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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    29/04/2014    3 recensioni
[Crossover Harry PotterOnce upon a timeDisneyDragon TrainerLe 5 leggendeStand by meSherlock]
Emma Swan non crede nella magia.
Emma Swan non crede assolutamente alla magia.
Allora come è finita nella Scuola di Magia più famosa dell'Inghilterra?
[Partecipa al contest a turni "Un anno speciale a Hogwarts" indetto da Dragone 97]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4, II guerra magica/Libri 5-7
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Emma Swan imprecò contro tutti i Santi, tutti i Patroni e tutti i Martiri che le suore le avevano nominato in undici anni di dolorosa convivenza.
“Che diamine!” sbottò, mentre la centesima bacchetta (o almeno così parve a lei) le passò tra le mani senza produrle altro che irritazione.
Olivander, col suo sorriso di convenienza e gli occhi ormai spenti di chi vuole solo levarsi un cliente dalle scatole, sospirò condiscendente e disse quasi meccanicamente “Non preoccuparti, cara, troveremo qualcosa per te”.
Emma si chiedeva perché diamine qualsiasi cosa venisse a contatto con lei facesse sempre fatica a sceglierla: i suoi genitori si erano rifiutati di tenerla, preferendo al crescerla abbandonarla malamente sul ciglio di una strada, almeno tre famiglie se l’erano già passata come fosse stata una palla con cui giocare e ora perfino una dannatissima bacchetta non voleva unirsi a lei. Non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di sbagliato in lei.
In fondo, non era poi così orrenda alla vista: una ragazzina minuta dallo sguardo perso, i capelli biondi che le ricadevano morbidi sulle spalle e il nasino all’insù a completare un quadretto di bambina perfetta alla Shirley Temple, tanto graziosa che qualunque adulto dotato di un cuore avrebbe dovuto, teoricamente, sciogliersi al solo vederla.
Teoricamente.
Praticamente Emma aveva già fatto innervosire tre famiglie col suo temperamento “assurdamente freddo” e “pretenzioso”, che ben poco si addicevano a un viso tanto amorevole.
All’orfanotrofio la chiamavano “l’inafferrabile Emma”: secondo quell’idiota di Wanner era lo “scarto” che nessuno avrebbe mai voluto, la bambina che, qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe stata rifiutata per sempre e lasciata a marcire in un angoletto. E sebbene Emma si costringesse, con incredibile forza d’animo, a non ascoltarlo e ad ignorarlo, non poteva scacciare dalla sua mente l’idea che gli anni stessero passando. Che ormai ne aveva già undici. E che nessuno avrebbe mai voluto adottare una ragazzina così grande. E che più passava il tempo più le probabilità di rimanere in orfanotrofio fino ai diciotto anni diventavano orrida realtà.
Wanner se n’era andato via due settimane prima, con una signora con la puzza sotto il naso, vestita di una pelliccia d’ermellino e con al guinzaglio un cane basso e straordinariamente brutto. Chissà perché, Emma aveva avuto l’impressione che ci sarebbe stato benissimo, Wanner, con quella lì.
“Proviamo con questa!” esclamò Olivander eccitato, neppure Emma sapeva per cosa: appena le infilò la bacchetta tra le mani le venne voglia di infilargliela in un occhio, tanto provava repulsione verso quello stecchetto di legno.
“Non è lei” sentenziò senza neppure provare un incantesimo e porgendola con la massima delicatezza al negoziante.
“Oh, ma come fai a dirlo, cara?” chiese lui, gentilmente, con il tono di chi parla a un bambino di tre anni. Le fece salire una rabbia assurda. “Non hai neppure provato…”
Emma gliela porse tendendo la minuscola mano di bambina e tremando tutta nel tentativo di non ficcargliela nel naso o in qualche altro posto. L’orfanotrofio e la sua atmosfera carica di malignità non le aveva certo giovato. Come anche tutte le sconcezze che risuonavano per quei corridoi.
“Non la sento mia” spiegò semplicemente, senza aggiungere altro.
Il fabbricante si limitò ad alzare le spalle, vagamente rassegnato, e borbottò un “Come vuoi”.
Non ne era certa, ma le parve di udire una lieve punta di rabbia nella sua voce. Probabilmente era solo la sua mente che le faceva brutti scherzi: aveva imparato a non fidarsi di nessuno, Emma, perché nessuno si era mai dimostrato degno di fiducia.
Certo, alla prima famiglia si era affidata con tutta l’anima e il cuore, innocente bambina col cuore ancora integro sebbene sgualcito.
Poi era arrivata la seconda. E Emma aveva lo sguardo vitreo e sospetto di chi non sa cosa aspettarsi dagli altri. Ma alla fine anche a loro, sebbene più titubante, si era affidata, speranzosa, piena di fede.
Infine la terza. Emma aveva il cuore a pezzi e lo sguardo vuoto e privo di vita. Non aveva neppure provato dolore quando l’avevano rispedita in orfanotrofio. Non aveva provato niente.
“Coraggio, Em!” si affrettò a esclamare quella specie di gigante tentando di tirarla su di morale. “Vedrai che la troviamo una bacchetta adatta a una piccolina come te!”
La bambina si girò con uno scatto  e lo fulminò con uno sguardo, sussurrando a denti stretti:
“Non… Chiamarmi… Em”.
Hagrid parve recepire il messaggio, perché abbassò diventando di un rosso paonazzo lo sguardo sotto i suoi occhi di ghiaccio.
“Scusa…” le parve di sentirlo borbottare, mentre Olivander le porgeva l’ennesima bacchetta.
In fondo, si disse, il gigante era a posto: l’aveva portata fuori da quel postaccio, e già questo sarebbe potuto essere abbastanza per portarla a fidarsi. Ma Emma aveva imparato che era meglio non abbassare la guardia fino alla fine, fino a quando non fosse stata certa che fosse una persona a cui potesse davvero aggrapparsi.
“Che cosa stupida” sussurrò stringendo i denti, agitando a vuoto la bacchetta con tanta foga che per un istante quasi la ficcò davvero nell’occhio del fabbricante.
Hagrid sbuffò mesto.
“Beh, con cosa credi di fare incantesimi a scuola, allora?”
Emma alzò gli occhi al cielo, seccata.
“Ma per favore…”, Olivander gli strappò il bastoncino tra le mani prima che combinasse guai. “Vuoi dirmi che esiste DAVVERO una scuola di magia?”
Il gigante sussultò e rispose, punto sul vivo:
“Ma certo che esiste!”
Emma sbuffò scettica.
“E ti dirò anche di più!” esclamò, alzando un pollice grosso quanto una salsiccia. “È in assoluto la miglior scuola di magia a cui tu potessi essere iscritta, ragazzina!”
Emma si girò verso di lui, lo sguardo incendiato di furore e chiese, con tono sarcastico:
“Ah, davvero? E dimmi, se la magia esiste, esiste anche il Coniglio di Pasqua?”
Hagrid divenne pallido per un istante, poi tentò di ridarsi un contegno e tossì malamente.
“Io… Io credo che quando arriviamo a scuola… Poi vediamo… Se non mi credi… Quando arriviamo a scuola”, balbettò, sembrando sul punto di mettersi a piangere. Farfugliava in un modo così confuso e turbato che per un istante a Emma scappò un sorriso divertito.
Solo per un istante.
“Forse… Questa?” tentò Olivander con cautela.
Emma però non mosse nemmeno il polso: aveva lo sguardo rivolto verso una minuscola scatolina nei ripiani più bassi di uno scaffale. Una scatolina all’apparenza comune, di un nero sbiadito triste e avvilito. Sembrava essere lì da molto tempo. Orfana come lei di un padrone.
Il fabbricante rimase per alcuni istanti interdetto dal suo sguardo vuoto, poi intercettò la direzione dei suoi occhi e notò la scatola che aveva attirato magneticamente la sua attenzione.
“Oh” esclamò, avvicinandosi ad essa con passo svelto. “Mi chiedo come abbia fatto a non pensarci prima” disse, come in tono riparatorio.
Emma però neppure lo sentì: fissò le sue mani armeggiare nervose sulla scatola ed estrarre, con movimento elegante, la bacchetta che vi era all’interno.
Nell’istante in cui la vide, ancora prima che Olivander gliela mettesse in mano, capì che quella era sua.
Strinse automaticamente le mani intorno al ruvido legno, con una tale delicatezza che si sorprese lei stessa, e il contatto le causò quasi un brivido freddo lungo tutta la spina dorsale. Emma richiuse gli occhi, appagata: era la sua bacchetta.
“Ah, bene!” esclamò il fabbricante, facendola risvegliare con un sussulto dallo stato catatonico in cui era caduta. Prima che se ne accorgesse, le fu strappata di mano la bacchetta, e Hagrid esclamò, felice:
“Congratulazioni, Emma!”
“Otto pollici, abete, nucleo di piume di fenice, mediamente flessibile! Mi chiedo davvero perché non ci abbia pensato!” declamava intanto Olivander, il cui viso era aperto in un sorriso così sincero e gioioso che Emma non se la sentì di guastargli l’umore con qualche battutaccia.
“Abete, eh, Emma?” commentò Hagrid, nel tono di chi cerca di fare colpo fingendosi esperto di qualcosa di cui è invece completamente ignaro.
“Le chiamano ‘bacchette del sopravvissuto’” spiegò Olivander, riponendola con cura nella scatola e dirigendosi al bancone.
Un “Wow” sincero le scappò dalle labbra, e Hagrid parve gongolare lievemente: era la prima volta che la bambina si mostrava sinceramente stupita per qualcosa che avesse visto da quando aveva lasciato lo spoglio edificio in via Kensington Garden numero 15 a Londra.
“È una bacchetta decisamente importante” commentò, tentando magari di stupirla ancora di più, passandole la scatoletta da dietro il bancone. Ma Emma non accennò ad alzare le sopracciglia o qualsiasi cosa quello psuedo fabbricante e quel cipresso si aspettassero: afferrò con uno scatto ciò che Olivander le porgeva e lo strinse con uno scatto possessivo, senza rivolgergli un sorriso.
“Grazie” borbottò solo, guardandolo negli occhi spazientita. Aveva sprecato almeno un secolo in quella bettola per qualcosa che non le sarebbe mai servito, e non intendeva rimanere lì un altro istante.
Senza dire una parola, si voltò e uscì dal negozio, sbattendo con quanta forza aveva la porta.
Diagon Alley era particolarmente gremita quel giorno, e lo spettacolo che le si parava davanti era tanto astratto quanto attraente: vesti dei colori più fantasiosi le si presentavano davanti, e cappelli a punta si stagliavano fieri sulla testa dei proprietari. Emma pensò con un sbuffo che nel mondo normale, il mondo in cui non esisteva la magia, il mondo in cui la gente non se ne andava in giro con civette appollaiate sulle spalle, il mondo in cui non esistevano negozi assurdi come quello da cui era appena uscita, tutto questo non sarebbe mai stato accettato.
Forse doveva rassegnarsi al fatto che ormai quello fosse il suo mondo “normale”.
“Ehi… Ehi, aspetta!”
La voce di Hagrid le arrivò all’orecchio, lievemente soffocata, come se avesse fatto una gran corsa per raggiungerla all’ingresso.
Emma puntò lo sguardo a terra, sperando che la sua indifferenza lo desistesse dal proposito di far conversazione. All’orfanotrofio funzionava sempre.
“Perché te ne sei andata in quel modo, dico?” chiese il gigante che l’aveva raggiunta. Doveva essere più o meno alla sua destra, perché il lato di strada alla sua sinistra, quello che stava fissando, si era improvvisamente oscurato.
Emma intrecciò lievemente le mani, continuando a stringere la scatoletta con fare quasi affettuoso.
“Non sei stata molto cortese, sai?” continuò lui, come se stesse parlando con una bambina di tre anni. ODIAVA gli adulti che le si rivolgevano come se non riuscisse a capire la loro lingua.
“Lo so” rispose la bambina, in un tono neutro e freddo: non doveva certo spiegazioni a lui. Era stata trascinata fuori dall’orfanotrofio da una specie di gigante con la scusa che “Era iscritta a una scuola di magia”, era stata portata come un bagaglio in quel posto pieno di gente che evidentemente credeva fosse Carnevale ed era rimasta in quel dannatissimo negozio per tre quarti d’ora per comprare una cosa assolutamente stupida. Quella era decisamente la giornata più strana della sua vita.
“Allora perché te ne sei andata così, scusa?” insistette lui, senza dare cenni di cedimento.
Emma alzò gli occhi al cielo, visibilmente seccata.
“Senti, potremmo stare qui a parlare della mia maleducazione tutto il giorno, OK?” esclamò, nel tentativo di scrollarselo di dosso. “MA non abbiamo tutto il giorno!”
Sentì Hagrid ridacchiare accanto a lei e per un istante la rabbia montò prepotente. Ma Emma decise che aveva decisamente fatto abbastanza per quel giorno.
“Sei proprio una tosta, eh?” commentò il gigante, spingendola gentilmente (o quanto gentilmente poteva fare) in mezzo alla folla. Emma teneva lo sguardo basso, quasi timorosa di incontrare quello di altri. Tra tanti altri ragazzini che quel giorno affollavano le strade di Diagon Alley, lei passava quasi inosservata, ma sfortunatamente per lei Hagrid non era altrettanto invisibile: almeno cinque o sei tizi col cappello a punta guardavano il suo accompagnatore con gli occhi stralunati. Emma si trovò a chiedersi chi nella Londra “Babbana” avrebbe fatto più scalpore: quel gigante o un’intera folla di cosplayer?
“E ostinata, anche” continuava Hagrid imperterrito, ridacchiando ogni tanto tra sé e sé. Emma teneva ancora lo sguardo basso, le mani intorno alle braccia nude e le dita serrate sulla scatolina in cui giaceva la sua bacchetta.
“Ce lo dico a Silente, che quando arrivi ad Hogwarts vieni smistata in Serpeverde! Ci scommetto! Cocciuta come una Serpeverde, proprio!”.
La bambina aveva smesso di ascoltarlo ben prima, ma d’un tratto fu come riscossa dai suoi pensieri da quella parola.
“Cos’è un Serpeverde?” domandò, incuriosita. Un’anziana donna le andò a sbattere contro, e Emma fece appena in tempo a vedere che stringeva al petto un enorme rospo bitorzoluto.
“Ooh… Non ti ho detto della divisione in Case, vero?” domandò Hagrid, in un tono lievemente imbarazzato.
La bambina scosse la testa, tenendo lo sguardo costantemente basso, nel timore di calpestare qualche mantello o di vedere altri rospi o creature mostruose: ci teneva davvero poco.
“Oh… Beh…” si schiarì la voce con un colpetto di tosse. “Sono certo che la McGrannit ti spiega tutto, sai… Io non sono la… Persona più adatta”, spiegò, in tono imbarazzato e impacciato, come se stesse esponendo qualcosa di complicatissimo e intricato.
Emma alzò le spalle.
“Per me va bene” commentò, senza aggiungere altro.
Ancora una volta, strinse un pochino di più la scatoletta, con un gesto quasi automatico: poteva anche essere una cosa infantile, ma quella bacchetta era la prima cosa che fosse davvero sua.
Lunghi istanti passarono, prima che Hagrid le rivolgesse di nuovo la parola. Sembrava quasi non volerle parlare, tanto lo sentiva teso accanto a sé. Non che per lei fosse un problema.
“Tu non ci credi che Hohgwarts esiste, eh?” domandò, con un tono tra lo sconsolato e il supplice. Lo stesso che i genitori usano per convincere i figli ad andare a scuola.
O meglio, quello che lei immaginava fosse il tono usato dai genitori per far andare i figli a scuola.
“Io non credo nella magia” minimizzò Emma, sottintendendo “Passo e chiudo”: quella conversazione era decisamente imbarazzante.
“Perché no?” chiese Hagrid, deciso a non mollare. “Insomma… Non puoi sapere se una cosa che non vedi esiste o no”.
La bambina richiuse gli occhi, seccata, e disse, con il tono più calmo che poteva assumere:
“Senti, non serve che cerchi di trovare argomenti se non vuoi far andare avanti una conversazione!”
Ci fu un istante di silenzio, e Emma sperò vivamente che il gigante non avrebbe più detto una parola.
“Ma io voglio fare andare avanti la conversazione!” disse Hagrid semplicemente.
Emma alzò lievemente gli occhi e sussurrò, con un fil di voce:
“Davvero?”
Non ricordava di aver mai incontrato qualcuno che fosse ansioso di parlare con lei, né i suoi tre padri e le sue tre madri né tutti quegli scemi dell’orfanotrofio. Perfino le suore la evitavano accuratamente, come se avesse avuto la peste o qualche malattia infettiva: non riusciva a reggere una conversazione che trattasse argomenti del genere “Jenny oggi si è fatta una nuova acconciatura”, e quello era il genere di argomento da orfanotrofio. Oltre che ciò che evidentemente la gente si aspettava le interessasse.
“Sì, certo” continuò sincero Hagrid. “Sei una ragazzina che ha molto bisogno di parlare, sai?”
Emma si decise ad alzare definitivamente gli occhi, incrociandoli con quelli del gigante. Ci mise un po’ per rintracciarli nel faccione burbero, ma quando li riconobbe gli sorrisero cordiali.
In fondo, si disse non era malaccio: l’aveva portata via da Kensington Garden e ora stava anche facendo conversazione con lei.
Si lasciò scappare un sorriso anche lei.
“Beh… Grazie” disse solo, senza sapere cosa altro aggiungere: non era brava coi discorsi. Non lo era mai stata.
Hagrid sorrise divertito.
“Sei una di poche parole, eh?” commentò, continuando a farsi largo nella folla di Diagon Alley e dirigendosi deciso verso un negozio con alcuni calderoni esposti in vetrina. “Però quando parli o dici cose cattive o parli bene”.
Non se ne accorse, ma a quel affermazione a Emma scappò un altro sorriso: di sicuro era la definizione che più le si addiceva.
“Scommetto sulla barba di Silente che ti smistano in Serpeverde”, lo sentì borbottare mentre gli apriva la porta e la faceva entrare nel negozio.
 
“OK, passi attraversare un muro per arrivare a una stazione, passi prendere un treno per una scuola che non esiste, passi scoprire che quella scuola EFFETTIVAMENTE esiste, ma questo è davvero troppo!”
Emma sbuffò contrariata: quel cappello non parlava. Non poteva parlare. Era fisicamente impossibile che un cappello parlasse.
Per un istante incrociò lo sguardo di Hagrid che le sorrideva dal fondo della Sala con un gran sorriso e che, quando notò i suoi occhi posati su di lui, alzò il pollice con un sorrisone.
“Sì… Figuriamoci se riesce a farmi credere a que…”
“Arendelle, Anna!”
La ragazzina che si staccò dal gruppo aveva capelli di un arancione carota e un sorriso imbarazzato mentre percorreva la distanza che la separava dalla sedia. Nella fretta quasi inciampò nella toga che le arrivava ben oltre le caviglie, e raggiunse quella che doveva essere la McGrannit tenendosela su con le mani.
La donna posò con delicatezza il cappello sul capo della piccola, e quello quasi le cadde giù tanto era largo.
Ma dopo soli tre secondi, Emma vide, senza ombra di dubbio, una cucitura sul bordo del Cappello muoversi e decretare, con fare allegro:
“Tassorosso!”
Uno scroscio di applausi arrivò dal tavolo corrispondente, e la bambina si fiondò velocemente verso di essa, con un sorriso sgargiante e allegro.
Ma Emma non vide nulla di tutto ciò: l’unica cosa che vedeva davanti a sé era quel Cappello che apriva la bocca (se così si poteva dire) e parlava.
Parlava.
Il Cappello… Parlava.
“Richiudi la bocca, cara, o ci entreranno le mosche” le intimò un ragazzino dai capelli semi bianchi accanto a lei.
Emma si affrettò a richiuderla con uno scatto, e nella foga si morse la lingua.
“Non può essere” ripeteva la sua mente meccanicamente, una, due, tre volte. “Non esiste né in cielo né il terra che un cappello parli!”
“Corvonero!” sentì.
“No, no, no, no” continuò, stringendo gli occhi convinta.
“Quel…”
“Grifondoro!”
“… Cappello…”
“Serpeverde!”
“… Non…”
“Tassorosso!”
“… Parla!”
Il resto dello Smistamento lo passò a guardare come incantata quel Cappello che veniva posato su teste, apriva la bocca e parlava, veniva posato su teste, apriva le bocche e parlava, veniva posato sulle teste, apriva le bocche e parlava…
Fece ben poca attenzione ai volti che le sfilarono davanti, nervosi, eccitati, tranquilli, poco interessati, annoiati: vide “Fox, Eric” smistato in Grifondoro, un ragazzino tanto mingherlino che quasi le sue gambe non lo ressero in piedi mentre si avviava verso il suo tavolo; vide “French, Belle” diventare ufficialmente una Corvonero; vide“Frost, Jack” (che scoprì essere il ragazzo accanto a lei) mandato al tavolo dei Serpeverde e che, quando le passò accanto, le fece l’occhiolino con una risata; vide “Horrendous, Hiccup” (a quel nome si udì una risata generale e il diretto interessato alzò gli occhi al cielo) accolto dai Tassorosso; vide “Huber, Graham” andare al tavolo dei Grifondoro (le rivolse un sorriso timido prima di sedersi); vide “Landa, Hans” proclamato e acclamato come Grifondoro (Emma notò il bacio che lanciò in direzione di Anna, che diventò rossa come un peperone); vide tanti di quei ragazzi che non avrebbe mai potuto contarli…
Poi, fu il suo turno.
“Swan, Emma”.
La bambina divenne di un bianco cereo, ma si costrinse a trascinarsi a passi lenti verso il Cappello, deglutendo rumorosamente. Sentiva il respiro divenire via via più affannoso e il cuore scoppiarle in petto.
Quel Cappello…
Stava per venirle posato in testa…
E avrebbe parlato.
Il Cappello avrebbe parlato.
Poteva negarlo quanto voleva, ma sarebbe successo.
L’aveva visto succedere almeno un centinaio di volte.
E sarebbe successo anche ora.
Avrebbe parlato.
Quando arrivò allo sgabello, la McGrannit le fece gentilmente cenno di sedersi con un largo sorriso. Sembrava quasi essere abituata a vedere ragazzine con gli occhi sbarrati e il fiato corto. Forse, si disse Emma, un giorno era stata anche lei così.
Si sedette con delicatezza, deglutendo per l’ultima volta.
Poi, il Cappello le calò sugli occhi.
“Oh, andiamo, che sciocchezza” si disse, tentando di farsi coraggio. “Non… Non può mica parlare!”
“Oh, non faccio solo questo, signorina!”. La voce la fece sobbalzare lievemente per la sorpresa sullo sgabello, e servì l’intervento della McGrannit affinché non cadesse ciondoloni giù per terra.
“Io vedo anche nei tuoi pensieri, cara” continuò la voce, profonda e ponderata. Sembrava appartenere a una creatura vecchia di centinaia d’anni, così antica e mistica da non poter essere nemmeno immaginata, una di quelle creature di cui si sentiva solo nelle fiabe che poche volte le avevano raccontato le suore.
“E vedo una grande insicurezza, sai” continuò, imperterrita, come se nulla fosse. Emma continuava a tenere gli occhi sbarrati, mentre tutta la Sala la osservava curiosa.
Non era uno spettacolo affatto piacevole.
“Sei tagliente, certo, e cinica per certi versi…”. Emma si ritrovò a pensare che, se quella era la spiegazione più plausibile che poteva esserci, allora doveva essere proprio il Cappello che stava parlando.
“… E non hai molta fede, vedo!”. Le parve quasi di notare una punta di diniego nel suo tono.
“Ah, bene, ora mi faccio anche rimproverare da un Cappello” commentò sottovoce.
“… Ma non sei cattiva, no…”.
Per un istante Emma provò qualcosa che somigliava a soddisfazione nel cuore.
“… E non vuoi neppure esserlo”.
“Come diavolo fa questo qui?” sussurrò tra sé e sé, tenendo gli occhi bassi per paura di vedere in viso qualcuno dei ragazzi già smistati: e se lei non fosse mai stata smistata?
E se non ci fosse stata una Casa o come si chiamavano adatta a lei?
E se nessuna Casa avesse voluto farla sua, come mai nessuno aveva voluto farla sua?
“Tranquilla, piccolina”, la rassicurò la voce con fare quasi paterno. “So già cosa fa per te…”.
Un attimo di silenzio.
Il cuore di Emma si fermò per un lungo,lunghissimo istante…
“Tassorosso!”
La bambina si concesse solo allora un sospiro di sollievo e si accasciò soddisfatta lungo lo sgabello. Beh, magari la magia non esisteva e quella scuola era totalmente inutile (di sicuro avevano usato qualche effetto da film per quel Cappello), ma in fondo al cuore sentiva l’euforia di essere stata scelta ben due volte nelle ultime ventiquattro ore: prima da una stecca di legno che ora giaceva, pronta a prendere polvere, nel suo baule, sopravvissuta come lei, e poi da una Casa in cui, a quanto pareva, avrebbe passato i successivi sette anni.

Note d'autrice:
Questa storia sarà una sfida, già lo so. Già affidare Emma alla Casa dei Tassi è stata una mossa quanto mai azzardata, direi.

Nei prossimi capitoli appariranno altri personaggi, tra cui Elsa, Peter Pan, Rumple, Hook, Neal e Meg.
Per chi non conoscesse quelli già citati, ecco una spiegazione veloce veloce:
Anna è la principessa di Frozen, e le ho dato come cognome il nome del suo regno; Eric è Ercole del cartone della Disney (ho "americanizzato" il nome); Hans è il cattivo di Frozen, il cognome gliel'ho dato per un commento su YouTube in cui un utente diceva che per lui il cognome di Hans era, appunto, "Landa", perché è un "bastardo senza gloria". A lui dunque vanno i crediti, in un certo senso. Belle è Belle di OUAT, il cognome è quello di suo padre. Graham è anche lui di OUAT (il cogome è quello vero). Jack Frost viene da "Le 5 leggende". Hiccup viene da "Dragon Trainer". Per lui e Jack ho seguito la "canon" che vuole che loro due siano, appunto, Serpeverde e Tassorosso a Hogwarts.
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e spero che continuerete a seguire questa avventura!

 
  
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