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Autore: Marceline    02/05/2014    1 recensioni
Pulì sangue e saliva dalle labbra di Leslie e gli sorrise, scuotendo la testa. Gli venne da sorridere perché nonostante tutto, si era ostinato a tenersi quello stupido piercing al labbro, un fine cerchietto d’argento. Qualche superiore aveva provato a imporgli di toglierlo, ma Leslie era cocciuto e c’era troppo bisogno di soldati, non importava più se avessero avuto tatuaggi o piercing. Non c’era nemmeno più tempo per rasare i capelli.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Una sacca contenente liquido trasparente cadde a terra. Non si ruppe, ma si formarono delle piccole bollicine all’interno. Una mano grande, ricca di vene, con le dita lunghe, si chinò a prenderla. Tremava. La mano di Camillo tremava.
“Forse è meglio che io vada a prenderne un’altra.” Camillo strinse la sacca tra le mani, sentiva il contenuto da essa spostarsi e fare spazio alle sue dita. Avrebbe potuto spaccarsi da un momento all’altro, ma non gliene sarebbe potuto importare di meno.
“Di cosa hai paura, che magari sia infetta? Magari morire di infezione sarebbe più piacevole...” Una risata proruppe dalle labbra carnose di Leslie. Poi uscì del sangue, e poi un po’ di saliva troppo schiumosa. Camillo gettò la sacca sul comodino – una scatola di proiettili vuota che aveva trovato una seconda vita dentro la tenda – e corse a prendere uno straccio imbevuto che era sulla scrivania ai piedi della brandina.
Un terribile lampo di luce rosso seguito da un boato fece destabilizzare Camillo, che fu costretto a sorreggersi al palo maestro della tenda. Le esplosioni erano sempre più vicine.
Pulì sangue e saliva dalle labbra di Leslie e gli sorrise, scuotendo la testa. Gli venne da sorridere perché nonostante tutto, si era ostinato a tenersi quello stupido piercing al labbro, un fine cerchietto d’argento. Qualche superiore aveva provato a imporgli di toglierlo, ma Leslie era cocciuto e c’era troppo bisogno di soldati, non importava più se avessero avuto tatuaggi o piercing. Non c’era nemmeno più tempo per rasare i capelli.
“La morte di infezione è la più spiacevole. Lunga, dolorosa, bruciante... e un sacco di pus da pulire per me.” Camillo sorrise di nuovo, poi si sedette sul letto e gettò la pezza a terra. Lo sguardo gli cadde sulla sacca trasparente gettata in malo modo sul comodino. “Allora, la vuoi la morfina si o no?”
Leslie scosse la testa e chiuse gli occhi, appoggiando il viso sul cuscino, nascondendo così la parte sinistra del volto. Aveva sonno ma aveva paura di morire. Questo Leslie non lo aveva detto, ma Camillo poteva sentirlo attraverso l’aria stagna e viziata della tenda. Nessuno voleva morire, nemmeno un disincantato come Leslie.
“Oltre all’infermierina potresti fare anche la cameriera.” Leslie sghignazzò e aprì l’occhio destro, sbirciando la reazione di Camillo. Quest’ultimo fece una smorfia e distolse lo sguardo, puntandolo in alto. Gli occhi celesti cielo di Leslie lo mettevano sempre a disagio, anche quando non lo guardavano con malizia.
“Ti faccio da cameriera già pulendo il tuo sangue.” Si alzò e prese la sacca di morfina e la pezza. Attraversò la tenda, si chinò e gettò tutto dentro un sacco di plastica nera che fungeva da cestino. Sentì Leslie sospirare e si voltò a guardarlo.
“Che c’è?”
Leslie sorrise e si morse il labbro, giocando un po’ con l’anellino argentato. Aveva lo sguardo perennemente annoiato, come se tutto ciò che lo circondava non lo riguardasse. Aveva un’indolenza che Camillo gli invidiava, lui si faceva ferire da tutto e anche troppo.
“You have a nice butt.” Un sorriso sornione accompagnò le sue parole. Camillo digrignò i denti e si diresse verso la scrivania, senza alcun tipo di motivo in particolare. Era solo per nascondersi da quegli occhi azzurri maliziosi.
“Smettila di parlare inglese, sai che non lo capisco.”
“Dovresti, siamo alleati.” Tentò di tirarsi a sedere, ma ricadde mollemente sui cuscini.
“Non muoverti, o finirai con lo slogarti definitivamente la spalla.” Camillo prese a sfogliare le lettere che erano sulla scrivania. Oltre che essere un infermiere, aveva anche il compito di scrivere e spedire lettere ai parenti dei soldati. Odiava farlo, ma l’era dei computer era finita da un pezzo. “E comunque, tu sai parlare italiano, perché dovrei imparare l’inglese?”
Sentì Leslie ridacchiare ma non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. Continuò a rileggere la sua scrittura orribile che annunciava la morte di questo o quel soldato. Erano mesi ormai che scriveva quel genere di lettere, ma non riusciva a non sentirsi male ogni volta che doveva scriverne una. Il che accadeva almeno un centinaio di volte al giorno.
“Hai ragione. Forse dovresti imparare lo scozzese, è più meglio.”
“Non si dice è più meglio, si dice è meglio e basta.”
“È meglio e basta.” Gli fece il verso Leslie. Camillo alzò lo sguardo dalle lettere solo per fulminarlo. “Dovresti apprezzare il mio sforzo di parlare la tua lingua, invece non fai altro che criticarmi.” Corrucciò le sopracciglia e sembrò avere dieci anni di meno.
“Per me non c’è problema, non ti correggo più. Puoi andare a fare lo zoticone sgrammaticato ovunque tu voglia.” Camillo prese un foglio pulito e guardò il primo nome sulla lista che gli era stata consegnata poco prima. Lo depennò ed iniziò a scrivere.
Dopo un paio di minuti di silenzio, Leslie parlò di nuovo. Il suo marcato accento scozzese faceva sembrare qualsiasi cosa dicesse uno scherzo.
“Io non so scrivere.” Disse candidamente. Camillo smise di scrivere e guardò Leslie, alzando una sopracciglia.
“Mi prendi in giro?” Sghignazzò. Ma poi si rese conto che Leslie era serio e si diede un contegno, nascondendo il sorriso. “Mi hai detto che andavi a scuola, però...” Camillo lo guardò confusamente. Ricordava che Leslie fosse andato a scuola perché gli raccontava di continuo gli scherzi che faceva ai suoi compagni di classe.
Leslie annuì. Questa volta fece leva sugli addominali e riuscì a sedersi. Si voltò, sistemò i cuscini con il braccio buono e appoggiò la schiena. Solo a quel punto parlò.
“So solamente scrivere al computer. So leggere, scrivere premendo i tasti, ma... Non ho mai usato una penna. Non credo che ormai ci sia una sola penna in tutta la Scozia.” Fece una smorfia con le labbra. “O un pezzo di carta.” Un breve accesso di tosse lo interruppe, ma niente sangue questa volta. “Non credo che in tutto il Regno Unito ci sia ancora qualcosa come un libro, una matita, dei pastelli o una gomma da cancellare.”
“Il Regno Unito è uno degli Stati più tecnologizzati.” Annuì Camillo. Era un po’ intristito dal fatto che Leslie non avesse mai colorato con i gessetti sul cemento o che non avesse mai disegnato dei brutti fiori ai margini di un quotidiano.
Anche in Italia negli ultimi dieci anni erano scarseggiati fogli e inchiostro, ma la situazione non era critica come in alcuni Paesi del mondo. Gli Stati Uniti, la Germania, l’Australia, il Canada... loro erano stati i primi a bruciare libri e matite e penne. Avevano dato fuoco a tutto ciò che un computer era in grado di fare.
Ed erano stati loro a dare vita alla Nuova Guerra Mondiale quando il pianeta non ce l’aveva fatta più, rigettando tutte le tecnologie. Tutto si era spento, l’elettricità non la faceva più da padrona.
Camillo non ricordava quale fosse stata la scusa con cui le vecchie potenze mondiali avevano attaccato gli Stati minori, ma ricordava chiaramente che tutto era iniziato col Grande Buio. Non sapeva nemmeno cosa volessero quegli Stati enormi da Paesi come l’Italia, la Lettonia o Slovacchia... Forse delle braccia che ancora sapessero come coltivare la terra? O volevano proprio le loro terre, le uniche non contaminate da scorie e agenti chimici, le uniche ancora fertili?
Gli unici Stati che si erano schierati dalla parte dei Paesi agricoli furono: Francia, Spagna, Russia e Regno Unito. Loro erano gli unici colossi semi-tecnologizzati che avevano promesso di non sfruttare le loro terre e di non ridurre la popolazione in schiavitù.
“Era.” La voce di Leslie lo riportò alla realtà, strappandolo dalle sue supposizioni riguardo alla Guerra. “Il Regno Unito era uno degli Stati più tecnologizzati. Ormai è tutto spento anche lì. Nella mia città si brancola nel buio, non c’è nemmeno una candela.” Leslie fece un sorriso sprezzante e indicò la scrivania di Camillo, dove campeggiava una candela rosa. “Prima di entrare qui dentro non ne avevo mai vista una. Qualsiasi cosa era dentro la mia casa funzionava con l’elettricità.”
“Non esiste più casa tua?” Camillo aveva quasi paura della risposta.
“No.” Tossì di nuovo, ma stavolta uscì una schiuma rossastra dalle sue labbra. Camillo si alzò e prese una nuova pezza dal cassetto della sua scrivania.
Si inginocchiò sulla terra battuta e asciugò la bocca di Leslie. C’era troppa schiuma, ogni volta aumentava. Sempre meno sangue. Leslie non aveva nemmeno più sangue da sputare fuori, il che voleva dire che il suo corpo era quasi arido.
Una volta pulito tutto lo fece bere, sorreggendogli la testa. Leslie aveva gli occhi socchiusi, si intravedeva solo un filo bianco attraverso le ciglia dorate.
“La mia casa è stata bruciata per fare luce.” Leslie aveva un filo di voce, ma continuava a parlare. Non riposava fino a che non gli mancavano le forze. “Al Nord la luce del Sole si è ridotta a tre ore al giorno. Molte case sono state bruciate.”
Camillo strizzò forte la pezza che aveva tra le mani; sentì il sangue di Leslie scorrergli tra le dita. Il pianeta era impazzito e aveva rigettato qualsiasi tipo di tecnologia lo sovrastasse, ma con ciò era cambiato anche qualcos’altro.
Alcuni ipotizzavano che l’asse terrestre si fosse spostato e perciò la Terra non compiva più lo stesso giro. In alcune parti del mondo il Sole non sorgeva da anni, in altre non tramontava da altrettanto tempo.
“Mi spiace.” Si sentiva abbastanza stupido a dirlo, ma non sapeva che altro dire. Leslie fece spallucce, noncurante.
“Mi piaceva stare in Guerra, combattere. Ci sono ancora parecchie ore di luce qui in Italia.” Quasi sorrise. “Mi piaceva il Sole che mi scaldava la pelle...”
“Poi hai preso la malattia.” Disse Camillo.
“Poi ho preso la malattia.” Annuì Leslie.
Camillo guardò il viso rassegnato di Leslie. Ricordava come una settimana prima lo avessero trascinato nella sua tenda, quasi morente, come se fosse successo appena dieci minuti prima. Non avrebbe mai potuto dimenticarsi del suo volto arrabbiato mentre gli spiegava in cosa consistesse la malattia che lo aveva colpito.
Avevano iniziato a chiamarla tutti volgarmente la Malattia del Sole, Camillo non ricordava nemmeno più il suo nome scientifico. L’aveva spiegata a Leslie nei termini più semplici che conosceva: la popolazione nordica non era più abituata al Sole e quindi la loro pelle non era abbastanza forte da respingere i raggi ultravioletti. Dunque il corpo utilizzava tutte le sue forze per proteggere la pelle, usando tutti gli anticorpi disponibili. Con tutti gli anticorpi occupati, bastava un raffreddore ad ucciderti. Per Leslie era stata una banale ferita d’arma da fuoco alla spalla che non si era più rimarginata.
Camillo era riuscito ad arginare il sangue alla spalla, ma la schiuma alla bocca aveva preso a formarsi. Era come se il corpo di Leslie si stesse autodistruggendo, si stava corrodendo dall’interno. Le ossa erano fragili, come fatte di gesso. I capelli, i peli e le unghie avevano preso a staccarsi. Il suo stomaco si stava autodigerendo: ecco il perché della schiuma alla bocca.
L’infermiere alzò lo sguardo dalla pezza che stava stringendo e guardò Leslie. Si era finalmente addormentato, erano due giorni e una notte che non succedeva. Si alzò e gettò la pezza nella spazzatura. Più tardi si doveva ricordare di dare fuoco al sacco: per lui non era un problema, ma per i nordici era altamente infettivo.
Si mise a rassettare la tenda e decise che era il momento di chiudere le due brandine vuote. Hans e Markus erano morti ormai da un paio di settimane, ma ancora non si era deciso a far sparire quei due lettini. Camillo aveva fatto l’errore di affezionarsi a quei due soldati e mai aveva sofferto così tanto in vita sua quanto per la morte dei due. Si era ritenuto fortunato perché erano morti insieme, durante la notte: in quel modo aveva dovuto scavare una sola buca doveva aveva potuto sistemare entrambi e bruciarli.
Per quello si era ripromesso di non affezionarsi più a nessuno, avrebbe solamente cercato di alleggerire le pene di chi veniva a morire da lui. Perché era così, lui non poteva curarli ma solo aiutarli a morire con dignità.
Ma poi aveva varcato la soglia della tenda Leslie, incazzato nero perché quella ferita alla spalla gli aveva impedito di continuare a combattere. Nello stesso istante in cui aveva incontrato gli occhi tempestosi di Leslie, Camillo aveva capito che la sua promessa era stata vana. Leslie lo aveva stregato da subito, dal primo momento.
Gli ci erano voluti due giorni per farlo parlare, ma poi finalmente si era aperto. Gli disse che aveva iniziato a combattere in Italia tre anni prima, a quattordici anni, e che era la cosa più bella che gli fosse capitata in tutta la vita. Camillo aveva tremato al solo pensiero di un piccolo Leslie che faceva strage sul campo. Gli disse che era parecchio bravo con il fucile e che per questo a diciassette anni aveva già la sua squadra che sottostava ai suoi ordini. Gli confidò che all’inizio era stata dura non capire una parola di chi lo circondava, ma poi col tempo e la caparbietà era riuscito a padroneggiare la lingua italiana.
Tornò con la mente al presente, nonostante stesse pensando a pochi giorni prima, e trascinò le due brandine chiuse in un angolo della tenda. Si consolò pensando che Leslie non aveva conosciuto Markus e Hans e che quindi non avesse sofferto per la loro morte.
Andò a sedersi nuovamente alla scrivania e riprese a scrivere le lettere. Il respiro di Leslie lo aiutò a mantenere un buon ritmo per tutta la notte.
 
Quando si svegliò era ancora notte. Tirò su la testa dalla scrivania e staccò una lettera che gli si era appiccicata alla guancia sinistra. Si era addormentato dopo la cinquantaseiesima lettera della lista. Sbadigliò e si alzò. Lanciò uno sguardo alla brandina di Leslie; fortunatamente ancora dormiva.
Uscì dalla tenda e portò con sé quello che era rimasto della candela rosa e il sacco della spazzatura. Salutò un medico che passò in quel momento, un giovane dai capelli rossi che aveva la faccia tramortita per via del lavoro senza pausa, e si diresse alla fine dell’accampamento.
Trovò uno spiazzo di terra bruciacchiata e ci gettò sopra il sacco. Posizionò la candela sopra di esso e accese lo stoppino minuscolo con l’accendino che portava sempre in tasca. Nel giro di cinque minuti il sacco non esisteva più.
“Hey.” Una voce affaticata lo chiamò alla sua destra. Un uomo con in spalla un cadavere si dirigeva verso una fossa appena scavata.
“Giulio.” Camillo salutò il collega con un cenno della testa. Aveva frequentato l’università con lui, ma non erano mai stati particolarmente amici. Si fermò ad osservare; le mani olivastre di Giulio che posavano a terra il cadavere niveo.
“Mi daresti una mano?”
Non ci fu nemmeno bisogno di rispondere. Camillo e Giulio infilarono il corpo in quello spazio angusto e poi lo cosparsero di benzina. Il puzzo fece arricciare il naso ad entrambi, ma nessuno dei due fiatò. Cosa c’era da dire in momenti come quelli?
Camillo prese un rametto secco a terra e gli diede fuoco. Lo lanciò dentro la buca e le fiamme divamparono.
“Come si chiamava?” Chiese Camillo. Giulio fece spallucce e puntò lo sguardo verso le stelle.
“Non lo so. È arrivato stamattina, ma non ha avuto la forza di parlare. Era praticamente morto.”
Camillo gli diede una pacca sulla schiena e si allontanò, senza dire nulla. La gola gli si era stretta e sentiva i polmoni bruciare. Si impose di non pensare a Leslie. Non poteva pensare a Leslie. L’importante era che in quel momento il ragazzo fosse vivo, il resto non contava.
Andò in una tenda gigante che era stata adibita a bagno ed entrò. Si diresse ad un barile di plastica blu e si sciacquò il viso con l’acqua sporca. Passandosi le mani sul volto notò che la barba gli stava ricrescendo.
Sospirò a testa bassa, le mani appoggiate al bordo del barile. Una scossa di terremoto fece ondeggiare l’acqua, ma non se ne preoccupò. I terremoti erano all’ordine del giorno, come anche le alluvioni. Il mondo era impazzito, ma ormai a Camillo non interessava più.
Sollevò la testa e si specchiò in un frammento di specchio ricoperto da due dita di terra e polvere. Ci passò sopra la mano bagnata, lasciando solchi di fango. Ora riusciva a vedere i suoi occhi. Occhi che non stregavano, che erano di un marrone piatto. Come i capelli e la barba, castani senza alcun tipo di riflesso.
A volte si perdeva a guardare i colori dei nordici. I capelli biondi, del colore del sole, con delle sfumature rosse, castane, ramate; gli occhi cangianti che passavano dall’azzurro al celeste, dal verde al grigio; e la carnagione così chiara da sembrare trasparente, con le guance quasi sempre rosa e il naso chiazzato da lentiggini.
Si guardò ancora e i suoi occhi marroni, così scuri da sembrare come il mogano, vagarono per il suo corpo. Dallo specchio poteva vedere fino alla cintola: era dimagrito, il cibo scarseggiava. Gli rimanevano comunque il petto amplio e le spalle possenti; era comunque ben piazzato nonostante stesse dimagrendo a vista d’occhio.
Una nuova scossa di terremoto colpì la notte placida, questa volta con più forza. L’acqua si rovesciò dal barile e lo specchio si staccò, andando in frantumi. Camillo cadde a terra con esso e conficcò le dita nella terra dura, ancorandosi. Chiuse gli occhi e pregò di non morire, nonostante odiasse se stesso e il pianeta impazzito che abitava.
 
Entrò nella tenda e trovò la scrivania spostata di un paio di passi, la brandina di Leslie quasi al centro della stanza. Leslie tossiva, ma Camillo non capì se stesse dormendo o se fosse sveglio.
Prese una pezza e la inumidì nella tinozza che aveva portato dal bagno. Andò vicino a Leslie e gli pulì il sangue grumoso che fuoriusciva dal naso e la schiuma sempre meno rossa che gli usciva dalla bocca. Gli bagnò anche la fronte e poi gli pulì tutto il viso.
“È giorno?” Chiese Leslie con un sussurro. Camillo scosse la testa e pulì una goccia di sangue che era arrivata sullo zigomo chissà come. Gli si era stretta la gola di nuovo: Leslie assomigliava troppo a quel cadavere pallido che aveva seppellito nemmeno un’ora prima.
“Le notti si stanno allungando anche qui.” Leslie abbandonò la testa sul cuscino, chiudendo nuovamente gli occhi. “Stringimi la mano.” Camillo lo fece, intrecciando le sue dita con quelle magre e bianche.
“Ti manca la tua famiglia?” Camillo non seppe perché glielo chiese. Forse perché in quel momento Leslie gli sembrava un bambino abbandonato, solo e spaurito.
Leslie aprì gli occhi e sorrise, i denti macchiati di sangue. Anche le labbra erano ricoperte da una leggera patina di sangue crostosa. Camillo prese la pezza con la mano libera e gli pulì la bocca, il più delicatamente possibile.
“Mi manca la mia sorellina.”
“Non sapevo che tu avessi una sorella...”
“Ha otto anni.” Leslie aveva gli occhi persi nei ricordi, lontani da Camillo. “O almeno, ne aveva otto l’ultima volta che l’ho vista. Ho smesso di contare i suoi anni da quel momento, non so se sia viva o no.”
“Quand’è stata l’ultima volta che l’hai vista?” Camillo non sapeva se stesse facendo bene a far parlare Leslie di sua sorella, ma almeno quando parlava tossiva di meno.
“Il giorno che gli statunitensi hanno preso la mia città.” Serrò la mascella e parlò più lentamente, come se ogni parola che pronunciava fosse una coltellata. Forse non era stata una buona idea farlo parlare di sua sorella. “L’ultima volta che l’ho vista, quattro soldati la stavano stuprando davanti ai miei occhi.” Un sorriso amaro campeggiò sulle sue labbra. “Sono stato così codardo da non fare nulla per salvarla. Avevo paura che mi avrebbero ucciso.”
Camillo era pietrificato, respirava a malapena. Lui non aveva mai vissuto la guerra in prima persona: era passato dagli studi ai campi medici. Non aveva mai visto la realtà cruda che si celava al di fuori del suo piccolo mondo. E non poteva credere che Leslie, di quasi cinque anni più piccolo di lui, avesse vissuto e visto tutti quegli orrori.
“Così ho corso. Corso così veloce da sentir bruciare tutta l’aria che avevo nei polmoni.” Inspirò, come se anche in quel momento gli fosse mancata l’aria. “E arrivai all’accampamento scozzese dove mi arruolai.”
“Ti sei arruolato con un motivo nobile, per tua sorella.” Disse con voce strozzata l’infermiere. Leslie fece una risatina sprezzante e portò finalmente lo sguardo su Camillo. Quei due laghi ghiacciati sembravano averlo inchiodato a terra, incapace di muoversi.
“Ne ho visti tanti di orrori da quando mi sono arruolato. Non ho mai aiutato nessuno, non ho mai salvato nessuno. Ho solamente ucciso tutti quelli che mi si paravano davanti con una divisa dal colore diverso dalla mia.” Fece una pausa e respirò più velocemente. “Non ho mai fermato i miei compagni di squadra dallo stuprare ragazzine. E sai perché? Perché pensavo che fosse giusto così. Mia sorella aveva sofferto, perché avrei dovuto salvare qualcuno? Tutti meritavano di stare male quanto lei, tutte quelle bambine.”
Si creò un silenzio disumano, i respiri che avevano dei ritmi spezzati e non regolari, non rilassati. Il cielo lentamente si tinse di una miriade di colori e la luce all’interno della tenda cambio, cacciando via quel buio che aveva reso quei momenti così macabri.
“La pensi ancora così?”
“Importa qualcosa?” Leslie si strinse nelle spalle, quel tanto che gli permetteva la spalla slogata.
“A me importa.” Camillo diede uno strattone alla mano e fece sciogliere le dita. Leslie lo guardò con tanto d’occhi, come se avesse fatto la cosa peggiore di sempre.
“No, non la penso più così.” Leslie abbassò il viso, di nuovo la mente persa chissà dove. “Ero solo arrabbiato da morire. Arrabbiato tanto come quando ho scoperto di avere questa malattia. Ora la vivo con più leggerezza, credo che sia la giusta punizione per me.”
Camillo gli prese di nuovo la mano, stringendo forte. Avrebbe voluto dirgli che non era così, che non doveva dire certe cose. Voleva dirgli che sì, aveva sbagliato in passato, ma non si meritava la morte. Ma non gli uscì nemmeno una parola. Rimase lì a fissare Leslie, le sue guance, la sua fronte, la sua bocca, le sue ciglia e il suo piccolo nasino. Più lo guardava e più vedeva un bambino che non era pronto per morire.
Camillo non parlò ma si infilò nella brandina con lui. Leslie non fiatò, si fece solo un po’ più in là e gli fece spazio. Si strinsero, Leslie ancorato con tutta la forza che gli era rimasta alle spalle grandi e calde di Camillo. Le mani ricche di vene che accarezzavano i capelli pallidi, talmente dorati da sembrare fili di Sole.
E il Sole divampò, buttando un’intensa ondata di luce dentro la tenda. E Leslie sentì quella luce così calda scaldargli il petto, il cuore.
Un nuovo accesso di tosse lo colpì. La cassa toracica che tremava come non mai, il sangue che colava lungo il mento e la schiuma che strabordava. Ogni parte del delicato corpo era tesa fino allo spasimo, la pelle che quasi si spaccava.
Camillo non prese la pezza per pulirlo, semplicemente continuò a stringerlo. Voleva trasmettergli un po’ di calore umano che Leslie non aveva mai ricevuto da nessuno, al punto di finire congelato e solo.
“Thank you.” Riuscì a dire tra un colpo di tosse e l’altro.
Altro sangue, altra schiuma e pochi altri respiri. Poi nulla più. Solo il silenzio.
Il Sole era caldo quella mattina, sembrava quasi che la tenda non ci fosse.
Camillo si alzò, prese la piccola tanica di benzina vicino alla scrivania. Non ce l’avrebbe fatta a scavare una fossa per Leslie. Non avrebbe mai potuto prenderlo in spalla e buttarlo solo in una fredda buca. Non ce l’avrebbe mai fatta a vederlo bruciare, vederlo squagliare.
Andò di nuovo alla brandina, si sdraiò. Posizionò la tanica tra il suo petto e quello di Leslie. La mano gli tremava, ma l’accendino prese vita comunque. Lo mise sopra la tanica, aspettando che la piccola fiamma consumasse la plastica e arrivasse alla benzina.
Il fuoco divampò, proprio come un Sole, nell’istante in cui Camillo aveva appoggiato le labbra su quelle ancora calde e sporche di sangue di Leslie.






Piccolo spazio dell'autrice: Pubblicare questa storia per me è stata una lotta.
Non è la prima volta che pubblico un'originale su EFP, ma questa è la prima volta che sono così legata emotivamente ai personaggi.
L'ho scritta di getto, in meno di due giorni, e so che è carente in molti punti, ma più di così non sarei riuscita a fare.
Mi scuso di aver stravolto un po' le dinamiche del corpo umano, ma non mi intendo di malattie. Se ho fatto degli errori grossolani, sono stati fatti in buona fede.
Spero di aver spiegato bene le dinamiche del mondo che ho creato, della Guerra in particolare, e di non aver omesso dei dettagli essenziali.
Per il resto non ho nulla da dire...
Con affetto, Marceline- Flavia.

 
  
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