compagna di mille avventure, grande amica e ispirazione, ideatrice di metà dei protagonisti.
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The Way We Were
Capitolo 1. Ventiquattro ore di felicità.
Fu
un fascio di luce accecante che lo indusse a schiudere
impercettibilmente gli
occhi verdi e le lunghe ciglia chiare. Le membra pesanti,
l’aria confusa di chi
aveva orari biologici alquanto sregolati e quel dannato, maledetto
costante
martellare, poco sopra la tempia destra.
Le palpebre tremarono e con dolore una si aprì del tutto,
permettendogli di
visualizzare il soffitto. Aveva passato un'ennesima notte quasi
insonne, ma non
si sentiva stanco. D'altronde, erano settimane che poltriva e che era
in
licenza, e per uno stacanovista come lui c'era poc'altro da fare oltre
il
lavoro.
Si mise seduto sul letto, grattandosi i capelli biondi e sbadigliando
rumorosamente, e biascicando poi qualcosa di incomprensibile, si
diresse verso
il bagno per fare una doccia.
Sotto
l'acqua bollente, intento a insaponarsi, indugiò con le dita
affusolate sulla
cicatrice della spalla, tracciandone il perimetro. Come la pellicola di
un
vecchio film e come ogni giorno da tre mesi a quella parte, i ricordi
dell'incidente lo investirono.
Non si riteneva un miracolato - sette anni in polizia e pensavano
davvero che
fosse la prima volta che guardava la morte in faccia? -,
però doveva
razionalmente ammettere che stavolta se l'era vista brutta. Talmente
brutta da
ritrovarsi in congedo forzato, talmente brutta da dover avere l'ok di
uno
psichiatra.
Sospirò. Eccolo il vero problema. Lo psichiatra.
Chiuse
l'acqua della doccia e uscì dal box, asciugandosi in fretta
e preparandosi
altrettanto velocemente. Era in anticipo per la terapia settimanale, ma
aveva
ancora da compilare l'agenda dei sogni. Una specie di compito a casa
che lo
strizzacervelli gli aveva dato.
Afferrò dunque una penna e prese a scrivere, mordendosi il
labbro e
ridacchiando fra sé e sé mentre l'inchiostro
scorreva.
Se fosse possibile o meno, Lear questo non lo sapeva. Restava comunque
il fatto
che lui non sognasse. Mai. Non c'era mai stata una volta in cui fosse
riuscito
a ricordare qualcosa, anche solo vagamente.
E per questo rideva: perché stava inventando tutto di sana
pianta e perché
adorava vedere la faccia perplessa del bel dottore quando leggeva ad
alta voce
tutte quelle... beh, porcate che scriveva.
Finì in fretta quella mattina, non avendo poi
così tanta fantasia, ma si
gongolò nel pensare che c'erano altri finti sogni appuntati
durante la
settimana che avrebbero mandato il suo dottore preferito fuori di testa.
****
Quando
giunse allo studio e fu di fronte a Lui,
notò subito il cambio di arredamento.
Scrutò la nuova scrivania, i nuovi divani, i nuovi quadri...
persino quelle che
inizialmente pensò fossero delle nuove tende, ma che infine
risultarono essere solo
le vecchie lavate a secco. Constatò con soddisfazione che il
suo occhio da
detective non era poi così tanto fuori allenamento.
"Buongiorno, Lear." La voce calda, l'accento straniero, i capelli
scuri ben pettinati indietro, il completo costoso, le scarpe lucide,
persino il
fiocco perfetto delle stringhe. Tutto trasudava involontariamente sesso
nel
dottor Adrian Murray. Oppure era solo Lear a essere su di giri per
l'astinenza. Forse doveva chiamare Ryan, accidenti, e dare inizio a una
delle
loro maratone di sesso disimpegnato.
"Buongiorno, Adrian." Come fossero giunti al punto di chiamarsi per
nome, poi, Lear, non avrebbe saputo spiegarlo. Semplicemente un giorno
cominciò
a farlo e al dottore sembrò andare bene.
"Allora, fatto bei sogni anche questa settimana? Vogliamo cominciare da
quelli, ti va?". Lear annuì e lasciò cadere con
un tonfo scortese l'agenda
azzurra sul tavolino che li divideva. Non che fosse un tipo maleducato,
lui,
anzi, ma c'era un motivo preciso per cui gettava l'agenda in quel modo.
Ogni
mercoledì, sempre alle dodici e trentacinque circa, e sempre
in quell'ufficio,
lui gettava l'agenda sul tavolino. E Adrian si tendeva a
prenderla.
Qualcuno
avrebbe detto che poteva sembrare un disperato. Questo qualcuno, forse,
avrebbe
avuto ragione. Ma lui che ci poteva fare? Ogni mercoledì,
infatti, alle dodici
e trentacinque circa, Adrian si tendeva lungo il tavolino a prendere la
sua
agenda, stringendo le labbra sottili per il nervoso, aggrottando le
sopracciglia scure e lasciando che una piccola, ribelle ciocca di
capelli si
scomponesse e scappasse via lungo la fronte liscia.
Lear vide la scena a rallentatore e si sprecò in un sospiro
quando Adrian
ritornò diritto sulla sua poltrona, più
concentrato a sfogliare le pagine
stropicciate di un compito a casa completamente sabotato, che a
rendersi conto
dell'effetto assurdo che aveva su di lui.
"Come sempre, Lear, trovo che sarebbe stato molto più
proficuo a livello
monetario, oltre che letterario, se Cinquanta Sfumature di Grigio lo
avessi
scritto tu." L'adorabile ironia di Adrian lo fece ridacchiare. Ora
cominciava il conto alla rovescia...
"Ti ringrazio..." disse e l’altro smise di sfogliare le
pagine, preso
nella lettura di qualcosa in particolare. Tre... "Trovato
qualcosa di tuo
gradimento, doc?" Adrian alzò gli occhi scuri, fissandoli in
quelli verdi
di Lear. Due...
"A quando risale pagina ventitré?". Il biondo sorrise
bonario.
Uno...
"Subito dopo la nostra ultima... visita, diciamo così. Mi
sei decisamente
rimasto impresso." Zero.
Eccolo, il vero Adrian Murray. Niente giacca
e cravatta, nel rossore di quelle gote, solo una timidezza innata e due
guance
che Lear avrebbe volentieri preso a morsi.
"Parliamo di questo cambio repentino di soggetto..."
borbottò allora
l'altro, distogliendo leggermente lo sguardo per qualche secondo. "Come
mai improvvisamente nei tuoi sogni erotici compaio io?"
Gli venne da ridere. "Tu che dici? Sei tu lo strizzacervelli!".
"Vorrei solo capire... i diffusi sogni erotici, in particolare
così
espliciti... e a tratti, beh, sadomasochistici... sono indice di una
frustrazione sessuale non indifferente. Fai abbastanza sesso, Lear?". Non
con te, avrebbe voluto rispondergli. Ma in generale
sì, non faceva molto sesso,
e per quanto impacciato fosse, il giovane dottore ci aveva preso.
Un'enorme
insegna luminosa col nome di Ryan cominciò a lampeggiare
nella sua testa. Era davvero
il caso di chiamarlo non appena uscito da qui. Si domandò
oziosamente se
sarebbe stato disposto a mettersi una cravatta come Adrian...
"Lear? Mi stai ascoltando?" Il biondo si riscosse e lo
guardò. Piegò
la testa all'indirizzo della scrivania e ammiccò verso il
grande mazzo di
girasoli che troneggiava sulla scrivania. Era ora di cambiare discorso
e di
puntare sull'unica nota dolente in Adrian Murray: sua moglie.
"Te li ha rimandati indietro di nuovo, vero? Adrian, non hai mai
pensato
che forse non le piacciono i girasoli? O più in generale i
fiori?".
Sollevò le sopracciglia sarcastico e lo vide innervosirsi
visibilmente, ma trattenersi. Oh,
quanto adorava farlo scaldare.
"Stai cambiando discorso..."
"... mai provato coi cioccolatini? Quelli con la granella di
nocciola..."
Adrian sbuffò appena. "Non saranno mica quelli che vorresti
tu da
me?" E Lear si zittì, per la prima volta, mentre tra loro si
frapponeva
uno strano silenzio. Fu il dottore a romperlo schiarendosi la voce.
"Dicevo: dopo due mesi di terapia insieme non credo, francamente, di
poterti spillare più di quello di cui abbiamo
già ampiamente parlato. Vedi,
il mio lavoro è ascoltarti e interpretare i tuoi
atteggiamenti, attribuendo loro
delle motivazioni psicologiche e non solo. Il mio parere di medico
è che dopo
la sparatoria non hai avuto alcun trauma significativo, non
più del normale, è
che saresti stato in grado di prendere servizio sin da subito." Lear lo
seguì con gli occhi, attento, andando a stringersi le mani
in grembo
improvvisamente tachicardico. Dove voleva arrivare?
"Non so quanti dei sogni di cui mi hai scritto sono veri. Capisci bene
che
pur essendo uno psichiatra, non mi è stato fatto il dono
dell'onniscienza e
quindi non ho potuto fare altro che fidarmi ciecamente di te." Adrian
sospirò appena. "Benché tu sia sano, sei un caso
interessante e
particolare, perché abbastanza lucido anche da controbattere
le mie terapie.
Certo, il tuo passato, almeno quel poco che non hai deciso di omettere
credendo
che non me ne sarei accorto, è un bagaglio pesante che ti
trascini da tempo, ma
io sono convinto che, come molto altro ancora prima di quello che ti
è successo
qualche mese fa, sarai perfettamente in grado di gestire i tuoi demoni,
diciamo
così." E sorrise. Un sorriso di cortesia, comune,
impersonale, che ferì
più di uno sputo in faccia. Lear rimase fermo ad ascoltarlo
a lungo,
lasciandolo parlare, sebbene dopo quella tremenda smorfia non sentisse
altro
che un ronzio. Non aveva mai pensato nel corso di quelle settimane a
cosa
avrebbe fatto quando Adrian lo avrebbe ritenuto idoneo a riprendere il
lavoro.
Quando poi non avrebbe più dovuto vederlo tendersi sul
tavolino, sbuffare,
accavallare le gambe lunghe, rilassare le spalle larghe, sbattere le
belle
ciglia. Abbassò lo sguardo e lo posò sulle mani
di Adrian poggiate sulle cosce.
Trattenne un sorriso, mantenendo contegno a stento, mentre il segno
dell'abbronzatura lasciato dalla fede - assente - sull'anulare sinistro
del
dottore diventava improvvisamente motivo di esultanza.
"Lear? Non mi stai ascoltando di nuovo..." la voce improvvisamente
dolce di Adrian lo risvegliò ancora e di nuovo i loro
sguardi si
incontrarono.
"No, invece ti ho ascoltato bene."
"Non credo. Altrimenti mi avresti già contraddetto."
sorrise.
"Dico sul serio, comunque, penso che l'unica cosa che ti manchi al
momento
per stabilizzare la tua esistenza è qualcuno al tuo fianco
con cui condividere
i tuoi successi, ma anche i tuoi fallimenti, i tuoi problemi..."
"Dov'è la fede?" chiese d'istinto ed ecco l'Adrian Murray
originale
comparire, sussultare sulla poltrona, arrossire appena, distogliere lo
sguardo.
Lear sorrise.
"Possibile che tu debba sempre cambiare discorso? Vorrei che ti si
potesse
parlare come con tutti gli altri pazienti..."
"Ah, quindi non sono come tutti gli altri?"
"Te ne stupisci?" rispose stizzito e Lear lo guardò
sorpreso, tacendo
ancora e decidendo che stavano entrando in un territorio scomodo. Ma
perché non
osare?
"... lo sai, non credo che sarebbe così semplice trovare
qualcuno disposto
a starmi accanto."
"Se mostri agli altri lo stesso pezzetto di te che hai mostrato a me,
sono
sicuro che non avrai alcuna difficoltà..." era amarezza
quella nella sua
voce? "Un altro tuo problema, Lear, è il pessimismo e la
valutazione
spesso troppo negativa che hai di te. Ti posso assicurare che chiunque
si
innamorerebbe di te... e dei tuoi occhioni" aggiunse e Lear
rabbrividì.
"Quindi non ci vedremo più?"
"Esatto. Credo che il mio lavoro con te sia finito e il mio ultimo
consiglio,
come già ti ho detto, è che nel cercare di
costruire un nuovo te stesso devi
anche… sai…" gesticolò, impacciato,
non riuscendo a trovare subito le
parole. "… imparare ad amare, ecco."
Lear sospirò. "La vedo dura! Perdo la testa sempre per le
persone
sbagliate…"
"Che ne sai che sono sbagliate se non hai nemmeno provato a dir loro
quello che provi?" Un altro sospiro e un altro sguardo colpevole. Se
solo
Adrian sapesse, pensò, forse non parlerebbe così.
"Semplicemente incasinerei la loro vita se dicessi la
verità… e non è
quello che voglio." Non ottenne alcuna risposta, Lear,
perché il timer
trillò. Erano passati i cinquantacinque minuti settimanali
stabiliti e ora,
come sempre, Adrian si sarebbe alzato dalla poltrona, sarebbe andato a
sedersi
alla sua scrivania, avrebbe appuntato brevemente il resoconto della
seduta e
poi gli avrebbe sorriso, congedandolo sino alla settimana successiva. O
congedandolo e basta, in questo caso.
"Quando uscirai da questa stanza, Lear, voglio che porti con te una
nuova
consapevolezza. Dopotutto, la vita è fatta per godersi
amore, amicizia,
famiglia e, ti assicuro, vale sempre la pena di fare quello che vuoi,
di dire
quello che pensi, di amare chi desideri."
"Ma ci sono anche gli altri, sai? Con i loro desideri e la loro
libertà
e…"
Adrian lo interruppe. "E chi riuscirebbe a resisterti, Lear?" Il
biondo sussultò di nuovo. Sembrava avesse uno spillo sotto
il fondoschiena,
quella mattina. "Dovresti solo smettere di sacrificarti e
semplicemente…
accettare l’affetto altrui."
Era troppo, adesso. Troppo anche per lui, per un poliziotto, per uno
abituato a
gestire la tensione. Si alzò di scatto e strinse i pugni
lungo i fianchi.
"Direi che per il momento è meglio fare solo un
po’ di sesso senza
complicazioni, Adrian."
"E ti basterà?" No,
pensò, non
più almeno.
"Me lo farò bastare." Sbuffò. "Lo capisci che non
ha senso
quello che mi stai dicendo? Secondo te posso alzarmi una mattina,
andare da una
persona e rivoltargli l’esistenza come un calzino dichiarando
il mio amore
spassionato per lei? E’ come se dicessi che… che
sono innamorato di te! Sarebbe
sbagliato in così tanti modi che non saprei nemmeno
spiegarti!"
"E perché dovrebbe essere sbagliato, sentiamo. Se fossi
innamorato anche
io? Che ne puoi sapere? Lo vedi come sei negativo?"
"Ma sei sposato, Adrian!"
"Non sta a te decidere cosa voglio io..." Lear boccheggiò.
Com'erano
arrivati a quel punto? Provò a ribattere e a chiedere
spiegazioni, ma si fermò
quando vide l'altro alzarsi dalla sua poltrona e fargli strada fuori
dall'ufficio.
Lo seguì silenzioso, senza sapere cosa fare. Era una
dichiarazione quella? O
meglio ancora, un'ammissione di colpa? Ma soprattutto, c'era davvero un
qualche
crimine da confessare?
Si ritrovò di fronte alla porta e gli sembrò di
dover saltare da un precipizio.
"Adrian, io..." provò.
"Lo so." Un altro sussulto per il biondo, l'ennesimo di quella
giornata.
"Sai cosa?"
"Lo so e basta." Si guardarono negli occhi, piantonando la soglia
della porta, traballando sull'orlo di quel precipizio, un piede
già svolazzante
nel vuoto.
"... dicevo la verità prima..." La voce di Lear
suonò sfiatata,
stranamente flebile, e gli sembrò davvero di starci per
sprofondare, in quel
burrone.
"Sono il tuo psichiatra, non te lo scordare. Anche se non ti tratto
come
gli altri pazienti, non significa che tu non lo sia..." Una frase,
quella
di Adrian, che Lear trovò essere tra le più
ambigue mai sentite. Era suo
paziente, ma allo stesso tempo non era solo quello.
"E questo che significa?" domandò allora.
"Che così come io so che quello che dicevi prima era solo la
pura e
semplice verità..." avvicinò una mano - la
sinistra - alla guancia di
Lear, accarezzandola col palmo morbido "Tu sai perché non ho
più la
fede."
Il giovane detective si domandò dunque cosa fare. Saltargli
addosso, baciarlo e
farci l'amore fino a stancarlo... o saltargli addosso, baciarlo e farci
l'amore
fino a renderlo più gay di quanto latentemente
già non fosse?
Mentre Lear ponderava le opzioni donategli da Cupido, Adrian
fortunatamente
passò all'azione per entrambi. Rinvigorito da un corraggio
tutto nuovo, lo
afferrò per la vita e gli diede un bacio. Lo stesso bacio
che poi in futuro
Lear avrebbe a buon dire registrato come il primo bacio più
brutto della
storia.
Fu, in effetti, un cozzare di labbra e denti per i primi interminabili
dieci
secondi. Poi, come anche le anime dei protagonisti, trovò un
senso e divenne
calore. Un fuoco placido, ma ricco di promesse, di desideri taciuti per
mesi,
di sentimenti sublimati. Quando si staccarono, Lear si
riscoprì avvinghiato ad
Adrian, e stranamente non provò alcun imbarazzo. Era
esattamente dove avrebbe
voluto essere: fra le sue braccia.
"... mi sono innamorato del mio psichiatra..." pigolò appena
lamentoso, poggiando la fronte alla sua spalla. Adrian lo
abbracciò immediatamente,
stringendolo in un bozzolo caldo.
"Uno psichiatra adultero e riscopertosi bisessuale..." Lear
ridacchiò
e avvolse le braccia attorno al suo collo. Si sentiva basso. E piccolo.
Non
quanto come con Ryan e il suo metro e novanta, ma abbastanza da
desiderare che
Adrian non si allontanasse per nulla al mondo e che lo protegesse, che
gli
parlasse col tono paziente di ogni mercoledì. Era
così tanto assurdo sperarlo?
"Adrian, io... non so che dire... non voglio incasinarti, dico sul
serio,
ma non riesco a pensare di staccarmi da te in questo momento." Lear lo
osservò sospirare e cominciò a preoccuparsi. Che
ci stesse ripensando
improvvisamente? Ma perché accidenti non poteva stare zitto?
"... stasera lascio mia moglie." disse e sembrò convinto. "E
domani, Lear, voglio che ci vediamo a pranzo, fuori da questo ufficio,
da
questo insensato contesto che non ha mai veramente funzionato. Voglio
vederti e
stare con te e... mh!" Adrian tacque e si lasciò baciare.
Troppe, troppe
parole... i gesti contano sempre di più e quello non era
più il momento per
parlare.
"Ma sei sicuro?" riprovò, tuttavia. "Lasciare tua
moglie, la tua vita e... perché ridi adesso, si
può sapere?!"
"Perché sei stupendo quando sei insicuro." Adrian
ridacchiò.
"Dico sul serio. Voglio vederti lontano da qui, voglio vederti
mangiare,
guardarti intorno, ridere per il caffè rovesciato e
guardarmi sempre con quella
faccia furba... voglio tutto di te. Ogni cosa."
Lear arrossì leggermente. Quel maledetto ci sapeva fare con
le parole.
****
Ventiquattro,
insonni ed euforiche, ore dopo, alle dodici e trentacinque del
giovedì
successivo alla dichiarazione più strampalata della storia
delle dichiarazioni
strampalate, Lear Russel correva come un matto.
Solo lui
poteva tardare al primo appuntamento, solo lui! Masticò
l'ennesima
imprecazione della giornata ed entrò nel caffè
dove sperava che Adrian lo
stesse ancora aspettando. Fortunatamente i suoi desideri trovarono
adito e così
si concesse di riprendere fiato mentre lo osservava. Era lì,
seduto,
silenzioso, immerso in chissà quali pensieri da psichiatra.
Giocava con la
tazza del caffè, probabilmente non la prima, disegnando il
bordo in ceramica
con le dita affusolate. Niente fede anche oggi. Lear tirò un
sospiro di
sollievo e si avvicinò. "Ehi, dottore..."
Adrian
alzò la testa e per un attimo apparve smarrito. Pensava
forse che non
sarebbe più arrivato? "Ciao, Lear."
Il biondo
si sedette al suo stesso tavolo, sospirando contento e tirando fuori
il suo sorriso più raggiante. Per Adrian fu uno schiaffo,
piuttosto che un
toccasana, e sobbalzò quasi, ma Lear passò oltre.
"Mi
dispiace da morire per il ritardo! Ma è successo un casino a
casa e
dato che hai già mandato l'autorizzazione al rientro in
servizio al mio capo -
a proposito, grazie di averlo fatto così presto... - avevo
mille telefonate a
cui rispondere e..." fermò il fiume in piena delle sue
parole e osservò
Adrian. Era uno sguardo contrito quello?
"Si
può sapere che c'è? Ti prego, non dirmi che sei
arrabbiato per il
ritardo! Ti giuro che ho davvero fatto il diavolo a quattro
e...
no?" Adrian scosse il capo, muto come un pesce. "Non è per
quello? E
allora per cos'è?" gli afferrò una mano e la
strinse fra le sue.
"Adrian, parlami..." un sospiro dall'altro fronte. Forte, pesante,
dispiaciuto.
"Kate..."
la voce uscì rotta e se la schiarì. "Kate
è incinta,
Lear." Anche quest'ultimo ora sospirò, indietreggiando sulla
sedia e
lasciando la sua mano. Sua moglie era incinta. Nemmeno lui avrebbe
potuto
pensare a uno scenario così orribile, il che era davvero
tutto da dire.
"...
o-ok. Quindi?" lo vide accigliarsi. Un'espressione nuova sul suo
bel viso, che gli ricordò quanto in effetti poco conoscesse
Adrian.
"Quindi
c'è il mio bambino nella sua pancia! Quindi... " si
passò una
mano fra i capelli e quel gesto sì, quello Lear lo
riconobbe. Lo faceva ogni
volta che era agitato.
"Quindi?"
Lo incalzò brusco. Si stavano lasciando? Ma lasciando da
cosa, poi? Quei baci non erano niente di ufficiale e quelle parole...
beh,
erano parole. Che idiota era stato.
"Quindi
non posso lasciarla!" Scoppiò. "Partorirà mio
figlio e
se c'è una cosa che ho sempre voluto è un figlio!
Io... Lear, io... adesso le
cose sono diverse, lo capisci? Non me la sento di far nascere mio
figlio o mia
figlia in una famiglia che è già sfasciata. Non
mi sembra giusto..."
Quella era la scusa più assurda che gli avessero detto,
davvero, e lui non era
così stupido.
"E a me
non sembra giusto invece che cresca fra due genitori che si
odiano! Di cui uno gay e innamorato di un altro! Ma dico, pensi di
essere il
primo uomo che ha figli ma si riscopre gay? Sei uno psichiatra, cazzo!"
Sbatté il palmo sul tavolo e mezzo locale si girò
fra il tintinnio delle tazze.
"Te le devo davvero spiegare io queste cose?" Gli veniva da piangere,
ma non lo fece, soffocando i singulti nei pugni stretti convulsamente.
Mai
avrebbe dato a quel bastardo di Adrian la soddisfazione di vederlo
spezzato per
colpa sua, mai. "Credo che tu mi stia dicendo un sacco di stronzate...
stronzate che non ho voglia di ascoltare." Si alzò di
scatto, facendo
traballare la sedia. "Ti ringrazio per l'autorizzazione al rientro.
Magari
comincia a farti vedere anche tu da uno bravo." Lo guardò
con una smorfia
di disgusto. "Mi saluti tanto sua moglie, dottore."
Adrian
nemmeno fiatò, sconvolto com'era dalla scenata eroica di
Lear. Non disse
nulla nemmeno quando l'altro scappò via dal locale, sparendo
così come era
entrato.
"Lear..."
mormorò, a capo chino, sbattendo le palpebre. Maledizione.