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Autore: sfiorisci    30/04/2014    12 recensioni
Anno 3265.
La Terra non esiste più. Gli esseri umani hanno sfruttato tutte le sue risorse, fino a quando questa non è divento un pianeta morente. Un gruppo di scienziati riesce a mettere in salvo parte della popolazione portandola su Xaral, un pianeta con le stesse caratteristiche della Terra. Con la loro partenza sperano di poter mettere fine alla malvagità e la sete di potere degli uomini, ma purtroppo vengono delusi: coloro che avevano salvato si impongono sulla popolazione nativa, massacrando gli Xaraliani.
Anno 4065.
Evelyne è una ragazza fortunata, o per lo meno questo è il pensiero dei suoi dottori. Il suo corpo è stato ritrovato quasi in fin di vita in seguito all'esplosione di un palazzo. Il prezzo per la sua vita è stata la memoria: non ricorda nulla dell'incidente o della sua vita prima di esso, non ricorda amici, familiari e neppure il suo nome. L'unica cosa che sa è la sua età, diciotto anni, confermata dai dottori. Tutta l'eredità del suo passato è una medaglietta con scritto "Evelyne" appesa al collo.
Lentamente, riuscirà a mettere insieme i pezzi del suo passato, scoprendo che il suo destino è collegato a quella misteriosa popolazione, massacrata molti anni prima.
Genere: Avventura, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo
 
Terra, 31 luglio, anno 3265
 
3.00 a.m
 
La notte era tranquilla e le stelle brillavano in cielo, come se non fossero interessate alla Terra e ai loro abitanti. Un gruppo di scienziati stava lavorando da mesi, alcuni anche da anni, al progetto che si sarebbe compiuto alle prime luci del mattino ed era palpabile l’agitazione presente nell’aria. Si trovavano in una struttura anti sismica, ma questo non impediva loro di provare paura per le frequenti scosse, unite al rumore dei razzi che testimoniavano la guerra che si combatteva all’esterno.
Cassie, una delle scienziate, ebbe un mancamento quando sentì di nuovo la Terra tremare sotto ai suoi piedi: entrambe erano arrivate al livello massimo di sopportazione.
Julian, suo marito, smise di controllare dei documenti e andò immediatamente verso di lei, la fece stendere e le rimase accanto fino a quando non riprese i sensi. Quando lo fece, senza parlare, le accarezzò lentamente il braccio, guardandola con affetto e comprensione. Cassie non riuscì a trattenersi e le lacrime le solcarono il volto: la gravidanza l’aveva fatta diventare ancora più sensibile.
Julian l’abbracciò e lei poggiò il suo volto sulla spalla del marito; le lacrime calde gli bagnarono la leggera maglietta di cotone, arrivandogli fino alla pelle. Rimasero stretti l’uno nelle braccia dell’altro per qualche minuto, poi lui la lasciò andare baciandola delicatamente sulla fronte.
Più volte Julian aveva cercato di convincere la moglie a non partecipare al progetto, pensando a quanto sarebbe stato difficile lavorare con l’arrivo della gravidanza ma lei, testarda com’era, non gli aveva mai dato ascolto.
La testardaggine era un aspetto di Cassie che Julian amava alla follia.
«Andrà tutto bene, te lo prometto» la rassicurò. Lei annuì dolcemente ed entrambi tornarono al proprio lavoro.
Lei controllò il progetto più volte mentre lui gestiva la squadra che si occupava di costruire la navicella. Secondo i loro calcoli sarebbero dovuti decollare verso l’alba, lasciando che la Terra si distruggesse con chi aveva innescato il meccanismo. Sarebbero decollati dopo qualche ora, verso le sei e trenta.
Nessuno parlava, erano tutti concentrati sul proprio lavoro, con la consapevolezza di aver costruito e star mettendo a punto quella che sarebbe potuta essere l’ultima speranza per l’umanità.
Dopo aver constatato che tutti i progetti cartacei fossero stati realizzati, Cassie venne chiamata da Andrew Vibler, uno scienziato che lei stimava molto a capo del progetto, per controllare l’avviamento dei motori. Il tempo scorreva veloce e con esso anche le loro possibilità di salvezza o di dannazione.
 
4.00 a.m.
 
Con lo scorrere del tempo aumentava anche l’ansia. Come se non bastasse il fatto di avere sulle spalle una responsabilità così grande, gli scienziati non dormivano da giorni. Cassie lo era anche più di tutti gli altri, ma non voleva riposarsi, non voleva cedere proprio nel momento fatidico.
Era stata lei a proporre l’idea di andarsene da lì, da quel pianeta su cui i loro avi avevano vissuto e che gli uomini avevano rovinato. Della Terra, delle stagioni, della storia, della lettura, degli usi, dei costumi non sarebbe rimasto nient’altro che un vago ricordo. Una macchia opaca su un vetro, una macchia che andava cancellata, ed era possibile farlo solo con impegno e fatica. Gli uomini tanto crudeli, quelli che uccidevano, gli avidi, i potenti, non sarebbero più vissuti. Le generazioni future avrebbero avuto la pace, non importava a costo di quante vittime o quanti sacrifici.
A loro non interessava essere ricordati, anzi, non volevano: erano l’altra faccia della medaglia, quella che combatteva attivamente per fare qualcosa di buono, ma essere ricordati come “i buoni” era equivalente ad ammettere che c’erano anche persone cattive.
Ecco perché ci doveva essere la pace, ecco perché avrebbero dato la vita per ottenerla, anche se il genere umano fosse scomparso. Perché nessuno altro popolo in qualsiasi altro pianeta si sarebbe dovuto comportare come loro: avevano un dono, la Terra, e l’avevano rovinata. L’avevano usata, spremuta, torturata, fino a quando essa si era ribellata, com’era naturale che facesse. Ora sarebbe esplosa e gli scienziati avrebbero fatto in modo che gli uomini cattivi sarebbero morti con essa, sepolti dalle macerie e dai loro errori.
La macchia sul vetro non ci sarebbe più stata.
 
5.00 a.m.
 
Ormai il sole faceva capolino anche dentro il grande capannone in cui si trovavano, ma non erano ancora pronti a partire. Julian era preoccupato per Cassie, secondo lui faceva troppi sforzi inutili e di certo la sua condizione non l’aiutava. Lei gli aveva ripetuto circa un centinaio di volte che era semplicemente incinta e non inferma, ma questo non sembrava aver giovato sulla preoccupazione del marito. Loro non volevano un figlio, o meglio, non lo volevano mentre stavano cercando di scappare da un pianeta morente. Ci sarebbe stato tempo per allevare dei bambini quando avrebbero ricostruito la società in un pianeta abitato solo da esseri umani che non si sarebbero fatti più la guerra.
Nonostante tutto sapere che sarebbero diventati genitori non li fece impensierire più di tanto, anzi, il bambino che Cassie portava in grembo era visto come un incentivo a fare bene e in fretta il loro lavoro. Le possibilità di sopravvivenza dipendevano da tutti gli scienziati che collaboravano al progetto e, averne due così motivati, non poteva che essere d’aiuto.
Inoltre, Julian non lo avrebbe mai ammesso davanti alla moglie, ma l’idea di diventare padre lo eccitava a tal punto di aver già iniziato a pensare a come potesse essere la cameretta per il piccolo, le storie che gli avrebbe raccontato prima di andare a dormire e quale nome avrebbe potuto scegliere. Era contento di essere padre, ma allo stesso tempo era spaventato per i pericoli che correvano. Più ci rifletteva, però, più capiva che la cosa importante non era solo la loro fuga, ma il fatto di dover imparare ad essere un buon padre, ad amare, capire ed educare il suo futuro figlio (o figlia, per lui il sesso del nascituro non era molto importante) al massimo delle sue capacità.
Si era ripromesso di farlo quando, un giorno, era andato con le lacrime agli occhi a visitare la tomba di suo padre, che l’aveva cresciuto bene inculcandogli sani e giusti principi. Gli aveva promesso, senza smettere di piangere, che l’avrebbe reso orgoglioso e sarebbe stato un buon padre tanto quanto il suo era stato per lui.
L’aveva promesso e, fortunatamente, Julian era un uomo che manteneva sempre la parola data.
 
6.00 a.m.
 
La tensione generale degli scienziati era alle stelle, tanto che sembrava potersi tagliare con un coltello. Stavano facendo gli ultimi controlli e mettendo a punto i dettagli finali, poi sarebbero stati pronti a partire.
«Direi che possiamo iniziare a far imbarcare la gente, ci pensate voi?» chiese Vibler a Cassie e Julian, quando pensò che tutto fosse pronto. I due andarono nell’area in cui dormivano coloro che non prendevano parte al progetto, un grande stanzone con molti letti, li svegliarono e li fecero imbarcare lentamente. Videro gente di tutti i tipi: c’erano vecchi, c’erano bambini, c’erano donne e uomini e l’unica cosa che sembrava accomunare persone che altrimenti sembravano così distanti era la paura e la voglia di vivere, o meglio, di sopravvivere. Il pianeta Terra era stato devastato da guerre, solo quelle sembravano conoscere gli uomini senza cuore che erano al potere e ormai nessuno le sopportava più. La Terra stava per esplodere a causa loro, i civili la abbandonavano e a volte perfino gli stessi uomini che creavano i conflitti se ne stancavano immediatamente. Forse perché non avevano più nulla per cui combattere, non c’era più l’oro, la ricchezza, la bellezza delle città e della gente, ma solo fame, miseria, povertà e crudeltà.
Di quelle che gli antichi chiamavano meraviglie erano rimasti solo deserti, delle opere d’arte fatte di polvere sparsa nell’aria, il cibo tanto acclamato era diventato sintetico a causa dell’infertilità dei terreni. Gli stessi esseri umani erano cambiati. La lingua, la letteratura, anche alcuni detti, erano andati persi con l’avanzare del tempo. Non si sentiva più la necessità di avere una conoscenza generale, si mirava solo ad approfondire lo studio di qualcosa che potesse essere davvero utile per poter trovare lavoro e sfamare un’eventuale famiglia.
Per questo Cassie, Julian, Vibler e tutti gli altri scienziati erano rimasti in piedi tutta la notte, per far sì che gli uomini potessero tornare ad essere tali, e non strumenti per la sopravvivenza del prossimo. Era il loro obiettivo e ci sarebbero riusciti, eccome se l’avrebbero fatto.
 
7.00 a.m.
 
«È tutto pronto, possiamo imbarcarci anche noi» annunciò Julian una volta che tutta la popolazione scelta era stata fatta salire a bordo. Fuori erano rimasti solo una ventina di scienziati, con il compito di controllare che all’esterno tutto funzionasse alla perfezione. Si trovavano in una zona piuttosto lontana dai conflitti, speravano che questo fosse un vantaggio per farli partire senza essere visti, o almeno non troppo presto. Non erano così ingenui da sperare che nessuno si accorgesse della loro assenza, avevano solo calcolato che quando sarebbe accaduto sarebbero stati troppo lontani per essere raggiunti.
«Mi dispiace, ma non credo proprio che questo sia possibile».
A parlare era stato un uomo appena entrato nel capannone, seguito da una cinquantina di uomini in tenuta militare e armati di fucile. Lui, tutti lo conoscevano, era Sebastian Meatch, uno degli uomini più crudeli, di quelli che si arricchivano sulle disgrazie degli altri e avevano un piccolo esercito da vendere al miglior offerente.
Un uomo da non salvare, un uomo che non sarebbe mai dovuto essere a conoscenza di quel piano. Eppure era lì, in piedi, con un ghigno malefico stampato in faccia e una pistola puntata contro coloro che tanto avevano lavorato per un mondo senza di lui.
In pochi attimi tutte le speranze degli scienziati crollarono, i loro sguardi si spensero e gli animi si raffreddarono, pensando alle loro speranze vanificatesi per colpa di quell’uomo e la sua sete di potere.
«Siete stati degli illusi a pensare che non sapessi nulla. Sono la persona più ricca e potente del mondo, ho occhi e orecchi ovunque» sorrise malignamente e poi continuò «Vi ho lasciato costruire questa navicella facendovi credere che il vostro segreto fosse ancora tale solo per presentarmi come sto facendo ora e salire a bordo».
«Siamo al completo» sibilò Vibler, che non aveva mai sopportato i tizi come lui. Era un uomo tutto d’un pezzo, capace, intelligente e più propenso al sacrificio di quanto non dimostrasse. Forse perché non aveva nulla da perdere, moglie e figlio piccolo erano già morti in una delle tante guerre, e quello era il prezzo che pagava per onorare la loro memoria.
Un guizzo di disappunto balenò negli occhi di Meatch e, in preda alla rabbia, premette il grilletto dell’arma che aveva in mano, puntandola contro uno degli scienziati presenti. Il rumore dello sparo rimbombò nella struttura, mentre il proiettile andava a segno. Cassie conosceva l’uomo a cui Meatch aveva colpito, si chiamava Gideon e aveva famiglia. Lo vide accasciarsi a terra e portare le mani al petto per lo stupore, mentre dalla bocca gli uscivano fiotti di sangue e gli occhi gli si rovesciavano all’indietro. Cadde a terra circondato da silenzio surreale e morì emettendo un lungo e doloroso lamento.
Cassie non seppe dire se la nausea che sentiva al momento fosse per via della gravidanza o per la scena appena vista.
«Un posto si è liberato, devo ucciderne altri cinquanta o credi di riuscire a trovare del posto anche per noi?» chiese Meatch, tornando a sorridere.
«Vedi, Sebastian, questa è la grande differenza fra noi e te» gli rispose Vibler in tono calmo, si tolse gli occhiali e si pulì le lenti sul suo camice prima di continuare «Che noi siamo pronti a morire, se fosse necessario a fermarti».
«Credi che ti risparmierò solo perché sei un mio vecchio conoscente, Andrew?» chiese Meatch, fissando lo scienziato con uno sguardo strano, una sorta di rabbia mista a del rispetto.
Un mormorio curioso si diffuse, non solo fra gli scienziati, ma anche tra l’esercito di Sebastian Meatch: nessuno sembrava essere a conoscenza del tipo di legame che i due uomini avevano, tanto meno ne sospettavano i motivi.
«Oh no, non c’entra nulla, so che non sei magnanimo. Ma non credo che tu o gli scimmioni che ti porti dietro sappiano far funzionare una navicella, per questa ragione non puoi ucciderci tutti» rispose pazientemente.
«Potete benissimo guidarla con gravi mutilazioni» replicò con altrettanta pazienza Meatch.
Fu allora che, mossa più dalla paura che da altro, Cassie si avvicino a Vibler.
«Portiamoli con noi, non possiamo rischiare» gli sussurrò, ma non abbastanza piano perché Meatch non sentisse.
«Vedi, la tua assistente capisce. Sono stanco di fare la parte dell’uomo cattivo, troviamo un accordo e salviamoci tutti insieme, io non spreco munizioni e voi non sprecate vite. Mi sembra un buon compromesso, no?»
«Dovrai passare sul mio cadavere prima di mettere piede lì dentro» replicò Vibler in tono duro.
«Così sia» sentenziò Meatch.
Con un cenno della mano ordinò ai suoi uomini di fare fuoco sugli scienziati. Cassie, incapace di muoversi dalla paura, venne gettata violentemente a terra da Vibler, che si prese una pallottola in piena fronte al posto suo. Le cadde sopra, il suo sangue le colava sui lunghi capelli e sui vestiti, e il suo corpo le faceva da scudo.
La sparatoria sembrò durare lunghi, interminabili minuti e, anche quando finì, Cassie non riusciva a muoversi. Era paralizzata dallo shock: l’uomo che da sempre aveva stimato e preso come esempio ora giaceva morto sopra di lei e, nonostante le avesse salvato la vita, trovava la scena troppo macabra. Non riuscì a trattenersi dal vomitare e forse fu proprio per questo motivo che Julian, ferito ad una gamba, la trovò, sposto il corpo dell’amico da quello della moglie, la ripulì dal sangue per quanto gli fosse possibile e la prese in braccio, cercando di ignorare il dolore lancinante che continuava a sentire alla gamba.
Era stato fortunato, dopotutto, a molti era andata peggio di così. Il pavimento, prima immacolato, era coperto di un lago rosso sangue, l’aria era pesante e i sopravvissuti che potevano dire di aver visto quel terrificante spettacolo erano veramente pochi. Fra quei pochi c’era poi chi era messo molto peggio di Julian, perché le pallottole gli avevano trapassato le mani, oppure li avevano presi in organi non vitali, cosa che però non sembrava impedire al sangue di sgorgare fuori zampillante.
Era anche una fortuna essere morti subito, alcuni di loro non ce l’avrebbero fatta durante il viaggio: l’astronave non era stata concepita con strutture in grado di curare ferite tanto gravi e il fatto di essere ancora in vita sembrava più una lenta e crudele agonia che un dono.
Julian trascinò la moglie sulla navicella e andò nell’infermeria, con i cadaveri dei morti che sembravano gridare di vergogna dall’esterno perché li avrebbero lasciati lì e avrebbero permesso a Sebastian Meatch e a uomini come lui di rovinare un pianeta innocente. Julian, però, voleva vivere, lo aveva promesso a suo figlio e lui era tipo da mantenere la parola data e forse questo era il suo più grande difetto.
 
Spazio sconosciuto, orario sconosciuto, anno 3265
 
Cassie si svegliò improvvisamente e vide che si trovava distesa su un lettino. All’inizio non capì dove e perché fosse lì, ma poi i ricordi tornarono alla sua mente tanto rapidamente da farle girare la testa. Le venne anche la nausea e istintivamente si portò una mano allo stomaco accorgendosi solo allora che nella stanza c’era anche Julian, addormentato su una sedia accanto al suo letto.
Lo svegliò dolcemente.
«Meno male che ti sei ripresa, avevo così tanta paura per te!» esclamò sollevato non appena vide la moglie.
«Vibler… Non può essere morto, vero? Ho fatto solo un brutto sogno, non è così?» chiese con la voce incrinata. Si ricordava alla perfezione il buco che Sebastian Meatch gli aveva fatto alla fronte e il sangue che scorreva sopra di lei, ma, per quanto irrazionale fosse, continuava a sperare che fosse solo un brutto incubo.
«È morto» disse Julian, confermando i suoi timori. Non se l’era immaginato allora, tutto quel sangue, l’odore nauseabondo… era vero.
Cassie iniziò a piangere e Julian la strinse fra le sue braccia.
«Devi essere forte, perché c’è una notizia che ti sconvolgerà ancora di più» le disse il marito, che sembrava abbattuto più che mai, con il viso pallido e delle ombre scure sotto gli occhi.
«Sono pronta» disse lei quando ebbe recuperato un po’ del suo contegno.
«Hai dormito per sette giorni in seguito allo shock che hai riportato. Ovviamente i medici ti hanno nutrito e curato nel modo migliore che hanno potuto, anche se dicono che lo stress e la tensione potrebbero aver ucciso il bambino» le confessò.
«Cosa?» esclamò, non volendo credere alle sue orecchie.
«Però c’è solo la possibilità Cassie, non ne siamo sicuri» tentò di rassicurarla.
«Voglio andare in un ospedale, Julian, voglio avere la certezza che il bambino non ci sia più, non posso vivere con l’ansia del forse» gli sussurrò.
«Non possiamo andare in un ospedale, siamo nello spazio» rispose Julian con semplicità, leggermente stupito dal fatto che la moglie non se ne fosse ancora accorta.
Cassie, che fino a quel momento non ci aveva fatto per nulla caso, notò un piccolo oblò sopra di lei, da cui si poteva ammirare lo spazio e la distesa infinita di stelle.
«Dove stiamo andando?» gli chiese.
«Non lo so, sono voluto andare via dal team di comando, avevo una gamba messa male e la mia priorità eri tu. Però mi sembra che vadano piuttosto a casaccio, non deve essere facile trovare un pianeta abitabile fra l’infinito…» le rispose.
«E la rotta che avevamo programmato con Vibler?»
«Quale rotta?» chiese Julian senza capire.
«Un pianeta lontano, ma non irraggiungibile. Secondo i nostri calcoli ha all’incirca le stesse caratteristiche della Terra e si potrebbe vivere lì» gli spiegò pazientemente.
«Non m’importa» ribatté brusco Julian «Tutti i nostri sforzi sono stati vani. Le nostre fatiche di tenere tutto segreto, i turni di notte, le ansie… È tutto finito, tutto andato a rotoli. Abbiamo permesso a Meatch di distruggere un altro pianeta, non voglio sapere quale».
Stavolta fu Cassie ad abbracciarlo, perché capiva in pieno la rabbia e la frustrazione del marito.
«Stiamo insieme e potremmo avere una nuova vita, potremmo scoprire se il bambino è ancora vivo e potremmo averne degli altri, è questo l’importante. Sono morte delle persone per darci la possibilità di vivere e tutto ciò che possiamo fare per onorare la loro memoria è sfruttare al massimo il dono che ci hanno fatto» tentò di confortalo.
Lui la guardò negli occhi e la baciò.
«Hai ragione, vado ad avvertire Meatch e gli altri, ci aspetta una nuova vita» dicendo questo uscì dalla cabina in cui risposava la moglie, avvisò chi di dovere e si diressero verso il pianeta vivibile, sicuro che gli esseri umani l’avrebbero distrutto com’erano soliti fare.
 
Pianeta Xaral, 17 agosto, anno 3265
 
Cassie e Julian camminavano lentamente mano nella mano, cercando di non dare nell’occhio. Era difficile non farlo, soprattutto in quella parte della città dove vivevano i Nativi, esseri simili a loro ma con la pelle completamente blu e un’intelligenza superiore.
Una bambina Nativa lanciò una palla vicino a loro e Cassie gliela porse.
«Non avevo mai visto un’umana prima d’ora» le confessò con stupore la piccola.
«Nemmeno io avevo mai visto una bambina di qui» le rispose Cassie sorridente. «Io sono Cassie, tu?».
«Sono 14495» le rispose la bambina. Cassie pensò che le abitudini degli Xaraliani erano davvero particolari: chiamare con un numero tutti coloro che nascevano era alquanto macabro e, anche se una volta che comprendevano il loro destino potevano cambiarlo con una parola che li descriveva, restava macabro comunque. Le ricordava le vecchie guerre degli uomini, quelle del millennio precedente, in cui la popolazione vincente marchiava i perdenti con un numero per togliere la loro dignità e farli sentire solo delle cifre fra la moltitudine.
«Dove state andando?» chiese curiosa la bambina numero.
«A incontrare il Capo Saggio» rispose Cassie.
Il Capo Saggio era il capo dei Nativi (gli Xaraliani erano conosciuti così fra i terrestri), colui che aveva i poteri di previsione più forti degli altri e che organizzava tutta la società; era anche quello che stringeva gli accordi con i capi degli umani per una convivenza che, per le prime due settimane dal loro sbarco, era rimasta pacifica.
«Perché, qualcosa non va?» chiese la bambina preoccupata.
«No, abbi speranza, andrà tutto bene» la confortò Cassie sorridendo incoraggiante.
Julian, che era stato in silenzio per tutto il tempo, le fece capire che erano in ritardo; salutarono frettolosamente 14495 e si recarono alla Residenza Xaral, dove alloggiava il Capo Saggio. Era un palazzo molto bello, costruito interamente di un materiale blu che sulla Terra non esisteva, ma che su Xaral si trovava in abbondanza. Non rispecchiava uno stile preciso, come uno di quelli che si potevano trovare nel loro vecchio pianeta, ma era semplice, senza tanti fronzoli e guardandolo veniva in mente la parola “Essenziale”. Chissà, magari se la pace fosse durata avrebbero potuto crearci una corrente artistica, magari sarebbero sorti “Gli Essenzialisti”.
A Cassie faceva bene pensare a queste cose, la distraevano dal motivo per cui lei si trovava lì e la distrazione era proprio ciò di cui lei aveva bisogno. Quando, però, percorso un lungo corridoio si trovò in una stanza sola con suo marito e Capo Saggio smise di fantasticare e tornò a quella che era la tanto detestata realtà; quella in cui gli uomini non creavano correnti artistiche ma si bombardavano a vicenda per il possesso del pianeta.
Il fatto che ci fossero state due settimane di pace e che non lo avessero ancora fatto non voleva dire, purtroppo, che non si stessero preparando.
«Sebastian ha convinto anche altri a passare dalla sua parte» ammise Julian stizzito. Non credeva che la popolazione che avevano portato in salvo si sarebbe lasciata ammaliare tanto facilmente dalle parole di chi aveva contribuito alla distruzione della Terra.
«L’avevo previsto» disse Capo Saggio annuendo «Sospetta qualcosa?»
L’anziano Nativo stava seduto su una comoda poltrona, ormai vecchio, vecchio anche per un Nativo; la sua morte sarebbe avvenuta nel giro di pochi giorni e lo aveva detto ai due giovani prima di proporgli il suo piano.
Stranamente la notizia della sua scomparsa imminente non lo spaventava più di tanto, ma probabilmente solo perché lo sapeva da molto tempo e aveva previsto cosa sarebbe accaduto dopo. Forse l’idea della morte non era tanto male se ogni giorno si aveva l’opportunità di rifletterci.
«Non so, ci sta tenendo d’occhio, ma non credo che sia a conoscenza del nostro piano» ammise di nuovo Julian.
«Bene, vi ho già detto quanto sia importante per noi che lui non sospetti nulla, vero?» chiese Capo Saggio.
Cassie e Julian annuirono in silenzio.
«Più lui sarà all’oscuro, più possibilità avremmo di riuscire nel nostro intento» proseguì, con il suo tono lento e pacato «Ormai ha già molte armi, su Xaral ha trovato le risorse che non aveva e non manca molto al giorno in cui porrà fine alla nostra razza».
Cassie, che fino a quel momento era rimasta in silenzio con gli occhi fissi sul pavimento, trovò il coraggio di alzare lo sguardo su di lui e affrontarlo.
«Ma non sarebbe meglio combatterlo? Siete un popolo di veggenti, capite e parlate la nostra lingua e ne avete una tutta vostra che noi non conosciamo, vivete su questo pianeta da moltissimo tempo e sapete come sfruttarlo… Perché non li affrontate?» chiese, molto più propensa a combattere per qualcosa in cui credeva, invece che sacrificarsi.
«Noi Xaraliani siamo una razza pacifica» rispose con semplicità.
«Ma vi uccideranno! Stermineranno tutti voi, uomini, donne o bambini per loro non farà la differenza! Hanno ucciso anche molti dei nostri, non dovremmo pensare alle perdite?» insistette.
«Cassie, il modo di pensare dei terrestri è molto diverso dal nostro. Per noi la prospettiva della morte non è terribile come per voi umani perché noi sappiamo cosa ci attenderà dopo» spiegò Capo Saggio.
«Tutti hanno paura di morire» ribatté Cassie, decisa a non farsi contrastare.
«No, tutti hanno paura dell’ignoto ma, come ti ho già detto, noi siamo a conoscenza di tutto» il suo tono non era mai troppo brusco, ma dolce e lento. Non voleva rimproverarla, capiva i limiti degli uomini e li accettava, l’unica cosa che chiedeva era che i due giovani davanti a loro attuassero il piano.
«Allora, siamo d’accordo? Farete ciò che vi è stato detto una volta che non ci saremo più?» i due ancora non lo sapevano, ma questa sarebbe stata l’ultima domanda che il Capo Saggio avrebbe rivolto a loro, l’ultima volta che l’avrebbero visto dopo quello che passò alla storia come “Il massacro di settembre”.
Cassie e Julian sapevano cosa avrebbero dovuto sacrificare, lo sapevano dalla prima volta che avevano parlato con lui, aveva spiegato loro i rischi e i benefici e, forse presi dall’entusiasmo, avevano accettato senza remore. Solo in quel momento, dopo molti giorni passati a pensare su ciò che avevano promesso, sembravano avere dei dubbi e dei rimpianti, perché avevano capito cosa avrebbero sacrificato concretamente: la possibilità di avere una vita normale.
Era vero che entrambi erano atterrati su Xaral con l’intenzione da astenersi da conflitti e vivere al meglio, ma quando si era presentata la loro occasione di fare qualcosa… Beh, quello che avevano stabilito non avrebbe fatto vivere meglio qualche famiglia, ma forse tutta la popolazione, sia terrestri che Xaraliani.
E fu per questo che quando, all’unisono pronunciarono il loro «Sì», le loro voci suonarono chiare e decise: il progetto formulato era partito, non restava che attendere per i risultati.
 

Eccomi qui con questa nuova storia. L'avevo detto che dopo 'The Guardians' ne avrei pubblicata un'altra, sempre di genere fantasy, ed eccola qui. Mi scuso se il prologo è venuto molto lungo, so che di norma dovrebbe essere più corto, ma questa era una parte essenziale nella storia, ho provato ad accorciarla il più possibile, ma questo è stato il massimo che sono riuscita a fare.
Il titolo della storia non è messo a caso, infatti nei prossimi capitoli si parlerà appunto di Evelyne, la protagonista, che vive molti anni dopo questi avventimenti. Per ora spero che il prologo vi abbia incuriosito, se mi lasciate una recensione, magari esponendo le vostre critiche (sono sicura che ce ne siano da fare) sarei molto contenta ^-^
Ci vediamo al prossimo capitolo.


Francesca.
 
   
 
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