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Autore: RMSG    09/05/2014    5 recensioni
[...] Qualcuno avrebbe detto che poteva sembrare un disperato. Questo qualcuno, forse, avrebbe avuto ragione. Ma lui che ci poteva fare? Ogni mercoledì, infatti, alle dodici e trentacinque circa, Adrian si tendeva lungo il tavolino a prendere la sua agenda, stringendo le labbra sottili per il nervoso, aggrottando le sopracciglia scure e lasciando che una piccola, ribelle ciocca di capelli si scomponesse e scappasse via lungo la fronte liscia.
Lear vide la scena a rallentatore e si sprecò in un sospiro quando Adrian ritornò diritto sulla sua poltrona, più concentrato a sfogliare le pagine stropicciate di un compito a casa completamente sabotato, che a rendersi conto dell'effetto assurdo che aveva su di lui. [...]
Genere: Romantico, Slice of life, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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The Way We Were

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compagna di mille avventure, grande amica e ispirazione, ideatrice di metà dei protagonisti.


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The Way We Were

Capitolo 1. Ventiquattro ore di felicità.

Fu un fascio di luce accecante che lo indusse a schiudere impercettibilmente gli occhi verdi e le lunghe ciglia chiare. Le membra pesanti, l’aria confusa di chi aveva orari biologici alquanto sregolati e quel dannato, maledetto costante martellare, poco sopra la tempia destra.
Le palpebre tremarono e con dolore una si aprì del tutto, permettendogli di visualizzare il soffitto. Aveva passato un'ennesima notte quasi insonne, ma non si sentiva stanco. D'altronde, erano settimane che poltriva e che era in licenza, e per uno stacanovista come lui c'era poc'altro da fare oltre il lavoro.  
Si mise seduto sul letto, grattandosi i capelli biondi e sbadigliando rumorosamente, e biascicando poi qualcosa di incomprensibile, si diresse verso il bagno per fare una doccia.

Sotto l'acqua bollente, intento a insaponarsi, indugiò con le dita affusolate sulla cicatrice della spalla, tracciandone il perimetro. Come la pellicola di un vecchio film e come ogni giorno da tre mesi a quella parte, i ricordi dell'incidente lo investirono. 
Non si riteneva un miracolato - sette anni in polizia e pensavano davvero che fosse la prima volta che guardava la morte in faccia? -, però doveva razionalmente ammettere che stavolta se l'era vista brutta. Talmente brutta da ritrovarsi in congedo forzato, talmente brutta da dover avere l'ok di uno psichiatra. 
Sospirò. Eccolo il vero problema. Lo psichiatra.

Chiuse l'acqua della doccia e uscì dal box, asciugandosi in fretta e preparandosi altrettanto velocemente. Era in anticipo per la terapia settimanale, ma aveva ancora da compilare l'agenda dei sogni. Una specie di compito a casa che lo strizzacervelli gli aveva dato. 
Afferrò dunque una penna e prese a scrivere, mordendosi il labbro e ridacchiando fra sé e sé mentre l'inchiostro scorreva.
Se fosse possibile o meno, Lear questo non lo sapeva. Restava comunque il fatto che lui non sognasse. Mai. Non c'era mai stata una volta in cui fosse riuscito a ricordare qualcosa, anche solo vagamente.  
E per questo rideva: perché stava inventando tutto di sana pianta e perché adorava vedere la faccia perplessa del bel dottore quando leggeva ad alta voce tutte quelle... beh, porcate che scriveva. 
Finì in fretta quella mattina, non avendo poi così tanta fantasia, ma si gongolò nel pensare che c'erano altri finti sogni appuntati durante la settimana che avrebbero mandato il suo dottore preferito fuori di testa.

****

Quando giunse allo studio e fu di fronte a Lui, notò subito il cambio di arredamento. Scrutò la nuova scrivania, i nuovi divani, i nuovi quadri... persino quelle che inizialmente pensò fossero delle nuove tende, ma che infine risultarono essere solo le vecchie lavate a secco. Constatò con soddisfazione che il suo occhio da detective non era poi così tanto fuori allenamento.
"Buongiorno, Lear." La voce calda, l'accento straniero, i capelli scuri ben pettinati indietro, il completo costoso, le scarpe lucide, persino il fiocco perfetto delle stringhe. Tutto trasudava involontariamente sesso nel dottor Adrian Murray. Oppure era solo Lear a essere su di giri per l'astinenza. Forse doveva chiamare Ryan, accidenti, e dare inizio a una delle loro maratone di sesso disimpegnato.
"Buongiorno, Adrian." Come fossero giunti al punto di chiamarsi per nome, poi, Lear, non avrebbe saputo spiegarlo. Semplicemente un giorno cominciò a farlo e al dottore sembrò andare bene. 
"Allora, fatto bei sogni anche questa settimana? Vogliamo cominciare da quelli, ti va?". Lear annuì e lasciò cadere con un tonfo scortese l'agenda azzurra sul tavolino che li divideva. Non che fosse un tipo maleducato, lui, anzi, ma c'era un motivo preciso per cui gettava l'agenda in quel modo. Ogni mercoledì, sempre alle dodici e trentacinque circa, e sempre in quell'ufficio, lui gettava l'agenda sul tavolino. E Adrian si tendeva a prenderla. 

Qualcuno avrebbe detto che poteva sembrare un disperato. Questo qualcuno, forse, avrebbe avuto ragione. Ma lui che ci poteva fare? Ogni mercoledì, infatti, alle dodici e trentacinque circa, Adrian si tendeva lungo il tavolino a prendere la sua agenda, stringendo le labbra sottili per il nervoso, aggrottando le sopracciglia scure e lasciando che una piccola, ribelle ciocca di capelli si scomponesse e scappasse via lungo la fronte liscia. 
Lear vide la scena a rallentatore e si sprecò in un sospiro quando Adrian ritornò diritto sulla sua poltrona, più concentrato a sfogliare le pagine stropicciate di un compito a casa completamente sabotato, che a rendersi conto dell'effetto assurdo che aveva su di lui. 
"Come sempre, Lear, trovo che sarebbe stato molto più proficuo a livello monetario, oltre che letterario, se Cinquanta Sfumature di Grigio lo avessi scritto tu." L'adorabile ironia di Adrian lo fece ridacchiare. Ora cominciava il conto alla rovescia... 
"Ti ringrazio..." disse e l’altro smise di sfogliare le pagine, preso nella lettura di qualcosa in particolare. Tre... "Trovato qualcosa di tuo gradimento, doc?" Adrian alzò gli occhi scuri, fissandoli in quelli verdi di Lear. Due... 
"A quando risale pagina ventitré?". Il biondo sorrise bonario. Uno... 
"Subito dopo la nostra ultima... visita, diciamo così. Mi sei decisamente rimasto impresso."  Zero. Eccolo, il vero Adrian Murray. Niente giacca e cravatta, nel rossore di quelle gote, solo una timidezza innata e due guance che Lear avrebbe volentieri preso a morsi.
"Parliamo di questo cambio repentino di soggetto..." borbottò allora l'altro, distogliendo leggermente lo sguardo per qualche secondo. "Come mai improvvisamente nei tuoi sogni erotici compaio io?"
Gli venne da ridere. "Tu che dici? Sei tu lo strizzacervelli!".
"Vorrei solo capire... i diffusi sogni erotici, in particolare così espliciti... e a tratti, beh, sadomasochistici... sono indice di una frustrazione sessuale non indifferente. Fai abbastanza sesso, Lear?". Non con te, avrebbe voluto rispondergli. Ma in generale sì, non faceva molto sesso, e per quanto impacciato fosse, il giovane dottore ci aveva preso. Un'enorme insegna luminosa col nome di Ryan cominciò a lampeggiare nella sua testa. Era davvero il caso di chiamarlo non appena uscito da qui. Si domandò oziosamente se sarebbe stato disposto a mettersi una cravatta come Adrian...
"Lear? Mi stai ascoltando?" Il biondo si riscosse e lo guardò. Piegò la testa all'indirizzo della scrivania e ammiccò verso il grande mazzo di girasoli che troneggiava sulla scrivania. Era ora di cambiare discorso e di puntare sull'unica nota dolente in Adrian Murray: sua moglie.
"Te li ha rimandati indietro di nuovo, vero? Adrian, non hai mai pensato che forse non le piacciono i girasoli? O più in generale i fiori?". Sollevò le sopracciglia sarcastico e lo vide innervosirsi visibilmente, ma trattenersi. Oh, quanto adorava farlo scaldare. 
"Stai cambiando discorso..."
"... mai provato coi cioccolatini? Quelli con la granella di nocciola..."
Adrian sbuffò appena. "Non saranno mica quelli che vorresti tu da me?" E Lear si zittì, per la prima volta, mentre tra loro si frapponeva uno strano silenzio. Fu il dottore a romperlo schiarendosi la voce. "Dicevo: dopo due mesi di terapia insieme non credo, francamente, di poterti spillare più di quello di cui abbiamo già ampiamente parlato. Vedi, il mio lavoro è ascoltarti e interpretare i tuoi atteggiamenti, attribuendo loro delle motivazioni psicologiche e non solo. Il mio parere di medico è che dopo la sparatoria non hai avuto alcun trauma significativo, non più del normale, è che saresti stato in grado di prendere servizio sin da subito." Lear lo seguì con gli occhi, attento, andando a stringersi le mani in grembo improvvisamente tachicardico. Dove voleva arrivare? 
"Non so quanti dei sogni di cui mi hai scritto sono veri. Capisci bene che pur essendo uno psichiatra, non mi è stato fatto il dono dell'onniscienza e quindi non ho potuto fare altro che fidarmi ciecamente di te." Adrian sospirò appena. "Benché tu sia sano, sei un caso interessante e particolare, perché abbastanza lucido anche da controbattere le mie terapie. Certo, il tuo passato, almeno quel poco che non hai deciso di omettere credendo che non me ne sarei accorto, è un bagaglio pesante che ti trascini da tempo, ma io sono convinto che, come molto altro ancora prima di quello che ti è successo qualche mese fa, sarai perfettamente in grado di gestire i tuoi demoni, diciamo così." E sorrise. Un sorriso di cortesia, comune, impersonale, che ferì più di uno sputo in faccia. Lear rimase fermo ad ascoltarlo a lungo, lasciandolo parlare, sebbene dopo quella tremenda smorfia non sentisse altro che un ronzio. Non aveva mai pensato nel corso di quelle settimane a cosa avrebbe fatto quando Adrian lo avrebbe ritenuto idoneo a riprendere il lavoro. Quando poi non avrebbe più dovuto vederlo tendersi sul tavolino, sbuffare, accavallare le gambe lunghe, rilassare le spalle larghe, sbattere le belle ciglia. Abbassò lo sguardo e lo posò sulle mani di Adrian poggiate sulle cosce. Trattenne un sorriso, mantenendo contegno a stento, mentre il segno dell'abbronzatura lasciato dalla fede - assente - sull'anulare sinistro del dottore diventava improvvisamente motivo di esultanza. 
"Lear? Non mi stai ascoltando di nuovo..." la voce improvvisamente dolce di Adrian lo risvegliò ancora e di nuovo i loro sguardi si incontrarono. 
"No, invece ti ho ascoltato bene."
"Non credo. Altrimenti mi avresti già contraddetto." sorrise. "Dico sul serio, comunque, penso che l'unica cosa che ti manchi al momento per stabilizzare la tua esistenza è qualcuno al tuo fianco con cui condividere i tuoi successi, ma anche i tuoi fallimenti, i tuoi problemi..."
"Dov'è la fede?" chiese d'istinto ed ecco l'Adrian Murray originale comparire, sussultare sulla poltrona, arrossire appena, distogliere lo sguardo. Lear sorrise. 
"Possibile che tu debba sempre cambiare discorso? Vorrei che ti si potesse parlare come con tutti gli altri pazienti..."
"Ah, quindi non sono come tutti gli altri?"
"Te ne stupisci?" rispose stizzito e Lear lo guardò sorpreso, tacendo ancora e decidendo che stavano entrando in un territorio scomodo. Ma perché non osare?
"... lo sai, non credo che sarebbe così semplice trovare qualcuno disposto a starmi accanto."
"Se mostri agli altri lo stesso pezzetto di te che hai mostrato a me, sono sicuro che non avrai alcuna difficoltà..." era amarezza quella nella sua voce? "Un altro tuo problema, Lear, è il pessimismo e la valutazione spesso troppo negativa che hai di te. Ti posso assicurare che chiunque si innamorerebbe di te... e dei tuoi occhioni" aggiunse e Lear rabbrividì.  
"Quindi non ci vedremo più?"
"Esatto. Credo che il mio lavoro con te sia finito e il mio ultimo consiglio, come già ti ho detto, è che nel cercare di costruire un nuovo te stesso devi anche… sai…" gesticolò, impacciato, non riuscendo a trovare subito le parole. "… imparare ad amare, ecco."
Lear sospirò. "La vedo dura! Perdo la testa sempre per le persone sbagliate…" 
"Che ne sai che sono sbagliate se non hai nemmeno provato a dir loro quello che provi?" Un altro sospiro e un altro sguardo colpevole. Se solo Adrian sapesse, pensò, forse non parlerebbe così.
"Semplicemente incasinerei la loro vita se dicessi la verità… e non è quello che voglio." Non ottenne alcuna risposta, Lear, perché il timer trillò. Erano passati i cinquantacinque minuti settimanali stabiliti e ora, come sempre, Adrian si sarebbe alzato dalla poltrona, sarebbe andato a sedersi alla sua scrivania, avrebbe appuntato brevemente il resoconto della seduta e poi gli avrebbe sorriso, congedandolo sino alla settimana successiva. O congedandolo e basta, in questo caso.
"Quando uscirai da questa stanza, Lear, voglio che porti con te una nuova consapevolezza. Dopotutto, la vita è fatta per godersi amore, amicizia, famiglia e, ti assicuro, vale sempre la pena di fare quello che vuoi, di dire quello che pensi, di amare chi desideri."
"Ma ci sono anche gli altri, sai? Con i loro desideri e la loro libertà e…"
Adrian lo interruppe. "E chi riuscirebbe a resisterti, Lear?" Il biondo sussultò di nuovo. Sembrava avesse uno spillo sotto il fondoschiena, quella mattina. "Dovresti solo smettere di sacrificarti e semplicemente… accettare l’affetto altrui." 
Era troppo, adesso. Troppo anche per lui, per un poliziotto, per uno abituato a gestire la tensione. Si alzò di scatto e strinse i pugni lungo i fianchi. "Direi che per il momento è meglio fare solo un po’ di sesso senza complicazioni, Adrian."
"E ti basterà?" No, pensò, non più almeno. 
"Me lo farò bastare." Sbuffò. "Lo capisci che non ha senso quello che mi stai dicendo? Secondo te posso alzarmi una mattina, andare da una persona e rivoltargli l’esistenza come un calzino dichiarando il mio amore spassionato per lei? E’ come se dicessi che… che sono innamorato di te! Sarebbe sbagliato in così tanti modi che non saprei nemmeno spiegarti!"
"E perché dovrebbe essere sbagliato, sentiamo. Se fossi innamorato anche io? Che ne puoi sapere? Lo vedi come sei negativo?"
"Ma sei sposato, Adrian!"
"Non sta a te decidere cosa voglio io..." Lear boccheggiò. Com'erano arrivati a quel punto? Provò a ribattere e a chiedere spiegazioni, ma si fermò quando vide l'altro alzarsi dalla sua poltrona e fargli strada fuori dall'ufficio. Lo seguì silenzioso, senza sapere cosa fare. Era una dichiarazione quella? O meglio ancora, un'ammissione di colpa? Ma soprattutto, c'era davvero un qualche crimine da confessare?
Si ritrovò di fronte alla porta e gli sembrò di dover saltare da un precipizio. 
"Adrian, io..." provò.
"Lo so." Un altro sussulto per il biondo, l'ennesimo di quella giornata. 
"Sai cosa?"
"Lo so e basta." Si guardarono negli occhi, piantonando la soglia della porta, traballando sull'orlo di quel precipizio, un piede già svolazzante nel vuoto.
"... dicevo la verità prima..." La voce di Lear suonò sfiatata, stranamente flebile, e gli sembrò davvero di starci per sprofondare, in quel burrone. 
"Sono il tuo psichiatra, non te lo scordare. Anche se non ti tratto come gli altri pazienti, non significa che tu non lo sia..." Una frase, quella di Adrian, che Lear trovò essere tra le più ambigue mai sentite. Era suo paziente, ma allo stesso tempo non era solo quello. 
"E questo che significa?" domandò allora. 
"Che così come io so che quello che dicevi prima era solo la pura e semplice verità..." avvicinò una mano - la sinistra - alla guancia di Lear, accarezzandola col palmo morbido "Tu sai perché non ho più la fede." 
Il giovane detective si domandò dunque cosa fare. Saltargli addosso, baciarlo e farci l'amore fino a stancarlo... o saltargli addosso, baciarlo e farci l'amore fino a renderlo più gay di quanto latentemente già non fosse? 
Mentre Lear ponderava le opzioni donategli da Cupido, Adrian fortunatamente passò all'azione per entrambi. Rinvigorito da un corraggio tutto nuovo, lo afferrò per la vita e gli diede un bacio. Lo stesso bacio che poi in futuro Lear avrebbe a buon dire registrato come il primo bacio più brutto della storia. 
Fu, in effetti, un cozzare di labbra e denti per i primi interminabili dieci secondi. Poi, come anche le anime dei protagonisti, trovò un senso e divenne calore. Un fuoco placido, ma ricco di promesse, di desideri taciuti per mesi, di sentimenti sublimati. Quando si staccarono, Lear si riscoprì avvinghiato ad Adrian, e stranamente non provò alcun imbarazzo. Era esattamente dove avrebbe voluto essere: fra le sue braccia.
"... mi sono innamorato del mio psichiatra..." pigolò appena lamentoso, poggiando la fronte alla sua spalla. Adrian lo abbracciò immediatamente, stringendolo in un bozzolo caldo. 
"Uno psichiatra adultero e riscopertosi bisessuale..." Lear ridacchiò e avvolse le braccia attorno al suo collo. Si sentiva basso. E piccolo. Non quanto come con Ryan e il suo metro e novanta, ma abbastanza da desiderare che Adrian non si allontanasse per nulla al mondo e che lo protegesse, che gli parlasse col tono paziente di ogni mercoledì. Era così tanto assurdo sperarlo?
"Adrian, io... non so che dire... non voglio incasinarti, dico sul serio, ma non riesco a pensare di staccarmi da te in questo momento." Lear lo osservò sospirare e cominciò a preoccuparsi. Che ci stesse ripensando improvvisamente? Ma perché accidenti non poteva stare zitto?
"... stasera lascio mia moglie." disse e sembrò convinto. "E domani, Lear, voglio che ci vediamo a pranzo, fuori da questo ufficio, da questo insensato contesto che non ha mai veramente funzionato. Voglio vederti e stare con te e... mh!" Adrian tacque e si lasciò baciare. Troppe, troppe parole... i gesti contano sempre di più e quello non era più il momento per parlare.
"Ma sei sicuro?" riprovò, tuttavia. "Lasciare tua moglie, la tua vita e... perché ridi adesso, si può sapere?!"
"Perché sei stupendo quando sei insicuro." Adrian ridacchiò. "Dico sul serio. Voglio vederti lontano da qui, voglio vederti mangiare, guardarti intorno, ridere per il caffè rovesciato e guardarmi sempre con quella faccia furba... voglio tutto di te. Ogni cosa."
Lear arrossì leggermente. Quel maledetto ci sapeva fare con le parole.

****

Ventiquattro, insonni ed euforiche, ore dopo, alle dodici e trentacinque del giovedì successivo alla dichiarazione più strampalata della storia delle dichiarazioni strampalate, Lear Russel correva come un matto. 
Solo lui poteva tardare al primo appuntamento, solo lui! Masticò l'ennesima imprecazione della giornata ed entrò nel caffè dove sperava che Adrian lo stesse ancora aspettando. Fortunatamente i suoi desideri trovarono adito e così si concesse di riprendere fiato mentre lo osservava. Era lì, seduto, silenzioso, immerso in chissà quali pensieri da psichiatra. Giocava con la tazza del caffè, probabilmente non la prima, disegnando il bordo in ceramica con le dita affusolate. Niente fede anche oggi. Lear tirò un sospiro di sollievo e si avvicinò. "Ehi, dottore..." 
Adrian alzò la testa e per un attimo apparve smarrito. Pensava forse che non sarebbe più arrivato? "Ciao, Lear."
Il biondo si sedette al suo stesso tavolo, sospirando contento e tirando fuori il suo sorriso più raggiante. Per Adrian fu uno schiaffo, piuttosto che un toccasana, e sobbalzò quasi, ma Lear passò oltre. 
"Mi dispiace da morire per il ritardo! Ma è successo un casino a casa e dato che hai già mandato l'autorizzazione al rientro in servizio al mio capo - a proposito, grazie di averlo fatto così presto... - avevo mille telefonate a cui rispondere e..." fermò il fiume in piena delle sue parole e osservò Adrian. Era uno sguardo contrito quello? 
"Si può sapere che c'è? Ti prego, non dirmi che sei arrabbiato per il ritardo! Ti giuro  che ho davvero fatto il diavolo a quattro e... no?" Adrian scosse il capo, muto come un pesce. "Non è per quello? E allora per cos'è?" gli afferrò una mano e la strinse fra le sue. "Adrian, parlami..." un sospiro dall'altro fronte. Forte, pesante, dispiaciuto. 
"Kate..." la voce uscì rotta e se la schiarì. "Kate è incinta, Lear." Anche quest'ultimo ora sospirò, indietreggiando sulla sedia e lasciando la sua mano. Sua moglie era incinta. Nemmeno lui avrebbe potuto pensare a uno scenario così orribile, il che era davvero tutto da dire.
"... o-ok. Quindi?" lo vide accigliarsi. Un'espressione nuova sul suo bel viso, che gli ricordò quanto in effetti poco conoscesse Adrian. 
"Quindi c'è il mio bambino nella sua pancia! Quindi... " si passò una mano fra i capelli e quel gesto sì, quello Lear lo riconobbe. Lo faceva ogni volta che era agitato.
"Quindi?" Lo incalzò brusco. Si stavano lasciando? Ma lasciando da cosa, poi? Quei baci non erano niente di ufficiale e quelle parole... beh, erano parole. Che idiota era stato.
"Quindi non posso lasciarla!" Scoppiò. "Partorirà mio figlio e se c'è una cosa che ho sempre voluto è un figlio! Io... Lear, io... adesso le cose sono diverse, lo capisci? Non me la sento di far nascere mio figlio o mia figlia in una famiglia che è già sfasciata. Non mi sembra giusto..." Quella era la scusa più assurda che gli avessero detto, davvero, e lui non era così stupido.
"E a me non sembra giusto invece che cresca fra due genitori che si odiano! Di cui uno gay e innamorato di un altro! Ma dico, pensi di essere il primo uomo che ha figli ma si riscopre gay? Sei uno psichiatra, cazzo!" Sbatté il palmo sul tavolo e mezzo locale si girò fra il tintinnio delle tazze. "Te le devo davvero spiegare io queste cose?" Gli veniva da piangere, ma non lo fece, soffocando i singulti nei pugni stretti convulsamente. Mai avrebbe dato a quel bastardo di Adrian la soddisfazione di vederlo spezzato per colpa sua, mai. "Credo che tu mi stia dicendo un sacco di stronzate... stronzate che non ho voglia di ascoltare." Si alzò di scatto, facendo traballare la sedia. "Ti ringrazio per l'autorizzazione al rientro. Magari comincia a farti vedere anche tu da uno bravo." Lo guardò con una smorfia di disgusto. "Mi saluti tanto sua moglie, dottore." 
Adrian nemmeno fiatò, sconvolto com'era dalla scenata eroica di Lear. Non disse nulla nemmeno quando l'altro scappò via dal locale, sparendo così come era entrato. 
"Lear..." mormorò, a capo chino, sbattendo le palpebre. Maledizione
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