Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: SophieClefi    07/05/2014    0 recensioni
E se una mattina, improvvisamente, ti ritrovassi coinvolta in uno strano incidente stradale con l'autobus della scuola? Cosa faresti? Continueresti imperterrita la tua solita vita o cercheresti di trovare le cause di ciò? Questa sarà la decisione che dovrà affrontare Sheila Evans, una ragazza di sedici anni, il cui destino verrà irrimediabilmente sconvolto dall'arrivo di un ragazzo.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Siamo tornateee! Dopo più di un mese abbiamo pubblicato anche il 12 capitolo! :D
Un grazie di cuore a tutte quelle persone che hanno recensito la storia, che l'hanno messa nei preferiti o nella categoria ''seguite''

Noi continuiamo ad andare avanti e speriamo di non deludervi ;D
SophieClefi





Capitolo 12


 

Quando riaprii gli occhi mi ritrovai nella mia camera, sdraiata sul letto. Mi portai una mano sulla fronte a causa del forte mal di testa. Aiutandomi con l'altra mano libera mi misi a sedere e cercai di ragionare. Era il secondo giorno di gennaio e i miei genitori dopo pranzo erano dovuti partire per andare a lavorare, solo che non li avevo visti né salutarmi, né lasciare casa. Camminai fino alla porta della camera e la aprii un po'.

  • Mamma, papà? Ci siete?

Non arrivò alcuna risposta, allora voleva dire che erano già in viaggio. C'era una cosa che non mi tornava, però: dopo pranzo cosa avevo fatto? Cercai di ricordarmi, ma non riuscii a trovare nulla. Avevo come un buco nella testa che non mi permetteva di ricordare cosa avevo fatto durante quel lasso di tempo. Uscii definitivamente dalla stanza e scesi le scale per andare in cucina e cercare qualche pastiglia che mi facesse passare il dolore al capo.

Ricapitolando io e mia mamma avevamo preparato la pasta, la carne e a mezzogiorno avevamo iniziato a mangiare, mentre mio papà ci aveva raggiunto qualche minuto più tardi. Avevamo terminato circa all'una e i miei genitori dovevano essere a lavoro alle tre, così erano partiti alle due, o almeno, così avevano dovuto fare, poiché io non li avevo minimamente visti. Dopo pranzo avrei dovuto fare sicuramente qualcosa, come per esempio addormentarmi, e questa poteva essere un'ipotesi molto probabile, magari anche a causa del mal di testa.

Una volta giunta in cucina aprii lo sportello dove tenevamo i farmaci e cercai la scatola con l'aspirina. Una volta trovata la aprii ed estrassi uno dei blocchetti che contenevano le pastiglie. Mi accorsi che c'era solo un'ultima pastiglia, così la staccai dal cartoncino e la appoggiai sul tavolo. Presi un bicchiere e lo riempii d'acqua, poi ingoiai la pastiglia. Bevvi il contenuto del bicchiere e lo riposi nel lavandino. Infine aprii lo sportello sotto di esso e, afferrando con una mano il blocchetto vuoto delle pastiglie, aprii il cestino dello sporco. Fu allora che vidi che mancava il sacco della spazzatura.

Mi balenò in testa l'immagine di me che camminavo nella neve con i sacchi neri in mano. Scossi la testa. Dopo pranzo avevo potuto fare quello, molto probabile, ma allora perché non me lo ricordavo? Avevo qualche malattia? Avevo picchiato la testa? Ovviamente no, anche perché sarebbe stato impossibile poi ritrovarmi sdraiata nel letto e i miei genitori non mi avrebbero lasciata sola in casa se avessi battuto la testa.

La cosa era sempre più strana, così decisi di vestirmi ed uscire, per ripercorrere la strada fatta per andare ai cassonetti. Mi vestii pesantemente ed uscii. Il freddo mi martellò subito la testa, non di certo migliorando la situazione. Quando arrivai allo spiazzo riuscii a notare, già da una certa distanza, che i cassoni erano stracolmi di sacchi blu e neri, sia all'interno, sia all'esterno.

Un altra scena mi apparve: io che camminavo verso la rotonda lasciandomi alle spalle questo posto. Ciò voleva dire che ero andata ai cassonetti più distanti, ossia quelli vicino alla fabbrica.

Ormai ci stavo quasi facendo l'abitudine alla sensazione di terrore che mi scuoteva ogni volta che pensavo a quel posto, così continuai a camminare. Dopo una quindicina di minuti arrivai di fronte alla costruzione e notai subito accanto ai cassonetti un sacco nero.

La mia testa iniziò a riempirsi di immagini: io che buttavo un sacco nero, io che sentivo delle voci, la parola demone, la parola Jake, il fumo nero. Tutto mi ritornò in mente e allora capii che qualcuno mi aveva dovuta riportare a casa, ed io sapevo già chi fosse stato.

Mi fiondai a casa, correndo all'impazzata e salii in camera. Come immaginavo: la finestra era aperta. Non completamente, ma non era nemmeno chiusa, perché era impossibile riuscire a girare la maniglia dell'esterno.

La pastiglia iniziava finalmente a farmi effetto, così non persi tempo: era venuta l'ora di agire.

 


 

Erano le quattro e mezza di pomeriggio e i miei genitori non sarebbero tornati prima delle nove-dieci di sera, ciò voleva dire che avevo circa quattro ore e mezza per riuscire nel mio intento. In queste ultime ore mi ero studiata a memoria le cartine della fabbrica e ora nella mia mente erano impressi disegni e nomi delle stanze.

Una volta giunta alla fabbrica mi preparai ad entrare in azione: mi sistemai accanto ai cassonetti dell'immondizia, posti a destra dell'entrata dell'edificio, pronta ad agire. Il mio travestimento era impeccabile e mi sarebbe sicuramente stato utile a nascondermi nel buio.

Infilandomi la cuffia nera sul capo e nascondendo sotto di essa alcune ciocche ribelli, attesi impaziente di sentire qualche rumore.

Una porta si aprì e, come avevo previsto, le due guardie si salutarono per darsi il cambio. Fu allora che saltai sul bidone cercando di fare meno rumore possibile.

  • Vado a dare un'occhiata nei dintorni.- Affermò uno dei due.

Perfetto, tutto secondo i piani. Il sangue iniziò a scorrermi velocemente nelle vene e i battiti del cuore acceleravano ogni volta che la sentinella avanzava verso l'uscita della fabbrica. Sapevo che non avrei potuto sbagliare: un passo falso, un minimo rumore, e potevo scordarmi di completare la mia missione.

Quando l'uomo fu sul punto di superare il cancello dell'uscita, io balzai dall'altro lato della fabbrica, superando il muretto con un unico, agile, movimento.

Atterrai sull'erba fresca a piedi pari e restai con le orecchie ben all'erta, pronta a capire se avevo sbagliato qualcosa. La guardia starnutì e il mio cuore fece un salto per lo spavento. Sentii poi i passi allontanarsi e allora capii di essere riuscita ad entrare nel cortile sana e salva, ma la mia impresa non era che a un quarto dell'opera.

Non persi altro tempo e proseguii tra l'erba umida del prato, restando con la schiena ricurva.

Avevo studiato a memoria ogni angolo dell'edificio, ma, vista dal vivo, incuteva ancora più timore e sembrava smisuratamente più grande. Deglutii e avanzai. Quando arrivai al lato della fabbrica rimasi lungo tutto il tragitto contro il muro, ma il mio scopo era quello di arrivare alle scale antincendio: da lì avrei poi potuto raggiungere il piano superiore e vedere tutto dall'altro.

Avrei finalmente scoperto che cosa faceva Blaze lì dentro e sarei potuta venire alla luce di tutto il mistero che lo circondava. E questo era sempre stato ciò che avevo voluto fare.

Quando ebbi la scala di ferro davanti a me iniziai con cautela a salire i gradini, mentre cercavo di vedere, tra le fessure delle finestre, cosa ci fosse all'interno. Quando arrivai alla seconda rampa di scale iniziai a sentire delle voci. Deglutii e mi morsi il labbro. A quanto pareva il numero degli esseri che vivevano in quell'edificio era più alto del previsto. Ma ciò non mi scoraggiò. Continuai a proseguire finchè non giunsi alla fine e mi ritrovai davanti una porta. Appoggiai l'orecchio e la cosa mi confermò che il brusio proveniva da lì. Afferrai la maniglia con le mani sudate e il corpo tremante. Ciò che stavo facendo era pericolosissimo e se mi avessero beccata non avrei osato immaginare quale fosse la mia fine. Piegai leggermente il metallo che tenevo sotto la mia mano destra, ma con grande sorpresa notai che la porta non si apriva.

  • Grande, ora che faccio?- Bisbigliai frastornata.

Mi guardai attorno e notai una finestra accanto alla scala. Tu sei matta, cara, mi dissi, ma non potevo tornarmene a casa a mani vuote. Scavalcai la ringhiera della scala e mi sporsi verso la finestra. Sotto di me c'erano circa cinque metri di dislivello e, una caduta da un'altezza simile, mi avrebbe portato sicuramente alla morte. Cercai di non pensarci, ma sapevo di rischiare tanto. La finestra era aperta, grazie al cielo, ma per aprirla completamente avevo bisogno di un'asta per sollevare il vetro. La fortuna era proprio dalla mia parte: sul pianerottolo della scala c'era un'asta di metallo lunga almeno quanto un braccio. La raccolsi e, infilandola tra il vetro e il legno della finestra, spinsi in su, cercando di alzare il vetro. Dopo alcuni tentativi ci riuscii e la finestra si aprì senza nemmeno troppi rumori. Ora non mi rimaneva altro che saltare e cercare di afferrare il bordo della cornice della finestra.

Cercai di sporgermi il più possibile e, quando riuscii a toccare con le dita il legno freddo, decisi di spingere con le gambe e di saltare, e così feci. Le mani erano sudate e quel legno consumato di certo non facilitava l'operazione.

  • Sheila, ce la devi fare!- Mi auto-dissi.

Radunai tutta la forza che avevo in corpo nelle braccia e con uno sforzo immane riuscii ad entrare nella fabbrica. Scesi dalla finestra, cercando di rimanere nell'ombra e atterrai in un corridoio con una specie di parapetto. Accucciandomi, mi avvicinai e mi sporsi. Ciò che vidi era completamente inimmaginabile: decine, centinaia di persone se ne stavano là, sedute sui vecchi macchinari a parlare, ridere, altri erano invece sdraiati. Blaze. Subito mi misi a cercarlo, ma non riuscii a trovarlo. C'erano persone di tutte le età e di tutte le razze: cinesi, africani, indiani, ma tutti sembravano vivere beatamente. Certo, le auree che li circondavano erano oscure e al contempo macabre, ma loro sembravano stare bene.

Mi voltai a sinistra e, appiccicandomi alla parete dalla quale ero entrata, seguii il corridoio che, come sapevo, svoltava a destra e alla cui fine c'era uno studio. Quello era il mio obiettivo: là avrei sicuramente trovato informazioni sul nuovo arrivato.

Percorsi tutto il perimetro finchè non mi ritrovai la porta marrone dell'ufficio davanti. Deglutii silenziosamente e appoggiai un orecchia al legno freddo della porta. Nessun rumore: doveva essere vuota. Afferrai la maniglia e senza esitare – Tanto anche se apri poco o tanto ti scoprono comunque- mi auto-dissi, entrai nella stanza spalancando la porta.

Con mia grande sorpresa dentro non c'era nessuno.

La stanza era grande e polverosa. I muri e le pareti erano di mattoni crudi, mentre negli angoli in alto c'erano delle minuscole ragnatele, segno evidente che ogni tanto la stanza veniva pulita. A sinistra dell'entrata c'era una scrivania di ferro ricoperta da fogli vari; dietro ad essa si ergeva invece un armadio di legno chiaro. Sul lato opposto della stanza si trovava invece uno scaffale con libri e volumi riguardanti l'utilizzo dei vari macchinari dell'edificio.

Di fronte a me c'era una parete ricoperta da enormi finestre, ma, grazie al cielo, le tapparelle erano abbassate e la luce filtrava esile dai buchi di queste ultime. Feci qualche passo incerta per raggiungere la scrivania, ma mi accorsi di un libro che giaceva per terra. Lo raccolsi e lessi il titolo: ''Divina Commedia''. Lo aprii e notai che alcune parti erano sottolineate.

''Per me si va ne la città dolente

per me si va ne l'etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
''

E proseguii:

''Venimmo al piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.

Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
''

Un lampo mi balenò in testa, così iniziai a girare le pagine per trovare quello che stavo cercando.

Quando ebbi raggiunto il mio obiettivo, tutto mi sembrava più chiaro.

 ''[...]Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense".
Queste parole da lor ci fuor porte.
''

Bingo! Quell'ufficio doveva essere di Blaze, perché quei pezzi di testo sottolineati erano gli stessi che lui aveva ripetuto in classe nelle interrogazioni.

Riappoggiai il libro a terra e mi avvicinai alla scrivania. Poi, una volta raggiunta, scostai dei fogli e iniziai a cercare indizi. In mezzo a tutte quelle cartacce c'erano anche delle fotografie. Ne presi in mano una e subito vidi che le due persone nella foto eravamo io e mio fratello Jake. Allibita la riposi e diedi un'occhiata veloce anche alle altre: Jake, io, io con lui, casa nostra, una foto di famiglia. Iniziai ad aver paura. Abbandonai il tavolo facendo qualche passo incerto all'indietro, portandomi una mano sulla bocca. Cosa voleva dire tutto questo?

La porta si aprì all'improvviso e si richiuse subito dopo con un colpo secco.

  • Cosa ci fai tu qui?!

Mi morsi il labbro: Blaze era entrato nella stanza.

  • Cosa vuoi da me?- Dissi singhiozzando con gli occhi umidi di lacrime.

Blaze guardò rapidamente la scrivania e intuì ciò che era successo. Tirò un sospiro e mi si avvicinò.

  • Si può sapere che ti è saltato in mente? Questo posto è pericoloso!- Mi rimproverò, tenendo però un tono di voce basso.

  • Blaze...cosa vuol dire tutto questo?- Domandai, indicando il tavolo stracolmo di fotografie mie e di Jake.

Lui abbassò lo sguardo e mi prese per mano. -Sapevo che prima o poi avresti fatto qualche sciocchezza. Hai fegato, proprio come lui.

Avrei voluto chiedergli a chi si stessa riferendo con quel ''lui'', ma non ne ebbi il tempo: dei rumori stavano giungendo dal corridoio.

Spalancai gli occhi: - Ora cosa faccio?- Chiesi in preda al panico.

Blaze non rispose; si voltò ad osservare la porta e si portò una mano alla tempia.

I passi si facevano sempre più rumorosi e, con l'aumentare di essi, anche lo schiamazzo delle voci aumentava. Squadrai Blaze con aria interrogativa. Mi aiuterai, vero?
Lui non mi lasciò nemmeno il tempo di pensare: mi afferrò per un polso ed aprì con forza brutale l'armadio dietro alla scrivania. Mi gettò sgarbatamente al suo interno, poi entrò anche lui, chiudendosi le ante di legno beige alle spalle.
I nostri petti si toccavano ad ogni mio respiro e le ginocchia mi tremavano leggermente. Blaze mi stava ancora tenendo per il polso, ma, con la testa girata, era intento ad ascoltare l'arrivo dei suoi ''compagni'' in corridoio.
Quando il rumore si fece tanto forte mi rannicchiai contro di lui, stringendo tra le mani la sua maglietta bianca. Lui mi lasciò il braccio e si limitò ad abbracciarmi e a passarmi una mano tra i capelli.
- Ragazzi Blaze deve essere uscito, qui non c'è.- Aveva detto uno, aprendo e chiudendo velocemente la porta.- Avvisate Craig.
Quando sentii la porta sbattere e i passi allontanarsi mi rilassai un poco.
- Il mio cuore stava battendo così velocemente...-Confessai sussurrando, ancora cullata tra le sue braccia.

- Il mio si comporta così ogni volta che sto con te.- Le sue parole mi fecero sussultare, giungendo piano al mio orecchio, come tesori preziosi.- ...Se solo ce ne avessi uno.- Si affrettò ad aggiungere.

  • Blaze... io so che tu non sei cattivo. Ma ancora non riesco a capire quale sia il tuo scopo.

Alzai il viso dalla sua maglietta e i miei occhi si incrociarono con i suoi rosso fuoco. Sorrisi all'idea di quanto magici e stupendi fossero.

  • Mi piacciono.- Affermai.- Mi piacciono i tuoi occhi rossi.

Lo sentii fare una smorfia. - Non sei terrorizzata?

  • No.

  • Neanche se ti dico che... io non sono ciò che credi?

  • Ormai non so nemmeno più cosa pensare. Inizialmente credevo fossi una specie di vampiro con gli occhi rossi che voleva solo prosciugarmi tutto il sangue che avevo in corpo. - Affermai, portandomi due dita vicino alla bocca e imitando i canini dei vampiri.

Blaze rise, sempre stando attento a non alzare troppo la voce. Mi afferrò le mani e se le appoggiò al petto, mentre il suo viso si avvicinò alla mia spalla. - Stai pronta allora, Sheila Evans, perché questo vampiro si farà di te un bello spuntino.

Mi morse piano la pelle del collo per poi lasciarci un tenero bacio. Miliardi di sensazioni mi pervasero il corpo in quell'istante: avrei voluto che lui lo continuasse a fare all'infinito.

  • Blaze...-Lo richiamai.

Alzò il viso, che finì a pochi centimetri dal mio. Riuscivo a sentire il calore che emanava e al contempo stesso ero totalmente persa nei suoi occhi fiammeggianti. Lo vidi sorridere e poi chiusi gli occhi. Blaze mi baciò. Il contatto tra le nostre bocche fu prima timido e delicato, solo una breve perlustrazione, poi si tramutò in qualcosa di più focoso e passionale. Feci scorrere le mie mani dal suo petto fino ad incrociargliele attorno al collo, tirandolo ancora di più verso di me. Lui mi strinse i fianchi e al contempo stesso le nostre lingue si incrociarono. Sentivo la sua bocca premere e scottare sulle mie labbra, mentre le sue mani scorrevano lungo il mio bacino. Era un bacio che entrambi aspettavamo da tempo e che sembrò durare un'eternità.


 


 

  • Posso sapere dove si trova?- Gli chiesi.

Io e Blaze stavamo camminando per strada per recarci a casa sua, anche se lui non la definiva così, ma piuttosto la sua ''tana''.

  • Dobbiamo camminare ancora per un po'.- Mi spiegò.- Sei così impaziente di passare del tempo da sola con me?- Chiese scherzando.

Gli diedi un pugno amichevole sulla schiena e lui mi mise un braccio attorno alle spalle.

  • Sei caldo.- Dissi.

  • Lo siamo tutti. Direi che come vampiro non ho un futuro eh?

Gli sorrisi e proseguimmo per la strada. Eravamo usciti da Sant Heaven per dirigerci ancora più fuori dalla città e ormai da una decina di minuti stavamo percorrendo la carreggiata.

  • Da questa parte.- Mi indicò. Più o meno si trova laggiù.

Lasciammo la strada principale per prenderne una laterale, di ciottoli, che conduceva in un boschetto.

Passarono ancora una quindicina di minuti prima che vedessimo in lontananza una casetta di legno, circondata da cespugli di bacche e intuii che quella era la nostra meta.

Quando entrai nella baracca mi accorsi che sarebbe stato impossibile per una persona vivere in quello stato: lo spazio era insufficiente, c'era solo un letto con lenzuola verdi, una scrivania sopra la quale si trovavano volumi e libri vari, una seggiola e una finestrella che si trovava proprio sopra la testata del letto.

  • Vivi...qui?- Chiesi allibita.

Lui si mise a ridere. - Cos'è quella faccia? Te l'ho detto, no, che è solo una specie di rifugio? Qui ci tengo il mio cucciolo.

  • Cucciolo?- Domandai, alquanto confusa.

Blaze uscì dalla stanza e io lo seguii, poi si portò due dita alla bocca e emise un fischio. Subito, dal cuore del bosco, sentimmo dei rumori e dei fruscii di foglie: qualcuno o qualcosa si stava avvicinando.

Furono pochi istanti, e poi vidi quell'enorme lupo nero alto quasi il doppio di noi, con occhi gialli e un aspetto feroce, che mostrava i denti ringhiando con la bocca piena di bava. Feci un passo indietro incerta, con gli occhi spalancati dal terrore. Cos'era quella creatura?

  • Lui è Fenrir, credo che tu ne abbia sentito parlare.- Mi spiegò Blaze, che intanto si era avvicinato alla bestia e gli aveva appoggiato una mano sul muso. - E' un tenerone, coraggio avvicinati, non aver paura!

  • Non aver paura un corno!- Urlai.

Il lupo si avvicinò a me e mi mostrò i denti emettendo un suono cupo e grave.

  • E... non gli piaccio nemmeno.- Affermai deglutendo.

  • Ti capisce, sai? Ed è anche in grado di parlare.

Guardai Blaze con aria sconcertata. Aveva un lupo, un enorme lupo come animale domestico. Un lupo che parlava Viveva in una casetta in mezzo ad un bosco. Aveva miriadi di foto mie e di mio fratello nella fabbrica. Aveva degli occhi rosso fuoco. E poi cos'altro? Ormai mi aspettavo di tutto.

  
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