di inserirne quante
più possibile. Anzi se avete
idee su una vostra principessa preferita, vi esorto a scrivermele,
così da
creare una AU in comunità…non sarebbe una cattiva
idea!XD Ashley, la ragazza
della tavola calda, è Cenerentola, giusto per chiarire.
La
trama comunque è ancora in pieno cambiamento quindi per
ora il rating è arancione, ma potrebbe diventare
rosso…non lo so.
Coooomunque, nn so
che dirvi se non grazie x essere passate…ci
si becca in giro! Amen.