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Autore: SunliteGirl    04/05/2014    6 recensioni
Sono passati anni dall'ultima volta in cui Gilbert Beilschmidt e Feliciano Vargas si sono visti.
Quando una sera d'inverno si rincontrano per caso nel parcheggio accanto alla stazione di Berlino, ad entrambi sembra di non trovarsi più di fronte alla stessa persona che conoscevano.
La morte, il dolore e l'insicurezza lasciano segni che sono difficili da cancellare.
Ma c'è sempre tempo per ritrovare se stessi.
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Partecipa al contest "My beloved one" indetto da DallasEfp sul forum di Efp
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A volte ritorna! E quindi eccomi qui, a pubblicare questa storia su cui ho lavorato per settimane, cercando (invano xD) di renderla quantomeno decente. Però mi ci sono affezionata tanto -e avevo troppa voglia di scrivere su quei due ♥ -. è stata ispirata da una canzone dei Coldplay, "Charlie Brown".
Spero piacerà a qualcuno e che la leggerete in molti, mi renderebbe davvero felice :D
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Attenzione!
PruIta (?), con lievissimi accenni PruHun, GerIta, AusHun, Spamano e UsUK.
Presenza di un Feliciano depresso, un Gilbert semi-teppista e Punk!England.
Linguaggio colorito a causa della finezza espressiva (?) di Romano e Arthur.
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Dedicato a Rinalamisteriosa
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ludwig mi diceva sempre che c’era un momento giusto per ogni cosa.
Io pensavo che ci fosse sempre abbastanza tempo.
Ma poi sono bastati pochi secondi per cadere nel buio.

 

 
Cartoon Hearts
 


 
I stole a key
I took a car downtown when the lost boys meet
I took a car downtown and took what they offered me
To set me free
 
 
Gilbert cammina sull’asfalto con dei passi ben distesi, le mani al riparo dal freddo nelle tasche del suo bomber scuro.
Il parcheggio è illuminato appena dai lampioni e dai fari accesi delle poche auto presenti, il naturale silenzio della notte interrotto bruscamente dalla musica a palla che si diffonde dalle autoradio e dalle risate dei ragazzi in piedi accanto alle portiere spalancate. Queste vengono subito sostituite da sussurri concitati, non appena Gilbert passa loro davanti. Percepisce degli sguardi puntati su di lui, poi delle risate di scherno, ma non bada a loro.
Si ferma solo una volta raggiunto il ragazzo dalle folte sopracciglia seduto sul marciapiede, accanto al tabellone degli orari del tram. Un paio di occhi verdi si puntano su di lui, sorpresi e indagatori.
Un saluto appena accennato, e poi una mano dalle dita lunghe e magre si sporge offrendo una sigaretta da un pacchetto quasi consumato.
Marlboro rosse, le preferite di Gilbert.
I suoi occhi indugiano sul viso del ragazzo che gli sta davanti per qualche secondo e non si stupisce nello scorgere l’accenno di un livido sullo zigomo, a qualche centimetro dal naso. Gilbert afferra una sigaretta con le dita e se la porta alle labbra sottili, piegate in un sorriso divertito. La mano dell’altro getta con noncuranza il pacchetto ormai vuoto sull’asfalto, prima di ritirarsi nella tasca della giacca in pelle nera.
Gilbert si lascia cadere senza troppe cerimonie accanto all’amico, percependo subito l’umidità del cemento attraversare la stoffa consumata dei suoi jeans; gli sfugge una risata, rauca, mentre pesca dalla tasca dei pantaloni un accendino blu elettrico.
«Cazzo hai da ridere, Beilschmidt?» esclama l’altro, irritato. Gilbert ride ancora più forte di prima, fino a quando il fumo inspirato dalla sigaretta ormai accesa non lo fa tossire.
L’amico gli dà una pacca sul braccio, indicando con un cenno la sigaretta ancora spenta che stringe fra le labbra, e Gilbert gli passa l’accendino. Segue un borbottio, forse un “grazie” appena accennato.
«Con chi hai fatto a pugni questa volta?» chiede, dopo aver osservato l’altro prendere una boccata di fumo e liberarlo nell’aria in una spirale sottile .
L’amico aggrotta le folte sopracciglia, le dita che inconsciamente sfiorano la ferita sul viso.
«Non avevi detto che non saresti più venuto?» dice, cercando di sviare il discorso.
Gilbert abbassa lo sguardo, appoggiando i gomiti alle ginocchia.
«Immagino sia stato ancora Jones… Per cos’avete litigato? Una caramella?»
«Non provare a darmi del bambino, Magnifico». Il ragazzo pronuncia il soprannome di Gilbert con tono sarcastico, ruotando gli occhi.
Gilbert nota un nuovo piercing sul lobo destro dell’amico, appena coperto dai folti e spettinati capelli biondi, e arriccia il naso. Non gli sono mai piaciuti, i piercing.
«So cosa ti stai chiedendo, Art…» esclama, piegando le labbra in un sorriso.
«È Arthur, non chiamarmi in quel modo ridicolo».
«… “Chissà come se la sarà passata il Magnifico Gilbert in queste ultime settimane!”».
Arthur sbuffa. «Non me lo sono chiesto affatto, you idiot».
«E sappi che anche tu mi sei mancato. Un po’» continua imperterrito Gilbert, «In ogni caso, sono stato divinamente. Ho pure ottenuto un appuntamento da quella commessa carina del Charleston… Hai presente, no? Il negozio di dischi»
«Gilbert…»
«Ma aveva qualcosa di strano, quella ragazza. Insomma, non era abbastanza magnifica per il Magnifico Me e così ho pensato di chiudere subito, prima che si illudesse troppo. Sono un tipo così sensibile» esclama convinto, annuendo fra sé e sé.
Gilbert decide che non c’è motivo di raccontare all’amico che in realtà è stata lei a piantarlo, dopo avergli versato un drink in testa. Non avrebbe funzionato comunque. È troppo poco femminile e aggraziata per i suoi gusti, e non importa quanto siano belli i suoi occhi smeraldini, o le fossette che le spuntano sulle guance non appena sorride.
O, almeno, questo è quello che continua a ripetersi.   
«Gil, che ci fai qui?» chiede Arthur, interrompendo il filo dei suoi pensieri. «Ti ho cercato ovunque, sai? Sembravi sparito nel nulla. Non mi sono preoccupato per te,ovviamente, ma ho pensato… Ho pensato che ti fosse successo qualcosa».
Gilbert si zittisce. Fa cadere un po’ di cenere sull’asfalto, vicino alla suola della scarpa.
«Dovevo pensare un po’, e poi ho una questione da risolvere con Braginski».
«Avevi detto che non avresti preso più nulla da lui» sussurra l’amico, guardando con la coda degli occhi le macchine parcheggiate poco distanti da loro. «Non mi va di vederti in ospedale un’altra volta».
Gilbert si porta la sigaretta alle labbra, inspirando. Rimane in silenzio, gli occhi color rosso puntati sul muro grigio dall’altra parte della strada.
«Miseria, non fare il coglione e vattene» ripete Arthur, alzando appena il tono di voce.
«Non voglio prendere niente da lui… Ho chiuso con quella roba».
«E allora che vuoi fare? Lo sai che non è un tipo da chiacchieratine amichevoli, e ringrazia quel tuo culo enorme per il fatto che lui e Yao non siano ancora arrivati».
Gilbert ride appena, per niente impressionato dalle parole dell’amico. Sboccato come sempre.
«Volevo solo chiedergli se aveva un lavoretto da darmi. Sono rimasto a secco, e lui ha parecchi debiti con me».
«Puoi avere tutti i debiti che vuoi con lui, ma sai che ce l’ha a morte con chi decide di andarsene… È già un miracolo che lui ti abbia lasciato vivo».
«Non ho paura di lui» esclama Gilbert, sicuro di sé.
Ivan Braginski è parecchio temuto, e non solo da quelli che lavorano per lui, anche dalle altre bande. Gilbert è sempre stato l’unico ad avere il coraggio di sfidarlo oltre a Yao Wang,  il suo braccio destro, ed è per questo che Ivan lo rispetta, nonostante il rancore che c’è fra loro. E poi, Gilbert ha imparato ad eseguire i lavori che gli vengono assegnati con estrema precisione e mente fredda. Nulla è mai andato storto.
Finché non ha commesso uno sbaglio. Un piccolo errore. Solo un piccolo, insignificante errore, che ancora lo tiene sveglio tutte le notti. 
«Sei proprio un idiota» sussurra Arthur. «Hai la possibilità di tirarti fuori da tutto questo… Non capisci nemmeno quanto tu sia fortunato».
Arthur scuote la testa e torna a fumare in silenzio.
Gilbert sa che ha ragione. Si era ripromesso di non tornare e sa benissimo che le persone Magnifiche mantengono sempre le promesse. Soprattutto se l’ha promesso alui, di fronte alla sua foto un po’ sbiadita.
Dovrebbe alzare le chiappe e andarsene, come gli dice Arthur. Ma non sarebbe anche questa una cosa ben poco da lui? Non è un coniglio che scappa di fronte al cacciatore, non lo è mai stato.
Ma si tratta davvero di coraggio, alla fine?
«Oltre a te, non mi resta nessuno. Da chi dovrei andare? I miei genitori non li vedo da tre anni, con che coraggio…» Gilbert si zittisce per un attimo. «Non ho altre possibilità oltre a questa, lo sai. Tu sei ancora in tempo, non sei solo».
Arthur si limita a scuotere la testa, rimanendo in silenzio.  
Fa per aggiungere qualcos’altro ma, ad un tratto, gli occhi di Gilbert vengono distratti da un movimento alla sinistra del suo campo visivo. Arthur gli tira una gomitata al braccio.
«Chi cazzo è quello?».
Gilbert scorge una figura che prima non c’era, proprio sotto al lampione.
Un ragazzo dai capelli rossicci e l’aria di chi sa di trovarsi nel posto sbagliato. Indossa un lungo cappotto bianco, che sembra quasi brillare nell’oscurità della notte, e continua a guardarsi attorno quasi stesse aspettando qualcuno, le mani intente a stringersi l’un l’altra, forse per il nervosismo. È il ricciolo di capelli alla sinistra del suo viso che, ribelle, punta verso l’alto a lasciarlo senza fiato per la sorpresa.
Arthur ridacchia ed esclama qualcosa, ma Gilbert non lo sta più ascoltando.
Si alza in piedi di scatto, facendo cadere a terra la sigaretta e spegnendola sotto la suola della scarpa.
«Ehi, dove vai?» gli chiede Arthur, mentre l’osserva perplesso dirigersi a passo veloce verso il ragazzino sotto al lampione. Non riceve risposta.
Rimane immobile per qualche momento, spiazzato dal comportamento insolito di Gilbert, fino a quando l’improvviso suono di un clacson a qualche metro da lui non lo fa sobbalzare e balzare in piedi.
Si volta, scorgendo un ragazzo con addosso un improbabile bomber marrone a bordo di una decapottabile blu scuro, intento a mostrargli il dito medio. Un attimo dopo ha già cominciato a ridere sguaiatamente. Quell’idiota di Alfred F. Jones, il ragazzino che ha incontrato per caso una sera nel retro di un McDonald’s e di cui non è più riuscito a liberarsi. Non sa ancora se poterlo definire suo amico, dal momento che non fanno che litigare. E poi è un americano, e tutti sanno che gli americani sono dannatamente irritanti.
Arthur ricambia il gesto di Jones, mettendo a tacere la parte del suo cervello intenta a rimproverarlo per il suo comportamento molto poco da gentleman.
«Vieni a fare un giro?» esclama Jones a voce alta, tamburellando le dita sul volante.
Arthur sbuffa, lo rimprovera di essere un idiota e dice di non fidarsi affatto di lui alla guida, soprattutto se l’ha presa da nemmeno un paio di mesi, e che non l’ha ancora perdonato per la litigata di ieri, ma alla fine accetta. Forse perché nota che il labbro inferiore di Alfred non si è ancora sgonfiato del tutto dopo il gancio che gli ha tirato ieri sera, e nonostante tutto si sente un po’ in colpa. Ma solo un po’.
Prima di avvicinarsi alla decapottabile, si volta un’ultima volta verso Gilbert, che sembra essersi ormai avvicinato al ragazzo sotto al lampione. Scuote la testa.
«È proprio un idiota».
Jones preme un’altra volta la mano sul clacson.
 
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Feliciano Vargas rimane immobile accanto ai cartelloni pubblicitari, sentendosi un po’ più sicuro sotto la luce del lampione. Cerca di non guardare verso le auto parcheggiate a qualche centinaio di metri, con la paura di incrociare lo sguardo dei ragazzi che continuano a parlare a voce alta e a sghignazzare.
Romano gli aveva detto di non andare, che di notte quello era un posto pericoloso per uno deboluccio come lui, ma non ha voluto ascoltarlo. E ora se ne pente.
Feliciano non è mai stato una persona particolarmente coraggiosa, del resto, e questo momento non fa eccezione.
Getta un’occhiata nervosa all’orologio che porta al polso. Un modello di qualche anno fa, dal cinturino colorato d’azzurro e le lancette bianche; glielo aveva regalato il suo migliore amico, Ludwig, per il suo diciassettesimo compleanno. Gli disse di averlo visto in vetrina mentre passeggiava in centro, e che aveva pensato a lui. «Adesso non avrai più scuse per arrivare in ritardo». Ludwig era sempre stato fiscale su certe cose; lui era così organizzato preciso nel gestire il suo tempo e la sua vita, che a volte non poteva che ammirarlo, nonostante non facesse che prenderlo in giro per quella sua agenda in cui fissava ogni singola sciocchezza. Per Feliciano il tempo sembrava sempre scorrere così lentamente, quasi fosse qualcosa di relativo e trascurabile, ma non per Ludwig. Feliciano aveva sorriso mentre l’altro gli stringeva il cinturino attorno al polso, e da allora non se l’è tolto nemmeno una volta.
Gonfia le guance nel leggere l’ora.
Le 22:30. Sono in ritardo.
Decide di andare a ricontrollare gli orari del treno, forse ha sbagliato a leggere, forse…
«Ehi, tesoro, che ci fai qui tutto solo?»
Si sente gelare nell’udire quella voce alle sue spalle. Rauca e divertita, minacciosa e allo stesso tempo familiare. Quasi un eco a risvegliare qualcosa nella sua memoria.
Ma prima ancora di riuscire a capire cosa sia quella sensazione, Feliciano ha già alzato le mani in aria e «Non mi fare del male!» grida, gli occhi che pizzicano per le lacrime trattenute. Si volta verso la fonte di quella voce, continuando ad agitare la mano con paura e a ripetere come una nenia «Ti prego, ti prego, ti prego».
Le sue labbra si chiudono nel momento in cui, invece del teppista con un coltello in mano che si era aspettato, si ritrova davanti un ragazzo alto e dai capelli bianchi, il busto sporto verso di lui e un’espressione che sembra quasi preoccupata sul suo volto pallido.
«Ehi, scusa…  Stavo solo scherzando, non era mia intenzione spaventarti».
Feliciano continua a fissare gli occhi rossi che lo guardano di rimando, l’eco che si fa sempre più forte. Non è la prima volta che incontra un albino. E non è la prima volta che incontra un albino con una voce tanto rauca, nemmeno. Si lascia sfuggire un singulto, nel riconoscere chi gli sta davanti.
Il ragazzo dagli occhi rossi sobbalza non appena Feliciano si aggrappa a lui, facendo passare le braccia esili dietro al suo collo.
«Gilbert!» grida, ridendo un po’ per la gioia e un po’ per il sollievo. Sente il corpo dell’altro, un attimo prima rigido, rilassarsi, mentre le sue braccia si posano sulla schiena di Feliciano a ricambiare l’abbraccio con una presa forte. Le mani di Gilbert si aggrappano al suo cappotto bianco.
«Ciao, Feli».
Feliciano si separa da lui dopo qualche attimo, per posare le mani sulle sue spalle. Sbatte le palpebre, incredulo, e poi Gilbert sorride.
«Non sei cambiato per niente. Sempre il solito fifone».
Feliciano ride, prima di osservare bene il volto di Gilbert.
Vorrebbe dirgli che anche lui non è cambiato per niente, ma sarebbe una bugia. Forse è la cicatrice sottile che gli segna la mascella squadrata, e che prima non c’era, a farlo sembrare così cambiato.
«Sono passati anni da quando ci siamo visti l’ultima volta!» esclama Feliciano, «Mi chiedevo se stessi bene, perché…».
In quest’istante un Gilbert diverso si para di fronte ai suoi occhi, più giovane e con i capelli spettinati dal vento di novembre,  lo sguardo distrutto di chi sa di aver perso ogni cosa.
Feliciano deglutisce. A volte i ricordi sembrano non poterlo lasciare in pace.
«Ricordati che è con il Magnifico Me che stai parlando!». Gilbert spalanca le braccia, un ghigno beffardo sulle labbra. «Ci vuole ben altro per buttarmi giù. Dovresti saperlo bene, Feli».
Gilbert ride ancora di quella risata strana che anni prima aveva sentito tante volte, quando andava a casa del suo migliore amico per fare i compiti e lui lo salutava dal corridoio, a squarciagola, per poi urlare ancora più forte non appena Ludwig gli gridava di stare zitto. Ma nonostante i litigi si volevano bene, questo il suo migliore amico glielo diceva sempre. «È pur sempre mio fratello, per quanto idiota».
Forse avrebbe dovuto chiamarlo in questi anni, come aveva promesso di fare. Gli era proprio passato di mente, com’è possibile?
Il sorriso di Feliciano si affievolisce un po’, al pensiero.
«Che cosa ci fai qui?» anche lo sguardo di Gilbert si è fatto più serio. «Non è il posto più adatto ad una passeggiatina, sai…»
«Oh, questo lo so! In realtà sto aspettando mio fratello…Ti ricordi di Romano, no? Lui e i nostri amici dovrebbero essere già qui, ma sono in ritardo».
Il sorriso ricompare sul volto di Gilbert, questa volta più sincero.
«Allora starò qui con te finché non saranno arrivati».
Feliciano agita le mani, scuotendo la testa.
«Non serve che ti disturbi, ve… Saranno qui a momenti e m-me la so cavare da solo…». Lancia un’occhiata verso i ragazzi in piedi accanto alle automobili, deglutendo. Uno di loro, un ragazzo dalle grosse sopracciglia e l’aria irritata, li sta fissando da una decapottabile blu con un’aria poco convincente. Feliciano rabbrividisce.
«A-almeno che tu non abbia nient’altro da fare, ve. A-allora potresti anche stare qui. Solo dieci minuti».
Gilbert annuisce. «Bene, allora».
Feliciano lo ringrazia, le mani giunte davanti al suo viso. « Sai, avevo pensato di aspettarli dentro, in quel ristorante dove preparano anche la pasta, ma a quanto pare qui i negozi chiudono tutti a mezzanotte».
Gilbert si perde nell’osservare l’amico parlare gesticolando con energia, un’espressione sconsolata sul viso, e non riesce a trattenere una risata.
«Questa sì che è una disdetta!»
«Infatti!» esclama con tono lamentoso.
«Ma tuo fratello non abitava qui con te?» chiede Gilbert, infilando le mani in tasca.
«Adesso non più, si è traferito a Monaco per frequentare l’Università… Mi manca tanto, e mi sembra di non vederlo mai abbastanza, nonostante venga a trovarmi non appena può». Feliciano picchietta l’indice sulle labbra con fare pensoso. «Credo che Romano si arrabbierà, voleva che io rimanessi a casa… Per evitare i teppisti, ha detto».
Gilbert ruota gli occhi. «Tuo fratello a volte si preoccupa troppo. Dovrebbe fidarsi un po’ di più, sei un adulto ormai».
«Oh, ma lui lo fa solo perché mi vuole bene». Feliciano sorride dolcemente, nel pensare al fratello maggiore.  «Penso che sarà felice di rivederti…».
«Non ci giurerei» sussurra Gilbert, soffocando una risata. Romano non sembrava aver mai apprezzato né lui, né suo fratello, nonostante Feliciano avesse sempre cercato di fargli cambiare idea su di loro.
«… E non dovrai aspettare molto, promesso! Antonio e Francis ti piaceranno, ne sono sicuro».
«Chi, gli amici di Romano?» chiede Gilbert, ma l’altro non risponde, intento a dondolarsi spostando il peso prima su una gamba e poi sull’altra con aria pensosa.
Guarda di nuovo l’ora, e Gilbert inarca un sopracciglio.
Feliciano il ritardatario, a cui il tempo era sempre sembrato qualcosa di astratto e a lui completamente estraneo, secondo cui la vita era troppo breve per trascorrerla incollati ad un orologio, sembra ora fissare le lancette muoversi come se da loro dipendesse qualcosa di fondamentale importanza. 
Feliciano solleva lo sguardo non appena sente un singulto provenire dal ragazzo di fronte a lui. Gli occhi rossi sono sgranati, le labbra serrate.
«Quello è…». L’indice di Gilbert si alza, puntando il polso di Feliciano. Questo torna a guardare l’orologio, sentendosi sempre più confuso.
«È solo l’orologio che mi ha regalato Lud…wig». Oh.
«Sì… Scusami». Gilbert si passa una mano fra i capelli. «È solo che mi fa un effetto strano rivederlo. Tutto qui». Solo un sussurro, seguito da una risata rauca, così falsache per un momento i suoi occhi non riescono più a sostenere la vista di quel viso pallido.
Abbassa di nuovo lo sguardo al polso.
«Lo porto sempre con me». Feliciano accarezza il cinturino con la punta delle dita, quasi perdendosi in quell’azzurro simile al cielo d’inverno. « Il colore del cinturino, vedi? Mi ricorda tanto i suoi occhi… P-per questo non ho mai avuto il coraggio di toglierlo».
Solleva lo sguardo, incontrando quello di Gilbert. Non sa perché l’ha detto. Gli è semplicemente sfuggito dalle labbra, che ora hanno cominciato a tremare. Forse vuole solo che Gilbert gli dica che lo capisce, che non è l’unico a sentire quella sensazione di vuoto nel petto ogni volta che respira. Eppure si sente così stupido.
«Feli…». Gilbert fa un passo avanti e la sua mano si solleva, forse per posarsi sulla spalla dell’amico, ma rimane ferma a mezz’aria. Feliciano scuote la testa, «Va tutto bene».
Non piangerà di nuovo. Ludwig lo rimproverava sempre quando piangeva, «Devi imparare ad essere forte, non potrò sempre essere qui a proteggerti», e Feliciano si è impegnato tanto per diventarlo, ma non è sicuro di esserci riuscito.
Si sfrega gli occhi con una mano e poi solleva il viso per mostrare un sorriso calmo e rilassato. Gilbert sembra sul punto di dire qualcosa, ma alla fine rimane in silenzio.
I due si guardano, cercando qualcosa negli occhi dell’altro che forse è ormai andato perduto. Qualcosa che li aiuti a riconoscere la persona che hanno davanti, qualcosa che li riporti al passato. Parole che non sono mai state dette in quel giorno di novembre.
Ad un tratto qualcuno grida il nome di Feliciano e il ragazzo sussulta, nel riconoscere la voce che lo sta chiamando. Quando incontra di nuovo lo sguardo di Gilbert, capisce che il momento si è spezzato insieme a quella voce che sta gridando il suo nome.
«Ohi, che ci fai lì?!»  
Feliciano si volta appena in tempo per scorgere suo fratello correre verso di loro con sguardo minaccioso. Romano si para davanti al fratello, la fronte aggrottata e le guance rosse per la rabbia. Gli occhi furibondi di Romano, ombrosi e coperti in parte dal ciuffo di capelli castani che gli ricade sul viso, si fissano prima sul fratello e poi sull’albino. 
«E questo chi cazzo è?» sibila, squadrando Gilbert da capo a piedi.
Feliciano abbraccia suo fratello da dietro, un sorriso allegro sulle labbra.
«Finalmente sei arrivato! E Tonio e Fran dove sono? Non li vedo… Non sono venuti con te? Eppure mi sembrava di aver capito che…»
La confusione iniziale negli occhi di Gilbert fa spazio ad uno sguardo beffardo, nel momento in cui riconosce il nuovo arrivato, ora intento a liberarsi dalla stretta del fratello.  
«È un piacere rivederti, Romano!» esclama, interrompendo il discorso di Feliciano, e subito dopo ha già dato una sonora pacca sulla spalla del nuovo arrivato, con fare amichevole.  
Romano fissa l’albino corrucciato e sospettoso.
«E tu come diamine fai a sapere il mio nome?». Poi si volta verso Feliciano. «E tu, razza di idiota, ti ho cercato ovunque, non lo sai che l’entrata è dall’altra parte dell’edificio?!»
Feliciano prova a rispondere, ma il fratello non gli lascia il tempo di farlo.
«Io penso di farmi un viaggio in pace e poi tu mi mandi un cazzo di sms in cui mi dici che stai qua fuori! Non ti avevo detto di aspettarci a casa? E che ci fai insieme a questo teppista?».
Feliciano mostra un sorriso tirato. Odia vedere suo fratello arrabbiato, lo fa sentire nervoso.
«È Gilbert» esclama, cercando di calmare il fratello. «Gilbert Beilschmidt».
Feliciano rilascia un sospiro di sollievo, nel momento in cui l’espressione sul volto di Romano si fa via via più rilassata. Quando si arrabbia è sempre imprevedibile e l’ultima cosa a cui vuole assistere è una zuffa fra suo fratello e Gilbert, specialmente dopo averlo appena rincontrato.
Gli occhi verdi di Romano incontrano quelli ambrati di Feliciano. Sembrano preoccupati, mentre lo fissa con la bocca leggermente socchiusa, quasi volessero chiedergli “Stai bene?”
«Sembri stupito di vedermi» esclama Gilbert all’improvviso, e Romano sobbalza. Il tedesco scoppia in una risata. «La mia aitante bellezza lascia spesso senza fiato chi ha la fortuna di incontrarmi, ma togliere addirittura la parola! Così mi lusinghi, Roma». E fa un occhiolino.
Feliciano osserva le guance di Romano chiazzarsi nuovamente di rosso e poi le sue labbra aprirsi per gridare «Certo che no, crucco bastardo! Ti avevo riconosciuto subito, che credi? Ma sarei campato benissimo altri cent’anni senza dover rivedere quel tuo brutto muso».
«Non devi trattenere la tua gioia per aver rincontrato il Magnifico Me in tutto il suo splendore, Romano! So che ti sono mancato».
Feliciano, un attimo prima intento a osservare la scena con aria divertita, sussulta per la paura non appena il suo sguardo si posa sugli individui poco rassicuranti che sembrano essersi accorti della loro presenza, e si aggrappa al braccio del fratello.
«Non urlare, Romano, così ci guardano tutti» esclama con tono spaventato.
«Io urlo quanto cazzo mi pare!»
La risata di Gilbert s’interrompe, ad un tratto. Aggrotta le sopracciglia e punta il dito indice alle spalle di Feliciano.
«E quelli là chi sono?»
Feliciano si volta nella direzione indicata da Gilbert e le sue labbra si spalancano in un sorriso. Antonio e Francis si stanno avvicinando a loro, camminando con passo svelto sull’asfalto.
«Ehi, Romanito!» grida Antonio con un marcato accento spagnolo. È il più alto dei due, la pelle abbronzata  e un sorriso allegro stampato sul volto. «Vedo che hai trovato Feli!».
Deve avere caldo, dal momento che indossa solo una maglietta a maniche corte. Forse è per lo zaino che sta portando sulle spalle, insieme ad altre due valigie che tiene in mano… Devono pesare parecchio.
«Roma, mi querido, ho portato anche le tue borse! Per la fretta le avevi dimenticate sul treno».
Romano si lascia sfuggire un’imprecazione accompagnata da un «Non chiamarmi così, idiota!», e Feliciano sorride. Li saluta entrambi a gran voce, saltellando sul posto per la gioia, e poi corre loro incontro. Abbraccia prima Antonio e poi Francis, scoccando due baci su entrambe le guance.  
«Bonsoir, Feli, mon ami. Ci hai fatti preoccupare, sai?» esclama Francis, dai capelli biondi lunghi fino alle spalle e gli abiti apparentemente costosi, non appena Feliciano si separa da lui. Trascina con sé un trolley laccato di viola, la stampa rossa della Tour Eiffel sul davanti.
«Mi dispiace, Francis» esclama Feliciano con voce preoccupata, guardandoli con un’espressione triste negli occhi.  
«Non importa!». La mano di Francis si posa sui capelli dell’amico, scompigliandoli con affetto. «Il tuo Fratellone è felice di rivederti… Diventi sempre più carino!» aggiunge, e Feliciano scoppia in una risata allegra. A Gilbert non sfugge l’occhiataccia che Romano lancia al francese.
Lo sguardo di Francis si posa sulla figura dell’albino, che se ne sta in piedi poco distante da Feliciano.
«Non ci presenti il vostro amico?» chiede, curioso.
Il viso di Feliciano sembra quasi illuminarsi, mentre annuisce con energia.
«Lui è…»
«Quello lì non è nostro amico!»
«Sono il Magnifico Gilbert, piacere di conoscervi!». L’albino mostra un’espressione sicura di sé mentre stringe con vigore la mano ai nuovi arrivati.
«Che nome strano!» esclama lo spagnolo con tono allegro, «Io sono Antonio Fernandez Carriedo, piacere, e lui è Francis Bonnefoy».
Francis annuisce con un sorriso, prima di voltarsi verso gli altri due.
«Che dite, andiamo? »
Antonio batte le mani con allegria, prima di prendere a braccetto Romano e cominciare a trascinarlo lungo il parcheggio.
«La notte è giovane!» esclama, ignorando i pugni dell’altro. «Propongo di andare a fare un giro in ogni locale della città e vedere chi sbotta per primo!»
«Un cazzo! Lasciami andare, idiota!».
Francis comincia a ridere.
«Appoggio l’idea di Antoine, come sempre! Oh, Feli…». Feliciano alza lo sguardo. «Puoi dirmi dove hai parcheggiato?»
Feliciano infila le mani nelle tasche del capotto e mordendosi il labbro inferiore continua a rovistare fino a quando non sente il tintinnio del suo portachiavi.
Si tratta di un souvenir che ha comprato durante il viaggio fatto a Venezia l’estate scorsa, quando lui e Romano sono tornati in Italia per rivedere il nonno. Romano ne ha uno di Roma, invece, la città in cui sono nati e cresciuti. In questo modo sembra a entrambi di averle sempre con loro, le città che tanto amano, per quanto possa sembrare sciocco. Ormai è da anni che vivono a Berlino, ma è come se una parte di loro fosse rimasta ancorata a casa, alla loro Italia, e non se ne fosse più andata.
«Ecco» esclama con tono allegro, porgendo le chiavi a Francis. «La macchina è là in fondo, la 500 rossa alla fine del parcheggio».
Francis ringrazia con un occhiolino e poi si avvia dietro ad Antonio e Romano.
Feliciano rimane fermo accanto a Gilbert, intento a osservare il vuoto con aria pensosa.
«Tu non vai?» chiede dopo qualche attimo, inarcando un sopracciglio.
Feliciano sbatte le palpebre, nel sentirsi chiamare, ma poi sorride.
«Vieni anche tu con noi! Ci sono talmente tante cose che devo chiederti…»
Gilbert sembra titubante. «Non saprei…»
Il suo sguardo si posa sulle auto alle loro spalle e sui ragazzi che ancora se ne stanno in piedi vicino alle portiere aperte. Il ragazzo con la giacca di pelle e le sopracciglia folte non c’è più.
Arthur se ne è andato, a quanto pare.
Braginski e i suoi arriveranno fra poco, e non può perdere l’occasione di parlargli. È il motivo per cui è tornato ancora una volta, nonostante tutto quello che è successo, e sarebbe un codardo se ora se ne andasse. Gli sembra quasi di vederlo, il sorriso crudele e compiaciuto di Braginski, e gli occhi viola puntati sui suoi, la sensazione di essere un giocattolo vecchio nelle mani di un bambino crudele. Stringe i pugni per la rabbia.
Quando si volta di nuovo, però, i suoi occhi incontrano quelli allegri di Feliciano.
«Vieni con me».
Osserva la mano candida che si sporge davanti a lui, e poi di nuovo il suo viso.
Il sorriso di Feliciano è spontaneo e rassicurante, caldo, quasi come il sole.
Si rende conto solo ora di quanto gli sia mancato quello strano ragazzo che gironzolava sempre attorno a suo fratello, una risata talmente allegra da essere contagiosa e una gentilezza così disinteressata da lasciarlo in imbarazzo, a volte.  
Non c’è più traccia di esitazione negli occhi di Gilbert quando la sua mano si posa in quella di lui.
 
«Oggi guido io!»
«Ma neanche per sogno! Non ho voglia di farmi uccidere da un idiota spagnolo».
«Tanto le chiavi ce le ho io, ha
«Touché».
«Dalle a me, cazzo! Non mi fido di voi decerebrati».
«Gentile come sempre, Romano».

 
I saw the lights go down at the end of the scene
I saw the lights go down 
And they’re standing in front of me
 
 



 
 
 



 
In my scarecrow dreams
When they smashed my heart into smithereens 
Be a bright red rose come bursting the concrete
Be a cartoon heart
 
Si sono fermati in un locale vicino al Sony Center, che Feliciano dice di conoscere bene. Un posto abbastanza affollato, con un’ampia pista da ballo al centro della sala e dei divanetti bianchi tutt’attorno. Non ne ricorda più il nome, nonostante l’abbia letto di sfuggita sull’insegna fuori dall’edificio. 
Il tragitto in auto è stato un via vai di schiamazzi, battute e battibecchi, e Gilbert pensa di non essersi divertito così tanto da fin troppo tempo. Ha scoperto di avere molte cose in comune con Francis e Antonio, nonostante i caratteri completamente diversi, dall’amore per il divertimento fino alla naturale predisposizione ai guai, e ha parlato con loro a lungo. Antonio gli ha passato i loro numeri di cellulare, in caso gli venisse voglia di uscire per una bevuta, e Gilbert li ha accettati con un ampio sorriso.
Romano interveniva solo se interpellato, o per gridare loro di stare zitti, perché stava guidando, per Dio!, ma per il resto si è limitato a fissare la strada con aria imbronciata.
Feliciano è rimasto stranamente in silenzio lungo l’intero tragitto, perso in qualche pensiero. Quando Gilbert gli ha chiesto se andasse tutto bene, ha semplicemente sorriso e annuito, prima di tornare a guardare il paesaggio cittadino fuori dal finestrino.
Anche ora, mentre se ne stanno seduti ad un tavolino dalla superficie di vetro, l’uno accanto all’altro, Feliciano continua a mordicchiare la cannuccia nera che spunta dal bicchiere di Mojito ancora pieno. Il suo sguardo è perso in qualcosa davanti a sé, che Gilbert non riesce a vedere.
Dopo aver lasciato i cappotti al guardaroba, si sono seduti ad uno dei tavolini separati dalla pista, poco lontano dal banco bar, e al riparo da occhi indiscreti. Francis se ne è andato da minuti, esclamando con le braccia spalancate «Scusate, ma l’ Amour mi chiama!» prima di precipitarsi da qualche parte in mezzo alla folla, e Romano ha seguito Antonio nella pista da ballo qualche attimo dopo, forse esaurito dall’insistenza dell’altro. E così Gilbert è rimasto solo con un Feliciano quasi irriconoscibile. Associare le parole Feliciano e Silenzio equivale quasi ad un paradosso, eppure Gilbert si ritrova a dover credere che anche questo sia possibile.
Fa spallucce e poi afferra il manico del bicchiere di vetro posato davanti a lui, portandoselo alle labbra. Beve un lungo sorso di birra, bionda come piace a lui, e poi lascia andare un sospiro compiaciuto. Appoggia di nuovo il bicchiere al tavolo e si pulisce la bocca con la manica della maglietta.
La birra tedesca rimane sempre la migliore, pensa annuendo fra sé e sé.
«Che cos’è?»
Gilbert volta il viso alla sua destra, quasi sollevato che l’altro si sia finalmente deciso a parlare. Osserva lo sguardo curioso di Feliciano posarsi insieme alle dita sul suo collo, poco sotto la nuca, e poi quelle stesse dita scostare la sua maglietta fino a scoprire parte della spalla. Gli occhi cremisi, incuriositi e allo stesso tempo perplessi, si fissano sul tatuaggio di un pulcino giallo in stile manga, disegnato sulla sua pelle.
Gilbert sorride.
«Oh, parli di Gilbird!» esclama, «Me lo sono fatto fare un anno fa».
Feliciano comincia a ridere, di una risata dolce e allo stesso divertita, perché solo Gilbert potrebbe dare un nome ad un pulcino tatuato su una spalla.
«Non avevo mai visto un tatuaggio così». Poi solleva lo sguardo, incontrando quello di lui. I suoi occhi ambrati sono così limpidi e sinceri mentre dice «Però mi piace».
Gilbert non sa perché all’improvviso si sente così agitato, o perché le guance sono diventate così calde. Distoglie lo sguardo da quello di Feliciano, tirandosi su la maglietta, e scoppia in una risata nervosa.
«Ovvio che ti piace, l’ho scelto io!» e subito si porta il bicchiere alla bocca, sperando che una sorsata di quella bevanda fresca riesca a far andare via il calore che gli è salito al viso.
«Mi ricorda tanto al pulcino che avevi quando eravamo piccoli…».
Gilbert annuisce, malinconico. Non si aspettava che Feliciano se ne ricordasse ancora.
«Non troverò mai un animale da compagnia migliore di Gilbird» esclama con fare melodrammatico. «A volte mi sembra ancora di sentirlo pigolare sopra il mio letto».
Feliciano continua a ridere e poi appoggia i gomiti al tavolino, dondolando leggermente il busto a tempo della musica che li raggiunge dalla pista.
«Che cosa hai fatto in tutti questi anni?» chiede all’improvviso, voltando leggermente il viso verso Gilbert. Il ragazzo si trova spiazzato da quell’improvvisa domanda. Non sa davvero come rispondere.
«Io…». Io me ne sono andato, subito dopo il funerale. Non riuscivo più a sopportare di vivere in quella casa. Sono stato da un amico finché sua madre non mi ha cacciato, ed è stato allora che ho incontrato Arthur. Anche lui era scappato e anche lui era arrabbiato con il mondo quel tanto che bastava da dargli le spalle per sempre. Andammo a vivere insieme, in un monolocale, quello che potevamo permetterci. Furono i suoi amici a presentarci Ivan Braginski. Entrammo insieme nella sua banda, superammo insieme la prova. Quello fu il mio primo furto d’auto.
E poi sono passato alle rapine in qualche negozio. È stato allora che ho rischiato di uccidere una persona, un uomo di mezz’età, che stava solo facendo il suo lavoro. Non voleva darmi i soldi, ha minacciato di chiamare la polizia, ho avuto paura. Sono scappato dopo aver sparato, Braginski non l’ha presa bene. Per un centinaio di euro, uno stupido errore, ma lui non voleva darmi i soldi cazzo, minacciava di chiamare la polizia, non sapevo che fare, sono uno stupido, Ludwig, cosa sono diventato… «Niente. Non ho fatto niente».
Si rende conto solo ora di quanto la sua vita sia stata vuota, e inutile.
Niente.
È quando si volta a guardarlo, che si accorge dello sguardo sorpreso di Feliciano.
«È impossibile che tu non abbia fatto niente».
Gilbert fa spallucce. «Ho fatto qualche lavoretto di qua e di là, quel tanto che bastava per mangiare e pagarmi l’affitto dell’appartamento in cui vivo… Niente di impegnativo» mente.
Sente quello sguardo ancora su di sé, mentre torna a bere un’altra volta.
«Che cosa stavi facendo in stazione? Aspettavi qualcuno?».
Il tono di Feliciano è preoccupato, mentre gli parla. Gilbert mostra un sorriso rassicurante, e anche un po’ falso. Non vuole che Feliciano scopra quello che è diventato, sarebbe come tradire la promessa che ha fatto a suo fratello anni fa. Forse è stupido, ma gli sembra quasi di rivedere Ludwig in quegli occhi che lo fissano in attesa di una risposta che conoscono già.
«Ero andato a trovare un amico che non vedevo da un po’… Volevo assicurarmi che stesse bene». Non è una bugia al cento per cento, davvero voleva rivedere Arthur, ma non ha detto nemmeno la completa verità e per questo si sente comunque in colpa.
Feliciano non se ne accorge, o forse semplicemente fa finta di nulla. Continua a guardarlo in silenzio e Gilbert si schiarisce la voce, nervoso.
Cade un pesante silenzio fra loro, interrotto di tanto in tanto dal vociare delle persone che passano accanto al loro tavolino. La musica è davvero alta anche lì, nonostante siano lontani dalla pista da ballo. Gilbert per un attimo osserva le luci psichedeliche viola e azzurre che si riflettono sul muro bianco davanti a loro, nella penombra.
«Io … Io non sono più la stessa persona di una volta, Feli. Non vado fiero di quello che ho fatto nella mia vita».
Con il mento appoggiato sulle mani chiuse a pugno, sospira, senza il coraggio di guardare l’altro negli occhi. Si sente così codardo, in questo momento. Probabilmente Braginski ha avuto ragione a definirlo così, quella volta.
«Sai, credo che ci sia ancora quel sincero, determinato e allegro Gilbert, da qualche parte».
Gilbert si morde l’interno della guancia, dubitando che quella sia la verità.
«Ludwig mi diceva che sapevi suonare bene la chitarra». Le parole improvvise di Feliciano lo fanno sussultare. «Mi diceva che avevi una specie di band, con cui facevi le prove ogni giorno nello scantinato, e che lo disturbavi sempre mentre cercava di studiare». Comincia a ridere, scuotendo la testa. «Mi sarebbe piaciuto sentirti suonare, una volta o l’altra, ma non ne ho mai avuto l’occasione».
«Sei ancora in tempo, sai?» Gilbert solleva lo sguardo al soffitto con aria pensosa. «È da un po’ che non prendo in mano una chitarra, ma non dovrei faticare tanto per tornare di nuovo a quel livello eccezionale, conoscendo il mio indiscusso talento!».
«È un’ottima idea! Non vedo l’ora di ascoltarti». Feliciano batte le mani, gli occhi raggianti.
Aveva quasi dimenticato quando era ancora un ragazzino ambizioso e ingenuo nella sua visione del mondo, quando era convinto che sarebbe diventato una stella internazionale del rock. Forse sarebbe anche riuscito a realizzarlo quel suo sogno, se solo non avesse deciso di lasciarsi dietro tutto, compresa la sua vecchia chitarra elettrica, abbandonata vicino al suo letto sfatto e all’armadio vuoto.
«E poi, se non ricordo male, eri davvero bravo con il computer. Una volta sei riuscito ad aggiustare persino il portatile su cui avevo versato un bicchiere d’acqua per sbaglio».
«Be’, quello era stato davvero un lavoro da nulla… Dato che era spento, quando è successo, non è andato in cortocircuito e quindi è bastato asciugarlo e sostituire la tastiera. Nulla che tu non potessi fare da solo semplicemente cercando in Internet».
«Non svalutare così il tuo lavoro, Gil, non è da te!». Gilbert sente una strana stretta allo stomaco, nel vedere il sorriso dolce sul volto di Feliciano. «Secondo me avresti un futuro nel campo informatico, lo dico perché lo penso davvero».
Ingenuo, sincero, premuroso Feliciano. Gilbert gli sorride e per un attimo si sente leggero. È come se lui gli avesse letto nel pensiero, riuscendo a capire quali erano i suoi pensieri e a risolvere la sua non caratteristica insicurezza con poche parole.
Forse… Forse potrebbe ascoltare quello che gli ha detto.
«E tu?» esclama, qualche attimo dopo, tornando a guardare l’amico.
«Oh… Io lavoro come cameriere in un ristorante italiano qui vicino». Feliciano sorride. «È divertente, e poi così ho l’occasione di incontrare tante belle ragazze, e qualche volta il cuoco mi prepara qualcosa da mangiare dopo il mio turno di servire ai tavoli, e davvero è tutto così buono!».
«Potrei farmi assumere».
Feliciano ride. «Mi piacerebbe lavorare con te…» e poi aggiunge, abbassando la voce, «Di sicuro saresti più divertente di Roderich».
«E chi è questo?». Gilbert si sporge verso di lui, curioso.
«Il caposala» esclama Feliciano, «Mi rimprovera sempre, specialmente quando mi becca a dormire nello stanzino, o mentre sto facendo uno spuntino… L’ultima volta mi ha davvero spaventato per quanto si è messo a urlare. E tra l’altro è anche più pigro di me!». Tamburella le dita sul tavolino e in tanto beve un sorso di Mojito. Poi si volta di nuovo a guardarlo, «Però è davvero bravo a suonare il piano. Suona in un pianobar il sabato sera, e ogni tanto mi piace andare ad ascoltarlo».
Gilbert alza lo sguardo e arriccia le labbra con fare pensoso.
«Sai, mi ricorda tanto un mio ex compagno di scuola… Edelstein. Si chiamava Roderich Edelstein».
«Allora è proprio lui!»
«Non ci credo!». Gilbert scoppia in una risata sguaiata. «Seguivamo insieme il corso di letteratura tedesca. Gott se era un damerino, ma mi divertivo talmente tanto a prenderlo in giro! Uno spasso!».
«Non pensavo fossi così cattivo, Gil». Feliciano sorride, «Se lo venisse a sapere Eliza, la sua ragazza, se la prenderebbe parecchio».
Gilbert, il gomito appoggiato al tavolino e il busto rivolto verso Feliciano, spalanca gli occhi con aria incredula. «Edelstein si è trovato la ragazza?»
«Una ragazza davvero simpatica e dolce, direi». Il sorriso dell’italiano si incrina leggermente. «O almeno finché non si arrabbia… Ma è la mia migliore amica, in fondo, e le voglio bene. Lavora in un negozio di musica parecchio frequentato e a volte mi regala qualche cd, è così gentile! Ma forse l’hai già vista…»
Gilbert si riempie la bocca con un sorso di birra fresca.
«…Sei mai stato al Charleston? Dovresti riconoscerla facilmente, perché è davvero la più carina in quel negozio, anche se in fondo tutte le ragazze sono belle, quindi è difficile da dire… Comunque, Elizabeta è la commessa che si veste quasi sempre di verde, di solito si raccoglie i capelli mentre lavora e ha gli occhi grandi, verde smeraldo, poi sorride sempre e…»
La bocca di Gilbert si apre di scatto e tutta la birra finisce sul tavolino, schivando di poco la mano di Feliciano, che ora lo fissa con uno sguardo tra l’allarmato e il disgustato.
«Che cos’è successo?!»
L’albino tossicchia, gli occhi spalancati.
«Niente… C’era qualcosa di strano nella birra!».
Gilbert scoppia in una risata, cercando di nascondere la fitta di orgoglio ferito.Elizabeta Hédervàry. Non riesce a capire come quella ragazza possa aver preferito Edelstein a… a lui. Insomma, non ci sono paragoni, deve avere qualcosa che non va. Davvero.
«Sei sicuro?». L’espressione sul volto di Feliciano sembra preoccupata.
Gilbert annuisce, prima di mostrargli il pollice con aria sicura.
Eppure sente le guance in fiamme per la figuraccia che ha appena fatto. Chissà che impressione ha fatto a Feliciano. Di certo per nulla degna del Magnifico.
Deve cambiare argomento, subito. 
«Quindi alla fine non ti sei iscritto a quella scuola di pittura di cui parlavi sempre?» chiede, dopo qualche attimo di imbarazzante silenzio, certo di aver spostato il discorso su un piano sicuro.
Feliciano abbassa lo sguardo al suo bicchiere, cominciando a spostare i cubetti di ghiaccio all’interno del cocktail con la cannuccia. La sua espressione sembra triste, nonostante continui a sorridere.
«L’ho lasciata da due anni, ormai».
Gilbert spalanca gli occhi, incredulo. «Perché? Amavi tanto dipingere… Dicevi sempre che era il tuo sogno, diventare un famoso pittore e…»
«…Aprire una galleria tutta mia, dove appendere i miei quadri». Feliciano si morde il labbro inferiore, prima di sospirare. «La verità è che ci ho rinunciato da tempo».
Gilbert lo fissa in silenzio, senza capire. Gli sembra quasi di non riconoscere la persona che gli sta di fronte, di non riuscire a collegarlo con il ragazzo solare e determinato a seguire la sua passione che ha conosciuto tanti anni fa. Possibile che siano cambiati entrambi così tanto, da allora?
Poi il suo sguardo si posa sulle dita che ancora stringono la cannuccia, e solo ora nota le macchie di colore su di esse. Si sono ormai seccate, sulla punta delle dita e in parte sul palmo. Anche Feliciano se ne accorge e subito cerca di nascondere la mano nella manica del maglione arancione che indossa, arrossendo impercettibilmente.
La verità è che non ha mai smesso di dipingere. Lo capisce dal modo in cui l’altro cerca di nascondere il proprio viso dietro il ciuffo di capelli rossicci che gli ricade sul viso, quasi volesse celare anche i suoi pensieri. 
«Non dovresti rinunciare al tuo sogno, sai?». Gilbert sorride, quando gli occhi di Feliciano tornano a guardarlo. «È la tua passione, e noi tutti abbiamo sempre creduto in te. Anche…  Ludwig. Soprattutto lui».
«Non è così semplice». I suoi occhi ambrati sembrano persi, per un attimo. «Non riesco più a dipingere come prima, è come se qualcosa si fosse spezzato. Io non sono più sicuro di cosa voglio davvero, di cosa devo fare… Se lui fosse qui a dirmi cosa è giusto, a guidarmi, allora forse…»
«Lui non avrebbe voluto vederti così» dice, ed è come se lo stesse dicendo anche a se stesso, mentre guarda il suo riflesso negli occhi di Feliciano. «Avrebbe voluto vederti combattere per quello che vuoi, sulle tue gambe, avrebbe voluto vederti felice». Gilbert distoglie lo sguardo. «Lui ti ha amato davvero».
«Lo so» sussurra Feliciano, e poi sorride, triste. «Lo so».
«Ti ricordi cosa mi avevi detto quel giorno, sotto la pioggia?»
Feliciano annuisce. «Che prima o poi il sole torna sempre a splendere».
Segue uno strano silenzio, in cui Feliciano rimane immobile a guardarlo, quasi fosse stato colpito dalle sue stesse parole.
All’improvviso, qualcosa si rianima nei suoi occhi. Come se la luce che una volta aveva brillato dentro di essi si fosse finalmente riaccesa.
Si alza in piedi di scatto e prende Gilbert per mano, incitandolo a seguirlo. E Gilbert si lascia guidare da lui, gli occhi spalancati e la bocca aperta per la sorpresa.
È la sua presa sicura, oppure quella mano morbida e un po’ sudata contro la sua, ruvida e dalla pelle screpolata. Non vorrebbe lasciarla mai.
 
.
 
Stanno camminando ormai da un’ora, in silenzio. Non ha più lasciato la mano di Gilbert da quando l’ha presa nella sua per guidarlo fuori dal locale. È calda, lo protegge dal freddo.
È stato spinto da un’improvvisa voglia di uscire, di sentire il vento gelido sulla pelle, di ascoltare i rumori della città, di osservare le luci accese dei palazzi, immensi e allo stesso tempo freddi, se confrontati con quelli della sua Venezia.
Voleva percepire il mondo, capire di essere ancora vivo, e non perso sotto la pioggia di novembre.
«Forse dovremmo mandare un messaggio agli altri. Non credi che si staranno preoccupando?».
Feliciano non risponde, ma si volta comunque verso Gilbert. Lo guarda per qualche momento, stupendosi nel vedere l’espressione sul suo viso. Più rilassata, più… allegra.Gli ricorda quasi il vecchio Gilbert, per un attimo. 
«Dove mi stai portando?».
Feliciano ci pensa un po’ su, prima di rispondere. «Non lo so».
Forse Gilbert si aspettava una risposta diversa, perché aggrotta le sopracciglia, confuso.
«Tu vorresti andare da qualche parte?» chiede, rallentando fino a fermarsi. Gilbert rimane immobile accanto a lui. Si passa una mano fra i capelli.
«Non lo so».
Feliciano sorride, colto da un’improvvisa idea. «Che ne dici di un gelato?»
«Alle tre di notte?». Gilbert sembra incredulo. «Non ci sono gelaterie aperte a quest’ora».
«È vero. Non ci avevo pensato».
Feliciano si guarda attorno, e solo ora si accorge di essersi fermato poco lontano dalla Porta di Brandeburgo. Per un attimo trattiene il respiro.
Ludwig e lui ci venivano spesso, dopo aver finito di fare i compiti. A Feliciano piaceva andare lì, perché era un posto sempre pieno di vita, e amava osservare i turisti che passeggiavano nella piazza e cercare di indovinare le loro nazionalità. Quando riconosceva qualche italiano cominciava subito a salutare a squarciagola e Ludwig lo rimproverava di essere troppo rumoroso.
Si sedevano sulla ringhiera in ferro a qualche metro dall’ambasciata americana e passavano ore a parlare, mentre sorseggiavano una cioccolata presa da Starbucks oppure un gelato, quando faceva caldo. Feliciano gli raccontava tutto quello che gli passava per la testa e Ludwig lo ascoltava sempre con sguardo serio, anche se il più delle volte si trattava solo di stupidaggini. Eppure non gliel’ha mai detta, la cosa più importante di tutte. Pensava sempre di avere tempo, che prima o poi sarebbe riuscito a raccogliere il giusto coraggio. Perché lui non era mai stato una persona particolarmente coraggiosa, e quella situazione non faceva eccezione, ma per Ludwig voleva provare ad esserlo. C’era tempo. 
Se solo avesse saputo.
«Vieni» esclama Gilbert all’improvviso, riscuotendolo dai suoi pensieri.
Questa volta è Feliciano a lasciarsi guidare. Gilbert lo conduce fino ai gradini della Porta di Brandeburgo, poco dopo le imponenti colonne del monumento in stile neoclassico. Si siedono lì, uno accanto all’altro, rivolti verso la piazza che si apre davanti a loro. Lo sguardo di Feliciano si perde ad osservare il cielo stellato sopra di loro, forse sperando di scorgere una stella cadente: gli è sempre piaciuto esprimere i desideri.
«A cosa pensi?» chiede Gilbert, dopo lunghi attimi di silenzio. I suoi occhi rossi lo fissano con aria interrogativa, e allo stesso tempo curiosa. «È tutta la sera che ti vedo perso e… Non è da te, Feliciano. Comincio a preoccuparmi per te».
Rimangono in silenzio per un po’, prima che si decida a parlare.
«Era da tanto tempo che non venivo qui» esclama, l’ombra di un sorriso sul suo volto. «Non ci sono più venuto da quando Ludwig…».
La sua voce si affievolisce e Gilbert abbassa lo sguardo alle mani che tiene in grembo.
«A volte mi sento in colpa, sai?». Gli occhi ambrati di Feliciano continuano a guardare il cielo, di un blu talmente buio da sembrare nero, mentre parla. Non gli trema la voce. «Se non fosse stato per me, se fossi stato più attento, lui forse sarebbe ancora qui. Non saremmo così tristi, io e te, se lui fosse ancora qui, vero? Sarebbe ancora tutto prima».
Gilbert gli stringe la mano, obbligandolo a spostare lo sguardo su di lui. Gli occhi di Gilbert sono così seri, mentre scuote la testa.
«Non devi pensare questo. Non sei responsabile».
«Mi ha protetto anche quella volta» continua Feliciano, come se non lo avesse sentito, il volto improvvisamente pallido. «Se non avessi attraversato la strada senza guardare, allora… Ma in fondo è l’unica cosa che sono sempre riuscito a fare. Cacciarmi nei guai, e aspettare che lui venisse a salvarmi, no?»
«Feli…»
«E poi ho pensato… Se non sono in grado di proteggere le persone che amo, come posso pretendere di riuscire a combinare qualcosa nella mia vita? Come posso fare finta che non sia successo nulla, di… non sentirmi così inutile
Si morde l’interno della guancia nel realizzare quanto sia stato insensibile a dire quelle cose. Gli dispiace così tanto.
Sono un egoista. Non faccio che lamentarmi, quando lui ha perso un fratello, e non un migliore amico. Come se il mio dolore fosse più grande del suo. Come se…
Pochi secondi.
Feliciano rimane immobile, il viso affondato nel giubbotto di Gilbert. Spalanca gli occhi non appena percepisce le braccia dell’amico stringere il suo corpo, con il volto appoggiato alla sua spalla.
«Smetti di vivere solo quando sei tu a volerlo» esclama con fermezza,  vicino al suo orecchio. «Se ti lasci andare, se pensi di non valere niente e di non essere forte abbastanza, è allora che smetti di vivere».
All’improvviso non riesce più a vedere bene. È come se la sua vista fosse annebbiata, le palpebre pesanti, e si chiede perché. Gli sfugge un singhiozzo, che cerca di soffocare nel bomber scuro di Gilbert.
«Non commettere il mio stesso errore, non perdere il rispetto che hai per te stesso. La gente muore ogni giorno, Feliciano, ma tu… Tu sei vivo. Non gettare via il dono che mio fratello ha voluto farti».
Prima di rendersene conto, sta ricambiando l’abbraccio di Gilbert. Annuisce contro la sua spalla, continuando a piangere in silenzio.
«Voglio vedere di nuovo l’abbagliante sorriso di Feliciano Vargas ed essere stordito dalla sua parlantina famosa in tutta Berlino» esclama Gilbert con quella sua inconfondibile voce rauca.
Feliciano ride, nonostante le lacrime che continuano a bagnargli le guance.
«Hai dimenticato l’Italia» dice, e subito Gilbert si separa da lui. Rimane immobile a guardarlo, le mani ancora sulle spalle di Feliciano in una presa sicura, e poi annuisce con vigore. «È vero, ho dimenticato l’Italia. Poco magnifico da parte mia».
«Già» sussurra Feliciano, che non è ancora sicuro di quello che sta accadendo attorno a lui.
Un attimo dopo Gilbert balza in piedi, le mani incrociate al petto e un sorriso cosìfamiliare sul suo volto, che per un attimo Feliciano si chiede se non sia tornato indietro nel tempo.
«Ora asciugati quelle lacrime e vieni con me» esclama, guardandolo dall’alto.
Feliciano si sbriga ad ubbidire e, in men che non si dica, è già in piedi accanto a Gilbert. Le loro mani si stringono di nuovo e il tedesco comincia a camminare con passi lunghi e ben distesi attraverso la piazza, ignorando le deboli proteste del più piccolo.
«Dove stiamo andando?» chiede, mentre cerca di stare dietro al passo di Gilbert.
«A casa tua» esclama.
«Ma non sai dove abito adesso! E poi… Perché?»
Gilbert ride a pieni polmoni, anche se Feliciano non ne capisce il motivo. Sente le guance pizzicare, un improvviso calore che gli pervade il corpo.
«Devi farmi vedere i tuoi quadri». Gli occhi di Feliciano si spalancano, un po’ per la sorpresa, un po’ per il timore. «E poi andremo a iscriverci!»
«A iscriverci!». La sua voleva essere una domanda, ma nello stupore esce più come un’affermazione. Vede Gilbert annuire verso di lui, senza mai fermarsi.
«Tu a quell’accademia d’arte e io… Be’, pensavo che non sarebbe una brutta idea se trovassi un corso decente di informatica. Insomma, è impossibile che Edelstein abbia già un lavoro e una ragazza e io no, giusto? Devo darmi da fare per recuperare!»
Feliciano rimane in silenzio per un po’, ma alla fine sorride.
«Ho un paio di quadri che potrebbero piacerti!» esclama, affiancandolo con rinnovata energia. «E mentre li guardiamo potrei preparare della pasta».
«Certo!»
«Ma non ho voglia di tornare subito a casa… Perché non facciamo una passeggiata, prima? Berlino di notte è così bella e poi abbiamo tutto il tempo del mondo».
Gilbert gli sorride e stringe più forte la sua mano.  
 
 
Light a fire, light a spark
Light a fire, a flame in my heart
We’ll run wild

 
 
 
 

So we soar luminescent and wired
 
 
«Sai, mi è venuta un’idea per quel gelato».
Ludwig mi diceva sempre che c’è un momento giusto per ogni cosa.
«Davvero, Gil? Conosci un posto dove lo vendono anche di notte?».
Diceva che c’è un momento giusto per piangere.
«In realtà… No».
Un momento per sorridere.
«Oh».
Un momento per dimenticare.
«Ma immagino che apriranno la mattina, no? Non ci resta che aspettare l’alba, mancano poche ore».
Un momento per ricordare.
Feliciano osserva Gilbert per qualche istante, stupito, prima di sorridere.
E un momento per amare.
«Mi sembra un’idea magnifica!»



 
We’ll be glowing in the dark.
 
 
 
 

 
 
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Ciao a tutti e ben ritrovati! :D
Qualcuno ha sentito la mia mancanza? No? ;_;
Prima di tutto, un applauso caloroso a chi è arrivato fino a qui. Ultimamente sono diventata logorroica pure nello scrivere xD
Torno dopo secoli di silenzio stampa e… Dio, quanto mi è mancato scrivere fanfictions ;_; Purtroppo lo studio mi tiene lontana dal pc –da tutto- e per scrivere questa unica OS/song-fic ci ho messo settimane (!), anche se in buona parte ha giocato anche il mio perfezionismo e la mia insicurezza, che mi hanno spinta ha rileggerla un miliardo di volte prima di pubblicare. Ringrazio le povere anime che ho torturato in questi giorni alla ricerca di conferme: “Fa schifo? È troppo lunga, vero? Sei stato colto da convulsioni mentre leggevi?? D:” e così via.
Tra l’altro, spero davvero non sia troppo ripetitiva e orrorifica e noiosa D: E che i personaggi non siamo troppo OOC. Specialmente Gilbert. Ho idea di non averlo azzeccato per nulla.  
Anyway, dicevamo!  Torno con l’ennesimo orrore  Cartoon Hearts, progetto che risale ancora a dicembre e che mi è venuto in mente mentre ascoltavo la canzone “Charlie Brown” dei Coldplay, la mia psico-ossessione del momento. La potete ascoltare qui: http://www.youtube.com/watch?v=zTFBJgnNgU4 . La canzone è allegra, ma non questo testo… Lo so. Il fatto è che sono troppo affezionata ai cari vecchi temi alla Seneca, quali la morte, il tempo, la vita, ladepression (?) e chi più ne ha più ne metta xD Sono stata ossessionata da questa storia per mesi, tanto che mi facevo pure i dialoghi mentali, quindi davvero spero piacerà a qualcuno nonostante tutto… E poi avevo voglia di scrivere su un Gilbert in versione teppistello e di un Feliciano meno… felice, ma soprattutto di loro due, perché in questo mondo ci sono troppe poche storie PruIta e questo non va bene ù.ù  
La storia è ambientata a Berlino, che ho visitato circa un mese fa per la prima volta e che mi è piaciuta abbastanza :D La Porta di Brandeburgo è il monumento più conosciuto di Berlino e, se vi interessa, potete trovarne tutte le informazioni qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Porta_di_Brandeburgo . Per chiarimenti… In quel quartiere ci sono varie ambasciate, tra cui quella Americana che è proprio nella piazza; inutile dire che è tenuta sotto controllo da alcune guardie all’esterno, ma a qualche metro ci sono dei gradini e una ringhiera di ferro che la separa dalla piazza e lì ci si può sedere tranquillamente, dato che l’ho fatto io stessa e sono ancora qui xD
Sulla stazione dei treni non saprei dire, ci sono stata solo una volta in pieno giorno e non so come sia di notte –anche se ho letto che c’è di tutto in quanto a criminalità durante le ore notturne e non-, quindi mi scuso per eventuali errori ^^ Altra precisazione la vorrei fare sul caso del portatile bagnato: essendo altamente impedita in materia, ho cercato su google cosa fare in quei casi, quindi scusate eventuali errori –di nuovo- xD Il fatto è che, pensando ad un possibile lavoro “normale” per Gilberto, mi è venuto in mente il campo dell’informatica, non so perché ^^” 
Spero di non aver saltato nulla :D e di non aver lasciato troppi orrorigrammaticali, distratta come sono…   
 
Quasi dimenticavo! Dedico questa storia alla cara Rinalamisteriosa, per ringraziarla del suo supporto e gentilezza. 
Spero ti piaccia almeno un po’, altrimenti sei autorizzata a lanciarmi dietro un arsenale atomico con tutto il tempo che ti ho fatto aspettare per questa storia >.>  E suggerisco di fare un giretto nella sua pagina autrice, perché ci sono davvero delle belle storie *polliciinsù*
 
Ringrazio tanto chi ha letto questa storia : persone coraggiose! Spero anche che mi lascerete un vostro parere, che sia positivo o negativo (si accettano anche critiche costruttive :D).  Spero davvero che questa storia piacerà a qualcuno e… Be’, buon inizio settimana a tutti ^^
A presto spero
Baci
  
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