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Autore: Kafkaesque    20/04/2014    13 recensioni
È Harry a tagliarsi un dito e Tom dice, “I fantasmi non sanguinano.”
[Prima classificata al contest "Ossessioni e vetri infranti III" indetto da Mary Black sul forum di EFP]
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Potter, Tom O. Riddle
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Altro contesto
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Nickname su EFP: Kafkaesque
Titolo della storia:  Con queste dita da fantasma
Pacchetto scelto/coppia: 5
Rating: Arancione
Contesto: Più contesti
Genere: Dark, Introspettivo
Note/avvertimenti: Tematiche delicate e alcune (poche, ma ci sono) riflessioni sull’incesto
Introduzione: È Harry a tagliarsi un dito e Tom dice, “I fantasmi non sanguinano.”
Note dell'Autore: direi che questa storia è per Erodiade, per le sue rose e i suoi cioccolatini (<3), anche se temo non le piacerà visto che, giustamente, non apprezza il simbolismo a caso. Il problema è che io SONO simbolista a caso. Amami anche se fa schifo, ok.

 
 
 
 
 
 
Con queste dita da fantasma
 
 
 
 
 

 
Dicono che sia normale, a volte, fermarsi sul ciglio della piattaforma mentre si aspetta un treno e guardare le rotaie. Sarebbe così semplice lasciarsi cadere e il treno arriverebbe e nessuno potrebbe fare niente, è normale pensarlo, dicono. Sarebbe così semplice. È una cosa che capita a tutti.
Non vuol dire che non sia soddisfatto della sua vita. Al contrario. Significa solo che non è diverso da chiunque altro.
 
Non ne ha parlato con Ginny, non vuole che si preoccupi per lui. È già abbastanza difficile per lei vedere i loro figli lasciare casa come se non avessero mai desiderato altro dalla vita. Harry ha provato a spiegarglielo: generazioni usano generazioni. I figli abbandonano i propri padri per poter essere abbandonati dai propri figli. Non ha voluto ascoltarlo, però. Ginny quando piange ha le rughe che le nascondono le lentiggini. Ginny non ha bisogno della sua patetica crisi di mezza età.
 
“Sono passati quarant’anni,” dice a se stesso davanti allo specchio, e il suo riflesso ci crede. Nello specchio, Harry ha cinquant’anni e la cicatrice sulla fronte è sbiadita. Gli anni l’hanno schiarita; col tempo è diventata solo un’ombra, come uno scarabocchio mal lavato. Gli incubi, gli occhi cremisi di Voldemort, le urla dei suoi genitori: un giorno si era alzato dal letto, aveva fatto colazione, e semplicemente non erano più . Quando ci pensa, ora, se cerca di rivivere la paura e l’odio e il brivido della nausea – non sembrano più veri. Sul divano nuovo nel suo soggiorno nuovo, forse, non lo sono mai stati. C’è Ginny che lo aspetta sotto una coperta, con le ginocchia piegate sotto di sé e spessi occhiali da vista in equilibrio sulla punta del naso. Sul divano nuovo, Harry è a malapena la stessa persona che ha vinto la guerra.
 
*
 
Sono passati quarant’anni e la sua è stata una vita felice. In caso lo dovesse scordare, ci sono le foto sul suo comodino: Albus quando ha imparato a camminare; James davanti a un’enorme torta di compleanno; Lily sdraiata su un prato con un libro in mano; lui e Ginny, il loro matrimonio. Ridono tutti, nelle foto, e sono sorrisi che nascono ancora e ancora, mentre Albus inciampa e Lily alza la mano per salutare e Ginny lancia il bouquet nuziale. È una felicità innegabile, quella, e lo chiamerebbero ingrato se la contestasse. Ci sono le foto appese ai muri, incorniciate.
Ogni mattina si alza e prende il treno per raggiungere il suo ufficio; lui ama il suo lavoro perché è quello che ha sempre sognato. Al Ministero tutti lo guardano con rispetto; Harry Potter, un eroe, un esempio da seguire. Perché, con tutto quello che ha sopportato, ha avuto la forza di lottare e trionfare. [Spesso si chiede cosa sarebbe successo se avesse perso. Se non li avesse salvati. Forse avrebbero maledetto il suo corpo esposto sui muri come un manifesto.]
Ogni mattina, con tutto quello che ha sopportato, ha la forza di allacciarsi la giacca e prendere il treno, alle nove e dieci. Non si Materializza direttamente all’ingresso del Ministero perché deve dimostrare a tutti quanto sia semplice adattarsi alle abitudini Babbane, l’inizio dell’integrazione. Deve essere lui a farlo perché è Harry Potter, è un modello.
Davanti alle rotaie, pensa, È normale. Ama il suo lavoro e prima di tornare a casa prenderà una Burrobirra con Ron. Sarebbe così semplice.
 
*
 
Sono le nove e dieci.
Tutti lo pensano e nessuno lo fa.
 
*
 
Entra nell’Archivio dei manufatti della Seconda Guerra Magica come fosse un caso, un giorno, a fine turno.
“Passavo di qui,” assicura al custode, con la gentilezza mesta di chi è abituato a mentire per il bene degli altri. Il custode accetta la bugia delicatamente, gli mormora di spegnere le luci una volta uscito.
Lo lascia da solo con il passato. Ogni tanto Harry si chiede se abbia veramente vissuto quegli anni.
Ci sono file e file di oggetti che si è sempre rifiutato di scoprire. Ci sono fotografie dei membri dell’Ordine e maschere di Mangiamorte disposte su lunghi tavoli di metallo, come all’obitorio. È normale. Alla fine della guerra si sezionano i ricordi, si aprono e si sviscerano – si cerca di capire perché. C’è un’intera sezione di oggetti appartenuti a Silente, Harry non ne riconosce la maggior parte. Più che un archivio, è un museo, pensa. Un museo per chi sta dimenticando; memorie catalogate in ordine cronologico e sigillate con etichette bianche.
C’è una vetrina dedicata a Sirius e Harry si sente gli occhi stanchi. Sì, stanchi: non ci sono lacrime, mentre guarda la bacchetta spezzata del suo padrino. Si ricorda solo di quanto fosse giovane. Non ci aveva mai fatto caso – anche Remus era giovane, anche Tonks. Tutti i morti sono giovani, quando ci si pensa una vita dopo. Nelle istantanee schedate per iniziali, sua madre non avrà mai rughe agli angoli della bocca.
 
C’è una sezione che più di tutte gli fa paura, una paura strana. Paura di non averne paura. Ci arriva quando non può più rimandare, quando ha esplorato ogni altra ala e letto ogni singola etichetta. Spera semplicemente di non fare in tempo, ma gli orologi lo deludono sempre. Il suo problema forse è proprio quello – ha tutto il tempo del mondo.
L’Archivio è stato aperto decenni dopo la fine della guerra e non potrebbe essere più evidente. Chi non ha vissuto certe cose in prima persona ha quel modo violento, quella goffaggine da bambino, di chiamare le cose con il loro nome. ‘Tom O. Riddle’ è il cartello sopra gli scaffali che Harry ha cercato di evitare da quando ha messo piede nella sala. ‘Tom O. Riddle’, come se fosse stato umano. ‘Colui che non deve essere nominato’, ‘Tu sai chi’; ‘Voldemort’ – questi sono i nomi che Harry capisce, i nomi che hanno un unico significato. ‘Era il Male, era un mostro’. ‘Tom’ non vuol dire niente. ‘Tom’ potrebbe essere chiunque. 
“Sono passati quarant’anni,” si ammonisce sottovoce.
È la sua risposta a tutto. È normale che la paura si diluisca, quando anche le cicatrici sbiadiscono.
Su un ripiano d’acciaio, disposti in linea, ci sono resti degli Horcrux. Sembrano semplici oggetti, oggetti tristi – malconci e abbandonati in attesa del proprio padrone. Riconosce il diario, l’anello di Gaunt, il diadema di Corvonero. Sente una malinconia surreale, nell’osservarli, un’irrazionale connessione. Una piccola parte di lui pensa che il suo posto sia dall’altra parte del vetro, con loro – nudo sullo scaffale gelido, rotto e usato per sempre. Lui cos’è stato, del resto, se non l’ultimo Horcrux, l’ultimo involucro?  [Lui, il glorioso Strumento-che-è-sopravvissuto]
Oltre agli Horcrux, ci sono teschi di serpente, candidi e lucidi, e uno schizzo d’inchiostro di un Marchio Nero. Ampolle deformi, e un calderone incrostato di ruggine. Strane pietre masticate da rune bianche, frammenti anneriti di un oggetto di madreperla. Questo è ciò che è rimasto di ‘Tom O. Riddle’. Così divisi e ripuliti, non sembrano essere mai appartenuti a nessuno. Sembrano macabri oggetti d’antiquariato, una collezione privata. Morta, piena di polvere, pensa.
È solo allora che nota qualcosa che si muove, qualcosa che brilla dal ripiano più basso. Le sue ginocchia protestano, quando Harry si china di scatto. Sono fiale. Schiere e schiere di fiale sostenute da anelli di metallo; fiale piene di nebbia luminescente. Una luce che conosce.
Sono fiale piene di ricordi.
L’etichetta che le accompagna riporta la storia. Voldemort – ‘Tom O. Riddle’ – aveva condotto numerosi esperimenti sulla memoria: aveva cercato di trasformare i ricordi in copie di tempo, bolle di vita in cui trovare la tanto agognata eternità. Aveva fallito. Un gruppo di Auror specializzati aveva esaminato il contenuto delle fiale per questioni di sicurezza e – , avevano concluso, aveva proprio fallito. Sono solo ricordi. Queste fiale, è scritto sull’etichetta, contengono campioni di ricordi di Tom O. Riddle, nell’arco di tempo compreso tra il 6 luglio 1931 e il 31 ottobre 1981.
 
*
 
Il giorno dopo, Harry firma il modulo per poter prelevare l’intero blocco di fiale. Saranno più di un centinaio.
In treno, stringe la scatola contro la giacca. Gli tintinna sul petto.
 
*
 
Non vuole neanche aprirla, in realtà. Appoggia la scatola sulla scrivania del suo studio e, per la prima volta, si chiede perché lo stia facendo.
Poi la sposta nell’armadio.
 
Forse per salvarle. Brillavano ed erano bianche e tutto intorno solo silenzio. Un po’ come un bambino abbandonato in un cimitero che aspetta seduto su una panchina, facendo dondolare le gambette magre – sarebbe stato sbagliato lasciarle lì.
 
*
 
Le settimane passano e lui non ci pensa. Di notte guarda il soffitto e ascolta i battiti del cuore di Ginny premuti sulla t-shirt con cui dorme.
 
Forse per vendetta. Non c’è rabbia in lui: ha avuto tre figli, li ha guardati crescere; è passata una vita intera. Ma può vederlo come un simbolo, una contorta e banale forma di poesia. Lui sta dimenticando e porta avanti solo i volti delle vittime come coccarde appuntate sul cuscino, e i ricordi del Nemico come souvenir impolverati nell’armadio.
 
*
 
[Forse l’ha fatto perché poteva farlo. È stato così semplice. Le aveva viste pulsare come cuori di fumo e aveva pensato che sbagliare non sarebbe stato poi così sbagliato]
 
*
 
Non è una notte diversa dalle altre, la notte in cui Harry posa il Pensatoio sulla scrivania.
Lo fa con calma e con uno sbadiglio incastrato in gola, come se non fosse importante. Accarezza il bacile di pietra, preme le dita contro i bordi per sentire le rune incise lasciargli il negativo di simboli sulla pelle. Poi, come posseduto improvvisamente da un’idea vaga, si alza e apre l’armadio. Si ripete che non lo farà veramente, che tornerà a letto, a letto da Ginny, e le nasconderà un bacio lieve tra i capelli.
 
Sceglie la prima fiala – 6 luglio 1931 – perché è l’unica che può pensare di prendere. L’inizio.
È fredda, e le sue dita lasciano impronte umide di vapore sul vetro.
 
La prima volta che si è chinato su un Pensatoio, Harry era un ragazzino che pensava già di essere adulto e Silente gli aveva sorriso. Ora è solo, in camicia da notte – se ci pensa, è parecchio patetico, vecchio padre senza più figli – e svuota la fiala nel bacile.
Harry si dice che è perché non ha sonno. Non ha veramente sonno da tanto tempo.
 
Dall’alto, il contenuto del Pensatoio sembra un dirupo, una scogliera e la nebbia che brilla di miraggi.
[Cadere: ci pensa perché è normale pensarci]
 
Harry lascia che il suo viso affoghi nel ricordo.
 
.
.
 
C’è qualcosa di diverso, è la prima cosa che capisce quando apre gli occhi.
Harry si guarda le mani e sono le mani di un ragazzo. La gravità fluttua, per un attimo, il suo cuore scivola in un ritmo nuovo. Harry non ha bisogno di uno specchio per capire che lui è se stesso a diciotto anni – si sente lucido e vivo e ha quel bruciore bianco nel petto dove un tempo era stato l’Horcrux. Lo sa perché lo sente, glielo suggerisce il sangue che scorre al contrario nelle sue vene. La fine di un’anestesia. In gola ha emozioni che sanno di sabbia. Se le ricorda, si ricorda questo. Questo lutto sempre nuovo stretto nei pugni chiusi e questa speranza serrata negli occhi.
E poi c’è una melodia di sottofondo, uno strano ronzio di sensazioni, come il brusio di una musica lontana che filtra da finestre chiuse. Qualcosa di estraneo. Harry alza gli occhi e intorno a lui vorticano linee spesse di realtà – una stanza.
 
L’atmosfera del ricordo è grigia. C’è un’impalpabile pressione di fuliggine nell’aria, ricopre il letto malconcio, le assi del pavimento, i muri crepati. Di fianco alla finestra, c’è un bambino. Pallido, tutto occhi. Harry l’ha già visto, come ha già visto questa stanza.
Mai così giovane, però, mai così indietro. Tom ha sei anni e le labbra strette per la concentrazione, così strette da sembrare incolori. Sta facendo qualcosa, accovacciato accanto all’unico spiraglio di luce che serpeggia tra le tende sporche. C’è una serietà nei suoi occhi grigi che dovrebbe essere una spia, un indizio: c’è qualcosa di sbagliato, perché nessuno l’ha mai capito? È già un mostro, è nato per essere un mostro, un aborto; negli occhi, perché non lo vedono; c’è già l’abominio. Harry si avvicina.
È una curiosità morbosa, la sua, il desiderio di poter accarezzare le deformità del male e in modo distaccato osservare, Io non sono così.
 
Tom, nascosto tra le tende, sta incollando frammenti di conchiglia.
 
Era la sua preferita – è questo che dice il mormorio distante di emozioni, la musica lontana. Parla di una piccola tristezza, pesante come solo sa essere quella dei bambini, e rabbia – rabbia, perché non avrebbero dovuto rompergliela e lui li odia li odia li odia, e speranza, perché forse, se si impegna, tornerà come prima. Ha rubato la colla dal cassetto di Mrs Cole e gli si appiccica alle dita in pallini di sporco, se non sta attento.
 
Il risultato è uno scheletro di conchiglia pieno di buchi e fessure, con l’orlo dentellato e sporco di sangue là dove Tom si è graffiato un dito con una scheggia. Piuttosto patetico. Nell’aria, Harry sente l’eco del cuore di Tom, e un senso di vuoto. Ma i suoi occhi, così grigi, sono asciutti. Ha sei anni e neanche una lacrima a disposizione. È – sicuramente, non può essere altro, non ci sono altri nomi per quegli occhi – un mostro.
Ripone la conchiglia nell’armadio, nella scatola in cui tiene le altre. Era la sua preferita, però.
 
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Harry è solo e in camicia da notte, chiuso nel suo studio. Il ricordo è finito. Se si guarda le mani, sono mani da adulto. Presto saranno mani da vecchio. Dentro di lui, il bruciore si è spento. Da fuori, il silenzio dell’alba.
 
*
 
Diventa un’abitudine, allora. Entrare nel Pensatoio, posarsi una mano sul petto, sul bruciore bianco sotto il cuore. Sentirsi se stesso nei ricordi dell’uomo che gli ha mutilato la vita. Versa sempre la stessa fiala.
C’è qualcosa che lo tormenta, nell’immagine del bambino chinato sulla finestra, la conchiglia sporca di sangue e colla.
Solo quando è sicuro che Ginny stia dormendo, però. Immerge il viso nei suoi capelli ancora rossi e inspira profondamente prima di sgusciare via con un fruscio di coperte, come volesse essere certo di non dimenticarsi durante il tragitto [Ginny profuma di cannella e vecchi maglioni e casa, casa] tutti quei piccoli motivi per cui tornare da lei all’alba.
 
Guarda Tom ricomporre la conchiglia e fallire, ancora e ancora, con lo stesso dispiacere troppo sterile per essere umano.
Harry memorizza ogni dettaglio perché è avido, perché vuole portarsi manciate e manciate del mondo pieno di fuliggine – e vecchi battiti del cuore, la sua gioventù – anche dall’altra parte, dove la camera da letto è sempre buia e profuma di cannella. Il modo in cui Tom si morde le labbra per concentrarsi; le ciglia lunghe che non sbattono mentre avvicina frammenti di conchiglia; i tentativi delicati delle sue dita ancora goffe; il modo in cui quando si taglia soffia come un gatto, e sa che è inutile continuare. Il modo in cui non piange e l’aria trema.
 
*
 
‘Tom O. Riddle’ potrebbe essere chiunque. Non va bene. ‘Tom’ potrebbe essere un bambino.
 
*
 
Tom sta incollando frammenti di conchiglia, nell’eternità di quella mattina grigia che per Harry è una sera di maggio, quando si gira verso di lui e lo guarda negli occhi.
Harry non reagisce. Un ricordo è un ricordo proprio perché è sempre uguale, sequenze di movimenti e respiri, sempre gli stessi, quelli che ha imparato a conoscere. Non si può rivivere un ricordo. Nulla può cambiare. Eppure–
“Sei un fantasma,” Tom mormora, e si sta rivolgendo a lui. È una domanda perché ogni parola ha un’inflessione d’incertezza sull’ultima sillaba.
Harry sa che dovrebbe andarsene. C’è qualcosa che non va, qualcosa è andato storto.
L’aria è quella grigia di sempre, però, l’aria rafferma di una memoria.
 
Sapere che Tom [Voldemort, è sempre stato Voldemort] può vederlo, riaccende in lui una ferocia antica. Sapere che lui può toccarlo. Forse è solo la suggestione, forse è la fine di un lungo riposo, ma sente la cicatrice bruciare. Cosa succederebbe se lo uccidesse qui, ora, quando ha sei anni e una conchiglia rotta tra le dita? Harry avanza, accecato da rabbia rigurgitata, lontano da casa eppure così vicino, così se stesso, e stringe le mani intorno al collo sottile di Tom. Preme.
Tom deve essere sbagliato, per forza, perché lo guarda con occhi enormi – grigi, già morti – e si divincola con movimenti precisi, senza scomporsi, come se avesse passato la sua intera esistenza a esercitarsi davanti allo specchio per questo istante, immaginandosi la morsa delle sue dita da fantasma sulla trachea – Harry si allontana di scatto.
 
La conchiglia cade a terra e si distrugge in ondate di schegge. Non importa. Era già rotta.
 
[La musica lontana preme contro i vetri: Tom ha sempre saputo, dentro di sé, di essere vivo per errore, di essere stato progettato per rimanere un’Idea, non per queste forme e queste ombre, non per questi cinque sensi contraffatti e carne e sangue e organi, non per questo terrore di ritornare a essere nulla, e perciò non è di certo una sorpresa – se lo aspettava già da tempo, qualcuno che se ne accorgesse, TU NON DOVRESTI ESISTERE, qualcuno che venisse a strangolarlo. Come non accorgersene, quando gli altri orfani sono stati creati per vivereridere e vengono adottati, uno a uno, quando sono così buoni e scodinzolano a comando? I cani con la rabbia, consigliano, bisogna sopprimerli presto, perché poi non bisogna lamentarsi se mordono e infettano e leccano via il sangue dall’asfalto]
 
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Harry soffoca un conato di vomito ed emerge dal ricordo con un singhiozzo strozzato, cercando di deglutire l’orrore quando si accorge che il ricordo che vortica nel Pensatoio è diventato nero.
 
*
 
Ci riprova, dopo aver trovato qualche sciocca scusa a cui neppure lui crede: che deve controllare cosa sia diventato il ricordo dopo il mutamento di colore, se ci siano stati dei cambiamenti importanti – nessuno, se esclude il fatto che Tom ora può vederlo. Ci riprova perché è un egoista e gli dispiace, sente Tom e il suo collo fragile da assassino sotto le dita e lo rifarebbe e, davvero, gli dispiace.
Più ci pensa, però, più l’accaduto dovrebbe preoccuparlo. Perché Tom può vederlo? Harry pensa che abbia a che fare con il ronzio lontano. Ha imparato ad ascoltarlo, ha lasciato che lo invadesse, e l’ha contaminato. Il bruciore che un tempo era un Horcrux è più insistente. Dovrebbe preoccuparsi e dovrebbe starne alla larga.
 
[Ci ritorna ogni sera]
 
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“Sei un fantasma,” non c’è neanche un’ombra di sorpresa negli occhi di Tom. Solo quella nota di incertezza a fine sillaba che tradisce dubbi taciuti.
Harry annuisce.
“Sei morto,” aggiunge, esitante. Un’altra domanda. Ma se ne vergogna subito, perché per definizione un fantasma è morto, e Tom non è un bambino che ama fare domande stupide. È l’imbarazzo che lo fa girare dall’altra parte, dando le spalle allo sconosciuto, per continuare ad incollare parti di conchiglia.
 
Disagio, mormora la cacofonia che crolla sui vetri. Il cuore è il più profondo degli strumenti a corda – sospetto, rabbia, solitudine.
 
*
 
[Perché Harry insiste, perché, perché ci pensa quando è al lavoro, perché ci pensa quando dovrebbe mangiare e dormire e ancora, ancora-]
 
*
 
“Sei un fantasma.”
“Sì.” È così strano sentire la propria voce da diciottenne rimbombare in una stanza che probabilmente ha smesso di esistere mezzo secolo prima.
“Sei morto.”
“No,” risponde prima che Tom possa pentirsi di aver chiesto, “no, sono un fantasma strano. Non esisto da sempre.”
Cautela, dice il ronzio, sospetto.
“Perché sei qui,” Tom nasconde, forse inconsapevolmente, la conchiglia rotta dietro la schiena.
“Non sapevo dove andare.”
Harry non sa perché risponda così. Tom lo guarda con quegli occhi che non dicono niente, e sembra Albus, giusto un pochino, Albus prima di salire sul treno per Hogwarts, con tutte le sue incertezze infantili nascoste per paura che James lo prendesse in giro.
Così Harry conclude, accennando un sorriso, “Non sapevo dove andare e ti ho trovato.”
 
Tom non apre più bocca poi. Si volta verso la finestra e riprende a dividere le schegge in ordine di colore.
 
*
 
Harry crea una conchiglia nuova, per Tom. Immagina di averla tra le mani, e poi ce l’ha tra le mani. È più grande e più colorata di quella rotta.
Quando gliela porge, Tom sembra sorpreso, veramente sorpreso – come se un regalo lo sconcertasse più di un fantasma.
[O di essere soffocato a mani nude, soppresso come un cane rabbioso]
L’appoggia nell’armadio, ma non la mette nella scatola. Torna alla finestra e riapre il tubetto di colla.
 
*
 
“Se vuoi posso aiutarti,” mormora Harry. “Ad aggiustarla.” Tom non dice niente, ma si scosta un po’, gli lascia spazio.
Harry si avvicina e sa che non avrà bisogno della bacchetta, non dentro un ricordo. Reparo, pensa, sfiorando i frammenti di conchiglia con l’indice. Le schegge scattano in una sequenza di ticchettii e si riassestano nella posizione originaria, una dopo l’altra.
È brutta, come conchiglia, ma evidentemente lo è sempre stata, anche prima di rompersi. Ora è intera. È la sua preferita.
 
Il vento, però, sibila diffidenza, diffidenza, diffidenza. La magia non esiste, le allucinazioni sì. Il fantasma è folle e a Tom non piacciono i folli. La conchiglia sembra normale, ma in realtà  è malata ora, dentro. Mrs Cole dice che i pazzi non sanno di esserlo e non possono guarire.
Non la mette nell’armadio perché potrebbe essere infettiva.
 
*
 
Perché Harry vuole a tutti costi che quella mattina lontana finisca nel modo giusto? È già successo. Niente di ciò che farà potrà cambiarlo. La verità è che Tom ha cercato di aggiustare la conchiglia e si è tagliato un dito e non sarebbe mai stata come prima, con quelle venature di colla sporca. Non ha pianto. È così che è andata.
 
*
 
“Se vuoi posso aiutarti. Ad aggiustarla.”
Questa volta, Harry si inginocchia di fianco a Tom, si accovaccia vicino al raggio di luce.
 
È Harry a tagliarsi un dito e Tom dice, “I fantasmi non sanguinano.”
“Quando non si ricordano di esserlo, sì.”
“E poi tocchi le cose. I fantasmi non possono toccarle le cose.”
Il riverbero di sensazioni ricorda sempre cautela, ma non è più un urlo di pericolo. Ci sono bolle di curiosità, vibrazioni di calma.
“Ma le cose possono toccare i fantasmi. È così che funziona.”
Tom ci pensa, e decide che ci crede. È una bellissima cosa credere, lancia tremiti di soddisfazione.
Poi, però, Tom aggiunge, “Solo io posso vederti?” Ed è una domanda, una vera domanda.
“Certo.”
“Perché.”
Perché è un suo ricordo e tra di loro ci sono un secolo e cumuli di morti.
Tra quanti anni diventerà Voldemort? O lo è sempre stato – furioso e ricolmo d’odio, chinato su cocci di conchiglia? Non bisogna lamentarsi se un cane con la rabbia morde per il semplice gusto d’infettare e lecca via sangue dall’asfalto. Bisogna sopprimerlo presto.
Ma non dice nulla di tutto questo, la sua bocca si muove da sola,
“A volte abbiamo bisogno di qualcuno che ci veda. Allora scegliamo una persona.”
A volte c’è una profezia e qualcuno deve morire, e allora un uomo con il cuore atrofizzato e gli occhi troppo grandi tira una monetina e sceglie una delle due famiglie, uccide il padre per primo e della madre calpesta il cadavere con la bocca ancora aperta e c’è un neonato che piange, avrà una cicatrice. L’ha scelto lui.
“E hai scelto me,” Tom inarca le sopracciglia, un’espressione troppo adulta.
Harry annuisce e lo sente tutto, l’odio, e una strana dolcezza, e un sorriso amaro.
“E ho scelto te.”
Il mostro che ucciderà i suoi genitori, il mostro che nasconde scatole di tesori fragili sul fondo dell’armadio.
 
“Grazie,” Tom mormora meccanicamente, un secondo prima che il ricordo finisca. Forse anche quella è una domanda. Harry non ne è sicuro.
 
*
 
“Perché ti piacciono le conchiglie?” Harry gli chiede. La stanno aggiustando, ancora e ancora – ogni notte l’aggiustano con gli stessi frammenti e ogni notte il risultato è diverso. Molto più importante dell’insieme delle sue parti.
Tom lo fissa a lungo e pensa che lo stia prendendo in giro, strizza appena gli occhi.
“Non mi piacciono le conchiglie,” soffia.                 
È complicato; un fantasma non potrebbe capire, sussurrano le assi del pavimento.
Passano minuti e minuti di pensieri grigi, prima che Tom mormori senza alcuna espressione,
“Mrs Cole ci ha spiegato che sono lo scheletro di animali piccoli e viscidi. Quando le onde le portano sulla spiaggia, l’animale muore. Per questo le troviamo vuote. Sono scheletri, ma non ne abbiamo paura. Forse perché sono belli. E gli altri bambini le rompono senza pensarci perché a volte è questo che fanno, con le cose belle e con gli scheletri. Io le raccolgo. Le metto nell’armadio.” Tom esita, non pensava di avere così tante parole rannicchiate sotto la lingua, e ora che stanno uscendo le sente tutte stropicciate e indolenzite. Tentenna qualche istante, nel silenzio.
Poi aggiunge, indicando le schegge,
“L’ho trovata tra gli scogli. Martha aveva detto di non andarci perché è pericoloso e tanto non ci sono conchiglie. Ma l’ho trovata. Non avrei dovuto, ma l’ho trovata.” È la sua preferita, oscillazioni di tenerezza e orgoglio, screziature sporche di sale.
Harry sa cosa deve dire, sfiora sette schegge come fossero frammenti di un’anima,
“Ha scelto un posto davvero strano per morire.”
 
Quando finiscono, la conchiglia è brutta, ma brutta nel modo giusto.
Tom la ripone nella scatola e si strofina le dita piene di colla sulla bocca, come per grattarsi via un sorriso.
 
*
 
Harry sbaglia e persevera nei suoi errori con il rigore di chi continua a premersi i lividi per controllare se stiano guarendo.
Harry è imperdonabilmente sciocco e comincia a fare esperimenti.
Il colore del ricordo si scurisce con costanza: da bianco neve ad acqua sporca a nero denso. È la sua presenza; la sua realtà ha inquinato il ricordo. Tom lo vede immediatamente, la musica di sensazioni è così intensa che può sentirla vibrare contro il suo sterno. Se la realtà può toccare il ricordo, può il ricordo toccare la realtà? Harry si chiede, sentendosi così vecchio e usurato, baciando Ginny prima di andare a dormire.
 
Dovrebbe smettere, davvero.
 
Harry comincia a fare esperimenti e, esitante, versa la fialetta successiva – 9 settembre 1931 – nel Pensatoio ancora pieno. Si coagula al ricordo precedente in gocce, una dopo l’altra, e assorbe tutto lo sporco che la sua mente ha liberato. Delicatamente, Harry mescola con un movimento di bacchetta. Non è più un ricordo, alla fine, è un grande serpente color fumo che striscia contro le pareti del bacile, una mostruosità.
Non funzionerà, Harry lo sa, Harry se lo ripete, e lo spera, mentre immerge il volto nel liquido sporco.
Se ci prova è perché può.
 
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La pressione grigia che permea l’aria come fuliggine è quella che ha imparato a conoscere; il fuoco bianco nel suo petto e la vita brillante che gli scorre nelle vene sono gli stessi. La musica è lì, in ogni respiro.
 
Il ricordo è un cortile con erba opaca e una coppia di altalene arrugginite.
Ci sono altri bambini, altri orfani – sono bambini sbagliati, però. Qualcosa nelle proporzioni del viso, nel modo in cui muovono gli occhi. Sono dettagli minimi, piccole distorsioni che rendono i loro volti innaturalmente bestiali. Le sensazioni di Tom sono tamburi in lontananza, alienazione, fastidio, diverso diversodiversodiverso. Harry capisce, ora. È il ricordo che li ha deformati. Hanno nasi schiacciati come grugni e zigomi sporgenti.
Tom, dall’angolo di prato su cui è seduto, lo fissa. È un’isola di civiltà, lineamenti dolci dell’infanzia e occhi che conoscono, martire tra stupidi, stupidi animali. Ma Harry ha una sensazione spiacevole che gli prende la gola, la sensazione che anche Tom sia sbagliato, ma in modo diverso, a un livello più viscerale; sbagliato come un’apparizione, uno spirito con il volto sempre illuminato. Gli orfani sono troppo reali, tremano le altalene e parlano di terrore, Tom lo è troppo poco – diafano, sbiadito, se ne accorgeranno, se ne accorgeranno e lo faranno ritornare un’Idea e non vedrà più e non toccherà più e non sentirà più.
Tom non mostra segno di averlo riconosciuto, il suo sguardo lo trapassa da parte a parte, prosegue. Guarda gli altri bambini, come se aspettasse di vedere qualcosa. Poi si alza e, a passi lenti, si allontana, scompare dietro l’angolo dell’edificio.
Harry lo segue, scoraggiato. Non ha funzionato, dunque.
Tom, però, una volta sicuro di essere lontano dal campo visivo degli altri orfani, si volta verso di lui e lo scruta con espressione dura.
“Allora posso veramente vederti solo io, Fantasma.”
Tom si ricorda, si ricorda del ricordo che lui ha sporcato, e Harry vorrebbe ridere e ridere e non sa neanche perché.
“Sì. Pensavi che ti avessi mentito?”
Sì, sempre, in ogni istante, il ronzio è una risposta silenziosa. Il viso di Tom rimane inespressivo.
“Perché sei venuto qui dietro?” Harry gli chiede, guardandosi attorno. Il retro dell’orfanotrofio è pieno di tubi rotti e erbacce.
Nello sguardo di Tom qualche difesa si incrina e sembra solo un bambino sul punto di confessare qualche enorme, minuscola debolezza [Albus alla stazione, con gli occhi verdi di sua nonna]; poi però il suo volto ritorna duro, e dice con sufficienza,
“Non posso mica parlare da solo davanti a tutti.”
Harry lo detesta con tutto il suo cuore e gli sorride come sorrideva ai suoi figli.
 
“Non mi hai ancora detto come ti chiami,” Harry gli dice, e non usa il tono che gli adulti hanno inventato per i bambini, e Tom lo sente, Tom cataloga e annota e distribuisce la sua fiducia pesandola prima su una bilancia.
Come si chiama? Harry sa come si chiama. Tom-il-mostro, Tom-il-bambino, Tom O. Riddle sui cartelli nel museo dei morti, Voldemort sulle labbra di chi lo ha odiato e lo odierà per sempre.
“Tom.” Lo dice come se il suono del suo nome fosse un sapore disgustoso. [‘Tom’ come il fetore di suo padre, il Babbano, cadavere di cinque giorni quando fu ritrovato riverso e patetico; ma non lo sa ancora, non lo ricorda ancora]
“Ma ‘Tom’ non ti piace.”
Il bambino scuote la testa. ‘Tom’ potrebbe essere chiunque, pensano entrambi.
“Dovresti trovarti un nome nuovo, allora,” conclude Harry prima di potersi fermare, e non sa davvero perché l’abbia detto con tono di sfida.
Ma Tom si volta, l’erba grigiastra ondeggia appena per il vento e mormora di grandi voragini e una madre morta sui gradini di un orfanotrofio.
“Non ho bisogno di un nome. Io sono io.”
 
*
 
Torna da Ginny all’alba e sospira, lascia che il profumo di cannella lo perdoni e gli ricordi il proprio nome.
Resta in piedi, in mezzo alla stanza, ha le mani aperte e, di colpo, la stanchezza troppo lucida dei reduci di guerra. La prima luce del mattino filtra dalle finestre chiuse e illumina le foto sul comodino – lui, Ginny, James e Lily, Albus; volti da bambini e volti da adulti, volti da vecchi. Il mondo sarebbe un posto migliore se non ci fosse bisogno di avere un nome, pensa.
Poi si sfila gli occhiali.
 
*
 
Harry svuota nel Pensatoio ogni notte una fiala diversa, con movimenti precisi, come stesse versando liquore pregiato.
Se la sua è pazzia, almeno è una pazzia metodica.
Vede troppo e non vede abbastanza, e quando esce ha di nuovo le orecchie piene di silenzio e le macchie del fegato sul dorso delle mani.
 
*
 
Sono accovacciati tra i cespugli sul retro dell’orfanotrofio quando Tom gli mostra il suo potere. È una mattina di settembre e il vento parla piano.
 
Dalla polvere e le sterpaglie, Tom fa sorgere una processione di cimici e onischi, uno schieramento di insetti che brulica in figure geometriche e lettere dell’alfabeto, “Posso fare questo.”
Il bambino forse sorride prima di chinare la testa, e se Harry rivede Albus giocare a far sbocciare i fiori nel giardino davanti a casa è solo per qualche istante. Muove le labbra intorno a parole invisibili, mentre chiede alla colonna di zampe di salire sul dorso della sua mano.
È una magia profonda e inconscia, quella che affonda le radici in Tom e nel tessuto stesso del ricordo – Tom non ordina nulla agli insetti, semplicemente spiega loro cosa accadrà.
Perché avere un nome quando posso avere questo?, ripetono le spine dei rovi con violenza, graffiandogli le braccia attraverso la maglietta.
Lascia che gli insetti gli scendano dalla mano, poi, e, quando un onisco gli rimane riverso e nero sul palmo aperto, Tom lo schiaccia tra le dita; non c’è alcuna traccia di crudeltà nel modo in cui testa la consistenza dell’insetto ridotto a poltiglia, come un grumo d’inchiostro.
Solo curiosità, e poi nulla; si pulisce l’indice strofinandolo sull’erba.
“E posso parlare con i serpenti,” aggiunge Tom rompendo il silenzio, ora con una nota di aggressività. Non ci credi? Non mi credi? Dovresti.
Una parte di Harry vorrebbe ucciderlo, davvero, perché Tom ha ancora parte dell’insetto morto sotto le unghie e un giorno aprirà la Camera dei Segreti [Tom con la vita di Ginny sotto le unghie], ma la parte di lui che brilla con il fuoco fantasma di un Horcrux, la parte di lui che ha diciotto anni e una vittoria alle spalle e una vita davanti, lo costringe a sollevare un braccio e a stringere le sue dita da fantasma sulla spalla ossuta di Tom.
Tom si irrigidisce, ma non si sposta.
“Il tuo segreto è al sicuro con me,” Harry sorride. Con lo stesso sorriso incoraggiante, aggiunge,
[forse aveva detto qualcosa del genere ad Albus o Lily, una ventina di anni prima, ma, se proprio dev’essere onesto con se stesso, probabilmente no]
“Pensi di potermi insegnare a parlare coi serpenti?”
 
*
 
Ogni tanto si dimentica di tornare in camera all’alba, ma solo una volta o due, davvero. Versa una fiala diversa ogni notte e osserva il male germogliare piano, nei dettagli, nelle stagioni ingrigite e i fiori che crescono nelle crepe del selciato dietro l’orfanotrofio.
 
[Tom ruba solo oggetti inutili ma preziosi, solo ciò che i proprietari cercheranno fino a crollare; Tom odia giocare e affila il suo disprezzo in armi sottili; Tom fa suicidare le farfalle, le sfiora con un dito dopo averle fatte posare sulla tela di un ragno e la polvere colorata che gli sporca la punta delle dita è la prova inconfutabile del suo potere; Tom salva le conchiglie dall’alta marea; Tom lo chiama Fantasma e gli spiega come cantino i serpenti; Tom nasconde dietro il vuoto che ha negli occhi il terrore di ritornare Nulla]
 
*
 
“Non ho bisogno che qualcuno mi insegni come trovare un lavoro,” Albus sibila, badando che il chiacchiericcio degli altri invitati e lo stridio delle posate coprano le sue parole, “C’era bisogno di tirare in ballo la questione– ancora?
 “No, dico solo che–”
“Papà, ho venticinque anni.”
Albus ha i miei occhi, gli occhi di sua nonna, Harry non può fare a meno di pensare, non può fare a meno di rivedere in un bagliore vago il volto di tutti coloro che aveva sentito pronunciare questa frase. Nessuno glielo dice più, però; ora è lui il metro di paragone, il genitore, ed è ad Albus che dicono, Assomigli moltissimo a tuo padre.
Ma Albus ha venticinque anni ed è, senza dubbio, un adulto autonomo; non ha più bisogno di aiuto, come Lily non ha più bisogno di aiuto e James non ha più bisogno di aiuto – la felicità e l’indipendenza dei figli non sono forse il sogno di ogni padre?
Non hanno più bisogno di qualcuno che li guardi mentre aprono i fiori in giardino, mentre schiacciano insetti tra le dita.
“Papà,” la voce di Albus perde un po’ di durezza, “non pensarci. Almeno non oggi che è il tuo compleanno!”
 
Alla festa ci sono Ron e Hermione, Neville e più amici di quanti si ricordasse di avere; ci sono Lily, James e Albus, e tutti ridono e bevono e mangiano la torta e Harry brinda, ma non con le parole che vorrebbe, alle ore della festa e le ore che verranno dopo la festa.
[E questa notte avrà ancora diciotto anni e un bellissimo cuore corrotto]
“Harry stamattina– questa la devo raccontare,” ride Ginny, con un bicchiere di vino tra le dita e i capelli che aveva sempre amato portare sciolti raccolti sopra il capo, “Harry stamattina si è alzato e, quando gli ho fatto gli auguri, ha cominciato a guardarmi come se fossi pazza… Perché non solo non si ricordava che fosse il suo compleanno, ma era addirittura convinto che oggi fosse il quindici settembre!”
Ginny gli sfiora la guancia con la punta del naso e continua a ridergli contro un orecchio, mentre Ron commenta a voce troppo alta,
“Ohoh, problemi di memoria? Cominciamo a perdere i colpi, vedo–”
 
È davanti al portico, quando tutti gli ospiti hanno già lasciato la casa, che Albus si volta, come colpito da un improvviso ripensamento.
Ha venticinque anni e ha i suoi occhi; gli dice con una voce gentile, una voce che non sembra la sua, e un sorriso che sembra di scuse,
“Papà, prima non volevo dire che… Lo sai che mi hai insegnato tanto.” Sì, prima di andarsene ridacchia, “Non ti ricordi il mio primo Expelliarmus?”
 
*
 
Harry ricorda:
 
ricorda dita tagliate da conchiglie e un armadio chiuso pieno di cimeli rubati
ricorda le dita eleganti di Riddle sul diario, l’eco di passi nella Camera e Ginny cadaverica, schiacciata contro il pavimento bagnato
ricorda un insetto schiacciato tra indice e pollice, tra l’erba grigia dietro l’orfanotrofio e un sorriso accennato
ricorda i grugni mostruosi di Billy Stubbs e degli altri orfani mentre ridevano di Tom, Tom che aveva stretto impercettibilmente gli occhi; ricorda un coniglio impiccato, bianchissimo e gli occhi rossi velati
ricorda Lord Voldemort uscire dal calderone come uno scheletro di pelle, bianchissimo e gli occhi rossi velati
ricorda gli occhi di Tom la mattina in cui una coppia aveva visitato l’orfanotrofio: la donna profumava di gelsomino e forse l’avrebbe preso, se solo Tom avesse detto qualcosa di falso e piacevole, forse l’avrebbe salvato – ma Tom non aveva aperto bocca e la donna era passata oltre
ricorda la mattina in cui lui e Tom non avevano parlato; ricorda che era bastato
ricorda la mattina in cui Tom gli aveva quasi confessato la sua paura; non c’erano stati sussurri tra le altalene o il rumore di scogli sotto il mare – semplicemente Tom aveva sette anni e ancora nessun nome, aveva schiuso le labbra pallide e aveva detto al soffitto, “Cosa si prova a non esistere, Fantasma?”
 
 
ricorda la mattina in cui l’ha ucciso.
 
 
Harry ricorda troppo.
 
*
 
Ci sono delle volte in cui Harry si chiede come sarebbe guidare Tom oltre i cancelli dell’orfanotrofio e portarlo lontano; ancorarsi al ricordo come un parassita e deformarne i confini per creare un futuro fasullo. Non sarebbe la vita giusta, ma sarebbe una vita diversa. Harry non lo fa, però – e non ammetterebbe mai che sia per la paura di non riuscire più a tornare a casa.
Così, si limita a guardare: guarda il volto di Tom indurirsi, lo guarda quando porta i due orfani nella grotta dove Harry, una vita prima, ha visto schiere di non-morti e Silente sacrificarsi per un miraggio; lo guarda quando la direttrice conduce il Professor Silente – giovane e senza sacrifici nella sua stanzetta grigia.
 
L’aria nella stanza pulsa con violenza, allora, i vetri vibrano e un ringhio gutturale gli attraversa le ossa; rabbia, paura, perché Tom sa che Silente è il nemico, lo sa già, è un riflesso istintivo. Ad undici anni Tom pensa che Silente sia uno psichiatria, a venti penserà che sia un ostacolo – ma non cambierà nulla, Harry capisce. Ripeteranno la stessa conversazione, ad ogni loro incontro, per tutta la loro vita, con parole sempre più raffinate e maschere più accurate, e il pavimento tremerà sempre allo stesso modo nella stanza dell’orfanotrofio.
“Non sono pazzo,” dice Tom e non è una bugia, anche se lascia che i suoi occhi si posino su Harry – sul suo Fantasma – per un istante, come per implorarlo di sparire. [di non far capire allo psichiatra quanto Tom sia sbagliato e quanto non dovrebbe esistere]
Ma Silente non capisce. Questo è il suo primo errore. Il suo secondo errore è quello di dire,
“Anch’io sono diverso, Tom.”
È un errore perché Tom ha le prove: solo una persona può essere diversa, e Tom ha passato la sua intera esistenza ad essere diverso e a sopportarne le conseguenze – la paura, il potere, la polvere di farfalle sulle dita – e un vecchio bugiardo che vuole rinchiuderlo in qualche ospedale non dovrebbe permettersi di insinuare altrimenti. Harry sente un dolore bianco contorcersi dove l’Horcrux gli preme sul cuore.
“Me lo dimostri,” dice Tom, e Harry avrebbe tanto voluto fermarlo.
Perché il terzo errore di Silente è quello di incendiare l’armadio.
 
Non c’è più nessuna rabbia, poi, solo un silenzio immenso e, bassissimo, il fruscio straziante di conchiglie che bruciano.
 
*
 
“Harry, sai che puoi dirmi tutto, vero?” si lamenta Ginny, “Non- non vieni più a dormire, vorrei solo… capire cosa fai chiuso nel tuo studio. Harry- Harry? Mi devo preoccupare?”
“No.”
 
*
 
Harry accompagna Tom a Diagon Alley, nonostante lui gli ripeta che non ce n’è alcun bisogno; ma è una tradizione, ormai, pensa Harry – ha accompagnato James, e Lily, e Albus, e c’è qualcosa di così profondamente sbagliato in quello che sta pensando che Harry semplicemente scuote la testa e cerca di concentrarsi sull’aria tiepida e le nuvole sopra Diagon Alley, semplicemente spiega a Tom come orientarsi per le vie affollate e gli appoggia una mano sulla spalla mentre entrano da Olivander.
 
“Tredici pollici e mezzo, di tasso, e nucleo di…” spiega Olivander, porgendo al bambino una bacchetta, e Harry la riconosce, sente la cicatrice bruciare come un vecchio rimpianto e non riesce a trattenersi dal sussurrare, “Nucleo di piuma di fenice.”
Tom sorride – sorride veramente – quando la bacchetta che ucciderà i suoi genitori lo sceglie.
Sorride e sembra solamente un bambino eccitato, ed è solamente un bambino eccitato, anche se la sua è un’allegria distorta, anche se paga da solo con soldi non suoi, depositando i galeoni sul bancone piuttosto che sulla mano protesa di Olivander. Harry ha incastrato in gola un sentimento che oscilla tra disgusto e pietà e che probabilmente, se proprio dovesse dargli un nome, chiamerebbe ‘affetto’.
 
Nella sua stanza, Tom scruta la cassa che contiene i suoi nuovi acquisti.
“Una volta intrapreso il tuo percorso di studi, l’uso della magia al di fuori della scuola,” aveva detto Silente prima di lasciarlo, “sarà severamente proibito.”
Ma Tom non è un bambino che si lasci facilmente intimorire, e sembra sempre trovare, in ogni ordine e ogni regola – Harry non dovrebbe sentirsi orgogliosouna sorta di fluidità che gli permetta di trasgredire rimanendo nei confini di un’obbedienza ambigua. Perciò l’idea di essere nel torto non lo sfiora minimamente, quando comincia ad agitare la sua nuova bacchetta nel mezzo della stanza.
“Non ho ancora intrapreso il mio percorso di studi,” spiega impassibile, notando lo sguardo incredulo e divertito di Harry.
Presto, però, Tom si stanca di vedere la bacchetta sprizzare semplici scintille, e nient’altro; si ferma e il rumore dei suoi passi sul pavimento impolverato parla di delusione, “Non succede niente.”
“È normale,” interviene Harry, “ma ti insegneranno libri e libri di incantesimi, a Hogwarts.”
“E come fareste voi fantasmi a sapere cosa è ‘normale’.”
“Non lo sappiamo, ma facciamo in modo che nessuno se ne accorga.” È estremamente facile parlare con Tom, si accorge Harry, perché gli viene spontaneo usare solo bugie a cui lui stesso crede, “E non siamo gli unici– ma va bene così, no?”
Tom lo guarda attentamente, allora, posa la bacchetta e Harry si accorge per la prima volta di come Tom possa sembrare solo ‘Tom’ in certi istanti, con il suo quasi-sorriso, nonostante la luce tra le tende proietti la sua ombra ingigantita e deforme sulla parete. Solo ‘Tom’ e nell’aria un’emozione tiepida che, se proprio dovesse avere un nome, sarebbe ‘affetto’.
Harry si sente la bocca impastata e, come sotto effetto di una strana ipnosi, mormora,
“Vuoi che ti insegni un incantesimo?”
[“Vuoi che ti insegni il mio incantesimo preferito, Albus?”]
Albus aveva annuito con forza e Tom annuisce lentamente, ma dietro la calma è già pronto, con la bacchetta tesa.
“Devi agitare il polso – così – e scandire ‘Expelliarmus’, poi...”
“A cosa serve,” Tom lo interrompe, con uno sguardo calcolatore che Harry dovrebbe trovare sgradevole. O, almeno, ci prova.
“A disarmare il tuo avversario. È un incantesimo di difesa fondamentale,” sottolinea Harry, e cerca di trovare un sinonimo che possa mostrare a Tom tutti i suoi errori e la mattina in cui si sono odiati e uccisi, i suoi occhi terrorizzati quando è crollato. Ma non ci riesce, così aggiunge, “Ti sarà sicuramente utile. Ed è anche piuttosto soddisfacente vedere la loro faccia mentre la bacchetta fa un volo di tre metri–”
Ma Tom abbassa la bacchetta, deluso, 
“Non ne conosci altri?”
Anche Albus aveva risposto così, Harry ricorda. L’unica differenza tra Albus e Tom è che Albus ad undici anni non pensava che ci fosse niente di più noioso di un avversario; Tom ad undici anni non pensa che sarà mai così sciocco da permettere ai suoi avversarsi di impugnare un’arma.
 
Riesce ad insegnargli qualche incantesimo di levitazione nel tempo che gli resta, prima di ritornare solo e in camicia da notte nel suo studio.
Mentre le mani di Harry cominciano a farsi trasparenti e la realtà inizia ad attirarlo verso l’alto, Tom lo saluta con un cenno del capo inclinato e sembra troppo piccolo nella sua stanza grigia, accanto alla valigia di seconda mano che dovrà trascinare da solo fino al treno.
Non lo aveva mai salutato, prima.
Ti aspetto, mormora il ricordo.
 
*
 
Sembra uno scherzo crudele, all’inizio, quando legge l’etichetta della fiala successiva. Perché Tom l’ha salutato il 27 agosto 1938, e il ricordo successivo porta la scritta “19 maggio 1943”.
 
“Dove sono?” mormora, non saprebbe neanche dire a chi, ma ripete, a voce più alta, “Dove sono?
Vorrebbe fermarsi e imporsi di respirare profondamente, è troppo vecchio per lasciarsi prendere dall’agitazione quando basterebbe calmarsi e cercare con più attenzione. Ma le fiale mancanti non sono nell’armadio, non sono nella scatola col marchio degli Archivi ministeriali insieme alle altre, e non sono sulla scrivania.
“Dove sono?!” urla, anche se sono le tre di notte e Ginny non capirà – come potrebbe capire? Harry è in camicia da notte e ha cinquant’anni e gli occhi di un folle, e se dovesse spiegarle la gravità della situazione probabilmente comincerebbe a farneticare, Ho bisogno di tornare un fantasma per poter salutare l’assassino dei miei genitori ai binari, prima che il treno parta, come ho sempre fatto, come ho sempre consolato Albus e dato un bacio sulla fronte a Lily-
“Harry, che cosa…”
Ginny si avvicina a piedi nudi; ha la voce troppo acuta e le borse sotto gli occhi, e Harry, per un secondo, vorrebbe farle male. Inspira lentamente,
“Hai toccato per caso qualcosa nel mio studio?”
“Mi aiuterebbe sapere cosa pensi che io abbia toccato.”
La risposta di Harry sembra calma e ragionevole, e c’è solo un tremito iniziale che tradisce l’isteria che sta trattenendo,
“Queste, capisci,” alza una delle fiale, “sai cosa sono, vedi, sono importanti, ne hai toccata una, dimmi, Ginny, ne hai toccata, spostata, vista una?”
“Merlino, sono le tre di notte e tu– no, non ti capisco, Harry, ma… no,” sbuffa alla fine, rassegnata, “no, non ho spostato nessuna fialetta.”
Il sorriso di Ginny è debole e circondato da rughe, mentre gli avvolge un braccio intorno alla vita,
“Dai, andiamo a dormire.”
 
*
 
Forse è arrivato il momento di smettere, sospira Harry, salendo sul treno affollato.
Non ha più visitato Tom; non ci ha più neanche pensato, davvero, nonostante ogni mattina si ritrovi a cercare con lo sguardo il fantasma di un bambino pallido davanti ai binari.
Era stato tutto un enorme errore – visitare il museo, prendere le fiale, il Pensatoio, incollare frammenti di conchiglia.
Sì, dovrà smettere, e non pensare al modo in cui Tom spenderà l’eternità del 27 agosto 1938 credendo di non essere solo.
 
“Oh, vediamo– sì: risulta che una ventina di fiale siano andate distrutte nel dopoguerra, per un errore di valutazione durante il trasporto,” il custode scuote le spalle con noncuranza, come se stesse parlando del tempo, “Roba pericolosa da trasportare, i ricordi.”
“Grazie dell’informazione,” Harry sorride così forte che gli scricchiolano i denti.
 
Quando lui e Ron si trovano al Paiolo, alla solita ora, Harry beve quattro Burrobirre e ride con appena una punta di disperazione.
 
A cena litigano.
Albus è il primo ad alzare la voce, urla qualcosa come “Devi capire che non sono più solo ‘tuo figlio’, sono un adulto”; Ginny dice di stare calmi, e che è preoccupata per il marito, che lo vede stanco e irascibile e così diverso dal solito; Harry esplode dopo momenti di silenzio densissimo, e grida tutto tranne ciò che vorrebbe dire, cioè che lui non è per nulla diverso, sono gli altri ad essere cambiati senza chiedergli il permesso.
Albus lascia la casa sbattendo la porta, ringhiando, “Non aspettatemi.”
 
*
 
Tom ha aspettato. Il Fantasma lo ha tradito.
 
Harry, seduto alla scrivania nel suo ufficio, compila nella sua mente l’elenco dei momenti che non potranno mai condividere:
 
il suo primo giorno di scuola, lo smistamento, il silenzio del Cappello davanti agli abissi nella mente di Tom, l’orgoglio di essere un Serpeverde; il fastidio, il disagio e la gioia di essere diverso tra i diversi, il timore che Silente si accorga di ciò che nasconde negli occhi, e ancora – le ricerche negli archivi, le dita callose a furia di sfogliare schedari, sotto ‘R’ come ‘Riddle’, l’ossessione per la sua eredità, la storia del suo sangue; la madre morta che doveva essere una Babbana, per forza, perché i più deboli sono i primi a morire, Tom sicuramente ha preso da suo padre; il suo sguardo riempirsi di stupore freddo davanti alle meraviglie della Camera dei Segreti, e i primi segni del suo meraviglioso delirio, perché un’Idea non può morire, Tom scopre, non quando può ritagliarsi migliaia di anime.
 
Harry avrebbe voluto guardare le labbra di Tom sibilare promesse al Basilisco; non lo avrebbe fermato, avrebbe osservato i suoi occhi illuminarsi dal trionfo davanti a un corpo senza vita e gli sarebbe stato vicino, mentre si strappava l’anima a metà con il volto deformato dal dolore, sempre meno umano, sempre più vicino al progetto originario – Harry gli avrebbe stretto la mano con le sue dita da fantasma.
 
*
 
Harry si arrende perché può.
Non deve aspettare che Albus se ne vada perché Albus non c’è, non viene più. Non deve aspettare che il respiro di Ginny diventi regolare, perché ha versato mezza ampolla di Distillato Soporifero nella tisana alle erbe che lei beve ogni sera. Dovrebbe sentirsi in colpa, ma è un crimine senza vittime, e ha già impiegato tutto il suo rimpianto pensando a quanta vita sia andata perduta per uno stupido errore di trasporto.
[La verità è che Tom è cresciuto solo e l’ha odiato fino al suo ultimo respiro]
 
Non chiude neanche a chiave la porta dello studio; quando versa la fiala che contiene le memorie del 19 maggio 1943 gli tremano le mani, ma si fa coraggio, si lascia affogare ancora una volta nel vortice nero nel Pensatoio, perché sa che non si può sbagliare solo a metà.
 
.
.
 
“… ovviamente visiterò i cugini di mio padre, in Normandia. Saremo solo noi Black. E tu, Tom?”
Harry è sicuro di essere già stato in questa stanza.
Ha già visto queste poltrone di velluto verde, queste tende pesanti, l’atmosfera cupa. Non in un ricordo, ma di persona; una vita prima, però – è passato tanto tempo, e ora lui è un fantasma. L’informazione che cerca riaffiora piano, senza grande clamore, anche perché riconoscere la Sala Comune dei Serpeverde non è tra le sue priorità, non quando c’è qualcosa di profondamente diverso e raggelante nelle sue ossa.
Harry è abituato a un cielo carico di rumori, lo scricchiolio di ogni singola emozione, e il cuore di Tom in sottofondo, sempre: era così sbagliato, Tom, pieno di marcio e di conchiglie. Ma pur sempre pieno. Ora Harry sente solo fruscii, e un’eco fredda che fa rimbombare ogni respiro come tra le pareti troppo, troppo alte di una cattedrale. L’Horcrux nel suo petto è una scheggia di ghiaccio. E Tom – Tom è seduto su una poltrona, ha la schiena dritta e lineamenti aristocratici [non sa ancora che il sangue di suo padre è marcio], e c’è qualcosa di disumano in lui, nel modo in cui sembra l’unica presenza davvero immobile tra mura che vibrano appena. Harry può vedere la sua anima strappata, può vederne i contorni lacerati e le cicatrici negli occhi che sembrano specchi, vetro. I colori sono più freddi, ogni rosso – le labbra di Tom – è sporcato di blu.
E questo è solo il primo passo, pensa Harry con amarezza, e ricorda gli Horcrux distrutti, sventrati sui ripiani metallici dell’Archivio.
“Tom,” ripete un ragazzo dagli zigomi marcati che sembra così fastidiosamente vivo in confronto a Tom, “tu dove hai intenzione di trascorrere le vacanze estive?”
Tom è infastidito: questo Harry lo sente ancora. Ma è una sensazione sterile, l’aria stagnante.
Passerà l’estate all’orfanotrofio, come sempre. Così risponde,
“Suppongo che andrò a visitare mio padre, come sempre. E–”
Tom sta per aggiungere qualcosa di cortese e vagamente crudele per umiliare Black – perché non c’è niente che trovi più fastidioso che l’essere infastidito – quando i suoi occhi si posano sulla sagoma di Harry. Nessuno nella stanza nota gli occhi di Tom dilatarsi impercettibilmente o la sua espressione neutra andare in frantumi, perché è solo per un secondo.
Nessuno lo nota, ma la rabbia che esplode in un rumore silenzioso di finestre rotte e pareti crollate è terrificante, e ancora più terrificante è la calma che arriva dopo un istante, il suo sorriso piacevole quando alzandosi dice,
“… vi prego di scusarmi, mi sono appena ricordato che oggi pomeriggio si terrà la riunione dei Prefetti.”
Non aspetta che qualcuno risponda, lascia la stanza senza mostrare alcuna fretta e chiude la porta dietro di sé.
[“Non posso mica parlare da solo davanti a tutti,” aveva detto, quasi un bambino, nascosto tra i rottami sul retro dell’orfanotrofio, quasi suo figlio]
Tom avanza per i corridoi dei sotterranei senza girarsi, e a Harry sembra di sentire dei bisbigli flebili ripetere fino a perdere significato Ti aspetto ti aspetto ti aspetto, ma, no – il rumore di passi sulla pietra cancella ogni suono e c’è solo silenzio.
Un silenzio che dura per minuti e minuti, rampe di scale e corridoi deserti, e Harry prova a chiamarlo,
“Tom!” e ancora, “Tom–” ma Tom non si volta, non esita neppure.
Quando percorrono lo stresso tratto di corridoio per la terza volta, Harry finalmente capisce. Sul muro appare una maniglia.
Tom apre la porta della Stanza delle Necessità e aspetta che lui entri, prima di chiuderla.
 
La stanza che Tom ha evocato è bianca. Bianca – il pavimento, le pareti, il soffitto. Harry ricorda di aver visto un bianco simile quando è morto per quella manciata d’istanti, nella Foresta Proibita. Non c’è nulla, nella stanza. È semplicemente aria e mura. Aveva bisogno di una stanza, Harry capisce, e questa è l’unica che è riuscito a immaginare.
Tom, per la prima volta, lo guarda negli occhi e Harry non vede nulla.
Sono grigi, fermi, e di colpo vorrebbe ridere e chiedergli scusa e urlare ancora e ancora il nome che non ha bisogno di avere–
Quando il primo incantesimo lo colpisce, vede solo un vago bagliore di luce centrargli il petto e la bacchetta di Tom fendere l’aria; il secondo e il terzo sono solo colori improvvisi, sì – Tom lancia anatemi uno dopo l’altro con una violenza gelida incisa nelle linee dure che gli scavano il volto: sono formule intricate e movimenti elaborati e la sua voce è sempre più alta; Tom vuole farlo sparire e vuole fargli male, “Phantasma elabere,” lo sente dire e ancora, “Imago cineris–”
Harry non cerca di proteggersi; non cerca neanche di muoversi.
Sa che nel ricordo gli sarebbe sufficiente pensare Expelliarmus per fermare Tom. Non lo fa perché può non farlo.
Harry apre le braccia e lascia che ogni maledizione affondi dentro di lui. Se solo bastasse ad essere perdonato [vede gli anni scivolare, conchiglie rotte e fiori spalancati, un figlio che aspetta e un figlio che non vuole essere aspettato], Harry spenderebbe volentieri il resto dell’eternità a farsi flagellare in una stanza dalle pareti bianche. Ma non hanno alcun effetto, le luci sprofondano dentro la sua carne di fantasma e scompaiono.
Tom si interrompe per un istante, e lo guarda con una strana espressione che parla di nulla e tradimento, prima di mormorare,
“Avada Kedavra.”
Il lampo verde è quello che lui conosce, è sempre lo stesso, da quando Harry aveva un anno, tra le braccia di sua madre, davanti al corpo di suo padre. Si pianta nel suo sterno e lì affonda, lentamente, sfiorando l’Horcrux. E poi svanisce. Harry non sente niente. Una fitta di bruciore gli attraversa la cicatrice, ma è solo un riflesso. Il Ragazzo che è sopravvissuto, pensa con amarezza.
Tom alza la bacchetta ancora una volta, con calma, determinazione, e se Harry intravede un’ombra di disperazione nei suoi occhi si sbaglia.
“Avada Kedavra, Avada Kedavra, Avada–”
Quando Tom si arrende, ha un’espressione indecifrabile sul volto.
“Cosa sei,” mormora, e per un attimo non ha nessuna maschera: è solo lui, Tom ancora senza un nome e già senz’anima.
Poi si ricompone, però. La sua voce ritorna ad essere insinuante e garbata, come se non avesse appena tentato di ucciderlo.
“Speravo non saresti tornato, speravo saresti scomparso,” storce le labbra in un sorriso fasullo, accarezzando la punta della bacchetta con le dita affusolate; ripete, “Cosa sei?”
“Non sei un’allucinazione, ho controllato,” prosegue, e c’è un abisso di ossessioni nascosto dietro il tono distaccato delle sue parole, “Sì, ho controllato. Ho usato tutte le formule corrette. Non sei un Infero, ovviamente. Ma non sei vivo. E non sei un fantasma.”
Mi hai mentito, mi hai sempre mentito, Tom non dice.
Harry non riconosce il suono della propria voce quando risponde,
“No, non lo sono.”  
Harry odia Tom, se lo ricorda all’improvviso; lo odia con tutto se stesso perché è un mostro sporco di vittime e guerre e schiaccia gli insetti tra le dita, ha ucciso i suoi genitori, gli ha reso la vita un inferno.
[“I serpenti non vedono il blu,” sussurra Tom, accarezzando piano una biscia d’acqua sul retro dell’orfanotrofio, “perciò ti ascolteranno, se cercherai di spiegar loro di che colore sia il cielo-”]
Harry odia Tom con tutto il suo cuore e dice,
“Mi dispiace.” Scuote la testa, “Non sono un fantasma. Almeno, non nel senso in cui tu intendi ‘fantasma’.”
“E quanti sensi ci sono,” Tom lo schernisce, il tono tagliente, “per intendere ‘fantasma’?”
Harry sospira e sa che sta per commettere un errore imperdonabile. Cose orribili sono successe quando i maghi hanno interferito col tempo. Ma questo non è ‘il tempo’, questa è solo un’orribile, bellissima bugia, quindi andrà tutto bene.
Parla piano, e gli dice la verità,
“Un fantasma è qualcosa che non dovrebbe esistere, non qui.”
Tom sta fissando la parete candida dietro di lui e Harry per la prima volta si chiede se possa sentire il frammento di Horcrux dentro di lui, il loro legame, le loro vite intrecciate. Harry prosegue, con un sorriso patetico,
“Alcuni fantasmi ricordano il futuro.”
Tom capisce, allora.
Lo guarda negli occhi e Harry per la prima volta li riconosce, vede un bambino chinato su una conchiglia e le mani di un fantasma strette intorno alla sua gola. Tom chiede, come se non fosse importante,
“Mi hai visto morire?”
Harry rivede il neonato grinzoso piangere nel limbo, il corpo di Voldemort nella polvere. Dice,
“Ti ho visto uccidere.”
Tom sorride, nella stanza dalle pareti bianche, ed è un sorriso sincero.
 
*
 
Nei ricordi successivi, Tom lo conduce ancora nella stanza bianca. Impiega pochissimo tempo per capire come sfruttare la situazione e Harry sa che non sarà più come prima, non ora che Tom ha scoperto in lui un meraviglioso strumento.
“Riuscirò a creare sette Horcrux?” gli chiede. Tom non usa mai il verbo ‘strappare’ parlando dell’orrore di lacerarsi l’anima, ma ‘tagliare’, come fosse una semplice operazione chirurgica.
Harry non dovrebbe rispondergli, ma annuisce perché vuole vederlo sorridere.
 
Tom non richiede mai risposte elaborate.
“Ci sarà una guerra?” chiede.
“Sì.”
o no, nessuna via di mezzo, nessuna spiegazione – perché non è stupido, sa che sapere troppo potrebbe cambiare tutto.
“Troverò mio padre?” chiede.
“No,” e Harry spera di avergli mentito per impedire che si sporchi le mani di sangue, non perché non scopra quanto quel sangue sia sporco; spera che Tom non abbia notato la sua esitazione.
 
Ma Tom cambia, così, da un ricordo all’altro, e Harry cerca con tutto se stesso di non collegare la sua recente bugia al modo in cui Tom è diventato improvvisamente – si vergogna persino a pensarlo – dolce.
“Mi abbandoneresti mai, Fantasma?” domanda un giorno, nella stanza bianca, con tale candore negli occhi che Harry vorrebbe urlargli di smettere.
“No,” e il sorriso di Tom non è più compiaciuto, non è più sottilmente feroce; non è il suo sorriso. È il sorriso di un bambino.
Smettila, ti prego.
I timori di Harry diventano certezze quando, nel ricordo di un giorno di giugno, la Stanza delle Necessità non diventa quattro pareti di un bianco asettico ma la cameretta grigia di un orfanotrofio. Ma è sbagliata – dove dovrebbe risuonare il mormorio della solitudine di Tom, c’è solo silenzio.
“Ti ricordi, Fantasma?” indica l’armadio, con un’eccitazione fasulla nella voce, ed estrae una scatola piena di conchiglie. Ride, è un suono così estraneo, “Ti ricordi qual è il primo incantesimo che mi hai insegnato?”
Harry annuisce e ha la gola secca, “Expelliarmus.”
 
Tom lo sta manipolando.
Harry lo sa e non fa nulla per impedirglielo – Tom non lo sta manipolando più di quanto lui non stia manipolando Tom, comunque, se ci pensa bene. Entrambi vogliono qualcosa: Tom lo ha capito, e gli sta solo dando ciò che gli spetta. Probabilmente mi trova ridicolo, Harry riflette, con un sorriso sardonico, il Fantasma che ha bisogno di avere qualcuno per cui preoccuparsi.
È un patto; ogni risata e ogni sorriso ingenuo – un quid pro quo.
 
Tom è sdraiato sul vecchio letto dell’orfanotrofio quando, con una calma insinuante, afferma,
“Tu sai chi è mio padre.”
“No, non…”
“Non era una domanda,” Tom si solleva lentamente per poterlo guardare negli occhi.
“Tu sai chi è mio padre,” ripete, una semplice esortazione che non nasconde alcuna – per ora – minaccia.
Harry è seduto sul bordo del letto e vorrebbe potergli mentire di nuovo.
Ricorda la villa immersa nel silenzio e gli occhi vacui dei cadaveri.
“Non voglio mentirti,” sospira.
Tom ridacchia e, Merlino, sembra solo un adolescente,
“Non farlo, allora.”
Quando Harry non aggiunge nulla, però, la calma apparente di Tom comincia a incrinarsi; comincia a pensare di aver sbagliato ad interpretare la situazione, di aver frainteso tutto, e non c’è niente che Tom odi più dell’avere torto.
Harry dovrebbe andarsene e rivivere il ricordo cercando di evitare questa conversazione, subito–
“Non sei forse qui per aiutarmi?” e lo usa come un insulto, come un’arma.
“Sì, ma–”
È in quel momento che Tom lo bacia.
Harry non capisce subito.
La comprensione arriva a frammenti: prima si accorge degli occhi di Tom, che sono chiusi e vicini, troppo vicini; poi del respiro che gli solletica la pelle; poi di labbra fredde sulle proprie. Ma i cinque sensi non significano molto – sono tutte percezioni così distinte, separate, rispetto alla surreale consapevolezza che accompagna il pensiero, Tom Riddle mi sta baciando.
Il suo primo impulso è quello di spingerlo lontano da sé e uscire dal Pensatoio, ritornare nel suo studio ed essere felice, perché tutto è come dovrebbe essere, ha una famiglia perfetta e un lavoro che ama e nel riflesso dello specchio le rughe gli coprono la cicatrice.
Ma poi si ricorda del perché Tom lo stia baciando e, di nuovo, quel disgusto e quella pietà, quell’affetto, le labbra di Tom che si muovono piano contro la sua bocca chiusa. Si sente girare la testa. Tom lo sta baciando perché pensa sia ciò che Harry desidera.
[Harry ricorda quanto Albus desiderasse un nuovo manico di scopa per il suo sedicesimo compleanno. Per averlo, aveva ripulito il giardino e lavato i piatti per l’intera estate. Avrebbe fatto di tutto, per convincerlo]
Harry si chiede distrattamente come reagirebbe se Albus lo baciasse. Probabilmente non riuscirebbe a dirgli di no, risponderebbe al bacio, come sta rispondendo – se ne accorge solo ora – al bacio di Tom, con le sue dita da fantasma che gli stringono i fianchi. Risponderebbe al bacio perché ci sono persone che non può permettersi di perdere. Se non fosse così sbagliata, Harry troverebbe la situazione esilarante – Tom disposto a questo pur di avere un ‘sì’, e lui disposto a questo pur di non dover dare un ‘no’.
Quando Tom si allontana da lui ha le labbra rosse eppure ancora vagamente bluastre, e finge di non avere più fiato.
Il suo sorriso è perfetto e studiato, con la giusta sfumatura di vulnerabilità, la giusta punta di malizia, e Harry sa che è troppo tardi per chiedergli di smettere, “Sei qui per aiutarmi, non è vero, Fantasma?”
È solo un quid pro quo.
Harry scuote la testa, sospira, “Sì.”
 
*
 
Ginny lo bacia piano, con un sorriso storto di scuse,
“Mi dispiace non cenare con te, Harry, ma preferirei andare a letto… In questi giorni non mi sento molto bene… Ho sempre,” uno sbadiglio, “sonno, riesco a stento a… tenere gli occhi aperti. Uno di questi giorni,” un altro sbadiglio “penso che… andrò al San Mungo per una visita.”
Harry la stringe come se potesse rompersi. Non che ci speri.
“Tranquilla, davvero. Vuoi che ti prepari la tua tisana?”
 
*
 
“Tutto ciò che posso dirti è che–” Harry inspira profondamente, “stai cercando nel posto sbagliato.”
“Com’è possibile?” Tom indossa ancora la sua maschera di ragazzo educato, ma per Harry è vetro: non deve neanche sforzarsi per vedere un lampo di fastidio, “Ho consultato ogni cartella nell’Archivio degli studenti di Hogwarts a partire dall’anno scolastico 1840-1841; ho controllato le liste degli studenti in visita da Durmstrang, Beauxbatons, e persino da scuole oltreoceano: non c’è nessun ‘Tom Riddle’.”
“Esatto,” non vuole guardarlo negli occhi, “nel posto sbagliato.”
Harry sente la tensione rendere l’aria più spessa e si arrende all’evidenza. Dovrà rovinare tutto e vorrebbe non sentire quel piacevole guizzo di anticipazione lungo la schiena. [Tom capirà che Riddle è solo un verme, una nullità – Tom capirà di meritarsi un padre migliore]
“Cosa sai di tua madre, Tom?”
Se Tom è spiazzato, non lo dà a vedere.
La sua risposta suonerebbe cortese e noncurante, se solo non ci fosse una sfumatura feroce,
“È morta,” come se spiegasse ogni cosa. È morta quindi doveva essere fragile e debole quindi doveva essere Babbana, o una Mezzosangue, o qualcosa di sudicio che Tom vorrebbe strapparsi via dalle vene.
Harry vorrebbe consolarlo, dirgli che non c’è nessuna vergogna nell’avere una madre morta. Lui, trattiene una smorfia derisoria, lo sa bene.
“Mi ha lasciato in un orfanotrofio Babbano perché pensava che fossi,” disgustoso, sbagliato, “come lei.”
“Ti ha lasciato in un orfanotrofio Babbano perché non era sicura che tu avessi ereditato alcun potere.”
“È quello che ho appena detto,” lo fulmina, anche se una parte di lui non ne è del tutto convinta; prosegue, “Mi ha chiamato ‘Tom’, come mio padre,  ‘Orvoloson’, come suo padre, ed è morta.
“Tom,” Harry comincia a dire, ma la mente di Tom è troppo veloce, troppo razionale, la conclusione logica lo attraversa come una scossa–
Tom lo interrompe, ha i pugni serrati e le ossa delle nocche visibili sotto la pelle tesa,
“No. Non devi–” è la voce di Lord Voldemort, improvvisamente, le mura vibrano di rabbia, “non devi mentirmi, Fantasma.”
“Non ti sto mentendo.”
Harry usa il sorriso dolce che rivolgerebbe ai suoi figli,
“Tuo padre non è chi vorresti, ma non è poi così importante – dimenticatelo. Non hai bisogno di trovarlo. Tu non sei ‘Tom’: tu sei tu, no?”
Tom lascia la Stanza delle Necessità senza voltarsi e Harry sospira, mentre la realtà del ricordo svanisce per lasciarlo solo e vecchio in una casa vuota.
 
*
 
Orvoloson Gaunt,” Tom posa un volume rilegato sul letto dell’orfanotrofio e preme l’indice sulla linea d’inchiostro che forma un albero genealogico, “una famiglia antica, i Gaunt.” La sua espressione è illeggibile, parte del calore nella sua voce è scomparso, mormora tra sé e sé, “Il sangue di Serpeverde.”
 
Ogni tanto, tra le pareti scrostate della vecchia camera dell’orfanotrofio, Tom lo bacia.
Ogni tanto, seduti sul letto sfondato, Tom gli dice Grazie, e Harry sa che significa Non sei forse qui perché tieni a me? Per questo c’è un’ombra di disprezzo, Non sei forse qui perché mi ami?.
 
Harry si lascia manipolare perché è solo un Fantasma e non c’è nessun crimine quando la vittima è consenziente.
 
I ricordi si muovono a passo costante verso la strage, con la lentezza dell’inevitabile.
“Little Hangleton,” dice Tom, in un ricordo di fine giugno. Tra poco la scuola finirà, e sarà libero di agire. “I Gaunt abitano in un paesino che si chiama Little Hangleton, vicino a Great Hangleton.”
“Tom, non sei obbligato–”
“Andrò a visitarli.”
Harry si ricorda il cimitero di Little Hangleton, la statua corrosa di un angelo; il calderone, la figura grinzosa di un neonato con occhi da serpente. Ossa del padre, così cominciava. Harry potrebbe cercare di fermarlo.
“Ci sarò, se te ne ricorderai,” dice.
Tom non capisce, ma non gli importa più capire.
 
*
 
Harry pensa di sapere cosa aspettarsi quando versa la fiala che ha come etichetta “16 agosto 1943”.
 
Si sbaglia.
 
Perché il ricordo è rotto, è in frantumi, e Harry sente un uragano di schegge e colori piantarsi nel suo petto dove l’Horcrux brucia con un’intensità che lo fa tremare. La prima cosa che vede è il cielo – è indaco, denso, estate e profumo ocra di campi di grano; ma il cielo diventa un soffitto sporco, ragnatele e insetti morti. Vede il volto incrostato e gli occhi iniettati di sangue di un uomo, di Orfin Gaunt, e il disgusto distaccato di Tom, un anello con una pietra nera incastonata, la voce di Orfin sibilare, “Assomigli moltissimo a quel Babbano.” C’è una villa, lontana, vicina, davanti a loro; un prato seccato dal sole di luglio e un sentore dolciastro di marcio e il rumore chiaro di un campanello.
“Sono vostro nipote,” Tom annuncia a una coppia di anziani con lineamenti aristocratici, e poveri stolti non capiscono, non capiscono che è una domanda ed è una minaccia.
“Tom? Tom Riddle?”
L’ingresso è buio e Harry vede la luce dei candelabri sfrecciargli davanti in una scia confusa di bagliori, che lo portano in una sala da pranzo – che lui conosce, davvero, ci ha visto un uomo morto, tempo prima, divorato da un serpente, e la cicatrice bruciava e bruciava, ma ora no; Harry si sente benissimo, si sente i nervi in fiamme e si sente vivo, come Tom. Tom che ha già deciso cosa succederà, Tom che non ha mai ucciso prima, Tom che ha solo visto morire; ma ora Tom sarà l’artefice e ha i muscoli del braccio già tesi pensando ai movimenti fluidi della bacchetta e ai corpi di quei luridi, sporchi Babbani quando scivoleranno senza vita sul tappeto persiano.
Vede espressioni sbigottite e espressioni di terrore, ma nessun urlo; Avada Kedavra è un fruscio leggero nei corridoi deserti della villa; Harry ha già assistito a questa scena, un padre e una madre davanti a un figlio, per proteggerlo, e un padre e un madre con gli occhi spalancati, morti.
“V-vattene, ti c-conviene andartene… non chiamerò la p-polizia ma- ma, ti p-prego,” Tom Riddle sarebbe il futuro di Tom se Tom non fosse un mostro: cinquantenne, mediocre, un parassita tremante che punta un fucile carico contro un ragazzo armato di bacchetta.
Meno male che Tom è un mostro.
 
Tom sorride, sorride davvero, e Harry sorride con lui – e Tom Riddle Senior balbetta stringendo il suo fucile, circondato dal suo sfarzo e i suoi quadri con cornici barocche. Tom lascia che i suoi occhi si posino su di lui, sul suo Fantasma, prima di dire con falso rammarico,
“Expelliarmus.”
Il fucile abbandona con un arco aggraziato le mani di suo padre per schiantarsi contro un muro, e Tom ha tutto il tempo del mondo.
 
Quando Harry sbatte le palpebre, nella stanza non rimane nessuno. Se non i cadaveri della famiglia Riddle esposti sulla tavola come un banchetto, se non Tom che lo sta baciando con ferocia, ed Harry pensa quasi che sia sincero, non c’è alcun motivo di mentire in una stanza che profuma di morte; Tom lo sta baciando fino a fargli sanguinare le labbra e Harry pensa quasi che non ci sia niente di male nel baciare un figlio dopo aver ucciso un padre, affonda le sue dita da fantasma nei capelli scuri di Tom, e si sente estasiato, e [non pensa alle foto sul comodino, è un ingrato] si sente felice.
 
“Avrò bisogno di un nuovo nome,” dice Tom, prima che i contorni del suo volto si facciano sfocati.
 
*
 
Lo guarderò mentre ascolterà la profezia, Harry riflette, osservando una macchia di sporco sul finestrino del treno, lo guarderò strapparsi l’anima, lo guarderò marchiare i Mangiamorte, lo guarderò uccidere innocenti.
Harry non interverrà, nessuno gli chiederà di farlo; resterà immobile perché potrà farlo e guarderà due guerre aprirsi come fiori.
Lo guarderò uccidere i miei genitori, pensa e vorrebbe sentire qualcosa, vorrebbe sentirsi disgustato, essere di nuovo un Grifondoro e lottare – ma sul treno che lo porterà a casa non ha nessun Horcrux, non ha nulla nel petto, se non un cuore inutile.
Lascerò che mi baci nella camera da letto dei miei genitori.
 
[non pensa mai al giorno in cui le fiale finiranno]
 
A salutarlo all’ingresso di casa non c’è nessuno, solo le fotografie sorridenti appese al muro.
Ginny non è in cucina; Ginny non è in salotto, non è seduta sul loro nuovo divano; Ginny non è in nessuno dei due bagni, non è nella loro camera da letto. Harry si sente la mente completamente bianca mentre apre la porta dello studio.
 
Ginny, chinata sulla sua scrivania, sta riponendo le fialette in una scatola.
“Cosa stai facendo?”
“Secondo te cosa sto facendo,” sibila Ginny e, quando si volta, Harry nota che ha il viso chiazzato di pianto e gli occhi iniettati di sangue.
“Sono andata dal medico, sai, Harry?” chiude la scatola e l’appoggia con violenza di fianco al Pensatoio, “non mi sentivo bene, ricordi; e sai perché?”
“No, non lo so,” Harry vorrebbe provare disgusto, nausea.
“Perché qualcuno,” la sua voce si rompe ma Harry sa che Ginny non lascerà che lui la veda piangere, “qualcuno mi stava drogando. Qualcuno stava sbagliando le dosi–” Harry la osserva lottare contro parole che non sa come dire, la guarda mentre, con le mani che tremano dall’isteria, estrae da una tasca un’ampolla di Distillato Soporifero.
“Era nel cassetto, Harry. Era nel cassetto, non hai neanche cercato di nasconderla; mi credi così stupida?” soffoca un singhiozzo e getta l’ampolla sulla scrivania, “Nella tisana? Me lo mettevi nella tisana!” Ride, ed è una risata che dovrebbe farlo rabbrividire, perché è vuota e morta.
Harry annuisce.
Vorrebbe dirle che gli dispiace, e crederci.
“Pensavo che– pensavo che avessi un’amante. È da un po’ di mesi che sei strano. Pensavo che… non lo so: che ti chiudessi in studio e poi ti Smaterializzassi da qualche parte, e non volessi farmelo sapere.”
“E invece si è sempre trattato di queste,” indica la scatola, “di questo.
Ginny solleva il Pensatoio: è pesante, fa fatica a reggerlo, perché è ancora indebolita dal sonnifero; ma la rabbia le tiene i muscoli tesi e la mascella serrata. Qualcosa cambia nel suo sguardo quando nota che il ricordo sul fondo del bacile è un grumo mostruoso di fumo. Mormora,
“Se è per lavoro, Harry, se tutto ciò che hai fatto è per lavoro, ti chiedo– ti prego di non lasciare che entri più in questa casa.”
Harry sente un guizzo di rabbia contrarsi tra le costole. Ginny non può, non deve permettersi di rovinare tutto ciò che lui ha sbagliato.                                
“Di’ qualcosa.”
“Ginny, dammi il Pensatoio.”
Una smorfia patetica le deforma il viso, “È tutto quello che hai da dirmi?”
Non c’è niente in lei, Harry riflette, della donna che ha sposato.
“Cosa ti è successo, Harry?”
Harry è veloce, attraversa a grandi falcate la distanza che li separa e posa le proprie mani [le sue dita da fantasma] su quelle della moglie,
“Lasciami il Pensatoio, per favore.”
Ma Ginny singhiozza più forte e cerca di strapparsi via, via dalla sua morsa, anche se Harry stringe e tira – e il vero problema è che cominciano entrambi ad essere vecchi e il Pensatoio è pesante, e il Pensatoio cade.
È un’esplosione di fumo nero che riempie la stanza, che gli entra negli occhi e nel naso e in bocca, che è Tom e ogni singolo istante che abbiano mai vissuto insieme e rumore di conchiglie rotte; che svanisce dopo pochi secondi, senza lasciare tracce.
L’aria dello studio è chiara, pulita, satura del profumo di cannella dei capelli di Ginny.
Harry per un attimo pensa che non parlerà mai più. Non ci saranno più parole. Non si muoverà più.
Poi, qualcuno che non è lui, una parte fredda ed estranea nella sua mente, costringe il suo braccio ad alzare la bacchetta.
“Harry, mi dispiace, mi dispiace… H-harry?”
Non sa cosa Ginny abbia visto sul suo volto, ma la sta facendo tremare.
Non ha una bacchetta con sé, e il sonnifero le vela ancora gli occhi. Non ha niente con cui difendersi.
Harry sta già dimenticando tutto: il calore bianco dell’Horcrux, le sensazioni che riverberavano per l’aria, le labbra di Tom contro le sue, il dolore pungente di quando si è tagliato con una scheggia di conchiglia. Non potrà più rivivere alcun ricordo, e non è forse il primo passo del dimenticare?
La mano che stringe la bacchetta è serrata, e sul dorso ci sono le prime macchie del fegato, le ossa delle nocche visibili sotto la pelle tesa; sulla punta della lingua ha un anatema, ma non sa ancora quale, non conosce ancora le conseguenze.
“CHE CAZZO STAI FACENDO?”
Harry si volta e alla porta dello studio c’è Albus, con la bacchetta puntata contro di lui,
“Expelliarmus!”
L’unica cosa che Harry riesce a pensare, sentendo la luce colpirgli come un pugno il petto, sentendo il proprio corpo attraversare l’aria, è che Albus ha eseguito l’incantesimo nel modo sbagliato. Non ha imparato nulla, vorrebbe ridere. Un Expelliarmus corretto non è uno Stupeficium, non dovrebbe far schiantare l’avversario contro la scrivania, con un rumore di vetri rotti – con un rumore di fiale rotte?
Ginny sta urlando qualcosa, un vago vapore bianco [sono ricordi] gli serpeggia davanti agli occhi, e Albus lo sta fissando con disgusto e determinazione, un vero Grifondoro. Ha venticinque anni, Harry nota con una calma surreale, nonostante abbia frammenti di vetro piantati nelle dita sanguinanti e la scatola con le fiale giaccia in pezzi sotto di lui, ha i miei occhi, mi assomiglia, qualcuno potrebbe scambiarlo per me.
Non sente più alcuna rabbia, non c’è più niente che possa farlo rialzare.
 
 
Davanti a lui, una madre dai capelli rossi che singhiozza, abbracciata al figlio che ansima ancora per aver sconfitto il grande Nemico con l’incantesimo sbagliato. Se Albus è lui, si chiede l’uomo raggomitolato su un cumulo di fiale rotte, lui chi deve essere?
È solo allora che comincia a piangere.
 
 
“Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace,” soffoca i suoi singhiozzi nell’abbraccio di Ginny, e sente la sua mano tra i capelli.
L’ha già perdonato, anche se negli occhi ha ancora del rancore.
Albus li guarda con angoscia, e mormora,
“Io aspetto fuori.”
Ginny sospira come una madre e lascia che le bagni la camicia di lacrime,
“Lo so che ti dispiace, Harry.”
 
*
 
Dovrebbe sentirsi veramente, veramente grato.
Perché solo una famiglia perfetta è capace di dimenticare gli errori – di andare avanti come se non fosse successo nulla.
È tornato tutto come prima.
Ginny ha pulito lo studio, ha riparato le fiale, le ha riempite di suoi ricordi e le ha sistemate in ordine di etichetta in una nuova scatola, in modo che lui possa riportarle all’Archivio. Nessuno se ne accorgerà.
 
Così, come sempre, si alza, si veste, si lava, si guarda allo specchio, saluta Ginny, ed esce di casa reggendo la scatola.
Dovrebbe sentirsi veramente grato, perché ha un lavoro che ama, e tutti lo rispettano – è un modello per tutti, sì, perché prende il treno ogni singola mattina per mostrare quanto sia facile adattarsi alle abitudini babbane, l’inizio dell’integrazione.
Dopo aver lavorato, prenderà una Burrobirra con Ron.
 
Non pensa a nulla. Pensa al bianco, come le pareti di una stanza bianca. Ha un grande silenzio, in testa.
Solo, a un certo punto, davanti all’inizio dei binari, una voce profonda dentro di lui ruggisce, come un’epifania,
Nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive.
 
Con le sue dita da fantasma, stringe la scatola di fiale piene di ricordi sbagliati.
Sente il rumore del treno e, guardando le rotaie, sorride. Sono le nove e dieci.
 
*
 
Tutti lo pensano.
 
Qualcuno, a volte, lo fa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
Note (per Mary, o per chi ha tempo da perdere):
 
 
Oddio, non ci credo, è finita. Scrivere le note mi fa stranissimo, perché questa è una di quelle storie che davvero pensavo di lasciare incomplete e poi cancellare tra qualche mese.
Allora, so che ci sono parecchie cose da spiegare, spero di non dimenticarmene nessuna: la più importante è, ovviamente, la questione del Pensatoio. I ricordi non hanno nessuna strana maledizione e Voldemort effettivamente non era riuscito nei suoi esperimenti – e allora perché Harry può modificarli e sentire le sensazioni di Tom? Perché sì. Lascio che sia la mia Alicia Florrick interiore a spiegare: perché Harry ha avuto un Horcrux dentro di sé ed è un po’ come un arto fantasma, fa parte della visione che Harry ha di se stesso; diciottenne e Horcrux-munito. Così il ricordo sia gli fornisce il “materiale” per riempire il buco lasciato dall’Horcrux, sia diventa un suo ricordo, perché Harry-Horcrux e Tom sono parzialmente la stessa persona; per questo può sentire le sue sensazioni e vedere il mondo dal suo punto di vista, perché sta rivivendo un passato che in realtà non ha mai vissuto. I ricordi diventano neri perché Harry, con la continua intrusione della sua mente, altera la struttura stessa del ricordo, lo rende pesante e “sporco” di realtà (perché i ricordi sono più come vapore, sono leggeri, mentre il presente vissuto è molto più denso). Giuro che aveva senso mentre lo pensavo.
Altra cosa: so che l’hai capito, ma – tanto per evitare fraintendimenti – sì: Harry a fine storia si suicida. Altra altra cosa: l’impulso di buttarsi sulle rotaie è veramente normale, o di lasciarsi cadere guardando un precipizio – è l’appel du vide, cioè il ‘richiamo del vuoto’ (che doveva anche essere il titolo della storia, ma poi nahhh), ed è un meccanismo psicologico comunissimo. Poi, che altro… be’, il mio modus operandi ormai lo conosci! La punteggiatura impazzita, le parentesi quadre per i pensieri inconsci, punteggiatura assente e parole attaccate nelle parti più deliranti. Tom non usa i punti interrogativi perché è troppo tRasGre. E l’Harry di questa storia è un tipo tutto ‘e… e… e’ (spero non diano troppo fastidio) e usa come intercalare “davvero”, un po’ come Ginny in Anthurium aveva un pensiero tutto a virgole e continuava ad usare “dopotutto”. Sì, mi faccio queste seghe mentali. Ma in questo caso ha senso, non so: vedo questa storia come la versione speculare di Anthurium – ha abbastanza punti in comune per essere l’esatto opposto – ed anche, per chi l’avesse letta, una versione parallela de’ La seduzione del sottosuolo.
All’inizio avevo pensato di inserire un colpo di scena– bo’, Tom che in realtà ha calcolato tutto, che si libera e diventa l’oscuro Lord dell’universo, che ha qualche asso super-malvagio nella manica, ma sarebbe andato contro lo spirito della storia, cioè che in realtà non succede assolutamente niente. Perché in fondo Harry è già morto, all’inizio. Le prime due frasi che ho scritto sono state i due “Tutti lo pensano”, quello che sta in mezzo è una distrazione.
Sul rapporto Tom/Harry sarò brevissima: è doppiamente one-sided. Interpretatelo come volete. Queste note stanno venendo troppo lunghe, odio.
Concludo insultandomi un po’, perché non mi piace come l’ho scritta blabla (la trama è stupida e non dirò che non so scrivere solo perché non voglio che Mary mi picchi) temo che Harry sia OOC blabla (la mia scusa è che è passato tanto tempo, e la depressione fa questo è altro), MA, per la prima volta nella vita, sono piuttosto soddisfatta di tutti quei “fili” che scorrono sottopelle alla trama, le situazioni che ritornano e le parole già dette e le dita da fantasma che sbucano in vari punti riassumendo un po’ tutta la storia.
So che ci sono un sacco di altre cose che dovrei chiarire, ma l’unica cosa che mi viene in mente è che ho scritto tutte le scene con Tom adolescente ascoltando Bubblegum bitch (ahahah mi dispiace tantissimo). Mandami pure un MP se hai domande.
 
Ps: è Pasqua e ho appena pubblicato una storia in cui un cinquantenne bacia il fantasma sedicenne del suo nemico morto davanti ai cadaveri dei genitori. Mi sento realizzatissima. <3
 

 
 
 
 
 
  
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