CAPITOLO
NOVE
Connie
compiva gli anni quel giorno e così, alla
sera, aveva deciso di dare una piccola festicciola invitando le poche
persone
che aveva conosciuto nella sua breve permanenza a Londra. La signora
Hudson
aveva cucinato una torta e alcuni pasticcini e ora si trovava
nell’appartamento
che aveva affittato a Sherlock e John insieme a Molly, Lestrade e Sally
Donovan. Avevano appena finito di mangiare la pizza e chiacchieravano
amabilmente del più e del meno. Gli unici che,
però, mancavano all’appello erano
Sherlock e Mycroft, il primo sparito, come suo solito,
chissà dove e l’altro
perché, come ormai era chiaro a tutti, non voleva avere
troppi contatti con la
ragazza. La signora Hudson trovava davvero ignobile da parte loro non
presentarsi al compleanno della sorella e già si era
preparata un bel
discorsetto da fare ad entrambi quando li avesse visti. Connie invece
non
sembrava essersela presa tanto.
“E’
ora di mangiare la torta”, disse ad un certo
punto la proprietaria della casa, alzandosi scattante dalla sedia.
“Non
dovremmo aspettare Sherlock?” fece John,
pulendosi la bocca con un fazzoletto. Gli dispiace che
l’amico non ci fosse,
avrebbe reso la serata più divertente. Gli dispiaceva
ammetterlo, ma si
divertiva a volte a sentirlo offendere.
“Tanto
non verrà”, gli rispose Sally con una
smorfia.
“Be’,
si sta perdendo una festa magnifica”, aggiunse
la signora Hudson, poggiando il suo capolavoro sul tavolo. Al vedere la
torta,
tutti i presenti si leccarono i baffi, persino il bambino in grembo a
Connie
che ancora non aveva iniziato a notarsi.
Proprio
in quel momento, come se li avesse sentito,
Sherlock spalancò la porta e fece il suo ingresso entrando
come un’ombra scura
e minacciosa. Si girò verso la cucina e inclinò
il capo perplesso al vedere
tutta quella gente.
“Alla
buon’ora!” esclamò Lestrade, guardando
il moro
dall’alto in basso. Il consulente detective poggiò
il lungo cappotto sulla
poltrona e si accomodò al tavolo sull’unica sedia
libera, quella che avevano
tenuto per lui.
La
signora Hudson aveva appena finito di mettere le
candeline sulla torta, trent’uno per la precisione, e ora
John l’aiutava ad
accenderle.
“Dove
sei stato, Sher?” chiese Connie osservando
attentamente il fratello e notando che aveva gli occhi leggermente
rossi.
“In
giro”, rispose lui laconico, evitando il suo
sguardo. “Avevo delle faccende da sbrigare”.
“Così
importanti da saltare il compleanno di tua
sorella?” lo rimbrottò la signora Hudson. Al che
il moro mugugnò qualcosa di
incomprensibile.
“Forza,
Connie, esprimi un desiderio!” esclamò Molly
eccitata. Connie decise di lasciare perdere il fratello per quella sera
e puntò
gli occhi sulla torta illuminata da tutte quelle candele. Per qualche
secondo
piombò il silenzio nell’appartamento, poi la
ragazza gonfiò le guance e soffiò
con tutto il fiato che aveva, spegnendo le candeline in un colpo solo.
Gli invitati
applaudirono e qualcuno scattò le foto.
E poi, naturalmente, ci fu il taglio della torta e tutti i presenti se
ne
servirono una bella fetta, facendo i dovuti complimenti alla cuoca.
“Perché
non giochiamo a obbligo o verità?” propose
la festeggiata, mandando giù l’ultimo boccone di
torta. “Così vi conosco un po’
meglio”.
“E’
dal liceo che non faccio questo gioco”, disse
Sally improvvisamente illuminatasi.
“Io
mi astengo”, disse Sherlock, le braccia
incrociate sul petto.
“Oh,
avanti fratellino! Ti piaceva questo gioco da
piccoli. Facevi sempre domande imbarazzanti a Mycroft”.
“Sì,
ma Mycroft non c’è, quindi non mi
diverto”.
“Ci
divertiamo lo stesso”.
“Credo
che mi asterrò anche io”, disse la signora
Hudson. “Sono troppo vecchia per questo gioco”.
“Non
dica sciocchezze, Signora Hudson”, la
contraddisse Connie eccitata come una bambina. “Forza,
iniziamo!” Percorse con
lo sguardo tutti i presenti al tavolo due volte finché non
si fermò su Molly. Questa,
accorgendosene, tremò leggermente. Anche lei conosceva bene
questo gioco e
sapeva per esperienza che portava sempre a situazioni poco piacevoli.
“Molly. Qual
è il tuo film preferito?”
La
ragazza sembrò rimanere un attimo perplessa a
quella domanda, ma alla fine sospirò sollevata. Quella era
una domanda a cui
poteva rispondere facilmente. “Direi… Love
Story”.
“Oh,
troppo melenso”, fu il commento di Sherlock. “E
inutile”.
“Io
invece lo trovo un bel film”, gli rispose John,
guardandolo un po’ storto.
“Ah
sì?” Il detective pareva stranito.
“Sì.
Intenso”.
“Se
lo dici tu”.
“E
qual è il tuo film preferito, Sherlock?” chiese
allora Molly, interrompendo quello scambio di battute. L’uomo
parve pensarci un
po’. “Non credo di averne uno. I film sono
inutili”.
I
presenti sospirarono rassegnati. “Qualcuno faccia
una domanda imbarazzante a Sherlock!” disse allora Sally che
non vedeva l’ora
di prendere in giro il collega e magari vendicarsi di tutte le volte
che lo
faceva lui.
“Io
non rispondo a nessuna domanda”.
“Posso
dire io una cosa imbarazzante su Sherlock”,
esclamò allora Connie, ridacchiando già. Il
fratello, dal canto suo, alzava gli
occhi al cielo, ma non gli andava di rovinare l’entusiasmo
della sorella.
“Spara!”
Connie
ammutolì di colpo creando l’effetto
dell’attesa.
Poi sbottò: “In quarta liceo Sherlock è
stato bocciato”.
Questa
volta ad ammutolire furono tutti gli altri,
rimasti a fissare la ragazza come se improvvisamente le fossero
spuntate due
teste. Poi, come un sol uomo, scoppiarono
a ridere. “Nooo! Non è
vero”.
“E’
vero, invece!”
“Ma
come?! Non eri un genio?” Adesso gli sguardi
erano puntati tutti su Sherlock.
“Sì,
ma gli insegnanti lo odiavano”, rispose Connie per
lui. “Li contraddiceva sempre e diceva che erano
stupidi”.
“Insomma,
non eri tanto diverso da come sei adesso”,
fece notare Greg.
Le
labbra di Sherlock si piegarono in una smorfia
infastidita ma non disse niente. Sembrava essere di poche parole quella
sera
stranamente e ancora non aveva offeso nessuno. In un’altra
occasione forse
qualcuno se ne sarebbe anche accorto, ma erano tutti brilli ed eccitati
per
farlo.
Improvvisamente, però, il detective si alzò
facendo scricchiolare la sedia
contro il pavimento e, poggiate le mani sul tavolo, si protese verso
Connie
puntando i propri occhi chiari in quelli di lei. Allora la ragazza si
rese
conto di aver appena provocato un drago che dorme.
“Perché
non rispondi tu a qualche domanda?” ringhiò
l’uomo. “Che cosa sei venuta a fare qui?
Perché sei tornata? Cosa vuoi da me? E
perché non te ne vai?”
Gli
altri presenti restarono gelati sul posto, quasi
paralizzati.
“Io
non ti voglio qui e non ti vuole nemmeno
Mycroft. Tornatene a New York o dovunque to voglia andare, è
meglio. Stavo bene
senza di te e posso continuare benissimo!”
Dopo
di che calò il silenzio. Sherlock si ritirò e
tornò a sedersi, come un attore che ha finito di recitare la
propria parte e
ora si riposava, tranquillo. John, Molly, Sally, Lestrade e la signora
Hudson
scorrevano con lo sguardo da uno all’altro, sconvolti e
confusi. Volevano dire
tante cose ma non sapevano da che parte iniziare.
Connie, dal canto suo, sembrava altrettanto scioccata. Era abituata
alle
provocazioni del fratello, aveva capito che la sua presenza
lì non era tanto
gradita, però non si aspettava che arrivasse a questo punto.
Si
alzò lentamente dalla sedia e, guardando il
fratello come fosse un insetto schifoso, sputò in tono
gelido: “Se volevi
vendicarti ci sei riuscito”. Poi, senza guardare nessuno,
uscì dalla porta
senza neanche prendere la giacca.
Soltanto
allora gli invitati presero a muoversi e a
guardarsi attorno imbarazzati, senza sapere che fare. Anche Greg si
alzò dalla
sedia e decise di seguire Connie. Molly si mordeva il labbro e Sally
guardava
il detective con espressione delusa e contrariata.
“Sherlock”,
sospirò la signora Hudson, ma anche lei
stavolta era rimasta senza parole.
Sherlock,
invece, decise che era ora di levare le
tende e velocemente andò vero la sua stanza, senza dare
spiegazioni a nessuno.
“Stai
bene?”
Connie,
seduta sull’ultimo gradino davanti alla
porta d’ingresso, con la coda dell’occhio vide Greg
sedersi accanto a lei. Era venuto
a consolarla? Non aveva bisogno di essere consolata, non avrebbe certo
pianto. Però
le faceva comunque piacere che le tenesse compagnia.
“Sì.
Direi di sì”, sospirò la ragazza,
fissando una
macchia sul tappeto.
“Non
ascoltarlo. Sherlock è uno stronzo e davvero
non so come fai a sopportarlo. Non merita una sorella come te.
È perfido e non
ha rispetto. Non ha sentimenti”.
“Non
è vero”, lo contraddisse Connie con voce
debole, senza voltarsi a guardarlo. “Non è
vero”, ripeté. “Non è
perfido. Vi
sbagliate tutti su di lui, non è come mostra di
essere”.
Ma
come faceva quella ragazza ad essere così… buona
o forse ingenua? Lo perdonava sempre, infine e l’avrebbe
fatto anche questa
volta. Eppure Sherlock non se lo meritava, non questa volta. Ma magari
aveva
ragione lei, forse c’era qualcosa che gli altri non vedevano.
“Forse
però dovrei stargli lontana un po’”,
aggiunse
dopo un po’, malinconica.
“Be’”,
iniziò allora il detective. “Se ti va
puoi…
puoi venire da me. Ho una stanza degli ospiti. Sempre se ti va,
eh”.
Solo
allora Connie si voltò verso Greg,
sorridendogli dolce. “Va bene. Lasciami prendere le mie
cose”.
“Sherlock?”
chiamò John entrando cautamente nella
stanza dell’amico. Lo trovò seduto sul bordo del
letto, le spalle che davano
alla porta, la luce spenta e la stanza illuminata solo dalla debole
luce del
lampione fuori.
Il dottore gli si avvicinò cautamente, come se temesse di
scatenare di nuovo la
sua ira.
“Perché
hai detto quelle cose? E’ tua sorella
e…”.
John non sapeva esattamente che dire. Sherlock era stato cattivo,
certo, ma…
voleva provare a capire anche lui, prima di saltare a conclusioni
affrettate,
ma era sicuro che il detective non gli avrebbe detto niente. Era sempre
stato
un mistero e da quando era arrivata Connie il mistero si era infittito
ancora
di più e questo gli dava sui nervi. Soprattutto ora che
aveva capito di essere
innamorato di un uomo che di certo non lo ricambiava.
Si
sedette sul letto anche lui, a poca distanza dall’altro.
Poi si protese per vederlo meglio in viso e sentì come uno
schianto nel proprio
petto. Sherlock aveva un’espressione tormentata, la
più tormentata che gli
fosse mai capitato di vedere sul viso di qualcuno,
un’espressione capace di
intristire anche la persona meno sensibile.
“Sherlock”,
pronunciò il suo nome come a volerlo
assaggiare. Gli pose una mano sul braccio per fargli sentire la sua
presenza e
si avvicinò un po’ di più.
E in quel momento, proprio in quel momento, il detective si
voltò verso di lui
e, approfittando del fatto che era decisamente più alto, lo
travolse buttandolo
di schiena sul letto. Poi, reggendosi sulle mani, si chinò
su di lui e poggiò
le proprie labbra su quelle di John. Questi si trovò ad
accogliere la sua
lingua prepotente senza quasi potersi opporre e, in realtà,
neanche avrebbe
voluto. Ma per un attimo pensò di star sognando. Non poteva
essere che Sherlock
lo stava baciando, era assurdo… e perché lo
baciava?
Eppure era lì. Sentiva il suo fiato che sapeva di sigaretta,
il suo buon odore
e quei capelli… quei capelli in cui aveva affondato la mano
erano così soffici
e…
“Scusa”,
soffiò il detective a pochi centimetri
dalle sue labbra. John non si era nemmeno accorto che si erano
staccati. “Vattene”.
E
l’ultima cosa che
John vide prima di lasciare l’amico nella sua solitudine,
furono i suoi
chiarissimi occhi tormentati, cerchiati da profonde occhiaie rossastre.
MILLY’S
SPACE
Ed
ecco finalmente una svolta tra John e Sherlock. Che dite?
Non è peccato se lasciate recensioni, eh, non vi mangio.
Ho bisogno di sapere se vi piace o no, altrimenti è inutile
continuare.
Un
bacione a tutti,
M.